V.
A proposito
de ‘Il diritto giurisprudenziale’
1. Un invito a guardare l’oggi con gli occhi di oggi; 2. Su ‘moderno’ e ‘pos-moderno’ quali strumenti interpretativi della storia del diritto; 3. Sulla gènesi di un tempo giuridico pos-moderno in Italia; 4. Sui caratteri di un diritto pos-moderno in Italia: in particolare, sulla sua ritrovata complessità; 5. Sui caratteri di un diritto pos-moderno in Italia: in particolare, sul messaggio innovatore della Costituzione repubblicana; 6. Sul ‘diritto giurisprudenziale’, in Italia, oggi.
1. Una necessaria premessa. Noi giuristi italiani – o, almeno, una grossa maggioranza – crediamo di trovarci all’estremo di una lunga strada che corre assolutamente liscia dal Settecento al 2019, una strada connotata da una perfetta continuità, tanto che, grazie ad essa, ci arrivano da allora messaggi con dei contenuti originarii ritenuti tranquillamente, pianamente, applicabili nel contesto attuale.
Ma non è così! Anzi, è tanto discontinuo il cammino che ci separa dai fervori illuministici e giacobini del secolo XVIII, da rendere necessaria una precisa presa di coscienza in proposito, sì da non soffocare il nostro presente entro un ideario troppo costringente. Noi dobbiamo leggere l’odierno paesaggio giuridico non con gli occhiali confezionati a fine Settecento, ormai superati da eventi di straordinaria incisività e perciò assolutamente deformanti, bensì con occhiali capaci di mettere a fuoco ciò che – oggi e non ieri – bolle nell’attuale magma socio-politico-giuridico.
2. Oggi, abbiamo acquisito una rinnovata consapevolezza della natura del diritto e della sua gènesi, nonché della relazione società/diritto e Stato/diritto. È proprio per marcare il riscontro di questo rilevantissimo traguardo e marcare anche l’avvìo di un nuovo itinerario e non la stanca prosecuzione di una vecchia strada, che, decisamente almeno negli ultimi dieci anni, ho cominciato a parlare di un tempo giuridico pos-moderno135.
Pos-moderno: intanto, è aggettivazione che pecca di genericità; soffre di eccessiva vaghezza e, appunto perché è vaga, può dare l’impressione che si tratti di una categoria storiografica generale e che si misuri con nozioni similari usate da filosofi e da storici. Mi preme, al contrario, di precisare, al fine di evitare malevole interpretazioni, che, da giurista, intendo riferirmi soltanto a una scansione che vedo nettissima nello svolgersi del diritto – del diritto come esperienza e come scienza – fra Ottocento e Novecento; uno svolgersi consistente in un sempre più forte distacco dai valori affermati in un tempo giuridico moderno, in una sempre più forte sfiducia su di essi, in una sempre più forte stabilizzazione di valori altri e diversi. Uno svolgersi, che germina chiaramente negli ultimi decennii del secolo XIX, prosegue e aumenta durante il corso del Novecento in un faticoso itinerario che non è ancora concluso136.
In questo angolo visuale, certamente assai modesto, che è quello di un giurista senza distorcenti velleità teorizzatrici ma tendente solo a fornirsi di un pròvvido strumento per sceverare realtà storicamente distinte e pertanto non accomunabili, ribadisco l’utilità della dialettica moderno/pos-moderno nelle mani dello storico del diritto.
3. Le prime germinazioni pos-moderne sono, a mio avviso, da rinvenire soprattutto in un risveglio rilevabile a fine Ottocento nel grembo della società.
