«No, non credo che tu capisca. Ascoltami». Ma non ha continuato. Un setter irlandese ci è passato davanti al trotto tirandosi dietro un uomo sui pattini. «Hai fatto una cosa molto cattiva, James. Una cosa crudele. Non puoi prendere per il culo la gente in questo modo. Non si scherza così. Evidentemente tu non immagini neanche che cosa voglia dire per me pensare di aver incontrato un uomo intelligente e interessante che si interessa a me. Vuol dire tantissimo. Non c'è niente al mondo che io desideri di più. Niente».
«Scusa» ho ripetuto.
« È stata una grande cattiveria. Se tu fossi grande abbastanza capiresti. Ti sembrava una cosa divertente?».
«No» ho risposto. «Bè, sì, in un certo senso. Non credevo che l'avresti presa tanto sul serio. È solo che volevo...».
«Cosa?».
« Non so. È stata una stupidaggine, me ne rendo conto. Volevo far colpo su di te. Per essere riuscito a inventarmi una persona che ti piace”.
«Pensi di non piacermi?».
« Spero di sì, ma non dico in quel senso. Ho pensato che magari ti sarei piaciuto di più se...”.
« Che vuoi dire?”.
« Credevo che se riuscivo a inventarmi una persona che ti piace, tu avresti capito che io sono quella persona lì».
«Ma tu non sei quella persona lì. Sei tutt'altra cosa».
«Lo so» ho detto. «Forse sono io che non mi piaccio. Vorrei tanto essere quella persona».
«E allora diventalo. Studia arte contemporanea e iscriviti alla Sorbona. Ma non prendere per il culo gli altri».
Volevo chiedere scusa ancora una volta, ma sapevo che era penoso. Però mi è uscito di bocca lo stesso, perché non mi veniva in mente altro.
Siamo rimasti seduti in silenzio e poi John si e alzato. «Vado verso il West Side» ha detto.
Non capendo perché me lo dicesse non sapevo cosa rispondere. Ho detto: «Va bene».
«Mi dispiace moltissimo per quello che è successo. Mi hai molto deluso, James». Poi si è allontanato a passo svelto.
Non sapevo cosa fare. Sono rimasto sulla panchina finché non si è fatto buio. È successo molto lentamente, in modo quasi impercettibile. A un certo punto, quando sembrava che in cielo ci fosse ancora abbastanza luce, si sono accesi i lampioni lungo i sentieri e era difficile distinguere la luce vera da quella artificiale. Non che la luce dei lampioni fosse meno vera di quella in cielo, ma aveva qualcosa di falso, e alla fine, dopo molto tempo, era l'unica rimasta.
Lunedì 28 luglio 2003
Quando sono arrivato a casa ho trovato un uomo seduto sul divano che piangeva. Era piegato in avanti e si teneva la testa fra le mani, coprendosi il viso, ma dai rumori che faceva era evidente che stava piangendo. Lì per lì ho pensato che fosse mio padre, perché non capivo chi altri potesse piangere in casa nostra, ma appena ho chiuso la porta lui mi ha guardato. Era Rogers. Ha curvato di nuovo la schiena e si è rimesso a piangere col viso tra le mani per circa trenta secondi. Poi ha smesso bruscamente, come se dentro avesse un timer e si fosse spento. Ha raddrizzato la schiena e mi ha guardato di nuovo.
« Che ci fai tu qui? » ho chiesto. Non volevo usare un tono inquisitorio, ma mi è scappato.
« Tua madre mi ha detto di venire a riprendermi le mie cose e di lasciare le chiavi». Le teneva in mano e me le ha fatte tintinnare davanti.
«Ah» ho detto. «Comunque non è in casa».
«Lo so, per questo sono venuto. Voleva che passassi quando non c'era. Dice che non mi vuole rivedere mai più».
Non mi sentivo nella posizione di smentire o avvalorare questa affermazione, per cui sono rimasto zitto. Rogers, però, mi guardava come se aspettasse una risposta.
«Ti serve una mano? » ho chiesto.
«No, a meno che tu non mi voglia offrire una spalla per piangere”.
Credevo che scherzasse, ma il tono era così sincero che mi è venuto il dubbio. Ho cercato di sorridergli in un modo che gli facesse capire che da un lato lo compativo e dall'altro avevo apprezzato la battuta, ma devo aver fatto una faccia strana, perché ha detto: « Non c'è bisogno di guardarmi in quel modo, James».
« Scusa » ho risposto e sono andato verso il corridoio.
« Che cosa ti ha raccontato, lei? » ha detto.
Mi sono fermato senza girarmi. «Come?» ho chiesto.
« Che cosa ti ha raccontato tua madre?”.
«Di cosa?».
«Di quello che ci è successo a Las Vegas».
Mi sono girato. «Mi ha detto che le hai rubato le carte di credito e il bancomat mentre dormiva e che hai speso tremila dollari al gioco e altro».
Rogers è rimasto zitto, guardandomi come se pensasse che avrei continuato. Quando ha capito che avevo finito ha detto: « Dal punto di vista legale, una volta sposati le carte e il bancomat sono di tutti e due. Ti ha detto qualcos'altro?».
«No. Hai fatto qualcos'altro?».
«Bè, certo» ha detto. «Si fanno un mucchio di cose quando si passa qualche giorno a Las Vegas in compagnia».
Era esattamente il tipo di frase idiota che me lo aveva reso antipatico fin dall'inizio.
«Volevo dire se hai fatto qualcos'altro che possa aver dato fastidio a mia madre”.
« Sembra che qualsiasi cosa faccia le dia fastidio. Vorrei solo che lo avesse capito prima di sposarmi».
« Ma allora non ti avrebbe sposato”.
«Appunto».
«Forse se le avessi rubato dei soldi prima di sposarla...».
«Non glieli ho rubati» ha insistito lui. «Come ti ho appena spiegato, i soldi erano di tutt'e due. E in ogni caso era un prestito. Avevo tutta l'intenzione di restituirglieli. Anzi, il mio piano era di vincere una bella somma e di portargliela».
«Un piano davvero geniale» ho detto.
«Lo so». Si è abbandonato sul divano e subito dopo si è messo una mano dietro la schiena per tirare fuori uno degli ossi di pelle che Mirò si diverte a nascondere fra i cuscini. L'ha guardato con aria incerta e lo ha buttato per terra, poi si è strofinato le mani sospirando. «È questa la cosa triste. Lo sapevo benissimo che non avrebbe funzionato, anche quando mi dicevo che avrei vinto alla grande e avrei fatto felice me e lei. L'avrei portata a vedere quei domatori di leoni un po'"finocchi e avremmo pasteggiato a champagne e uova di pesce, ma naturalmente lo sapevo che mi sbagliavo, mi sbagliavo di grosso. Però l'ho fatto lo stesso. È questo il brutto di avere un vizio: nel momento stesso in cui fai quella cosa e ti piace, sai anche che è sbagliato, che sei un debole e che ti stai rovinando la vita».
Questo discorso mi ha preso alla sprovvista e non sapevo come reagire. Rogers si è messo di nuovo il viso fra le mani, ma questa volta senza fare rumori. Ho detto: « Intendi il caviale?”. Non ho idea del perché l'ho detto, ma mi sembrava di dover dire qualcosa e mi è venuto in mente solo questo.
Ha alzato gli occhi. « Cosa?”.
«Hai detto che avreste mangiato uova di pesce».
«Sì, le uova di pesce, il caviale».
«Lo so. Solo che di solito si dice caviale».
«E io dico uova di pesce. Perché, non va bene?”.
«No, figurati».
«Credi di essere meglio di me perché dici caviale?». Mi ha incenerito con lo sguardo. «Non ti sono mai piaciuto, eh? Piccolo bastardo con la puzza sotto il naso. Piccolo bastardo che non sa un cazzo». Si è tirato su dal divano con esagerati gesti da vecchio, come sopraffatto, e ha preso la valigia che era per terra. L'ha messa con delicatezza sul divano e l'ha guardata con attenzione, come se potesse essere quella sbagliata. Poi l'ha accarezzata con affetto, quasi fosse il grande amore che stava salvando dall'orribile mondo della nostra casa. Quindi ha guardato me. « Ho lasciato quel cazzo di simulatore di sci in camera da letto. Posso tornare a prenderlo, o te lo puoi tenere tu. O buttarlo nella pattumiera. O giù dalla finestra. Facci quello che ti pare».
Nell'euforia della loro storia d'amore nascente, quando sembra che tutti credano nei miracoli, Rogers aveva comprato un simulatore NordicTrak e lo aveva montato in camera di mia madre, con l'intenzione di fare venti minuti di sci di fondo ogni sera prima di andare a letto per riportare il fisico alle (presunte) glorie del passato.
«Non ti preoccupare» ho detto. «Ci penso io».
« Mi sa che con questo sono arrivato al capolinea » ha fatto lui. Ha preso la valigia. « Perlomeno di questa corsa».
Ho pensato di dirgli che il divorzio e la probabile denuncia di mia madre avrebbero prolungato il viaggio, ma ci ho rinunciato, perché con quella valigia in mano faceva una gran pena, come Willy Loman sulla copertina di Morte di un commesso viaggiatore.
«Allora ci salutiamo» ho detto.
« Sì, proprio così. Allora ci salutiamo”. Mi è venuto incontro e per un istante ho avuto il terrore che volesse abbracciarmi, invece ha allungato una mano e mi ha dato le chiavi, poi si è girato e è uscito.
Ho ascoltato il rumore dei passi sulle scale e il tunk tunk tunk della valigia contro la ringhiera, poi, una volta sicuro che era in strada, ho richiuso la porta. Col catenaccio. Avevo la strana sensazione che in casa ci fosse qualcuno. Forse era perché quando avevo aperto c'era Rogers seduto sul divano, ma mi sembrava che potesse esserci qualcuno in ogni stanza, per cui ho fatto il giro e le ho controllate tutte. Non c'era nessuno, ovviamente, a parte Mirò che dormiva sul letto di mia madre. Ha alzato la testa e mi ha guardato senza il minimo interesse, ha sospirato in tono di disapprovazione e si è riaccoccolato. Mi sono accorto che sul pavimento, vicino al letto, c'era un foglio piegato che probabilmente Mirò aveva fatto cadere. L'ho raccolto. Era un biglietto di Rogers per mia madre. L'ho letto: « Cara Marjorie, sono tanto triste e amareggiato. Sono deluso di me stesso, ma mi dispiace mille volte di più di aver deluso te. Non riesci neanche a immaginare quanto questo mi addolori - deludere la persona che mi ha restituito la voglia di vivere. Spero che tu sappia che ti amerò per sempre. Io sono uno stupido e non me ne intendo tanto di perdono, ma se riuscirai a perdonarmi so che non ti deluderò mai più. Ti prego, dammi questa possibilità. Il tuo devoto marito, Barry».
Ho pensato di buttarlo via. Sapevo che quelle righe l'avrebbero turbata e visto che non c'era verso che tornasse con lui, perché avrebbe dovuto leggerle? Rogers le aveva già fatto del male una volta, perché dargli la possibilità di fargliene ancora? Poi però mi è venuto in mente Tess dei d'Urberville, Angel Care che non trova la lettera di Tess perché lei gliela infila sotto la sua porta ma poi va a finire sotto il tappeto, e questo dà il via a una serie di cose tremende e lei muore, perciò ho deciso di non interferire con il corso naturale degli eventi.
Mi sono fritto un uovo, ho finito il barattolone di gelato allo yogurt che ho trovato nel congelatore e poi sono andato in camera mia a cercare case con tre camere da letto e doppi servizi nell'Indiana, costruite prima del 1950 e sotto i 200.000 dollari. Ce n'erano un mucchio e alcune erano veramente belle. Fatte di pietra - pietre vere, tutte diverse una dall'altra, con la veranda chiusa dalle zanzariere e le mangiatoie per gli uccelli in giardino, e alberi secolari più alti della casa che durante un temporale potevano attirare i fulmini e crollarle addosso, ma non era detto. Lo so che la campagna non è innocua come sembra.
Poco dopo le undici ho sentito mia madre e Gillian rientrare. Erano andate a vedere Lunga giornata verso la notte di O" Neill, un regalo per i ventun anni di mia sorella. Nessuna delle due trovava strano festeggiare andando a vedere un dramma di quattro ore sulla famiglia più disfunzionale della storia del teatro, ma queste sono le dinamiche della mia famiglia. La porta della mia stanza era chiusa e mia madre, passando, ha bussato piano.
«Che c'è?» ho chiesto.
«Sei sveglio?».
«No».
«Mirò è stato fuori?».
«No».
« Puoi portarlo tu prima di andare a dormire?”.
« Sì”.
« Buonanotte » ha detto. Aveva la voce stanca.
«Com'è stato lo spettacolo?» ho chiesto.
«Bellissimo, ma lungo. Sono sfinita. Buonanotte».
« È venuto Rogers”.
«Ah» ha fatto. «Gli ho detto io di passare a riprendersi la sua roba. Lo hai visto?”.
«Sì, era qui quando sono tornato».
«Mi spiace. Ti sei trovato in una situazione imbarazzante?».
«Ma no, per niente».
«Bè, non lo vedrai mai più».
Non le ho risposto, perché ho pensato: come fai a dirlo? Potrei incontrarlo domani per strada. O magari tu leggi il suo biglietto, lo chiami e lui arriva.
«Buonanotte».
«Buonanotte».
Dopo qualche minuto ha bussato Gillian. « Posso entrare?».
Tra John, Rogers e mia madre mi sembrava di aver avuto fin troppe relazioni umane per quella sera, e quindi ho risposto: «No. Vattene», il che naturalmente non l'ha affatto scoraggiata.
Ha dato un'occhiata intorno e si è seduta sul letto come se fosse entrata nella stanza tanto per entrare, non per parlare con me.
Le ho chiesto: « Cosa vuoi?”.
«Mamma mi ha detto che devo parlarti».
«Di cosa?».
«Indovina un po'? Delle tue menate tipo "non vado all'università e cerco casa nel Midwest"».
«Non sono menate».
« E invece sì. Mi ha chiesto lei di dirti che sono assurdità, e te lo dico, sono assurdità, James».
«Bè, non mi importa. Quello che è assurdo per una persona può avere senso per un'altra».
« Come sei saggio, James. Dovresti scrivere un libro di aforismi».
«Vaffanculo» ho detto.
Dopo un po'"lei ha fatto: «Parlo sul serio, James, mi auguro che ti passi e che tu vada all'università».
« Che ti importa se ci vado o no?”.
«In effetti molto poco. Però mamma mi ha detto che se ti convinco, lei cercherà di farmi comprare da papà una Mini Cooper decappottabile come regalo di laurea. Quindi, se collabori e la smetti di comportarti da imbecille, farai felici tutti: mamma, papà e me”.
«E io?».
« Sarai felice anche tu. Comunque non più infelice di adesso. Sinceramente, James, penso davvero che saresti felice. Solo perché odiavi il liceo non vuol dire che odierai l'università».
« Io non odiavo il liceo”.
«Bè, l'impressione che davi era un'altra. Non pareva che te la spassassi».
«Solo perché non saltavo da un letto all'altro, non vuol dire che odiassi il liceo».
«È vero, al liceo mi correvano tutti dietro. Ma non stiamo parlando di me, James, stiamo parlando di te. Non so cos'è che ti spaventa tanto».
«Non mi spaventa proprio niente».
« E allora qual è il problema?”.
«Non è che non vado all'università perché ho paura, non ci vado perché non ci voglio andare”.
« Sì, ma se non è per paura...”.
