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I nipotini del professor Unrat
L’equivalente forse ancora più smagliante del tradizionale «vecchio porco» era, nel loro lessico famigliare, «vecchio malvissuto». Oppure, variante rafforzativa, «vecchiaccio malvissuto». Rimembranza manzoniana del tutto inconsapevole, e riscoperta come tale solo quando P. aveva aiutato Marta per il riassunto scolastico del capitolo tredicesimo dei Promessi sposi, quello in cui Renzo si trova in mezzo ai tumulti: «spiccava […] un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di voler attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse». Più che al vecchio laido e libidinoso di antica memoria, il «mal vissuto» (meraviglioso quel «contraendo le grinze a un sogghigno» e anche la «canizie vituperosa») alludeva tra di loro a un essere illividito, reso dagli anni spregevolmente acido e malmostoso. Qualche volta, tra le mura di casa, quella definizione poteva addirittura contenere una valenza affettuosa, specialmente quando chiamavano «vecchio malvissuto» il loro ormai anziano bassotto Oliver in vena di prepotenze maschiliste. Ma insomma, rendeva bene l’idea. P. e Silvia si capivano al volo. Il «vecchio malvissuto» poteva avere ottant’anni, o settanta, o anche cinquanta. Cinquanta: quasi la stessa età di P., per dire.
Perché non c’è niente di più volubile dei criteri che stabiliscono l’età appropriata per definire «vecchio» un essere umano di sesso maschile. Su uno dei taccuini riempiti un po’ di tempo prima, per esempio, P. aveva ritrovato questo enigmatico appunto: «Claudio Gora ha soltanto quarantanove anni». Diciamo che più o meno P., scrivendo questa nota, aveva la stessa età di Claudio Gora. Ma che c’entrava Claudio Gora? C’entrava, perché nel Sorpasso di Dino Risi (1962), film-culto cui P., in compagnia di una selezionata confraternita di fanatici risiani, tributava da sempre una devozione incondizionata, Claudio Gora interpretava un «vecchio», e cioè il facoltoso fidanzato della figlia del suo coetaneo Vittorio Gassman, Catherine Spaak. O almeno, era «vecchissimo» nella percezione che P., giovanissimo, ne aveva avuto guardando per la prima volta il capolavoro di Risi. Vecchissimo in confronto alla strafottente e un po’ cialtronesca esuberanza del coetaneo Gassman. Ma soprattutto vecchissimo perché osava mettere le grinfie sulla giovinezza maliziosa della Spaak. E ora, cinquantenne o giù di lì, P. scopriva che Claudio Gora aveva soltanto quarantanove anni: più giovane di lui, quel vecchiaccio malvissuto che allora sembrava con un piede nella fossa (tra l’altro sonoramente umiliato da Gassman in un’epica partita di ping-pong). In sintesi, quando era giovane la domanda di P. era: cosa ci trovava di tanto attraente, a parte i soldi, la Spaak? Ma adesso il suo punto di vista era drammaticamente cambiato. Ora, con qualche anno di più del Claudio Gora del Sorpasso, la domanda, vagamente oscena, era diventata: cosa bisogna fare per non apparire ridicoli tentando di sedurre una come la Spaak? Inoltre, P. capiva con maggiore indulgenza come mai Catherine Spaak e la Stefania Sandrelli di Sedotta e abbandonata di Pietro Germi o di Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, formassero negli anni Sessanta la coppia di giovani iper-seduttive che facevano smaniare di ritrovato desiderio gli uomini molto, o almeno abbastanza, avanti con l’età. Come era diventato lui adesso.
C’era poco da ridere. Perché restava l’impressione penosa che emanava dai volti dei «vecchi» sedotti e abbandonati. Facevano male solo a guardarli. Gli occhi da cane bastonato, da vittima inebetita travolta da una passione incontrollabile, di Ugo Tognazzi (un quarantenne, soltanto un quarantenne) nella Voglia matta di Luciano Salce. Lo stesso velo di ottusità che offusca lo sguardo da cretino assoluto di Kevin Spacey in American Beauty quando concupisce nella sua fantasia l’amica sexy della figlia adolescente. La stessa espressione di indifesa stupidità stampata sul volto di Anthony Hopkins nel film di Woody Allen Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, quando controlla l’orologio e aspetta con ansia i benefici effetti della pillolina azzurra ingurgitata in fretta per poter sbrigare l’incombenza con la giovane che si spaccia per attrice e gli sta succhiando tutti i soldi fino all’ultimo centesimo. Silvia, al cinema, richiamò con una gomitata l’attenzione di P., che intanto, non si capisce perché, si stava sinceramente vergognando al posto di Anthony Hopkins, per dirgli, nemmeno tanto sottovoce: «Ma lo vedi quanto siete ridicoli? Lo vedi?». Sì certo, lo vedeva. Ma perché «siete»? «Siete» chi, in che senso?