Ciò che contraddistingueva la modernità giuridica (illuministica e giacobina, per rendere più concreto il nostro dire) era un insanabile distacco fra Stato e società, fra potere politico e società, fra un diritto potestativamente inteso e la società. Questa aveva il non-ruolo di una mera piattaforma inerte, assolutamente passiva nella sua statica inerzia, tale cioè da non turbare l’ordine delle strutture politiche e giuridiche sovrastanti. Si trattava, però, di una pesante coercizione, efficace fino a quando l’apparato di poteri fosse in grado di attuarla. Quando, invece, a fine Ottocento, l’apparato ha le prime incrinature, quando la società, sorretta da una nuova e vigilante presa di coscienza, spontaneamente riesce a trasformare il suo immobilismo in una articolazione dinamica, allora comincia a profilarsi in Italia un vólto sempre più pos-moderno.
È, dapprima, una rivolta dei fatti, ufficialmente repressa anche in modo sanguinoso, ma che guadagna sempre più in effettività. Spicca quello che sarà il primo contrassegno del secolo e del diritto pos-moderni: la fattualità; e spicca, contro il vecchio criterio della validità, cioè della corrispondenza a un modello autorevole a proiezione generale e da obbedire rigidamente, quello della effettività, cioè della peculiare carica intrinseca a taluni fatti e, di per sé, giuridicamente incisiva.
La piattaforma sociale, cui la grande rivoluzione aveva negato il potere di auto-ordinarsi137 essendo per lo Stato estremamente giovevole il suo permanere nella condizione di magma piattamente inerte, ha come un risveglio nella riscoperta di quel collettivo che rende più forte il socialmente ed economicamente debole. Sono anni in cui si assiste a una fioritura di coagulazioni sociali differenziatissime nei loro scopi ma tutte accomunate da una istanza di protezione e promozione per quel ‘quarto stato’ che non aveva fatto la rivoluzione del 1789. Sono associazioni sindacali, professionali, religiose, assistenziali, cooperative, certamente le più varie ma certamente tutte costituenti un pullulare che univa fragili individualità per una prossima riscossa sociale ed economica.
Amici pisani138, è il pullulare che nel 1909, centodieci anni fa, il giovane professore di Diritto costituzionale nella vostra Facoltà di Giurisprudenza, Santi Romano, osservava dalle finestre del suo studiolo ben aperte sulla vivace quotidianità cittadina. Osservava e registrava, da giurista qual era, attentissimo al contesto sociale e nemico di mitizzazioni formalismi dogmatismi; e identificava in esso con ammirevole lucidità la causa prima del palese declino del borghese Stato di diritto, delle sue chiusure e sordità sociali, dei suoi forzosi riduzionismi139.
La società, infatti, cominciava a prendere coscienza del suo ruolo e avanzava le proprie pretese. Rispetto alla concezione elitaria di un apparato potestativo quale unico produttore di diritto, se ne cominciava a profilare una di segno decisamente contrario: quasi in un moto ascensionale dal basso in alto, la società esigeva una massiccia partecipazione alle elezioni politiche e riscopriva progressivamente di essere la nicchia genetica dell’intiero ordine giuridico.
4. Ecco, dunque, quello che – sinteticamente – potremmo assumere come l’emblema di un tempo giuridico pos-moderno, il Novecento: sempre più società, sempre meno Stato, nel senso che sempre meno lo Stato è capace di esprimere la società. E questo ‘sociale’, compresso e represso dalla civiltà borghese, non tardò ad acquisire rilevanza: nel 1913, la conquista del suffragio universale maschile rompe l’involucro economicamente elitario conservato in Italia da una rigida discriminazione censitaria, mentre (dopo il 1915) l’immane sforzo bellico, ponendo il potere politico di fronte a enormi esigenze di carattere economico e sociale, lo costringe ad inaugurare una legislazione eccezionale di guerra gremita di una greve fattualità e ben lontana dai canoni della astrattezza e della generalità, vanto conclamato del vecchio legislatore borghese. Una dimensione sociale, sempre rintuzzata, ora emergeva, e certamente non per spontanee scelte solidaristiche140.