«È che non voglio che tu abbia la Mini Cooper decappottabile”.
« Molto spiritoso”.
« Guarda che dico sul serio. Se non vado all'università è perché non voglio far parte di un mondo basato su questi vergognosi intrallazzi».
« Bè, mi dispiace essere io a dirtelo, ma di mondo ce n'è uno solo e è pieno di vergognosi intrallazzatori».
«Lo so. Non sono mica scemo».
«E allora che cosa sei? Se non sei scemo, sei fifone».
«E tu allora? Se non sei una deficiente, sei un'arpia”.
«Gli insulti, caro James, sono la risorsa dei poveri di spirito”.
« Sei stata tu a darmi dello scemo e del fifone”.
«Quelli sono aggettivi, descrivono le cose. Contrariamente ai sostantivi, che nominano le cose. E arpia, per inciso, è un'offesa detestabile perché vale solo per le donne».
«Bè, per te vale comunque».
« Mi pare che siamo sempre fermi al punto di partenza» ha detto Gillian.
«Allora perché non te ne vai e mi lasci in pace?”.
«Non sono fatta così, James. Sappiamo tutti e due che io sono più determinata di te, e inoltre credo di volere la Mini Cooper più di quanto tu non voglia andare all'università. Per cui, se non hai proprio l'encefalogramma piatto, fai il santo piacere di andarci e di risparmiarci un bel po'"di seccature».
«Bè, anche se ci andassi, cosa che non accadrà, chiarirei a mamma che è una decisione solo mia, in cui tu non c'entri niente: così quella macchina del cavolo te la puoi scordare».
Gillian è rimasta zitta. Ha cominciato a girare per la stanza, guardando e toccando qua e là. « Sai, » ha detto «forse non mi crederai, ma quando ho cominciato l'università avevo paura. Secondo me succede a tutti, anche a chi è socievole e sicuro di sé. Uno cambia vita completamente, e questo fa paura. E all'inizio la odiavo. Ti ricordi quella mia compagna di stanza tremenda, Julianna Schumski? Quella che sembrava un clown e scoreggiava in continuazione? Mi sembravano tutti dei ritardati o dei marziani... era atroce. Ma mi sono pentita di esserci andata? No».
« Che strano, il tuo discorsetto non mi ha fatto effetto».
«Allora facciamo così: tu vai all'università, io mi becco la Mini Cooper e quando vuoi pianti lì di studiare e se ti pare te ne vai a vivere in un igloo”.
«Facciamo così, invece: tu chiudi la bocca e mi lasci in pace”.
« Sei così pesante, James. Forse sarebbe davvero meglio per tutti se te ne andassi a vivere in un igloo». Ha aperto la porta ma è rimasta lì. «Rainer Maria ha chiamato?”.
« Non lo so. Il telefono ha suonato due o tre volte ma non ho risposto».
«Perché?».
«Perché non aspettavo telefonate».
«Eh già, a te non ti chiama mai nessuno...”.
«Molti sono chiamati, ma pochi eletti».
Gillian ha scrollato la testa e è uscita chiudendo la porta. Dopo un po'"ho portato fuori Mirò. Lemme lemme abbiamo fatto il giro dell'isolato e poi ci siamo seduti in cima alla scala di ingresso. A Mirò piace guardare dall'alto le persone e i cani che passano. Anche a me piace, soprattutto le notti d'estate -è come una parata lenta e scura. Abbiamo visto un uomo e una donna, giovani - lui bello, con un completo di cotone chiaro, anche lei carina con un vestito estivo vecchio stile -, camminavano un po'"staccati, lui guardava dritto davanti a sé, lei aveva le braccia sul petto come se si abbracciasse, gli occhi a terra fissi sulle dita dei piedi che spuntavano dai sandali. Tutti e due tenevano a freno lo stesso sorriso esultante e ero sicuro che il loro era un amore appena nato. Magari si erano innamorati cenando nel giardino di un ristorante o a un tavolino sul marciapiede, magari non si erano ancora dati il primo bacio e camminavano un po'"staccati perché pensavano di avere tutta la vita davanti per camminare vicino, per toccarsi, e volevano gustare quel momento prima di toccarsi il più a lungo possibile, e sono passati senza accorgersi di me e Mirò. Ma qualcosa di loro mi ha intristito. La scena era troppo bella: la notte d'estate, i sandali, i visi rapiti da quella gioia repressa. Mi pareva di essere stato testimone del loro momento più felice, del culmine che senza saperlo si stavano già lasciando alle spalle.
Mirò capisce sempre quando sono triste. Mi ha posato una zampa sul ginocchio e ha guaito piano. Forse voleva solo dirmi che voleva tornare dentro, mangiare il suo biscotto e andare a dormire, ma comunque in quel gesto c'era una tenerezza che mi ha confortato.
Quando sono andato a letto, ho sentito uno dei CD di self help della mamma che filtrava nella mia stanza dalla sua finestra aperta. Sdraiato, mi sono messo a sentire. Una donna parlava con voce serena, senza inflessioni o espressione, e ogni frase era scandita dal suono di un gong: Il passato non determina il futuro. Puoi fare più di quello che pensi. L'amore non è mai uno spreco. Non smettere mai di imparare. Cerca la bellezza. Il sonno e i sogni ti purificano.
Rispetta la sofferenza degli altri, ma non darle il potere di distruggerti. Abbi fede nella natura. Nessuno sa fare tutte le cose che sai fare tu. Rispetta la forza e la bellezza del tuo corpo. Trasforma la sconfitta in una sfida. Credi in ciò che ami. Fare del bene ti rende più forte. Apriti all'amore degli altri. Ricrea ogni giorno la tua vita.
Tutto è in continuo cambiamento. Non c'è nulla di duraturo.
Dopo dieci minuti la voce ha smesso di fare proclami, ma il gong ha continuato. I rintocchi si sono fatti sempre più leggeri e gli intervalli più lunghi, finché non hanno smesso del tutto.
Martedì 29 luglio 2003
Il giorno dopo John non è venuto al lavoro. Alle dieci, quando sono arrivato, aveva già lasciato un messaggio in segreteria dicendo che era «indisposto» e sarebbe rimasto a casa. Era una giornata di sole caldissima e ho sperato che se ne fosse andato al mare, ma mi preoccupava l'idea che non fosse venuto per quello che era successo la sera prima.
Mi dispiaceva tantissimo aver rovinato la nostra amicizia.
Anche mia madre quella mattina non si è fatta vedere, ma in questo non c'era niente di strano. Secondo lei, prima di pranzo non succede mai niente di veramente importante; così al lavoro ci vanno solo i pesci piccoli - assistenti e simili.
Certe volte avevo paura a stare lì da solo. Poteva entrare chiunque, e il problema era che dovevi mostrarti cordiale e disponibile anche se capivi subito di trovarti di fronte uno squilibrato. John mi aveva detto che se qualcuno sembrava davvero pericoloso dovevo dire che la galleria quel giorno chiudeva prima, accompagnarlo all'uscita e chiudere la porta a chiave.
Se rifiutava di andarsene dovevo chiamare la guardia giurata, ma siccome la guardia giurata passava il tempo a fumare sul marciapiede dicendo alle donne: « Ehi bambola, non sembri troppo felice ma io ti posso fare molto felice, bambola», e siccome l'ascensore (se funzionava) ci metteva mezz'ora per arrivare al sesto piano, sapevo che sarei morto molto prima.
Visto che non avevo niente da fare, ho deciso di chiamare l'agenzia che trattava una delle case nell'Indiana. Sarebbe stato più facile evitare l'università se avessi avuto una vera alternativa, perché allora ci sarebbe stato un aspetto positivo: avrei fatto una cosa invece che non farla. Sono andato su www. realtor. com e ho cercato l'annuncio. Gli agenti erano una coppia sposata, Jeanine e Art Breemer. C'era una loro fotografia minuscola vicino a quella della casa. Jeanine era seduta e Art le stava dietro, in piedi, con le mani premute sulle sue spalle come se la moglie potesse scattare su come una molla. Lei era una donna tarchiata con un sorriso studiato, vagamente folle, e palesemente aveva una parrucca. Art aveva una giacca celeste con sotto un maglione bianco a collo alto e sembrava giù di corda. La didascalia diceva: / Breemer: due teste, quattro mani, un cuore. A parte l'inesattezza anatomica, non vedevo cosa c'entrasse con le compravendite immobiliari.
Ho fatto il numero chiedendomi se preferivo che rispondesse lui o lei: in effetti non avevo voglia di parlare con nessuno dei due. «Agenzia Breemer» ha detto una voce. «Parla Jeanine, posso esserle utile?».
Ho detto: «Chiamo per una casa che ho visto su Internet».
«Splendido!» ha esclamato lei. «Di quale si tratta?».
Le ho dato i riferimenti e lei: « È quella in Crawdaddy Road? Sì... è quella, non mi sorprende. È favolosa. Vuole vederla? Sarei felicissima di accompagnarla».
«Sì, credo di sì».
«Bè, allora bisogna fare in fretta, perché non resterà molto sul mercato. Va bene alle due?”.
«Di oggi?».
« Sì. Oppure stasera, se per lei è meglio. Ma vorrei tanto che la vedesse di pomeriggio, c'è una luce talmente incantevole».
«Oggi non credo proprio di farcela» ho detto.
«Allora domani? Mi dica lei l'ora».
« In realtà sarebbe meglio durante il fine settimana».
« Benissimo. Diciamo sabato, allora? Alle quattordici? Che gliene pare?».
«Va bene».
«Perfetto. Mi può dire il suo nome?».
«James Sveck».
« È un piacere, signor Sveck. Ha delle domande che vorrebbe farmi subito?”.
«Bè, mi incuriosisce il nome della località. Si chiama Limit?”.
«Ah... lei non è di Limit?».
«No».
«Ah... e di dov'è?».
«Di New York».
«Ah... e dove nello Stato di New York? Mia sorella vive a Skaneateles».
« Sono di New York città».
«O benedizione... New York città! E vuole comprare una casa qui a Limit?”.
«Sì,» ho risposto «ho intenzione di trasferirmi».
«Ah guardi, io non so come faccia la gente a vivere ancora in una città come New York. Credo che Limit le piacerà moltissimo. Nel concorso "Il paese più bello dell'Indiana" è arrivato diciassettesimo, sa? Ha battuto Carlisle, Muggerstown e tutti quei posti sciccosi».
«Ma perché si chiama Limit?».
« Oh, non si preoccupi » ha detto, e ha riso.
Mi è sembrata una reazione strana, anche per una come Jeanine. «Non mi sto preoccupando... era solo una domanda».
«Bene, perché non c'è da preoccuparsi. Chi è che ha detto: "Che cosa c'è in un nome? Una rosa è una rosa è una rosa"?”.
«Ehm... Shakespeare, e Gertrude Stein».
« Ma che bravo! » ha fatto. « Una volta sapevo tutto di queste cose - di poesia. Conosce Hiawatha? La sapevo a memoria dall'inizio alla fine. "Sulle rocce di Gitchygoomie... dove errano i bufali... viveva una ragazza di nome Pocahontas...". Bè, il resto me lo sono dimenticato. Che bella poesia. La conosce?».
«No».
«Vedrà, ritroverò il mio libro di scuola e quando viene, gliela leggo. Sono sicura che le piacerà, è tutta piena di rime!”.
« Questo mi rassicura molto » ho risposto. « Ma il nome mi lascia ancora un po'"perplesso”.
«Gliel'ho detto, non c'è nulla di cui preoccuparsi. È un posto assolutamente tranquillo. Molto più tranquillo di New York, dia retta a me. Deve solo fare un salto a vedere la casa. E scommetto che se ne innamorerà».
«Sono solo curioso di sapere perché il posto si chiama Limit. Vorrei saperlo prima di arrivare fin lì”.
«Veramente non ne ho la minima idea. I posti hanno dei nomi e basta. Perché New York si chiama New York?».
«Perché gli inglesi le hanno dato il nome dalla città di York, dopo che gli olandesi l'avevano già chiamata New Amsterdam”.
«Bè, c'è sempre l'eccezione alla regola. Ma non credo sia utile perderci in queste sciocchezze. Facciamo così: lei viene a vedere la casa e se non se ne innamora, mi mangio il cappello».
Anche se sapevo che era un modo di dire, per un momento mi sono vista Jeanine Breemer che mangiava davvero un cappello. Uno di quelli impermeabili che si piegano in un pacchettino. Mia nonna ne aveva sempre uno nella borsetta, e da piccolo mi piaceva tirarlo fuori, aprirlo e provare a ripiegarlo (non ci sono mai riuscito). «Ci penso» ho detto.
« Oh, mi rincresce moltissimo che si lasci sfuggire un'occasione del genere, ma naturalmente sta a lei. Ha fatto il tour virtuale?”. «Sì» ho risposto.
« Ha visto, la maggior parte sono solo piccoli lavori di manutenzione» ha detto. «Che lavori di manutenzione?». «Cioè, volevo solo dire imbiancare, mettere la tappezzeria. È incredibile che differenza faccia una mano di pittura».
«Mah, per questa volta penso di rinunciare, comunque molte grazie lo stesso».
« Sul serio? Non vuole neanche darle un'occhiata?».
«Mi sembra un viaggio un po'"lungo per vedere una casa che non mi interessa».
« Le avranno mica parlato del deposito temporaneo? Sa, non è affatto detto che lo facciano proprio in Crawdaddy Road».
«Che cos'è un deposito temporaneo?». «Il deposito in cui la gente porta i rifiuti». «Intende una discarica?» ho chiesto. «Oddio, no! Sarà molto di più di una discarica! Ci sarà un centro di riciclaggio e un Mondo Cose». «Un Mondo Cose?».
«Ma sì, è un fabbricato dove chi ha, mettiamo, un frullatore, un tostapane o simili che non gli serve più ma funziona ancora, o anche se è rotto ma qualcun altro può aggiustarlo o usare le parti o convertirlo, non so, per esempio un frullatore può diventare un vaso da fiori o simili, ecco, invece di buttarlo nella discarica uno lo porta a Mondo Cose e prima o poi qualcuno se lo piglia. È un'idea fantastica. C'è gente che ci si è arredata la casa, con Mondo Cose. Per lei poi, con la casa nuova, sarebbe una gran comodità: basta un salto e si becca il meglio prima che ci mettano le mani gli altri!”.
« Sì, sembra davvero fantastico, ma non credo di voler vivere di fianco a una discarica”.
« Ma no, non di fianco, sarebbe di fronte. E hanno intenzione di recintarla con una barriera ornamentale, per cui non la vedrebbe neanche. Almeno dal piano terra. Che sarebbe anche il posto dove passerebbe la maggior parte del tempo, visto che il piano di sopra non è riscaldato».
« Una barriera ornamentale?”.
« Ma sì, un bel muro alto, di legno, credo, o magari di cemento, ma molto molto carino, tutto dipinto a fiori o con qualche altro bel motivo. La barriera che nasconde la Statale 56 l'hanno fatta dipingere ai bambini delle elementari e è tutta colorata. Ogni volta che ci passo mi tira su il morale. E poi ci saranno anche delle piante... credo che per legge ce ne debbano mettere una ogni tre metri, per cui vede che alla fine della fiera il valore della sua proprietà salirebbe”.