Ma v’è qualcosa di più. Santi Romano, che aveva posto nel 1909 in strettissima connessione la nuova dinamica sociale da lui oggettivamente registrata e la crisi della forma di Stato imperante nella modernità, trova in quella osservazione lungimirante il pungente sprone a riflettere ulteriormente sulla relazione fra ‘diritto’ e ‘Stato’ e, consequenzialmente, sulla ‘essenza’ del diritto, mettendo a nudo le mitologie e gli artificii sottostanti alla concezione liberale del Rechtsstaat (da lui, costituzionalista, attentamente studiato e per certi aspetti anche ammirato); però, alla fine, proponendo una decisa inversione di rotta e un totale capovolgimento per una corretta osservazione/valutazione.
È il 1918, anno finale della cosiddetta ‘grande guerra’, grande non per i milioni di morti e per le distruzioni perpetrate ma perché i quattro anni di sforzo bellico, al di là delle volontà dei governanti, vengono a segnare il logoramento e la fine di un mondo socio-politico-giuridico e l’avvìo di un altro connotato da ben altri caratteri; ed è l’anno in cui viene pubblicato da Romano lo smilzo libretto L’ordinamento giuridico. Se si mettono da parte le marginali aporie sottolineate da molti contraddittori e sicuramente derivanti dalla duplice qualità dello scrittore (cultore del diritto positivo italiano, cultore della teoria generale del diritto), quelle pagine sono da considerarsi un vero manifesto del secolo pos-moderno e del diritto pos-moderno; ciò, per il capovolgimento che lì si attua nella visione/concezione del diritto, proponendo un nuovo angolo di osservazione da cui lo si deve guardare e valutare (da sotto in su, per così dire), se si vuole mettere correttamente a fuoco la sua essenziale natura. Spieghiàmoci meglio: qui si abbandona definitivamente la concezione verticistica e potestativa del diritto, per sorprenderlo nelle radici più riposte – ma intensamente determinanti – della società, in un sostrato di valori diffuso e universalmente condiviso.
Il vocabolo ‘ordinamento’ nella bocca di Romano non è innocuo, ma è, al contrario, il segno del capovolgimento, o, per dirla in altro modo, della conversione che il giurista deve attuare nel proprio interior homo per individuarne puntualmente l’essenza. ‘Ordinamento giuridico’, infatti, indica con precisione la finalità principale del diritto: ordinare la società e, ordinàndola, salvarla; la quale, però, si può effettivamente ordinare solo se si tiene conto dei valori e interessi che la percorrono.
È da questa contemplazione di quanto avviene in basso che si può conseguire un vero ordinamento. S’intende che, con questa grezza locuzione avverbiale ‘in basso’, si vuole solo icasticamente rendere lo spazio genetico della dimensione giuridica, che è alle radici profonde di una comunità, che esprime quelle radici consistenti in valori orientativi dall’autentico carattere identitario. Siamo qui, pertanto, in una visione addirittura opposta a quella che chiamerei stringatamente illuministico-giacobina: mentre lì il diritto è creazione del potere politico (per quanto rappresentativo), si identifica in una volontà creativa e nasce in alto e dall’alto si proietta sui chiamati all’obbedienza, qui il diritto è frutto di una invenzione141, di uno sguardo che mira al basso e in basso lo scopre; lì c’è volontà e comando, al quale consegue una secca indiscutibile obbedienza; qui c’è quell’atto di umiltà che è sempre il conoscere e il riconoscere, al quale consegue l’osservanza dei consociati (atteggiamento duplice, perché in esso l’obbedienza non può non avere venature di persuasione)142.
A questo punto, si può tirare la conclusione, a cui mira tutto il nostro discorso: il diritto nasce dalla società, la esprime compiutamente e non può pertanto non esprimere la complessità che è tipica di essa. Se lo Stato è realtà vocazionalmente riduzionistica, monistica, la società, vocazionalmente plurale, si presenta in tutta la sua complessità. Se il diritto dello Stato moderno, la legge, può ridursi alla volontà del titolare del potere supremo, il diritto pos-moderno, ab origine sociale, natura sua sociale, non è suscettibile di riduzionismi se non al rischio di amputare od opacizzare la sua complessità. Insomma, lo statalismo legalistico del pianeta di civil law, che ama manifestarsi in quelle fonti serrate in sé stesse che sono i Codici, è sicuramente un grosso evento della storia giuridica occidentale, ma è un evento legato a una precisa strategia del potere, che vuole la piena ancillarità della dimensione giuridica.
L’operazione scientifica di Santi Romano appare, sotto questo profilo, affrancatrice, perché, affermando il pluralismo giuridico quale assetto naturale del diritto in quanto contrappunto del naturale pluralismo sociale, afferma implicitamente una naturale espansione della dimensione giuridica ben al di là di una dimensione legislativa. Il paesaggio è ormai percorso da una pluralità di ordinamenti giuridici primarii e da una pluralità di fonti certamente non più collegate da una rigida scansione gerarchica secondo la vulgata dell’assolutismo giuridico143 dominante nell’Occidente continentale europeo a far data dal secolo XVIII.
5. Dunque, dal 1918, in Italia incipit vita nova; si sarebbe potuto sperarlo, ma non avvenne proprio così.
Infatti, il positivismo giuridico – penetrato nel cervello e nel cuore dei giuristi italiani nella sua veste di un legalismo protetto dal principio di stretta legalità e ben rivestito di un adeguato mantello mitizzante – è duro a morire. Del messaggio romaniano si discute fittamente, ma ad un livello puramente astratto, senza trarne (o, meglio, senza volerne trarre) quei contraccolpi demolitivi e innovativi insieme, che avrebbe dovuto esigere un radicale ripensamento del sistema delle fonti del diritto. Anzi, in Italia, il ventennale regime autoritario si impegna a ribadire nelle ‘disposizioni preliminari’ al Codice Civile unitario del 1942 una secca scansione gerarchica unita a una riduzione a mera esegesi di ogni attività interpretativa delle leggi.
Sarà nel secondo dopoguerra che il messaggio si farà strada, una strada però sempre in salita e anche costellata di intoppi (ma non ci vogliamo immergere nel cammino variegatissimo della scienza giuridica italiana nella seconda metà del Novecento). Ai fini di questa ‘Lezione introduttiva’ è conveniente evocare il più grosso evento politico e giuridico nella protostoria del nostro ritrovato assetto democratico, e cioè la Costituzione del 1948.
La Costituzione nostra è un evento che può ben qualificarsi rivoluzionario per la storia politica e giuridica italiana. Essa ci si propone come un solido cippo confinario, che segna nettamente – e differenzia funditus – passato e presente anche del diritto. E nessuno – credo – si sentirebbe oggi di ripetere le tante voci che si levarono negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando era facile udire sulla bocca di molti giuristi la spicciativa considerazione che si trattava di nobili ma nuvoleschi principii di ìndole filosofico-politica. Era il permanere di una concezione vetero-costituzionale, imperiosa durante tutta la modernità borghese: la Costituzione doveva galleggiare molto al di sopra della positività giuridica; questa doveva, infatti, essere formata da Codici e leggi, manufatti provenienti dal legislatore positivo, che, identificàndosi nel titolare del potere politico, era in grado di controllare efficacemente i contenuti delle norme in gestazione, rendèndoli perfettamente coerenti con i progetti di quel potere. Le Costituzioni di allora – quelle del sessennio rivoluzionario francese, per esempio – si incarnavano in delle Dichiarazioni, in delle Carte dei diritti, alate proposizioni che solo il legislatore avrebbe potuto e saputo tradurre in norme positive144.