«Grazie, è stato un piacere parlare con lei e apprezzo la sua disponibilità, ma non sono interessato”. L'ho salutata e ho riagganciato in fretta. Sono rimasto un po'"lì a aspettare pensando che potesse richiamarmi. Non volevo essere inseguito da Jeanine Breemer. Ma poi mi ha fatto molta pena. Gli unici agenti immobiliari che conoscevo erano donne come Poppy Langsworthy, un'amica di mia madre che ogni anno vendeva diversi appartamenti da milioni di dollari - che a New York non scarseggiano mai -facendoli semplicemente vedere a gente che può permetterseli. Mi sono chiesto quando Jeanine avesse concluso l'ultima vendita. Sembrava alla canna del gas. Detesto avere a che fare con chi lavora a provvigione. Per molto tempo ho ignorato che esistesse questo genere di contratto, poi, a dieci anni, ho accompagnato mio padre da un concessionario della BMW nel New Jersey: il venditore era così aggressivo che quando lui si è incamminato verso l'uscita dicendo che ci avrebbe pensato, l'altro lo ha inseguito e gli è quasi saltato addosso. Ricordo di aver chiesto a papà se quell'uomo aveva dei problemi e lui mi ha risposto di no, era solo uno squalo; in certi lavori, mi ha spiegato, bisogna essere squali, si dà per scontato. Allora gli ho chiesto se anche lui era uno squalo e mi ha risposto di no, che lui era più un avvoltoio, lasciava che altri animali ammazzassero la preda e lui spolpava i resti. Queste rivelazioni mi avevano molto abbattuto e volevo chiedergli se esistevano lavori per gli agnelli e i conigli, ma ho capito che era meglio stare zitto. Ho pensato che magari con gli anni sarei diventato più aggressivo, ma non è successo, così quello è un problema che ho ancora. Credevo che nel mondo dell'arte ci fossero più agnelli, ma non è vero. John è di sicuro uno squalo, anche se con quei suoi modi fighi e rilassati; e mia madre certe volte riesce a essere molto avvoltoio. Questa perciò era un'altra ragione convincente per andarmene da New York e trovare il modo di mantenermi senza dover ricorrere a brutali comportamenti istintivi.
Mentre parlavo con Jeanine Breemer era entrata una donna che aveva osservato i bidoni della spazzatura a uno a uno. In mano aveva un taccuino su cui riportava le informazioni dei vari cartellini appesi al muro.
N. 21. Alluminio, carta, oggetti di recupero, colla di coniglio sminuzzata, pennarello, cera d'api, capelli umani. 60 x 75.
Dopo un po'"mi si è avvicinata con estrema nonchalance, come andasse da un'altra parte e per caso si fosse trovata il bancone davanti.
«Ah, salve» ha detto.
«Salve».
«Avete un catalogo?».
Non lo avevamo.
«Non avete un catalogo?».
«No,» le ho risposto «non lo abbiamo».
« Come mai?”.
« L'artista è contrario ai cataloghi. Crede che l'opera debba parlare da sé”.
«Ah, che amore, » ha fatto «i bidoni della spazzatura parlano da soli».
«Certo».
«Alei parlano?».
Naturalmente ho dovuto dire di sì. Ecco cosa succede quando ti ficchi in certe professioni: sei obbligato a dichiarare che i bidoni della spazzatura ti parlano.
« E cosa dicono?”.
«Bè, sa,» ho risposto prendendo tempo «essendo oggetti artistici a sé stanti, ognuno dice una cosa diversa».
« Quello lì cosa dice?”.
Come se fosse la cosa più risaputa, ho sciorinato: «Dice che tutto è immondizia. Soprattutto l'arte. E naturalmente se è immondizia l'arte, lo è anche il resto. Anche le cose che consideriamo sacre sono immondizia. Tutto è usa e getta. Gli oggetti materiali non sono preziosi, la religione fa schifo».
La donna ha fatto un passo indietro, come se potessi essere fuori di zucca quanto le mie parole. « Certo, ne dice di cose un bidone!”. «Sono opere molto potenti». «Bene,» ha fatto «mi ha dato un mucchio di spunti su cui riflettere. Sono Janice Orlofsky, scrivo su Artforum». Mi ha porto la mano. L'ho stretta dicendo: «Bryce Canyon». «Tu hai una grande passione per l'arte, vero, Bryce?».
« Direi di sì».
In quel momento è apparsa mia madre con una mise particolarmente balorda: occhiali scuri, tuta da paracadutista con un'infinità di cerniere e di tasche e un paio di scarpe nuove costituite da due stringhe di cuoio arrotolate in cima a dei vertiginosi tacchi a spillo. Sembrava impedita sia dagli occhiali sia dalle scarpe: ha attraversato la galleria come una cieca, andando a sbattere contro i bidoni. È passata vicino a noi senza salutare e è scomparsa nel suo ufficio.
Ho cercato di farmi venire in mente una freddura tipo: « Un incrocio fra Anna dei miracoli e un pilota anoressico... », ma prima che aprissi bocca Janice ha chiesto: «Quella era Marjorie Dunfour?».
D'istinto avrei voluto dire di no, perché se mia madre fosse stata una gallerista degna di questo nome avrebbe riconosciuto Janice Orlofsky di Artforum e si sarebbe fermata a fare quattro chiacchiere con lei, ma ero così confuso da tutto quello che era successo in mattinata - o nelle ultime ventiquattro ore, o in tutta la mia vita - che mi è sembrato più semplice dire la verità. Così ho risposto di sì.
Janice ha riaperto il taccuino e ha scritto qualcosa (probabilmente una stroncatura di mia madre), poi se lo è infilato nella borsetta, un lunch box vintage con gli Eroi di Hogan ca. 1970. Si è voltata e è uscita, gettando qualcosa in uno dei bidoni. (Era una ricevuta per uno « Strep sistema prestige set per epilazione». E ha scritto davvero una segnalazione sulla mostra per Artforum: «Artista anonimo, materiali vari. Galleria Dunfour & Soci, 16 luglio - 31 agosto 2003. Quand'è che la spazzatura è spazzatura ? Quando è da buttare).
Quel pomeriggio, dalla Adler, stavo cercando un modo per parlare di quello che era successo con John la sera prima, ma mentre mi sforzavo di raccogliere le idee, che sembravano assolutamente irreperibili, la Adler ha esordito: «Sai, non abbiamo mai parlato dell'11 settembre».
Questa mi ha proprio snervato. Come ho già detto, la Adler parlava poco durante le sedute e raramente suggeriva un argomento o dava il via a una conversazione. L'ho guardata per capire se si rendeva conto del suo comportamento anomalo, ma mi sembrava ovviamente di no; si è limitata a sorridermi con il suo sorriso generico e insignificante, e ha mosso un po'"la testa per farmi capire che stava aspettando una risposta.
« Ci sono un mucchio di giorni di cui non abbiamo parlato”.
Non ha detto niente, e quando è stato chiaro che non avrei aggiunto altro, ha fatto: « Preferiresti non parlare dell'11 settembre?».
«Intende l'11 settembre del 2001, immagino?».
«Sì, certo».
«Sarei curioso di sapere quanto ci ha messo la gente a parlare del 6 dicembre come del giorno di Pearl Harbor. O magari avrà cominciato subito? Il giorno dopo, magari, o la settimana dopo? Quando avrà cominciato a domandare: dov'eri il giorno di Pearl Harbor, invece di dov'eri il 6 dicembre?».
«Credo che l'attacco a Pearl Harbor sia avvenuto il 7». Ha sorriso con aria furbetta, incapace di mascherare la gioia di correggermi.
«Fa lo stesso» ho detto.
«Bè, tu come ti riferiresti all'11 settembre dovendone parlare?».
«Preferirei non dovermici riferire».
«Perché?».
« Non mi pare giusto doverle spiegare perché non voglio parlare di un argomento che ha tirato fuori lei e di cui ho appena detto di non voler parlare”.
La Adler è rimasta zitta con quella sua aria da «smetti di fare lo stupido e comunque non ti do corda». Ignoralo e vedrai che ti lascerà stare, diceva mia madre a Gillian quando eravamo piccoli e io la stuzzicavo. Ignoralo e basta. Vuole solo attenzione. A ripensarci sembra quasi crudele riconoscere e insieme respingere il desiderio d'attenzione di qualcuno, specialmente di un bambino. Vuole solo attenzione, come se fosse una brutta cosa, neanche uno volesse soldi, potere e celebrità. Forse è per questo che adesso preferisco essere ignorato: mi è stato causato un danno irreversibile. Anzi, so bene che me ne sono stati causati tantissimi. Mi è venuto in mente che la psicoterapia è un inutile tentativo di rovesciare l'irreversibile, di districare un groviglio inestricabile.
«Non ho proprio niente da dire sull'11 settembre» ho fatto.
«Ah no?».
«No. Mi rompe che la gente ne parli, che tutti debbano dire dov'erano, cos'hanno visto, chi conoscevano, come se avesse importanza. O che la gente dell'Ohio vada dallo psicologo per elaborare il lutto come se fosse successo a loro”.
«Non credi che la gente ne abbia sofferto?”.
« Sì, ne avrà anche sofferto, ma non erano su uno degli aerei e non si sono buttati giù dalle torri, quindi secondo me dovrebbero soltanto stare zitti».
«Non ti seguo».
«Bene, non mi segua».
«Ma mi piacerebbe capire cosa pensi. Tu andavi al Liceo Stuyvesant, no?».
«Credo che sappia già che andavo allo Stuyvesant».
« Sì, ma certe volte, James, la gente fa delle domande di cui sa già la risposta. È una consuetudine socialmente accettata».
«Vorrei solo che mi chiedesse quello che le pare senza cercare di abbindolarmi».
«Abbindolare: una parola interessante».
«Non capisco perché una parola debba essere più interessante di un'altra».
È stata zitta un momento e poi ha detto: «Tu andavi al Liceo Stuyvesant e lo Stuyvesant è vicinissimo a Ground Zero. Perciò immagino che tu quella giornata l'abbia vissuta in modo particolarmente intenso».
«Lo so che penserà che cerco rissa, ma detesto quell'espressione”.
« Quale espressione?”.
«Ground Zero».
«Ah. E perché?».
«Perché mi sembra un eufemismo. Una cosa da film di James Bond. E il nome l'ha fatta diventare una delle mete della città: "Andiamo a Ground Zero. Andiamo al Rockefeller Center. Andiamo allo Yankee Stadium"».
«Come vorresti chiamarlo, allora?».
«Non lo so. L'area del World Trade Center. Il posto dove c'era il World Trade Center. "Andiamo dove c'era il World Trade Center prima che i terroristi ci schiantassero dentro due aerei e lo facessero crollare"».
«Okay. Dunque, dato che lo Stuyvesant è molto vicino all'area del World Trade Center, immagino che tu quella giornata l'abbia vissuta in modo particolarmente intenso”.
«Penso che tutti l'abbiano vissuta in modo particolarmente intenso”.
La Adler ha scosso la testa con tristezza. «Potrei anche essere d'accordo con te, ma non era lì che volevo arrivare. Tu eri davanti alle torri. Suppongo che tu abbia visto tutto quello che è successo e non per tutti è stato così”.
Era vero: dalle finestre della nostra classe avevamo visto tutto.
Per un po'"sono rimasto zitto.
Stavo pensando a un articolo che avevo letto un paio di mesi dopo l’11 settembre 2001. Parlava di una donna che era sparita e nessuno se n'era accorto. Nessuno aveva sentito la sua mancanza. Nessuno aveva denunciato la sua scomparsa. Non aveva né famiglia né amici. I vicini non se ne erano accorti. Era una persona così riservata e solitaria che nessuno ci aveva badato. L'unica era stata la sua manicure. Ogni settimana lei aveva un appuntamento fisso per farsi fare le unghie e quando ha cominciato a non presentarsi e a non rispondere al telefono, la manicure ha chiamato la polizia. Hanno sfondato la porta del suo appartamento: hanno trovato un uccello morto nella gabbia, un pappagallo o simili, ma di lei nessuna traccia, solo il giornale dell'11 settembre ancora aperto sul tavolo della cucina. C'è voluto più di un mese per scoprirlo, e se non fosse stato per la manicure, magari nessuno lo avrebbe mai saputo.
Ho detto: « Sto pensando alla donna che è morta l’11 settembre senza che nessuno se ne accorgesse. L'ha letto sul giornale?”.
« Non mi pare » ha risposto la Adler.
Gliel'ho raccontato e lei mi ha detto che aveva sentito molte storie così, di gente morta senza che nessuno se ne accorgesse. Perlomeno non subito. Mi ha chiesto perché secondo me pensavo a quella donna.
Questa domanda mi ha dato un senso di tristezza e di frustrazione, perché lei sapeva già il perché. Pensavo alle mie tendenze solitarie, e che avrei potuto morire anch'io così, magari con un uccello, o un cane - più probabilmente un cane: so che gli uccelli sono facili da tenere, ma hanno qualcosa di inquietante -, ma da solo, insomma, da solo con una vita senza nessun punto di contatto con gli altri, una vita ermeticamente sigillata. La dottoressa Adler sapeva cosa mi passava per la testa e voleva solo che lo dicessi a voce alta - voleva che «verbalizzassi», perché era convinta che se esprimevo i miei pensieri avrei avuto una catarsi o qualcosa del genere; quello che non sapeva, però, era che la storia della donna scomparsa non mi faceva tristezza affatto, non mi sembrava una cosa tragica lasciare questo mondo senza rumore. Anzi, mi pareva bello morire così, sparire senza lasciar traccia, sprofondare senza disturbare la superficie dell'acqua, senza neppure una bollicina che venga a galla, come filarsela da una festa alla chetichella.
« Che cosa ti ha fatto pensare a lei? » mi ha chiesto di nuovo.
«Non lo so» ho risposto. «Mi è venuta in mente, tutto lì».
La Adler mi ha guardato con lo sguardo « sì, ma perché ti è venuta in mente?”. A me sembrava perfettamente normale pensare alla donna con il pappagallo e non al perché ci avevo pensato, visto che il perché lo sapevo già, e volevo dirle che se inseguiva quel genere di spiegazioni era perché le sfuggivano altre cose. Pensavo: mi basta averlo pensato, non ho bisogno di dirlo. Non ho bisogno di condividere questo pensiero con qualcuno. Quasi tutti pensano che le cose non siano vere finché non sono state dette, che sia la comunicazione, non il pensiero a dargli legittimità. È per questo che la gente vuole sempre gli si dica «Ti amo, ti voglio bene». Per me è il contrario: i pensieri sono più veri quando vengono pensati, esprimerli li distorce o li diluisce, la cosa migliore è che restino nell'hangar buio della mente, nel suo clima controllato, perché l'aria e la luce possono alterarli come una pellicola esposta accidentalmente. E così, invece di rispondere alla sua domanda, ho detto: «Ieri ho fatto una cosa molto brutta».
È trasalita ma è riuscita a dominarsi e ha detto: «Ah... e cosa?».
Le ho raccontato di John e di quello che era successo.
Lì per lì è rimasta zitta. Lo vedevo che stava ancora pensando alla donna con il pappagallo e all'11 settembre, che cercava di capire quale collegamento ci fosse con John e quali domande farmi perché ci arrivassi anch'io. Questa era una delle cose della terapia che cominciava a seccarmi: tutto deve per forza essere collegato, e più collegamenti riesci a fare, meglio stai. Mi ha ricordato quegli esercizi sul libro delle elementari in cui bisogna unire con una linea figure uguali in colonne diverse e alla fine c'erano tante di quelle linee che le figure erano tutte collegate fra loro in un groviglio tutto incasinato.
« Perché credi di averlo fatto? » mi ha chiesto.
«Forse volevo dimostrare di poter essere qualcun altro. Una persona che avrebbe affascinato John. E ho pensato che se ero in grado di immaginarla e di convincere John che esisteva, in un certo senso io ero l'altra persona, o avevo il potenziale per diventarlo. So che sembra una cretinata, ma per me aveva una sua logica. Non ho capito che stavo ingannando John».
«Quindi lui ti interessa».
«Come, mi interessa?».
«Penso che tu sappia cosa voglio dire».
Sono rimasto zitto. Ero pentito di non aver tenuto per me quella storia, così avremmo continuato a parlare della donna scomparsa.
« Cosa volevi che succedesse ieri sera con John?”.
«Non lo so. Non so bene che cosa succede tra due persone che hanno interesse l'una per l'altra -anzi, dovrei dire "succeda"?».
«Non credo che abbia importanza» ha fatto lei.
«Certo che ha importanza» le ho risposto. «Il congiuntivo è più giusto, e a non farci caso, si fa...”.
«Si fa cosa?».
« Si fa del male al mondo. Sono piccole cose così, come usare la lingua in modo corretto, che lo fanno funzionare. Funzionare bene. Se ci lasciamo andare, sprofonda tutto nel caos. Gli errori come questi sono come le piccole crepe nella diga, all'inizio pensi che non siano importanti, ma poi i propri errori e quelli degli altri si accumulano e allora sì che lo diventano».
«Certe volte però non ci sono vere regole. Come in questo caso: di solito usiamo l'indicativo per riferirci alla realtà e il congiuntivo per un'ipotesi, un dubbio, ma oltre alla regola c'è anche l'uso comune, ed è l'uso comune a stabilire la forma da usare”.
«E lei come fa a saperlo?» ho chiesto. Pensavo che si fosse inventata tutto lì per lì.
«L'inglese non è la mia lingua madre. L'ho studiato, e quando le lingue si studiano si impara questo genere di cose».
Non sapevo che la Adler non fosse una madrelingua. Dev'essere tedesca, ho pensato, ma non aveva il minimo accento, almeno io non lo percepivo. Mi sento sempre in difetto di fronte alle persone che parlano più di una lingua. Le invidio. Disponendo di due (o più) lessici, non solo possono dire molte più cose e parlare a molte più persone, ma anche pensare di più. Spesso mi sembra di inseguire un pensiero, ma di non riuscire a trovare una lingua per dargli forma e il pensiero rimane solo una sensazione. A volte è come se pensassi in svedese senza sapere lo svedese.
« Mi hai raccontato di John ma poi hai cambiato discorso. Secondo te, perché? » mi ha chiesto.
«Ho cambiato discorso?».
«Mi è sembrato di sì. Ti sei messo a parlare della lingua. Dell'uso delle parole».
«Bè, è tutto collegato» ho detto, solo perché non mi andava di essere accusato di aver cambiato discorso, avendolo fatto inconsapevolmente. E ovvio che nello studio di una strizzacervelli questo non conta, visto che a loro le cose che uno fa consapevolmente non interessano granché.
«In che modo?».
Come si collegano la bugia a John Webster e la scena al Frick Museum con l'uso corretto delle parole? Sembrava una di quelle domande impossibili dei test attitudinali in cui non capisci neanche cosa ti stanno chiedendo. Ma all'improvviso i tasselli sono andati a posto.
«Riguardano tutt'e due la correttezza. C'è un modo corretto di usare le parole e c'è un modo corretto di comportarsi con gli altri. E io mi sono comportato scorrettamente con John e sto male, quindi compenso con l'ossessione linguistica perché le parole sono più facili da controllare rispetto ai comportamenti».
Ero fierissimo di questa risposta, ma la Adler mi fissava come se stesse ancora aspettando che aprissi bocca. Sembrava assorta, e mi è venuto il dubbio che non avesse sentito. Sapevo per esperienza che questa era la sua tattica per farmi continuare a parlare, ma siccome avevo risposto mi pareva di meritare qualche genere di reazione. « Che ne pensa? » ho chiesto.
Non ha detto niente, si è stretta appena nelle spalle come se non ne pensasse granché. Quindi ha raddrizzato un po'"la schiena e ha detto: « Certo che sei proprio sveglio». Ma lo ha detto in un modo da cui si capiva che ero io a credermi molto sveglio. Quella cattiveria mi ha ferito e sono rimasto zitto. « È fin troppo sveglio, e non gli giova». In seconda elementare la maestra lo aveva scritto sulla mia pagella: James a volte è fin troppo sveglio, e non gli giova. A me sembrava una specie di indovinello, come quello sull'animale che al mattino ha quattro zampe eccetera, e ho chiesto spiegazioni a mia madre. Ha risposto che voleva dire che parlavo troppo.
Dopo un momento di silenzio la Adler ha fatto: «Bè, per oggi abbiamo finito».
Martedì 29 luglio 2003
Prima di tornare alla galleria mi sono fermato a casa per bere qualcosa e far pipì. Mirò era nella vasca da bagno; d'estate ci si mette spesso, forse perché è fresca. Ha aperto gli occhi e mi ha guardato con disapprovazione. Lì per lì mi è venuto il dubbio che non stesse bene far pipì davanti a un cane, poi però mi sono reso conto che era assurdo, così gli ho lanciato un'occhiata tipo «vaffanculo ma chi ti credi di essere». Spesso, in privato, sono pessimo con lui. Gli dico cose come: «Tu sei solo un cane. Non hai il passaporto né il codice fiscale. Non sai neanche aprire le porte. Sei alla mia mercé». Oppure: «Vai a tagliarti i capelli. Mettiti un paio di scarpe». Non capisce, lo so, ma secondo me qualche perplessità ce l'ha.
Ho guardato se in frigo c'era qualcosa da bere, che sembrerebbe una cosa relativamente facile da trovare, ma non a casa mia perché nessuno fa mai veramente la spesa. Quel giorno c'era un cartone di succo di arancia di cui era rimasto il fondo (la regola è che chi finisce una cosa la ricompra, così la competizione per non finirla è spietata), mezzo litro di latte scremato scaduto da tre giorni, tre bottiglie di birra Peroni, un litro di CocaCola light senza caffeina che sapevo essere di Rainer Maria e una disgustosa bevanda alla soia che Gillian aveva comprato un mese prima, quando secondo lei attraversava una fase di intolleranza al lattosio.
Così ho aperto il rubinetto, e mentre aspettavo che arrivasse l'acqua fredda da chissà quale luogo lontano è rientrata Gillian. È venuta in cucina e mi ha chiesto: « Che ci fai qui? », come se io non vivessi in quella casa e non avessi diritto di starci quanto lei.
«Non che siano affari tuoi,» le ho risposto «ma vengo dalla psichiatra e sto andando alla galleria».
« E bravo » ha fatto lei. « Per me invece è stata una mattinata del cazzo, la più brutta di tutta la mia vita». Ha aperto il frigorifero e è rimasta fissa a guardare.
«Che è successo?».
«Vuoi proprio saperlo?».
«Certo».
«Solo se sei davvero sicuro, perché è una storia lunga e pallosa».
«Sono sicuro» ho risposto.
«Okay. Allora, prima avevo un appuntamento a mezzogiorno con Amanda Goshen per andare ai saldi di Barneys».
« Chi è Amanda Goshen?”.
«Una mia amica dell'università, più o meno. Il semestre scorso andavamo allo stesso corso di scrittura autobiografica».
« Un corso di scrittura autobiografica? Al Barnard College?».
«Sì,» ha fatto «e smettila di interrompermi. Se hai intenzione di contestare ogni parola che dico, lascia perdere».
«Va bene. Mi pare solo un po'"strano mettersi a scrivere le proprie memorie prima ancora di essersi laureati».
« Di questi tempi non si è mai troppo giovani per scriverle» ha detto. «Quindi chiudi il becco. Okay. Prima passo per Bank Street, davanti alla casa con quella ridicola siepe in miniatura, la sfioro con la mano, così, come accarezzandola sulla testa, e da dietro di me spunta una tizia che dice, non mi tocchi il ligustro. Mi sembra impossibile che mi dica una cosa del genere, che cavolo, sono tutti fuori? Allora la guardo e le dico, ma che vuole? E lei, questo ligustro è mio, è di mia proprietà e non voglio che me lo manometta. Ha proprio detto così: che me lo manometta. E giuro che lo stavo toccando appena, sai quando ci passi la mano sopra che ti fa un po'"il solletico, e mi sembrava impossibile che quella tizia si mettesse a sbraitare perché le manomettevo la siepe, così ho strappato un ramo e gliel'ho tirato gridando vaffanculo a te e al tuo ligustro. Poi me ne sono andata e lei ha urlato che avrebbe chiamato la polizia. Però in quella cazzo di siepe dovevano esserci delle spine perché mi sanguinava la mano, non tanto, però... guarda». Ha richiuso il frigorifero e mi ha fatto vedere il palmo, che in effetti era graffiato. «A quel punto ti puoi immaginare il mio umore. Arrivo davanti a Barneys, mi metto a aspettare Amanda sotto un sole bestiale, mi appoggio al muro con addosso questo top e mi tiro giù le spalline perché non mi rimanga il segno. Allora arriva un vecchio che mi saluta tutto gentile come se mi conoscesse, e a me sembrava che fosse Berkowitz, così l'ho salutato anch'io tutta gentile ma poi mi sono accorta che era solo un vecchio porco che somiglia a Berkowitz e mi ha scambiato per una puttana, e mi chiede se vado con lui. Mi vuole portare chissà dove per manomettermi a pagamento e fa pure il gentile! Gli rispondo che non mi passa neanche per l'anticamera del cervello e lui dice che invece sembrava proprio che non aspettassi altro. Gli dico guardi che si sbaglia, aspetto un'amica, e mi fa: ah, mi piacerebbe guardare te e la tua amica insieme - e pensa che era un vecchio, tale e quale a Berkowitz. Così lo mando affanculo e lui mi dice stronza e se ne va, ma poi si gira e mi sputa - però non è mica capace e si sbrodola sulla camicia, così mi dice di nuovo stronza e se ne va. Okay. A questo punto è mezzogiorno e un quarto e io sono ancora lì a aspettare Amanda, aspetto altri cinque minuti e suona il cellulare, naturalmente è lei che mi dice che non può venire perché, indovina indovinello, ha venduto le sue memorie alla HarperCollins per 600.000 dollari e deve andare a pranzo con il suo editor al Four Seasons, e per favore se vedo un paio di sandali verde giada di Giuseppe Zanotti se glieli posso comprare che poi mi ridà i soldi. Okay. A quel punto a me di andare da Barneys mi è passata la voglia, faccio tutta la strada a piedi per tornare a casa e intanto penso, prendo un caffè freddo, ma no, c'è una bottiglia di Aqua Fitness nel frigo e mi fa meno male, visto che ho già bevuto tantissimo caffè, così torno a casa e ovviamente l'Aqua Fitness è sparita. L'hai bevuta tu?”.
«No» le ho risposto.
«Allora è stata la mamma».
«Pensi che ti abbia raccontato una balla?”.
« Chi? La mamma?”.
«No. Amanda Goshen».
« Che pranzava al Four Seasons?”.
«No» ho detto. «Che ha venduto le sue memorie per 600.000 dollari. Che le ha vendute tout court».
« No, sono sicura che è vero, la sua autobiografia era bellissima, ce le ha avute proprio tutte, incesto, pazzia, droghe, bulimia, alopecia, le è andata di lusso».
« Cos'è l'alopecia?”.
« Quando ti cadono i capelli. Era calva, completamente”. Gillian ha riaperto il frigorifero e ci ha guardato dentro un'altra volta, come se l'Aqua Fitness potesse essere ricomparsa per magia. Ma non c'era e l'ha richiuso. «Ah,» ha detto «prima di dimenticarmi, stamattina ti ha chiamato Jordan Powell».
«E chi è?».
«Il tuo compagno di stanza».
Non capivo di chi stesse parlando, ma poi mi sono ricordato che qualche giorno prima mi era arrivata una grossa busta dalla Brown e l'avevo buttata via senza aprirla, perché pensavo che se avessi letto quello che c'era dentro avrei creato un legame più stretto con l'università, come quando apri i biscotti al supermercato e poi sei obbligato a comprarli.
«Come si chiama?».
«Jordan Powell. O Howell. No, Powell, mi pare. L'ho scritto da qualche parte. È "di passaggio a New York sulla via di Marthà s Vineyard" e spera di incontrarti. Gli ho detto che lo richiami stasera».
«Ma neanche per sogno» ho fatto. «Non vedo proprio perché dovrei chiamarlo, visto che io alla Brown non ci vado e quindi lui non sarà il mio compagno di stanza. Che tipo è?».
« Il tipo che dice "Sono di passaggio a New York sulla via di Marthà s Vineyard". Per il resto sembrava simpatico».
Ho riempito il bicchiere di acqua tutt'altro che fredda e l'ho bevuta.
« Stai uscendo? » mi ha chiesto Gillian.
«Sì. Torno alla galleria».
« Ti fermeresti da Starbucks a prendermi un caffè freddo? Per favore!”.
« E poi cosa, te lo porto a casa fra quattro ore?”.
« No. Vai da Starbucks, mi porti il caffè e vai alla galleria».
« Già che ci sono ti ritiro anche la roba in tintoria».
«Non muori mica se vai a prendermi un caffè».
«Non è una motivazione abbastanza convincente».
Quando sono tornato la galleria era vuota (sorpresa!). La porta dell'ufficio di mia madre era chiusa e dalle luci sulla centralina ho visto che era al telefono. Mi sono seduto dietro il bancone. Erano le due e mezzo, cioè dovevo stare lì per altre due ore e mezzo. La galleria è in un palazzo pieno di gallerie circondato da palazzi pieni di gallerie, e mi è venuto in mente che nella maggior parte doveva esserci gente come me, sola nel gelo dell'aria condizionata, senza nient'altro da fare che cercare di sembrare occupata, e che probabilmente non era soltanto nelle gallerie, in tutta la città c'erano migliaia di uffici sprofondati in quel torpore di mezza estate e primo pomeriggio. New York d'estate è strana: la vita va avanti come sempre ma in realtà no, è come se tutti facessero finta, sembra che siano stati scelti come protagonisti del film sulla loro vita e ne stiano come un passo fuori. Poi a settembre torna tutto normale.
Mi sono alzato e ho guardato dalla finestra; per strada non c'era nessuno e faceva paura. A New York capitano questi strani momenti in cui sembra che siano tutti scomparsi. Certe mattine, di domenica, esco presto e non c'è nessuno, soltanto pace e silenzio, oppure mi sveglio a notte fonda, guardo fuori e nelle case intorno non si vede una luce, le finestre sono tutte buie, e penso: possibile che dormano tutti? La città che non dorme mai si è addormentata? Poi giù in strada è comparso un vecchio con un bassotto. L'uomo camminava lentissimo, ma il cane ancora di più. Non si capiva neanche se si muovevano. Mi sono tornati in mente quegli irrigatori semoventi che procedono pianissimo riavvolgendo il tubo. Quando ero piccolo mi davano da pensare, perché si muovevano sul prato senza muoversi. Passavo ore a guardarli. Effettivamente un bambino che passa delle ore a guardare se un irrigatore si muove deve diventare per forza un soggetto disturbato come me.
«James”.
Mi sono girato e vicino al bancone c'era mia madre. Mi fissava in modo strano, come se non mi vedesse da un mucchio di tempo. Mi ha chiesto: « Che stai facendo?».
Ho risposto: «Guardavo fuori dalla finestra».