Oggi, anno 2019, a nessuno è lecito dubitare sulla giuridicità di una Costituzione che appartiene al momento pos-moderno della vicenda storica del costituzionalismo, quando assemblee qualificate ‘costituenti’ leggono il sostrato valoriale di una comunità democratica e, con un’attività prevalentemente cognitiva (meglio: inventiva!), individuano valori giuridici, generanti principii giuridici, basamenti – a loro volta – di diritti e doveri dei cittadini. Per esempio, i nostri Patres, nel 1946-47, questo fecero dando vita a un breviario giuridico prezioso per la quotidiana esistenza di ciascuno145.
Riprendiamo l’espressione usata poco sopra e che a qualcuno sarà sembrata pesantemente enfatica: ‘evento rivoluzionario’. Sì, rivoluzionario perché da quel 1° gennaio 1948 la dimensione costituzionale della Repubblica offriva a ogni giurista strumenti ordinativi nuovi ma anche adeguati ai tempi, nonché una formidabile bussola orientativa. Sottolineo il sintagma ‘dimensione costituzionale’ comprensivo non soltanto dei 139 articoli varati dai Patres dopo il loro fecondo lavoro collegiale, ma altresì di quella ‘costituzione materiale’ formata dal sostrato valoriale ancora inespresso ma vivo e vivace alle radici del popolo italiano, realtà durevole perché valoriale, ma non immobile e perciò bisognosa di essere continuamente interpretata per realizzare una disciplina in coerenza con la società in perenne marcia146.
Quel che importa puntualizzare è che la Costituzione si intride del messaggio salvante propugnato dalla riflessione istituzionalistica della prima metà del Novecento147 e, in Italia, soprattutto da Santi Romano, facèndone la nervatura fondante di tutta la Carta e improntando la nascente Repubblica di un tessuto giuridico spiccatamente pluralistico: pluralità di ordinamenti giuridici primarii prosperanti nel suo seno, pluralità di fonti dell’ordine giuridico repubblicano. La Carta nostra parla chiaro in due precise direzioni, che si ìntegrano perfettamente all’interno della Repubblica: afferma la centralità dello Stato, di uno Stato legislatore, che si propone con le sue leggi in un ruolo fortemente garantistico per il cittadino, suprema garanzia esso stesso della piena armonizzazione fra le libertà dei singoli individui; afferma una visione ampia della dimensione giuridica, non consegnata – nella sua produzione – alla potestà esclusiva dello Stato.
Che i principii fondanti del vecchio Rechtsstaat – separazione dei poteri e stretta legalità – debbano essere rivisti e anche ridimensionati dopo il 1° gennaio 1948 lo dimostra, accanto alla impostazione generale dei ‘principii’ e della ‘prima parte’, la presenza espressa di un supremo giudice, la Corte costituzionale, titolare di poteri incisivi sulla produzione legislativa dello Stato e delle Regioni, ma anche produttrice autonoma di diritto, senza contare quel potere interpretativo delle vicende del sostrato valoriale della Repubblica che la Corte si è sempre assunta nei suoi sessantatré anni di attività, incrementando il sussidio garantistico del cittadino con la individuazione di nuovi diritti fondamentali. So benissimo che l’inserimento della Corte suscitò discussioni fra le più accese nello svolgimento dei lavori della Costituente, ma le assumo come segno non edificante del persistere (ancora nel secondo dopoguerra), tra parecchi politici e giuristi dell’Assemblea, di una visione ancorata a una dogmatica settecentesca ritenuta inattaccabile perché ritenuta una acme insuperabile del progresso giuridico.
6. La veste imbutiforme di questa lezione introduttiva può ora restringersi pianamente a una riflessione sul tema del nostro odierno incontro: ‘Il diritto giurisprudenziale’; tema che mette a fuoco quella che appare come una tendenza inarrestabile che percorre il diritto italiano pressoché in ogni zona dell’ordinamento, cioè lo spostamento progressivo dell’asse portante dell’ordine giuridico dai produttori di leggi agli interpreti connotando sempre più il diritto italiano come ‘giurisprudenziale’148. Dopo quanto ho tentato di premettere nella prima parte della lezione, mi sento di fare una raccomandazione a me stesso e a tutti i giuristi operanti nel pianeta di civil law: di valutare quella tendenza alla luce del profondo rinnovamento del diritto italiano dopo il 1948. Non si tratta di una novazione che viene perniciosamente a turbare l’armonia semplice dello Stato di diritto e del suo legalismo, bensì della conseguenza del crollo di un credo mitologico e di un profondamente innovativo assestamento del diritto pos-moderno in Italia.