«Ah». Sembrava che valutasse la cosa, come fosse un'attività sospetta che non aveva mai sentito. Ha tamburellato con le unghie sul piano di marmo e ha detto: «Vorrei parlarti. Perché non andiamo nel mio ufficio?».
Mi è sembrato curioso, perché nella galleria non c'era nessuno e per parlare in privato non c'era affatto bisogno di andare nel suo ufficio. «Okay» ho detto e l'ho seguita. Lei si è seduta alla scrivania e io davanti, su una delle due poltrone Le Corbusier. Era strano con lei là dietro, sembrava tutto molto professionale e ufficiale, e non è così che io vedo mia madre.
Ha spostato due o tre cose sulla scrivania, poi si è fermata di colpo e ha intrecciato le mani come un conduttore di telegiornale dopo lo stacco pubblicitario. E mi guardava come se guardasse in una telecamera. Aveva il viso disteso e sorridente, ma si capiva che era solo apparenza. « Ho appena parlato con John» mi ha detto. «Ah».
«Mi ha raccontato quello che è successo ieri. È molto arrabbiato e non posso biasimarlo». « Che cosa ti ha raccontato?”. «Quello che hai fatto. Che hai messo un profilo inventato su Internet e lo hai contattato». «Veramente è stato lui a contattare me”. « Non ti ha contattato lui, James, perché quello non era il tuo profilo. Adesso stà zitto e ascoltami». La sua espressione distesa/ serena ha lasciato il posto a uno sguardo temibile/ feroce. Ho detto va bene.
«John è molto offeso. Non vuole tornare alla galleria se ci sei anche tu. Ha minacciato seriamente di dare le dimissioni, ma per fortuna gli ho fatto cambiare idea». «Meno male».
«Eh già, meno male. Immagino che tu sappia in che guaio mi troverei se se ne andasse. Per la galleria sarebbe la fine: non saprei come sostituirlo e non posso gestirla da sola. Per te può anche essere tutto un gioco, James... la galleria, la mia vita, quella di John e la tua, ma nessuna di queste cose è un gioco. Forse la tua vita sì, ma lì sei tu che devi decidere. Pensi che la tua vita sia un gioco?”. « No » ho risposto.
«E invece sembrerebbe di sì. Lo sai cosa sono le molestie sessuali?». «Sì, certo».
«Allora perché ti sei comportato così male? Non ti è venuto in mente che oltretutto è contro la legge? Che non si devono mettere i colleghi in situazioni imbarazzanti dal punto di vista sessuale?». «Non credevo di fare una cosa del genere». «Ah. E cosa ti credevi di fare?”. «Uno scherzo e basta».
« Uno scherzo? E secondo te, ingannare una persona e metterla in una situazione imbarazzante è uno scherzo?».
« Non era questo che avevo in mente. Altrimenti è ovvio che non lo avrei fatto».
«E allora che cosa ti è saltato in testa?».
«Non lo so» ho detto. «Forse non stavo pensando».
«Bè, sarebbe ora che cominciassi» mi ha risposto. «E magari potresti cominciare pensando che non esisti solo tu».
«Mi dispiace» ho fatto. «AJohn ho chiesto scusa, non te l'ha detto?”.
« Sì, ma a volte non basta».
« E che altro posso fare?”.
«Molto poco, almeno per adesso. Per cui ho dovuto fare una cosa io”.
«Che cosa?».
«Ho detto a John che non lavorerai più qui».
« Mi stai licenziando?”.
«Direi di sì, anche se non mi piace metterla in questi termini».
« Oh, » ho risposto « e in che termini vorresti metterla?».
« Non mi pare proprio che tu possa usare questo tono, James, soprattutto in questo momento. Mi ci hai costretto tu. Lascia perdere me e rifletti un po'"su te stesso. Rifletti su quello che hai fatto”.
«Non vedo perché farla tanto lunga».
«Forse è per questo che hai bisogno di rifletterci».
«MaJohn è un mio amico!”.
« Non è vero, James. Non lo era prima e certamente non lo è adesso. Anzi, è ancora peggio se pensavi che lo fosse. Se hai fatto una cosa del genere a qualcuno che consideravi un tuo amico».
Sapevo che mia madre si sbagliava: John era un mio amico, o lo era stato. Magari lui non lo sapeva e non mi considerava un amico, ma per me lo era. E adesso non voleva più vedermi e forse mi odiava. È già difficile trovare simpatico qualcuno, figuriamoci volergli bene: finisci solo per fare un mucchio di sbagli che ti allontanano e basta. «John era un mio amico » ho detto.
«Bè, se lo era, non credo che lo sia più».
L'ha detto con un'aria compiaciuta che mi ha proprio scocciato. Come se mi meritassi di essere ostracizzato e messo in ridicolo perché, nel tentativo di conoscere meglio una persona, avevo fatto una stupidaggine. Mi faceva arrabbiare che mia madre fosse contenta di quella mia disavventura. La vedeva come una cosiddetta lezione di vita: il problema è che io dalle lezioni di vita non imparo mai niente. Anzi, ce la metto tutta per non imparare, perché non riesco a immaginarmi una cosa più squallida di una persona il cui carattere si forma in questo modo.
«James, » ha detto « è un po'"che voglio parlarti di una cosa e non sapevo bene come, ma dopo quello che è successo ieri sera...».
«Di cosa?».
«Bè, mi è venuto il dubbio che forse... sei gay?”.
«Ma perché mi domandano tutti se sono gay?».
« Chi altri te lo ha domandato?”.
«Papà».
«Ah, » ha fatto « e cosa gli hai risposto?”.
« Perché lo vuoi sapere?”.
«Non so. Forse è un altro modo per farti la stessa domanda».
«E perché me la fai? A Gillian lo hai chiesto?”.
« No » ha risposto.
«E perché?».
«Perché non credo che sia gay».
« Quindi secondo te io lo sono?”.
«Non so... sì: mi è capitato di pensarci».
« Ma perché vorresti saperlo?”.
«Perché sei mio figlio, James! Ti voglio bene e ti voglio aiutare».
«Pensi che gli omosessuali abbiano bisogno di aiuto?».
«James, James! Non so cosa fare. Non so come aiutarti. Sono tanto preoccupata, ma non so cosa fare per aiutarti».
Sono rimasto zitto e lei si è messa a piangere.
Lo sapevo che mi voleva aiutare, come sapevo che era mia madre e mi voleva bene. Del resto non volevo essere cattivo, o almeno così credevo, anche se dentro avevo qualcosa di duro e caparbio che invece lo era. Mi dava ai nervi che se ero gay lei pensasse di aiutarmi, magari mettendomi un cerotto, tipo. E poi oggi non è più un problema, quindi perché avrei tanto bisogno di aiuto? E soprattutto da lei, quando il suo terzo matrimonio era durato solo qualche giorno? Io sapevo di essere gay, anche se non avevo mai fatto niente di gay e non sapevo se lo avrei mai fatto. Non riuscivo a immaginarlo, non riuscivo a vedermi in atteggiamenti intimi, erotici, con un'altra persona: riuscivo a malapena a parlare con gli altri, figuriamoci a farci sesso. Ero omosessuale solo in un senso teorico, potenziale.
Abbiamo sentito il campanello che suona quando entra qualcuno nella galleria. « Credo che dovremo riparlarne,» ha detto «magari a casa. E penso che dovresti fare una chiacchierata con tuo padre. Adesso, visto che è entrato qualcuno, torna al lavoro».
«Cosa?» ho chiesto. Prima mi chiama nel suo ufficio, mi licenzia, mi dice fra le righe che sono un povero mentecatto e un pervertito, e poi come se niente fosse mi ordina di tornare al lavoro. Tutto quello che pensavo di lei e dei suoi sentimenti nei miei confronti era sottosopra. Ma poi mi sono reso conto che non potevo sopportare di sentirla ripetere le cose che mi aveva appena detto, così mi sono alzato e ho preso subito la porta.
Chiunque fosse entrato se ne era già andato, e quindi mi sono riseduto al mio posto. Poi però mi è venuto in mente che dopo un licenziamento non si torna al lavoro, anche se starsene lì tutto il pomeriggio senza far niente non era propriamente lavorare, ma tant'è. Ho deciso di andarmene. Che venissero pure a rubare i bidoni della spazzatura, se proprio ci tenevano. Che ci pensasse mia madre a rispondere al telefono, se mai avesse suonato. Mi sono alzato e ho cercato qualcosa da portarmi via. Nei film tutti quelli che vengono licenziati mettono le loro cose in uno scatolone e se lo portano via con aria afflitta. Di solito dentro ci sono una pianta striminzita, una tazza portamatite con una scritta amena e qualche foto di familiari bruttissimi. Io non avevo niente. D'accordo, avevo lavorato lì solo qualche mese, ma era un po'"deprimente l'idea di non aver lasciato il minimo segno.
Così sono uscito a mani vuote e mi sono messo a aspettare l'ascensore, che naturalmente si era perso nello spazio, ma siccome non vedevo l'ora di togliermi dai piedi ho sceso di corsa i cinque piani di scale e mi sono ritrovato in strada.
Mi sono appoggiato al muro per riprendere fiato. Il vecchio con il bassotto veniva nella mia direzione. Mi è sembrato un secolo da quando li avevo visti sull'altro lato della strada, e ho pensato che il tempo nella galleria e fuori scorreva a velocità diverse. Ho spesso questa sensazione, un po'"come un fuso orario che cambia dal chiuso all'aperto, o addirittura da una stanza all'altra.
Sono rimasto lì a guardare il vecchio e il cane che mi passavano davanti. Non volevo pensare a quello che era successo nella galleria, così cercavo di non pensare affatto. Forse per questo ero così stordito. Appena sentivo nascere un pensiero mi dicevo: Non pensare a quello. Non pensarci, non pensarci. Non pensarci. Era come schiacciare tante mosche con lo schiacciamosche. Non so per quanto tempo sono rimasto lì, ma abbastanza perché l'uomo e il cane arrivassero alla fine dell'isolato e sparissero dietro l'angolo. Poi mi sono detto che me ne dovevo andare perché prima o poi sarebbe uscita mia madre. Perciò sono arrivato fino alla passeggiata sullo Hudson e mi sono seduto su una panchina. Il caldo era soffocante, fastidioso. Certe volte puoi rimanere lì a guardare l'acqua finché non ti dimentichi di avere la città alle spalle e la brutta riva del New Jersey davanti, basta concentrarsi sul fiume, sulla luce riflessa e le barche che passano, oppure, quando si alza la marea, su come l'acqua sembri scorrere in tutte e due le direzioni, quella salata da una parte e quella dolce dall'altra, ma questa volta era diverso. Non riuscivo a perdere il senso della città e il fiume non scorreva da nessuna parte, sembrava stagnante e sconfitto. Mi sono alzato ma non sapevo dove andare. Non volevo tornare a casa perché ero sicuro che Gillian avrebbe riso come una pazza del mio licenziamento da parte della mamma. E non avevo voglia di vedere mio padre, soprattutto con gli occhi rifatti. Dalla Adler c'ero già stato, comportandomi come un cretino, e non ci sarei tornato fino a giovedì. Allora ho capito che avrei voluto vedere John, l'unica persona sana e normale che conoscevo, ma mi sono ricordato che non potevo, visto quello che avevo combinato: avevo mandato tutto in vacca con l'unica persona che mi piaceva e che probabilmente non avrei più rivisto. E lui non avrebbe mai pensato a me, o caso mai solo per raccontare di quel ragazzo strano e un po'"patetico che lo aveva importunato.
Martedì 29 luglio 2003
Anche se erano solo le quattro di pomeriggio, la Grand Central era affollata e tutti correvano e sgomitavano per arrivare ai treni che portano fuori città. Era come un'evacuazione in massa prima della fine del mondo, una marea di persone sfinite scappavano da una vita infelice verso un'altra. Si vedeva che detestavano le ore passate in ufficio, ma non è che fossero proprio ansiose di tornare dai mariti e dalle mogli irascibili e dai figli villani, o da nessuno se vivevano da sole. Il viaggio in treno era un piccolo intermezzo in cui potevano essere se stessi, niente capo, niente marito, niente moglie, niente colleghi e niente figli.
La donna vicino a me stava leggendo la Bibbia. Seguiva il testo riga per riga con uno di quei segnalibri laminati con sopra un'immagine sanguinolenta di Gesù Cristo e in fondo una nappina rosa. Mentre leggeva muoveva le labbra scandendo pianissimo ogni parola. Mi dava ai nervi quell'accostamento di Gesù martoriato con una graziosa nappina rosa. Era come strappare un cuore e metterlo in un bel pacchetto regalo. Prima di scendere (a Woodlawn), la donna ha baciato il segnalibro e lo ha richiuso nella Bibbia. Certe volte invidio chi è religioso, perché ha la consolazione della fede. Renderebbe tutto molto più facile.
Dalla stazione sono andato a casa di mia nonna a piedi, passando per strade con tante belle case vecchie, grandi alberi e prati verdi. Davanti a una c'era al lavoro una squadra di giardinieri messicani, e un ragazzo più giovane di me spingeva avanti e indietro un tosaerba grande come lui. Mentre passavo mi ha guardato e mi ha fatto un gran sorriso scoprendo i bellissimi denti bianchi, come se fosse orgoglioso di essere visto lì a tosare l'erba. Gli ho sorriso anch'io e lui mi ha salutato con la mano. Non ha senso entrare in contatto così con una persona e poi andare via. Non lo capisco. Lo strano è che io sono un asociale, ma quando entro in contatto con uno sconosciuto - anche se si tratta solo di un sorriso o di un cenno con la mano, che non credo sia considerato un vero contatto ma per me lo è - mi sembra che dopo non possiamo andarcene ognuno per la sua strada come se niente fosse. Per esempio, quel ragazzo messicano come era finito lì a Hartsdale a tosare il prato, dove viveva, che cosa pensava? Immagino la sua vita come una piramide, un iceberg di cui vedo solo la punta, la punta minuscola, ma sotto la superficie la piramide si allarga, si allarga verso il basso e nel passato, sempre più indietro, tutta la vita gli sta sotto, gli sta dentro, le mille cose che gli sono successe, e il risultato è quel momento, quel secondo in cui mi ha sorriso. Ho ripensato alla signora che leggeva la Bibbia in treno. Dov'era adesso? A casa sua? Lo so che non era il caso di scendere a Woodlawn per seguirla, ma se lo avessi fatto? Se nella mia vita quella donna fosse stata destinata a diventare importante? Credo che sia questo a farmi paura: la casualità di tutto. Persone che per te potrebbero essere importanti, ti passano accanto e se ne vanno. E tu fai altrettanto. Come si fa a saperlo? Dovevo tornare indietro a parlare con il ragazzo messicano? Forse era solo, come me, forse aveva letto Denton Welch. Andandomene mi sembrava di abbandonarlo, di passar la vita, giorno dopo giorno, a abbandonare la gente.
Mi rendo conto che non ha molto senso pensare queste cose e poi non fare il minimo sforzo per interagire con gli altri, ma comincio a credere che la vita sia piena di queste tragiche incongruenze.
La via dove abita mia nonna era tranquilla e silenziosa, come incantata. Vive in una di quelle zone in cui i bambini sono troppo ricchi e privilegiati per fare una cosa semplice come giocare fuori. Erano alle lezioni di violino, di judo, oppure erano stati spediti ai centri estivi di equitazione o di teatro. Le uniche cose animate erano gli irrigatori, quelle girandole che spruzzano getti d'acqua scintillante su prati perfettamente verdi. I marciapiedi sono vecchi, fatti di lastre di cemento spaccate dalle radici degli alberi e dal movimento continuo della terra. Sono marciapiedi caldi e polverosi. Mi sono venuti in mente quelli di New York, la loro sporcizia, il fatto che non fanno venir voglia di sdraiarcisi sopra a riposare. Lì da mia nonna è diverso, sono come rovine dell'antica Roma, nobilitati dal tempo, purificati dai raggi del sole.
La porta di casa era chiusa. Ho bussato, ma non ha risposto e ho fatto il giro sul retro. Sul tavolo della veranda c'era una tazza di caffè vuota e una sigaretta fumata a metà, schiacciata in un portacenere sbilenco che Gillian aveva fatto a un'età tenera e inetta (non che dopo sia diventata una dotata ceramista) . La nonna prima fumava molto, ma negli ultimi tempi è scesa a due sigarette al giorno: una al mattino, dopo colazione, e una alla sera, dopo cena. Sempre fuori sulla veranda. Sul bordo della tazza c'era un baffo di rossetto scarlatto, e mi piaceva l'idea che lo mettesse ogni mattina anche se poi durante la giornata non vedeva nessuno.
Attraverso la zanzariera ho guardato in cucina. Lei non c'era ma la radio era accesa, così sono entrato e l'ho chiamata. Doveva essere in casa, perché non sarebbe mai uscita lasciando la radio accesa. La nonna ha un apparecchio acustico che mette poco, soprattutto quando è sola.
Il piano di sotto sembrava vuoto, per cui sono salito di sopra. La porta della sua camera era aperta, ho dato un'occhiata dentro e l'ho vista distesa sul letto, a pancia sotto, con le braccia e le gambe come buttate ai quattro venti. Sembrava che l'avessero buttata giù da una grande altezza. Mi sono spaventato perché lei non dormiva mai così. Aveva la faccia girata verso di me, mezzo schiacciata sul copriletto, con un filo di bava. Ho pensato che fosse morta.
Per un momento si è fermato tutto, come se qualcuno avesse schiacciato PAUSA. Ma poi l'ho sentita russare e ho capito che era viva.
Sono entrato, mi sono avvicinato e l'ho chiamata, ma non si è svegliata. Ho visto che sotto le palpebre quasi trasparenti le si muovevano gli occhi. La sua pelle mi preoccupa un po''- sul dorso delle mani, sulle palpebre -, sembra consumata fino al punto di strapparsi, come una stoffa lisa dal troppo tempo e dalla troppa luce. Forse stava sognando, e se era un bel sogno non volevo svegliarla. Così mi sono seduto su una delle sue sedie d'antiquariato con lo schienale rigido, a lato dello scrittoio.
La luce della sera estiva filtrava morbida attraverso gli alberi e ricadeva dentro in raggi dorati. Sentivo il rumore ritmico dell'irrigatore sul prato della casa accanto, e un'ape intrappolata che sbatteva ronzando contro il vetro e la zanzariera, insistente, come se avesse a disposizione tutto il tempo del mondo, come se prima o poi potesse trovare un buco e volare via. Ho pensato a quanto pazienti e fiduciose siano tante forme di vita inferiore, come se credessero in qualcosa al di là della comprensione umana.
Sono rimasto così per quasi un'ora. Forse mi sono addormentato anch'io, ma non mi pare. Però la testa se n'è andata, mi sono scordato chi ero, dov'ero e che cos'ero. Ho mollato tutto, la rete che avevo dentro si è rovesciata e tutti i pesci disperati sono scappati via.
Poi ho sentito la voce di mia nonna: «James».
L'ho guardata. Ormai la stanza era in penombra ma distinguevo ancora il viso, schiacciato contro il copriletto. Aveva gli occhi aperti e mi guardava.
«Sì» ho detto.
Per un momento mi ha fissato senza espressione, come se io mi trovassi sempre lì quando si sveglia. Poi si è tirata a sedere sul bordo del letto. Si è data un'aggiustatina ai capelli e si è passata il dorso della mano sulla bocca per asciugarsi. Era un gesto sgraziato che non sembrava suo.
« Che ora è? » mi ha chiesto.
«Non lo so».
Si è guardata intorno come per orientarsi. Poi si è alzata e ha battuto piano le mani. «Bè, sono sicura che è ora di bere qualcosa. Perché non vai di sotto e mi prepari un aperitivo, così ho il tempo di rassettarmi? Non c'è niente di più brutto di una vecchia appena sveglia».
Le ho preparato un whisky con acqua e ghiaccio, come piace a lei, ho versato un po'"di noccioline in una ciotola di porcellana con sopra il castello di Heidelberg (lo so perché c'è scritto Castello di Heidelberg, 1928) e ho messo Le fontane di Roma sul suo vecchio giradischi a mobiletto, perché mia nonna pensa che sia «una gradevole musica da cocktail».
Qualche minuto dopo l'ho sentita scendere. È entrata in soggiorno e ho visto che si era cambiata -aveva un vestito a maniche corte con grandi ortensie rosa e azzurre su uno sfondo giallino. Si era sistemata i capelli e aveva un rossetto che riprendeva il rosa del vestito. Ha visto il bicchiere sul tavolino e ha detto: «Ah, che visione». Poi, quando si è seduta: «E vedo che te ne sei preparato uno anche per te, ben fatto”. Quindi ha alzato il bicchiere: « Siamo vivi”. E un brindisi che mia nonna fa spesso, ma non ha sempre lo stesso significato: certe volte vuol dire Bè, almeno non siamo morti, e altre Non è meraviglioso essere vivi? Non ero sicuro di cosa significasse in quel momento. Ho fatto cin cin e le ho risposto: «Sì, siamo vivi».
Ha bevuto un sorso. «È anche buono».
Ho bevuto un sorso anch'io. Non è che mi piacesse tanto. Non mi piace granché bere alcol: mi fa sentire un po'"triste e stanco. O più triste e più stanco del solito. Mi aspetto sempre quella sensazione allegra che dovrebbe venire con l'ebbrezza, ma non arriva mai. Così avevo allungato il mio whisky più del suo.
«Ecco». Mia nonna ha aperto una scatola di sottobicchieri d'argento: ne ha tirati fuori due e ha posato il whisky sul suo. «Ecco» ha ripetuto. «A cosa devo questo grande piacere?».
« Quale piacere?”.
«Quello della tua visita».
«Perché, non posso venire a trovarti e basta?».
«Non si risponde a una domanda con una domanda. Certo che puoi, ci mancherebbe».
«Veramente...» ho cominciato, ma non sapevo cosa dire, come continuare. Sembrava uno sforzo sovrumano cercare di spiegare cosa c'è che non va. Mi è tornato in mente il ragazzo messicano che mi aveva sorriso, la piramide che avevo immaginato sotto di lui, e mi sono sentito proprio così: nessuno può capire chi sei in quel momento se non ha idea della piramide che ti sta sotto, e anche se mia nonna era la persona che mi conosceva meglio al mondo (mia madre compresa), mi sembrava comunque impossibile spiegarle. Quindi ho abbassato la testa e sono rimasto zitto.
Chiunque al suo posto avrebbe detto qualcosa, avrebbe cercato di farmi parlare, ma lei no. Ha bevuto un altro sorso del suo whisky e lo ha poggiato sul sottobicchiere, poi lo ha spostato di qualche centimetro come se prima non fosse al posto giusto. È rimasta a guardarlo come se potesse tornare da solo dov'era. Dopo un po'"si è sporta verso di me e mi ha messo una mano sul ginocchio; mi ha chiesto: «C'è qualcosa che non va?”.
«Sì» ho risposto.
«Che peccato». Ha aspettato che dicessi qualcosa, ma vedendo che rimanevo zitto si è appoggiata di nuovo allo schienale. «Ti farebbe piacere parlarmene?».
« Sì, ma non credo di riuscirci. Non so bene cos'è. Non è una cosa sola. È tutto».
« Tutto » ha ripetuto lei, come una conferma, più che una domanda.
«Sembra tutto».
« Sì, però forse c'è una parte di questo tutto di cui magari puoi parlarmi. Come mai sei venuto qui?”.
«Era l'unico posto dove potevo andare. O dove volevo andare». Mi sono reso conto che era una bruttissima cosa da dire, come se fosse l'ultima spiaggia. Un po'"però lo era. Mi sono sentito a disagio.
« Qui sei sempre il benvenuto » ha fatto. « Possiamo anche ascoltare la musica senza parlare, se vuoi. Hai fame? Vuoi delle noccioline?». Mi ha porto la ciotola.
«No, grazie».
L'ha rimessa sul tavolo e poi l'ha sistemata come aveva fatto con il bicchiere. Passava buona parte della sua vita a spostare le cose di pochi centimetri in qua o in là, come se per tutto ci fosse un posto perfetto.
Abbiamo ascoltato la musica per un paio di minuti e poi, all'improvviso, mi ha detto: «Non voglio che tu ti faccia un'idea sbagliata. Io non dormo mai di pomeriggio, non l'ho mai fatto. Vedi, mio padre non lo tollerava, pensava che facesse male, anche per gli affari. Addirittura per la nazione. Lui lavorava molto all'estero, e in Italia e in Spagna gli uffici al pomeriggio chiudevano, tutti andavano a casa a fare la siesta. Secondo me lui sospettava anche qualcosa di peggio, di più peccaminoso. Quell'idea lo mandava su tutte le furie. Era un vero bisbetico e non si fidava di chi si godeva troppo la vita. Per lui era impensabile. Mi ricordo una volta che sono tornata a casa da una festa e raccontavo tutta felice quello che avevo mangiato, mi pare un'aragosta Newburg o un altro piatto sofisticato: mi ha detto che non era educato parlare di cibo a quel modo. E che comunque non poteva essere poi così buono, e se per caso lo era, allora doveva avere qualcosa di strano. Noi a casa mangiavamo in maniera molto semplice. Se una pietanza aveva un nome straniero, lui non la toccava. E non metteva condimenti sulla carne, né sugo né salse, perché secondo lui era un segno di decadenza. Pensa un po'... il sugo! Ha cercato di vietarlo anche a noi, ma mia madre si è opposta. Lui la lasciava fare ma fingeva di essere disgustato. O forse lo era davvero.
« Quindi io di pomeriggio non dormo mai. Se succede mi sento in colpa. Oggi, però, ero seduta in veranda a leggere una rivista e devo essermi addormentata, perché mi sono riscossa e mi sentivo tutta strana. Non sapevo dov'ero. Poi mi sono raccapezzata, ma ero ancora stanca, così ho pensato, mi stendo per un minuto e sono andata di sopra. Erano le tre, più o meno. E adesso...» ha guardato l'orologio «adesso sono le sei e mezzo. Mi sa che sto diventando vecchia».
«E ora come ti senti? Sempre stanca?».
«No» ha risposto, ma la voce lo era. E lei aveva l'aria stanca. Come se sapesse cosa stavo pensando, mi ha detto: «No, sono sana come un pesce. Chissà poi perché i pesci devono essere sani». Si è interrotta e mi ha sorriso. Ho notato che il rossetto non coincideva perfettamente con le labbra. Ho abbassato gli occhi sul bicchiere. La nonna parlava ancora dei pesci, ma io non la seguivo più. Poi mi sono reso conto che aveva smesso e ho alzato gli occhi. Mi ha fissato e mi ha detto: «James caro, perché non mi dici cos'è che non va?”.
Non sapevo da dove cominciare. Forse era il whisky - avevo già svuotato il bicchiere -, ma all'improvviso dentro mi è salito un calore, una specie di allegria: andava sempre tutto male, solo che me ne importava poco. Come se mi vedessi dalla luna: un essere minuscolo con dei problemi minuscoli e stupidi. Va bene, ero stato licenziato, mi ero comportato come un cretino e avevo rovinato la mia amicizia con John, ero un orso che non voleva andare all'università: e allora? Non erano cose importanti. Non ero mica su un aereo dirottato che andava verso il World Trade Center.
« Oggi sono stato licenziato » ho detto.
«Sei stato licenziato?».
«Sì. Dalla mamma».
«Ah sì? E perché?».
Le ho detto di John. Mentre parlavo, la nonna beveva a piccoli sorsi e quando ha finito mi ha dato il bicchiere: «Credo che prima di continuare ce ne serva un altro a tutti e due. Preparali che io intanto giro il disco».
Dopo pochi minuti eravamo di nuovo seduti, i bicchieri pieni e il lato B delle Fontane di Roma sul piatto del giradischi.
« Sai una cosa, » mi ha detto dopo aver assaggiato il suo whisky con aria soddisfatta «in fondo quello che mi hai raccontato mi pare incoraggiante. Hai fatto una cosa stupida e hai fatto un gran pasticcio, eppure lo trovo incoraggiante”.
« Perché? » ho chiesto.
« Perché volevi una cosa e hai cercato di prendertela. Hai agito. Stupidamente, ma hai agito, e questo è l'importante. E spesso le persone si comportano in modo stupido quando c'è di mezzo l'amore. Io senz'altro l'ho fatto». Si è interrotta, come se le fosse tornato in mente un ricordo preciso.
Ero scioccato. Aveva detto «amore». Aveva detto «amore» come se c'entrasse in questa storia. Per un momento ho pensato di aver sentito male. Non le avevo mai detto di essere gay o etero, non le avevo mai parlato di niente che avesse a che fare con questo genere di cose. Per me lei viveva in un altro mondo, nel mondo di Hartsdale, un mondo dove gli uomini non mettono il sugo sulla carne, un mondo in cui queste cose non esistono. Pensava che fossi innamorato di John?
«James, mi ascolti?» l'ho sentita dire.
« Sì » ho risposto.
«Dall'espressione non sembrava. A ogni modo, non credo che ci sia da preoccuparsi. Cosa vuoi che importi essere licenziati dalla mamma? È come essere spediti in camera perché si è stati birichini. E se questo John è un essere umano, capirà che quello che hai fatto è stato, sì, una stupidaggine, ma anche un gesto gratificante, e tenero... tenero in un modo un po'"confuso, ma bisogna pur cominciare da qualche parte».
« Non pensi che mi odierà per sempre?”.
« Ma per carità! Forse una settimana o due, ma per sempre non credo proprio. Se ha un po'"di senso dell'umorismo, con il tempo potrebbe anche sentirsi lusingato, come del resto è logico. Magari scrivigli due righe... qualche parola gentile di scusa e via. In queste situazioni non si può fare altro, dopodiché la palla è nel campo altrui, per così dire”.
Si è alzata in piedi. « Ho delle costolette di agnello del macellaio buono. E degli zucchini dell'orto della Takahashi. Resti a dormire, no?”.
« Sì, » ho detto « se per te va bene”.
« Per me va benissimo. Devi chiamare tua madre? Lo sa che sei qui?”.
Mentendo, ho detto di sì. Sapevo di far male, ma visto che mi aveva licenziato non mi pareva proprio che meritasse di avere mie notizie.
«Bene» ha fatto. «Allora i nostri problemi sono tutti risolti?”. Anche questa era una delle sue frasi preferite, come il «siamo vivi». Mia nonna crede fermamente che prima di sedersi a tavola, o di andare a dormire, tutti i problemi vadano risolti.
«Bè,» ho risposto «c'è ancora quello dell'università».
«Pensavo che lo avessimo risolto la settimana scorsa».
«Non proprio».
« Rinfrescami la memoria: qual era il problema?”.
«Che non voglio andare all'università».
«Bè, la soluzione sembra abbastanza semplice: non ci andare».
«Non credo di potere» ho detto.
« Non credi di non poterci andare? Non capisco”.