Si ha, innanzi tutto, il dovere di registrare l’assetto pluralistico delle fonti del diritto attuato dalla Costituzione repubblicana; sia chiaro che si attua la Costituzione liberàndosi da un ‘legalismo a ogni costo’ appartenente ormai al passato e attuando, invece, un liberante pluralismo giuridico. Il ‘diritto giurisprudenziale’ è oggi, accanto all’opera legislativa dello Stato e delle Regioni, una sorta di pròvvida valvola che permette un più congruo respiro al diritto positivo italiano. È il respiro che, da sessantatré anni, effettua in modo assai profittevole il supremo organismo giudiziale della Corte costituzionale, avvalorato e ampliato da quel cànone interpretativo intuito e definito dalla stessa Corte a cominciare dagli anni Novanta del secolo scorso e che siamo soliti chiamare ‘interpretazione conforme a Costituzione’, un cànone che espande il giudizio di costituzionalità coinvolgendo in esso il giudice ordinario149.
Ripeto: valga – in primo luogo – la certezza che il pluralismo giuridico è in perfetta coerenza con il nostro impianto costituzionale. A questa considerazione – che si scrive qui con inchiostro forte per i troppi laudatores temporis acti ancora pervicacemente incombenti – si deve anche aggiungere l’invito a dare uno sguardo al momento di transizione e di ‘crisi’ che stiamo tuttora vivendo, quando è tangibile l’incapacità del legislatore a ordinare tutto il tessuto dell’esperienza ed è visibilissima quella tendenza che, più sopra, abbiamo menzionato qualificàndola come inarrestabile.
‘Giurisprudenziale’ significa sostanzialmente un diritto elaborato da coloro che sanno di diritto, dai giuristi, che posseggono il tesoro di tecniche collaudate da esperienze almeno bimillenarie. Nel corso della nostra storia occidentale, la giurisprudenzialità ha assunto caratterizzazioni diverse, essenzialmente sapienziale, dottrinale, nello ius commune medievale e pos-medievale150, essenzialmente giudiziale nel common law di Oltremanica. Oggi, da noi, si erge a protagonista il giudice, coinvolto com’è sulla trincea dell’esperienza quotidiana e ben spesso chiamato a colmare i vuoti creati inevitabilmente dalla assenza di interventi legislativi.
Non si parli, però, come da taluno si fa stracciàndosi le vesti, di creazionismo dei giudici (e, più generalmente, dei giuristi teorici e pratici), di giuristi che, creando ex nihilo, rompono in tal modo l’unità dell’ordinamento dando vita – se non al caos – almeno a una corrosiva incertezza. Oggi che abbiamo ben percepito il vincolo simbiotico fra diritto e valori radicali di una comunità, oggi che abbiamo provvidamente riscoperto il diritto come invenzione, se v’è qualcosa che dobbiamo temere è quella gerarchia delle fonti in cui abbiamo tanto creduto e che avvertiamo ormai come un ingabbiamento soffocante; è il mantenimento di un legalismo ‘ad ogni costo’, che è causa dell’inaridimento che troppe volte contempliamo sgomenti nel distacco fra produzione legislativa e movimento/mutamento incessante (e oggi rapidissimo) della vita sociale economica culturale; legalismo che deve cogliersi per quel che è, un vulnus alla nervatura portante della Costituzione nella complessità del suo messaggio, espresso e inespresso, formale e materiale, percorso da una dinamica espansiva e intensamente teso anche ben oltre il presente.