« Cioè, certo che potrei non andarci. Il problema è cosa faccio se non ci vado”.
« Bè, ma quello è un problema diverso » ha detto.
« Già » le ho risposto. « Io volevo usare i soldi dell'università per comprare una casa nel Midwest e andarci a vivere, ma adesso non sono più tanto sicuro».
«Sembra un'idea piuttosto deprimente. Rinfrescami la memoria, perché non vuoi andare all'università?».
«Te l'ho detto... Non voglio passare tanto tempo in un ambiente pieno di gente così».
«Così come?».
«La gente che va all'università. La gente della mia età».
«Ma non ci sono delle università per adulti? O magari potresti iscriverti a una scuola per corrispondenza, anche se immagino che uno non vada in una scuola per corrispondenza. Potresti... bè, corrispondere con una scuola per corrispondenza. Pensi che la Brown faccia corsi a distanza?”.
«Non credo».
« Ho visto la pubblicità di un corso per corrispondenza per la toelettatura dei cani... credo che fosse sul "Ladies" Home Journal". Ti interesserebbe?».
«Bè non mi dispiacerebbe. A me i cani piacciono. Ma non credo che papà e mamma approverebbero».
«James, non puoi passare tutta la vita a far contenti i tuoi genitori. E far contenta tua madre è impossibile, o sbaglio? Dopotutto ti ha licenziato».
« Sì, » ho risposto « questo è vero”.
«Senti, perché non ceniamo e poi ci ritorniamo sopra? Non riesco a pensare a stomaco vuoto. Tu hai fame?”.
« Sì » ho risposto, e mi sono accorto che non avevo mangiato niente per tutto il giorno. A casa, dopo la seduta con la Adler, il frigo vuoto e Gillian mi avevano dissuaso.
Dopo cena abbiamo giocato a Scarabeo (ha vinto la nonna) e poi, mentre lavavo i piatti, lei è andata a fumare una sigaretta sulla veranda. Mia nonna ha la lavastoviglie, ma non mi pare che la usi. Credo che non si fidi: i piatti, secondo lei, vengono puliti solo se li lava lei a mano. Appena ho finito mi sono seduto al tavolo e ho guardato fuori dalla finestra, in giardino. Lei era nel prato che fumava. Mi dava le spalle e non le vedevo il viso. Sembrava che stesse studiando qualcosa nel giardino accanto, o forse vedeva i vicini dalle finestre illuminate. Mi sono ricordato della famiglia che avevo spiato la notte in cui ero scappato dal teatro, e per un attimo mi sono sentito confuso, come se guardassi in due specchi messi di fronte, quando il mondo si spalanca e crolla a un estremo e all'altro. Guardavo mia nonna dalla finestra e lei (forse) guardava i vicini attraverso una finestra, e forse loro guardavano nella casa di fronte o dentro una macchina parcheggiata, e così via fino a fare il giro del mondo. Mia nonna poi ha portato la sigaretta alla bocca, ha inspirato e ha mandato fuori il fumo con un lungo sbuffo. Alla fine ha spento il mozzicone nel portacenere che teneva in mano - quello sgangherato fatto da Gillian. Mi aspettavo che si girasse e tornasse dentro, ma è rimasta lì, come se fosse trafitta da quello che stava guardando. Allora sono andato di sopra a fare il letto nella stanza degli ospiti.
Dopo un po'"l'ho sentita rientrare e muoversi in cucina (quasi sicuramente stava pulendo dove avevo già pulito io) e poi è salita di sopra. Ero seduto su uno dei due letti e sfogliavo un «National Geographic» che avevo preso dalla pila sul comodino. Era del 1964, e sulla copertina c'era un cavallo bianco ritto sulle gambe posteriori. Il titolo diceva: «Il tesoro di Vienna: Gli stalloni bianchi danzatori».
La nonna era sulla porta. « Grazie per aver pulito la cucina» ha detto.
«Figurati» ho risposto. «Grazie a te per la cena squisita».
«Lo so che non abbiamo risolto il problema dell'università ma... vedi... non credo di poterti essere di grande aiuto. Non so bene come funzionino le cose al giorno d'oggi. Sono sicura, però, che troverai qualcosa di adatto a te, James. Le cose si metteranno a posto da sole, vedrai».
«Sì, credo di sì».
«E se per te andare all'università fosse proprio uno sbaglio, se effettivamente non dovesse piacerti come temi, bè... non sarà stata un'esperienza sprecata. A volte le brutte esperienze aiutano, servono a chiarire che cosa dobbiamo fare davvero. Forse ti sembro troppo ottimista, ma io penso che le persone che fanno solo belle esperienze non sono molto interessanti. Possono essere appagate, e magari a modo loro anche felici, ma non sono molto profonde. Ora la tua ti può sembrare una sciagura che ti complica la vita, ma sai... godersi i momenti felici è facile. Non che la felicità sia necessariamente semplice. Io non credo, però, che la tua vita sarà così, e sono convinta che proprio per questo tu sarai una persona migliore. Il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti. Devi considerarli un dono -un dono crudele, ma pur sempre un dono.
«So che sto sragionando, adesso la smetto. Da quando mi sono alzata, oggi pomeriggio, non mi sento tanto in forma. Ma ti voglio dire un'altra cosa, una cosa che devi sapere subito. Riguarda il mio testamento, James. Tutto quello che è in questa casa lo lascio a te. La casa sarà venduta, ma quello che c'è dentro è tuo. E voglio che tu ne faccia quello che ti pare... lo tieni, lo vendi, lo dai via, lo bruci su una pira, e tutte le combinazioni possibili. Naturalmente ti spetteranno anche dei soldi, ma di questo non parliamo, è troppo noioso».
Non sapevo cosa dire. Guardavo le foto sul «National Geographic», gli stalloni bianchi che facevano le loro piroette.
«Volevo soltanto che tu lo sapessi, » ha continuato « che sapessi quanto è importante per me che sia tu a decidere cosa fare delle mie cose».
«Le terrò» ho detto. «Terrò tutto, anche questa». Ho alzato la rivista.
«No,» ha detto lei «non è questo che voglio. Sono solo oggetti, non hanno nessun significato. Tieni solo quello che ti serve”. È venuta a darmi un bacio e mi ha fatto una carezza sui capelli. «E adesso vado a letto. Non so come mai sono così stanca dopo aver dormito tanto, ma lo sono. E hai l'aria stanca anche tu».
«Eh sì».
« È stata una giornata lunga».
« Sì”.
«Sogni d'oro».
«Anche a te. Buonanotte».
Per un po'"sono rimasto seduto sul letto, sfogliando la rivista a casaccio senza guardare niente di particolare. Pensavo a tutte le cose di mia nonna e a quanto le amavo. Stupidamente mi sembrava che se me le fossi tenute vicino, la mia vita non sarebbe stata infelice.
Ma sapevo bene che non avevano tanto potere, anzi che non ne avevano per niente. Erano solo cose. Oggetti.
Mercoledì 30 luglio 2003
La mattina dopo mi sono svegliato verso le nove. Lì per lì non capivo dov'ero, ma poi ho riconosciuto le tende.
Ho trovato mia nonna in cucina. Sul ripiano c'era una montagna di zucchini gravemente deformi, e lei li stava affettando furiosamente a rondelle.
«Accidenti» ho detto. «Mi fanno pena».
«A me no, » mi ha risposto « io li odio. La Takahashi non la smette di portarne. Ho sempre pensato che parlasse bene l'inglese, ma a quanto pare non capisce il significato di "Grazie, ma basta zucchini". Così faccio il pane agli zucchini. A dirlo così sembra schifoso, lo so, ma invece è buono. Vuoi fare colazione? Non mi dispiacerebbe smettere di affettare per un po'"e farti due uova».
«No, grazie» ho detto. «Devo tornare a New York».
« A stomaco vuoto? Senza neanche un caffè?”.
«Lo prendo per strada». Avevo fretta di tornare, perché non volevo che mia madre desse i numeri e magari chiamasse la polizia: dopo quello che era successo a Washington le avevo promesso che non sarei più sparito in quel modo. « Mi ha fatto piacere vederti» le ho detto. «Ci sentiamo presto».
«Anche a me”. Ha posato il coltello e si è pulita le mani sul grembiule. «Mi spiace se ieri sera ero un po'"strana. Stamattina mi sento più normale».
« Non eri strana per niente. Mi hai dato un mucchio di buoni consigli».
«Sarà... ma ora vai. Se ti sbrighi riesci a prendere il treno delle 9.57». Mi ha dato un bacio e mi ha spinto via.
Il treno era quasi vuoto, a parte un'orda di casalinghe di lusso che andavano in città a spender soldi. Faceva senso vederle lì tutte uguali, come se fossero lo stesso modello d'automobile ma di anni diversi: una aveva un prendisole bianco a strisce rosa, un'altra un prendisole rosa a pois verdi. Tutte avevano i sandali e gli occhiali da sole firmati sui capelli pettinati più o meno allo stesso modo. L'ho trovato uno spettacolo un po'"deprimente, perché avevo sempre pensato - o sperato - che gli adulti non fossero necessariamente schiavi dello stesso cieco conformismo di tanti miei coetanei. Ero sempre stato impaziente di diventare un adulto perché credevo che il mondo degli adulti fosse, bè... adulto. E che quando stavano insieme, gli adulti non facessero branco o si comportassero da stronzi, che per loro non fosse più il concetto di « in » e « out » a decidere le relazioni sociali, ma ormai cominciavo a capire che quel mondo era stupidamente brutale e pericoloso come il regno dell'infanzia. Vedevo, però, che sotto la patina di sicurezza le signore erano nervose, quasi spaventate, perché sapevano di non far più parte della città: una volta sposato il mago della finanza e preso casa nei sobborghi non erano più newyorkesi. New York in questo senso è spietata. Allora ho pensato che se mi fossi trasferito in Indiana (anche se dopo aver parlato con Jeanine Breemer l'Indiana non mi attirava più tanto) avrei sofferto lo stesso esilio. Sarei potuto tornare, ma sentendomi fuori posto come loro. Poteva succedere anche se andavo alla Brown e tornavo spesso a casa. A New York cambia sempre tutto molto in fretta. Basta andare via una settimana: il ristorante greco è diventato etiope; dove c'era il panificio hanno aperto un ennesimo centro estetico. Sarei stato uno dei tanti che esce dalla metropolitana e si guarda intorno confuso perché non riesce a orientarsi. Magari andrei a nord invece che a sud e dovrei fermarmi per fare il punto, come un turista.
Allora ho pensato che forse era meglio fare l'università a New York e lasciar perdere il Rhode Island e il Midwest. Mi ricordo che una volta, in seconda elementare, il maestro aveva staccato dal muro la cartina degli Stati Uniti e ci aveva chiesto quali erano gli Stati più grandi e quelli più piccoli. L'Alaska era facile, ma nessuno aveva indovinato il Rhode Island, perché è così piccolo che quasi non si vede, tanto che avevano scritto il nome sull'Oceano Atlantico con una freccia puntata verso ovest. Come potevo lasciare la città più grande degli Stati Uniti per lo Stato più piccolo? Però a New York la Columbia mi aveva rifiutato (anche se la motivazione era stata: « esaurimento dei posti disponibili»), e nell'impero del male della New York University non sarei entrato neppure se mi pagavano. (La NYU ha rovinato gran parte del Greenwich Village, compreso il recinto dei cani in Washington Square: hanno costruito un palazzo enorme e certe parti dei giardini sono sempre in ombra).
Spesso mi Vengono dei gran malumori e ogni cosa che vedo o che penso mi deprime. Sembra che tutto provi che il mondo è un posto di merda e non fa che peggiorare. Mi ricordavo la stessa sensazione a Washington quando cercavo di vedere in modo positivo gli oggetti abbandonati sull'autostrada, e ci ho provato anche lì sul treno, ma era impossibile perché stavamo attraversando un quartiere particolarmente brutto (e deprimente) del Bronx.
Finito il Bronx, siamo passati sul ponte a traliccio che unisce Manhattan al resto del mondo, e dal finestrino vedevo i grattacieli di vetro che riflettevano il sole del mattino, e quella specie di velo luccicante che col caldo sfoca i contorni delle cose. E mi sono detto: eccola, ecco New York, è la città che ami, il posto che ti piace di più al mondo. Ma in mente avevo solo quello che mi aspettava: mia madre, furibonda perché ero di nuovo sparito nonostante la promessa - e John. Appena stavo un po'"meglio e pensavo che non andava poi tanto male, mi tornava in mente John che mi diceva che mi ero fottuto il cervello, e lo vedevo sulla panchina di Central Park, con la testa fra le mani, che mormorava con quella voce triste Non c'è niente al mondo che desidero di più. Niente, e mi sentivo di nuovo malissimo.
Avrei voluto che la Grand Central fosse una stazione di passaggio come Penn Station, così il treno avrebbe continuato il viaggio e io con lui, magari senza scendere da nessuna parte, senza arrivare mai. Avrei passato il resto della mia vita in transito, protetto dal treno, mentre questo mondo impossibile e disgraziato sfrecciava fuori dal finestrino.
A casa, quando sono entrato, sembrava tutto tranquillo. Anzi, sembrava proprio che non ci fosse nessuno. Mi sono fermato in soggiorno, a ascoltare, e mi è venuto il dubbio che fossero fuori a cercarmi, o alla polizia. Poi ho sentito il fragore assordante del macinacaffè e mi sono avviato nel corridoio. Ho trovato Gillian in cucina, con indosso una maglietta e basta. Il rumore ha coperto il mio arrivo, perciò quando mi ha visto si è spaventata. «Dio, ma da dove sbuchi? Ti sembra il modo?”.
«Stai macinando il caffè?» ho chiesto.
« No. Sto facendo un esperimento scientifico. Cosa vuoi che faccia? Sei scemo?”.
«Ne fai un po'"anche a me, per favore?”. Mi sono seduto. «La mamma dov'è?».
«Non lo so». Gillian ha messo a scaldare l'acqua. «A letto, credo. O forse è uscita. Mi sono appena alzata e sono di umor nero, quindi lasciami in pace”.
«Perché sei di umor nero?».
Si è voltata a guardarmi. «Perché? Sono di umor nero perché c'è gente come te - anzi, non come te, proprio tu - che dopo che gli ho detto di lasciarmi in pace mi chiede: "Perché sei di umor nero?"». Si è girata di nuovo verso il caffè.
«Sai una cosa,» le ho detto dopo un po''«stai diventando veramente odiosa».
Non ha risposto, è rimasta a fissare la caffettiera come se stesse facendo un esperimento scientifico. Poi ha versato il caffè in due tazze. Ha tirato fuori il latte dal frigo, ne ha messo un po'"in ciascuna, e poi un cucchiaino di zucchero in una sola. Le ha portate a tavola e mi ha messo davanti quella zuccherata. Sono rimasto a bocca aperta: non era proprio da lei servirmi qualcosa.
Ho bevuto un sorso. «Grazie, è molto buono».
Lei non beveva, teneva la tazza fra le mani come se fossero fredde e volesse scaldarle. Dopo un po'"ha detto: «Scusa».
« Non fa niente » le ho risposto. « Ci sono abituato”.
«No, hai ragione... so che posso essere odiosa. Sono una iena».
«Ma no, non è vero».
«Invece sì, e non voglio mettermi a discutere».
« Come vuoi, però secondo me non lo sei».
Non ha risposto. Le tremava il mento come se le venisse da piangere. Abbiamo bevuto in silenzio per un po'"e poi, all'improvviso, ha detto: «Sono di umor nero perché Rainer Maria mi ha scaricato». «Ti ha scaricato? Che è successo?». « Sua moglie ha trovato un fantastico lavoro come top dei top a Berkeley e ne hanno offerto uno anche a lui, così si trasferiscono in California, voltano pagina, rinnovano la promessa, si dichiarano eterno amore e un mucchio di altre cose vomitevoli».
«Bè, ma allora non ti ha scaricata. Voglio dire, magari ti sta lasciando, ma questo non è scaricare. C'è una bella differenza».
« Sì, anche lui ha cercato di metterla così, però io tutta questa differenza non la vedo. È solo una questione semantica. Sarà il prezzo da pagare quando si ama un teorico del linguaggio».
«Comunque mi spiace» le ho detto. «Rainer Maria mi era simpatico, mi mancherà».
«Sì, anche a me». Lo ha detto in un modo così poco ironico che mi sono sentito a disagio.
« Chissà, » ho detto allora « forse è meglio così. È vero che è un bel tipo e tutto, ma è sposato e ha un sacco di anni più di te. Magari adesso troverai una persona più adatta».
«Dio, James, sembri la posta del cuore. Ma poi tu che ne sai dell'amore?». «Niente». «Lo vedi?».
«Gillian, ho cambiato idea. Sei una iena». Per fortuna la conversazione è stata troncata dal rumore dei passi di mia madre in corridoio. Gillian ha fatto: « Non dirle niente di questa storia. Non sa niente».
« Che cosa non so? » ha chiesto lei. Era sulla porta in accappatoio, coi capelli arruffati dal sonno. Sembrava un po'"intontita, ma non era una novità visto che mia madre comincia (e finisce) spesso la giornata in quello stato. Non le abbiamo risposto e lei si è subito dimenticata la domanda. È rimasta impalata a guardarci come se fossimo strane apparizioni. Ha detto «James» e mi si è avvicinata dandomi un buffetto sulla testa. Poi ha detto « Caffè » e è andata a versarsene una tazza. Quindi si è seduta al tavolo. Mi aspettavo che continuasse questo gioco dei nomi e dicesse «Tavolo», oppure «Gillian», ma si è messa a bere con espressione assente.
Visto il suo stato comatoso ho pensato che fosse meglio prendere l'iniziativa. «Mi dispiace» ho detto.
Mi ha guardato. « Di che cosa?”.
« Scusa. Ti prometto che non lo faccio più».
«E ci mancherebbe! Però non dovresti chiedere scusa a me, ma a John».
«Gliel'ho già chiesto, ma non sto parlando di questo. Mi scusavo di essere sparito».
« Oh » ha fatto. « Sei sparito?”.
« Sì, ieri sera non sono tornato a casa. Non te ne sei neanche accorta?».
«Bè... no» ha risposto. «Ho passato una brutta serata con Barry e ero presa da altri pensieri».
« E magari anche da qualche bicchiere di troppo » ha detto Gillian.
Mia madre l'ha fulminata con gli occhi, ma si dev'essere sforzata troppo perché ha fatto una smorfia di dolore e si è massaggiata la fronte.
« Non ci posso credere » ho detto io.
«Senti, bamboccio, cresci un po'!» ha fatto Gillian. «Hai diciotto anni! Vuoi che mammina ti venga ancora a rimboccare le coperte?”.
«No, però credevo che qualcuno si accorgesse se torno o non torno a casa».
« Bè, prima o poi ce ne saremmo accorte » ha detto mia madre. «La prossima volta devi solo stare fuori un po'"di più. Dov'eri ieri sera?”.
«Da Nanette».
«Ah » ha fatto. « E come sta?”.
«Bene. Cioè, veramente sembrava un po'"stanca. Quando sono arrivato stava dormendo».
«Vuoi scherzare? Quella donna non dormirebbe di giorno neanche sotto minaccia di morte».
«Invece dormiva, e profondamente».
«Non ci credo. È una cosa che detesta. Pensa che sia un segno di debolezza».
«Veramente era suo padre a pensarlo”.
« Suo padre? Cosa ne sai?”.
« Me lo ha raccontato lei. Doveva essere un tiranno”.
«Eh sì» ha detto mia madre. «Buon sangue non mente. Tale padre, tale figlia».
«E tale madre, tale figlia» ho risposto.
Ho visto che non ha afferrato subito, ma poi ci è arrivata. Mi ha guardato con un'espressione tra l'offeso e lo stupito. « Pensi che io sia una tiranna?”.
«Una certa tendenza ce l'hai. E vorrei tanto che non parlassi male di Nanette. È mia nonna e le voglio bene, per cui smettila».
L'espressione offesa/ stupita si è accentuata. Era come se fosse un'attrice e il regista dicesse: di più, di più!
«Scusami» ho aggiunto. «Non so neanche perché l'ho detto».
Mi ha preso una mano fra le sue. «No, scusami tu, James. Non lo farò più. Lo prometto».
« Grazie » ho risposto.
« Ma che scena commovente » ha detto Gillian.
Mia madre stava di nuovo per fulminarla, ma si è fermata in tempo e si è voltata verso di me. «Però, James, ti voglio dire una cosa: se ieri sera mi fossi accorta che eri sparito mi sarei arrabbiata moltissimo. Avevi promesso a me e a tuo padre - no: a tuo padre e a me - che non lo avresti fatto più».
«So che non sono affari miei,» ha detto Gillian «ma è quasi mezzogiorno. Uno di voi due non dovrebbe essere alla galleria?”.
« Io non ci lavoro più » ho detto.
«Te ne sei andato?».
«No, sono stato licenziato».
«Da chi?».
«E secondo te? Da mamma».
Gillian l'ha guardata. «Hai licenziato James? E perché?».
« L'ho licenziato per ragioni che devono rimanere riservate. Ma è stato graziato».
«Eh?» ho detto.
«Sei riassunto. Ieri John ha ritelefonato, dopo che te ne sei andato. Ha detto che aveva riflettuto e che forse aveva avuto una reazione esagerata. È ancora molto scandalizzato, come me del resto, ma dice che può continuare a lavorare con te. Considerati molto fortunato, James».
« Ma che è successo? » le ha chiesto Gillian. « Che cosa ha fatto a John?”.
«Non sono affari tuoi. Questa è una faccenda tra John, James e me».
Gillian mi ha chiesto: « Che cosa gli hai fatto?”.
«L'ho molestato sessualmente. O così si sostiene».
« Lo sostiene perché è vero, James, e prima lo capirai, meglio sarà per te”.
« Ma che cosa gli hai fatto? » ha chiesto Gillian.
« Scusatemi, ma non voglio assistere a questa conversazione» ha detto mia madre. «Parlatene in un altro momento, o da un'altra parte”.
«Ma è assurdo!» ha reagito mia sorella. «Ora ci dici anche di cosa possiamo parlare a casa nostra?”.
«Proprio così, ma visto che non mi state mai a sentire né fate mai quello che vi dico, non cambierete certo ora. Ormai i vostri caratteri sono formati. La mia opera è compiuta. Vado a fare la doccia».
Ha squillato il telefono e ha risposto Gillian: «Ah, ciao, Jordan. Come va? Ti stai divertendo a New York? Ah, bene. Davvero? Ma pensa, io l'ho visto martedì. Meraviglioso. Sì, lei è bravissima. Quando si dice scena madre: l'hai vista come graffiava le pareti con le unghie? Stai scherzando... due sere di seguito! Come hai fatto a trovare i biglietti? No, lui non l'ha visto, ma sono sicura che gli piacerà. È proprio qui. Te lo passo».
Ha messo la mano sulla cornetta e si è voltata verso di me. «ÈJordan».
«Jordan? Jordan chi?».
«Il tuo compagno di stanza. Te l'ho detto, ha chiamato ieri. Vuole parlarti». Mi ha allungato il cordless, ma io non l'ho preso.
« Il tuo compagno di stanza? » ha chiesto mia madre. «Alla Brown?».
« Sì, Jordan Powell. O Howell. È carinissimo. Ha telefonato ieri e gli ho detto che James l'avrebbe richiamato ieri sera, ma mi sa che essendo scappato dalla nonna se lo è dimenticato”.
«Te l'avevo detto che non l'avrei richiamato» ho detto io. «Non è il mio compagno di stanza, visto che alla Brown non ci vado».
«Per favore, non ricominciare con queste stupidaggini » ha detto mia madre.
«Non sono stupidaggini, e non sto ricominciando. Non ho mai smesso».
Intanto Gillian diceva: «Un momento solo, Jordan. James arriva subito». Ha fatto il giro del tavolo e mi ha messo il telefono davanti. «Non fare lo stronzo. Ha chiamato due volte, vuol solo essere gentile. Ti vuole portare a vedere Lunga giornata verso la notte».
«Stasera?».
« Sì, si è alzato alle cinque per fare la coda. Parlagli». Mi ha messo il telefono vicino alla bocca come un guanto di sfida, ma io non l'ho preso. Mia madre ha cominciato a dire qualcosa ma si è interrotta. Mi guardavano tutt'e due, lei con sguardo implorante e Gillian con aria provocatoria. Poi mia sorella ha fatto una cosa strana. Ha detto: «James, per favore», dolcemente, con un tono di voce che non le avevo mai sentito, appoggiando con molto garbo il telefono sul tavolo, davanti a me. Poi è tornata a sedersi.
Una voce fioca, lontana filtrava dal telefono. Diceva: «Pronto? Pronto?».
In cucina c'è stato uno strano momento di silenzio. Sembrava che il tempo si deformasse o inciampasse, e poi la vocina ha parlato di nuovo. Questa volta con un tono deluso, quasi lamentoso, come se avesse paura di essere abbandonata.
Non sapevo cosa fare. Cosa avrei potuto dire, se rispondevo? Con mia madre e mia sorella lì davanti? Poi però mi sono reso conto che, se non mi muovevo, quel terribile momento sarebbe andato avanti per sempre, e l'unica mossa che mi è venuta in mente è stata prendere il telefono, e l'unica parola che mi è venuta in mente è stata: «Pronto».
Ottobre 2003
Ho uno strano ricordo di mia nonna. Non l'ho mai raccontato a nessuno, neppure a lei, perché fa un po'"paura e non sono sicuro al cento per cento che sia vero. È uno dei miei primi ricordi. Dovevo avere circa quattro anni, forse anche meno. Ero a casa sua - non so perché o per quanto, ma ero con lei e c'eravamo solo noi due. Era un giorno di sole caldo all'inizio dell'autunno, e lei aveva passato la mattinata a sostituire le zanzariere della veranda con dei pannelli di vetro. Poi, ovviamente, li aveva lavati, e erano così perfetti che la veranda catturava e rifrangeva la luce come un cristallo. Dato che era una giornata calda abbiamo mangiato nella veranda, seduti a tavola uno di fronte all'altro. Non ricordo che cosa stessimo mangiando, ma ricordo noi due seduti a un tavolo dipinto di rosso, e il quadrato scintillante di sole che entrava dal vetro e colpiva il tavolo e me. E mi ricordo mia nonna che mi chiedeva perché non mi spostavo più in là, così non mi prendevo un'insolazione. E l'ho fatto, sono scivolato lungo la panca e ho ricominciato a mangiare all'ombra. Non so quanto tempo è passato - non troppo, però, perché stavo ancora mangiando quello che avevo nel piatto -, quando all'improvviso un pannello di vetro è uscito dalle guide e si è schiantato sul tavolo e sulla panca, proprio dove prima ero seduto io. Non c'era dubbio che, se fossi stato ancora lì, si sarebbe fracassato sulla mia testa. Mi ricordo che ci abbiamo scherzato sopra; abbiamo riso dicendo meno male che mi ero tolto dal sole, e mia nonna ha spazzato via le schegge e abbiamo finito di mangiare. È stato soltanto anni dopo che ho pensato che quel giorno era successa una cosa strana. Un piccolo miracolo. Non so se il vetro cadendo mi avrebbe ucciso - probabilmente no -, ma a posteriori ho capito che mia nonna mi aveva salvato, se non dalla morte, almeno da qualche terribile ferita. Ho sempre voluto chiederglielo. Se lo ricordava anche lei? Era successo davvero? Si era presa uno spavento micidiale, oppure, come me bambino, credeva che l'amore portasse naturalmente alla chiaroveggenza? Però non gliene ho mai parlato. Forse temevo che parlandone, trasformando il ricordo in parole, potesse svanire o decomporsi come certi fragili e preziosi oggetti antichi che si sbriciolano appena tornano alla luce.
Alla Brown poi ci sono andato, e forse sarà stato uscire di casa, trasferirmi, a farmi prendere la decisione di chiedere queste cose a mia nonna. Lei, però, è morta il 13 ottobre, un mese e mezzo dopo che sono partito per l'università. Si è saputo in seguito che aveva avuto una serie di piccoli ictus - il primo probabilmente il giorno in cui l'avevo trovata stranamente a letto -, ma non l'aveva detto a nessuno finché non è arrivato l'ultimo, il più forte. Il postino l'ha trovata sul pavimento di ardesia dell'ingresso. Doveva essere caduta giù dalle scale. Così non saprò mai se quell'episodio è vero. Ma probabilmente sì, perché me lo ricordo, e non credo che ci si ricordi di cose che non sono successe.
Siccome mia nonna non voleva un funerale né alcun tipo di cerimonia, non avevo un vero motivo per tornare a casa. Io sarei tornato lo stesso, ma i miei mi hanno detto di no, che lei avrebbe voluto che tutto continuasse come prima e che non perdessi le lezioni. Secondo me pensavano che una volta a casa non sarei più tornato indietro, perché in quel primo periodo sono stato da cani.
Ora la sua casa è in vendita, e a volte quando sono in rete vado su www. realtor. com, ma non cerco più le case nel Midwest. Guardo quella di mia nonna: Wyncote Lane 16, Hartsdale: Deliziosa villetta Tudor inizio Novecento, infissi originali, necessaria ristrutturazione. Faccio il giro virtuale. È come stare al centro di ogni stanza e girare su se stessi lentamente, e lo puoi fare tutte le volte che vuoi, le stanze non smettono mai di ruotare. I pavimenti e le pareti sembrano negativi fotografici: rettangoli di carta da parati non sbiadita dove prima c'erano i quadri, il parquet ancora lucido e scuro dove c'erano i tappeti. Le stanze sono tutte vuote, non c'è più niente: sono rimasti soltanto questi resti spettrali.
Lei mi ha lasciato davvero tutte le sue cose. I miei volevano che le vendessi a un «liquidatore», uno che arriva e compra tutto in blocco e quindi lo liquida. Usano proprio questa parola: liquidare. Io, però, ho rifiutato. Con una parte dei soldi che mi ha lasciato mia nonna ho affittato una stanza climatizzata in un deposito di Long Island City. Sono venuti a prendersi la roba, anche i numeri del « National Geographic», la ciotola con il castello di Heidelberg, il giradischi e i dischi, compreso Le fontane di Roma. I miei hanno pensato che fossi impazzito. Ragiona, mi hanno detto, perché pagare tutti quei soldi per conservare delle riviste vecchie? Tieni quello che vuoi, quello che puoi usare, ma vendi il resto. Disfati di tutta quella robaccia. Liquidala.
Invece a me è parsa una cosa molto ragionevole. Ho solo diciotto anni. Come faccio a sapere cosa vorrò nella vita? Come faccio a sapere cosa mi servirà?
FINITO DI STAMPARE NEL GIUGNO 2007 DALLA TECHNO MEDIA REFERENCE S. R.L. - CUSANO (Mi)
Printed in Italy