Conclusivamente: oggi, grazie alla attuale consapevolezza della intima storicità della dimensione giuridica, il ‘diritto giurisprudenziale’ deve essere còlto quale insostituibile presenza nell’odierno cammino oltre la legalità, come ho avuto occasione di dire in una recente lezione alla Università Roma Tre151.
135 La manifestazione più sonora fu in occasione del discorso inaugurale per l’anno accademico 2010-11 tenuto nella Università di Ferrara il 22 novembre 2010: Novecento giuridico: un secolo pos-moderno, ora in Introduzione al Novecento giuridico, Laterza, Roma-Bari 2012.
136 Questo itinerario è seguìto distesamente nel discorso citato alla nota precedente.
137 Cancellando autoritariamente, d’un solo colpo, nel 1791, tutte le formazioni sociali.
138 Questa apòstrofe si spiega, essendo il testo una lezione tenuta a Pisa nell’Aula Magna Storica dell’Ateneo.
139 È il notissimo discorso inaugurale per l’anno accademico 1909-10 nella Università di Pisa, tenuto il 4 novembre 1909 e intitolato Lo Stato moderno e la sua crisi.
140 Su questa folta legislazione di carattere eccezionale mi sono diffuso in altra occasione: Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Giuffrè, Milano 2000, pp. 130 sgg.
141 Tema sviluppato nei saggi raccolti in L’invenzione del diritto, Laterza, Bari-Roma 2017.
142 Sul diritto come ‘ordinamento osservato’ da una comunità mi permetto di rinviare alle precisazioni da me offerte in Prima lezione di diritto, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 19 sgg.
143 Su questo sintagma, programma ed emblema della serrata giacobina della rivoluzione francese e, poi, del dispotismo del codificatore Napoleone, chi volesse saperne di più potrebbe consultare un mio risalente volume: Assolutismo giuridico e diritto privato, Giuffrè, Milano 1998.
144 Insisto per una netta distinzione fra un primo costituzionalismo, quello delle ‘carte dei diritti’, proprio dell’età borghese, e le Costituzioni del Novecento democratico, che vogliono essere dei breviarii giuridici per l’esistenza quotidiana di ogni cittadino e anche del socialmente ultimo, in alcune mie recenti lezioni napoletane: Costituzionalismi tra ‘moderno’ e ‘pos-moderno’. Tre lezioni suor-orsoliane, Editoriale Scientifica, Napoli 2019.
145 È il tema di una mia lezione maceratese: La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno (2013), ora in L’invenzione del diritto, cit.
146 Si impone qui una precisazione sul sintagma da noi usato ‘costituzione materiale’, sintagma coniato negli anni Quaranta del secolo scorso da Costantino Mortati intendèndolo nella ristretta accezione di forze politiche dominanti. Qui si fa riferimento a forze, più che politiche, etiche sociali culturali, che, per essere condivise, si trasformano in valori di una intiera comunità, valori fondativi di principii e, quindi, di diritti fondamentali per ogni componente di essa.
147 Per la loro diretta influenza, sono da ricordare almeno i francesi Maurice Hauriou e Georges Renard.
148 La necessità di una disciplina legislativa si impone per quei settori dell’ordine giuridico dove sono in gioco problemi di sicurezza pubblica, per esempio nel campo del ‘penale’; anche se da qualche autorevole esponente della riflessione penalistica italiana si ha una decisa problematizzazione di quello che fino a ieri era un principio indiscutibile.
149 È un canone individuato già in una sentenza della Corte costituzionale, la 443 (12-23 dicembre 1994), relatore Renato Granata.
150 Dove protagonisti sono i grandi maestri delle Università diffuse in tutta Europa, costruttori, sulla base del diritto romano e del diritto canonico, di una rete giuridica sovrastante la minuta frammentazione politica e costituente un autentico diritto comune europeo.
151 Lezione che costituisce il primo dei saggi contenuti in questo volume.