Nel senso che P. stava forse scavalcando la soglia anagrafica minima per potersi iscrivere al partito della «vecchiaia» che non vuole arrendersi, che cerca nella relazione con una donna giovane un ultimo appiglio, esattamente come il losco Komarovskij nel romanzo di Pasternak, per non uscire di scena? Era questo il significato dell’affettuosamente rude richiamo di Silvia nel buio del cinema? E poi, in cosa consisterebbero con ragionevole precisione i parametri stabiliti, i requisiti minimi per essere accettato in quel partito? La risposta è: in assoluto, astoricamente, non esistono parametri stabiliti, né requisiti permanenti. Esiste invece la storia che rende totalmente diversa la percezione della vecchiaia. Quando morirono prima Brežnev e poi Andropov, gli aveva ricordato Giovanni, si disse che con Cernenko la decrepita gerontocrazia sovietica avesse raggiunto l’apice: ma Cernenko aveva «solo» sessantotto anni. Cambia tutto con la modernità del benessere che prolunga la vecchiaia (attiva) oltre una frontiera inimmaginabile nel passato. L’Adriano di Marguerite Yourcenar si sente anziano nel tramonto della vita, malinconicamente ripiegato nella rielaborazione del passato dopo aver appena superato la frontiera dei sessanta anni: oggi sarebbe un vecchio? Il Pigmalione di George Bernard Shaw che tratta con disprezzo la giovane da plasmare come cera molle e che noi immaginiamo molto maturo e carico di anni, ne ha pochi più di trenta: giovanissimo. Nel monumento letterario dedicato all’uomo maturo che perde la ragione per una ragazzina, Lolita di Nabokov, Humbert Humbert, all’inizio della storia, ha solo trentotto anni (Lolita ne ha appena dodici, una bambina: un turpe caso di pedofilia, ammettiamolo).
Per dire la differenza, nell’èra dei patriarchi, in epoche ignare delle regole ferree della certificazione anagrafica, gli anni galleggiavano in una dimensione remota, mitica, favolosa, priva di ogni verosimiglianza fattuale. Stando agli «scritti più antichi», scrive Georges Minois, quando la «stupefacente longevità era il segno della benedizione divina», Mosé sarebbe morto a 120 anni, Aronne a 123, Giosué a 110. Niente in confronto all’antica Mesopotamia, con i 930 anni attribuiti ad Adamo e i 960, record dei record, a Matusalemme. Nel testo biblico, Abramo muore a 175 anni, Isacco a 180, Giuseppe a 147. Tutto è mutevole e incerto nella determinazione delle età. Tranne le angosce e i vizi degli anziani, che sembrano scavalcare epoche e generazioni. Con gli stessi incubi che si affacciano, sin dai tempi della Bibbia: «Il Re David era vecchio, molto in là con gli anni. […] I servi gli dissero: “Bisognerebbe cercare per il Re nostro signore una ragazza vergine che sarebbe al suo servizio, gli terrebbe luogo di moglie, dividerebbe il suo letto e il Re nostro signore avrebbe caldo”». Commenta Minois: «Gli dettero la giovane Abisag sunamita, una bellissima ragazza. Ma ella non riuscì a rianimare il vigore di David, e questo afflisse il Re tanto più che l’impotenza sessuale era allora un segno dell’incapacità di regnare». Povero Re David, ridotto così, dopo tutto quello che era stato capace di fare con Betsabea.
Tuttavia, vecchi anagraficamente indiscutibili o no, il progetto di P. sembrò a un certo punto incoraggiato dalle segrete e impalpabili corrispondenze che fatalmente sembravano instaurarsi nel corso degli ultimi anni tra la cronaca quotidiana e la letteratura. Gli appariva per esempio impressionante l’analogia pressoché letterale, il tono quasi identico, il medesimo sottinteso di riprovazione morale che accomunavano un passaggio del romanzo Vergogna di J. M. Coetzee e un momento cruciale dell’interrogatorio cui fu sottoposto in Francia Dominique Strauss-Kahn, l’ex capo del Fondo monetario internazionale che era già stato al centro di una denuncia per stupro nella suite del Sofitel di New York da cui fu poi scagionato. DSK venne infatti successivamente accusato (e anche qui assolto) di «prossenetismo aggravato» in Francia, e durante l’inchiesta fu messo sotto dalle domande incalzanti del magistrato Stéphanie Ausbart, una donna molto giovane e molto tosta. Nel romanzo di Coetzee il protagonista, un professore universitario indicato come responsabile di molestie sessuali nei confronti di una sua allieva, veniva rimproverato severamente dalla moglie da cui aveva divorziato: «Quanti ne hai, di anni, cinquantadue? Pensi che una ragazzina provi piacere nell’andare a letto con un uomo della tua età? Pensi che provi gusto? Non ci hai mai pensato?». E queste erano invece le parole del giudice Ausbart nell’interrogatorio a DSK: «È possibile pensare che giovani donne di ventisei e ventisette anni, come Marion ed Estelle, trovino piacere a passare delle serate con un uomo di sessantatré anni senza contropartita finanziaria?».
Parole pressoché identiche (a parte il fatto che il personaggio di Coetzee ha «solo» cinquantadue anni). Il giudice di DSK è appena un po’ più esplicita sulla «contropartita finanziaria», ma il concetto è quasi lo stesso: nessuna ragazza può provare piacere in un amplesso con un uomo di tanti anni più anziano, e dunque quello che appare come un gioco della seduzione costituisce in realtà solo uno scambio di denaro o una relazione di potere. Un’umiliazione che lascia senza parole il professore di Coetzee, irritato da quella che giudica «l’infervorata recriminazione» dell’ex consorte ancora palesemente ingelosita. O che ha suggerito la goffa autodifesa di Strauss-Khan: «Per quanto riguarda la differenza di età, quando una donna (o un uomo) seduce qualcuno, non ha niente a che fare con l’età. Letteratura e cinema sono pieni di queste situazioni». Appunto, proprio il tema che si stava attorcigliando nella mente di P.: le scabrose «situazioni», evocate da DSK, nella letteratura e nel cinema. Ma stavolta il facondo imputato, messo alle strette, si era rifugiato in una pura tautologia senza senso. Per non voler ammettere la pura e semplice verità: e cioè che, in questo caso, il «gioco della seduzione» era solo l’involucro luccicante ma falso di un’illusione, costruita dal «vecchio» per nascondere la triste realtà delle cose e i risvolti amari dell’età che avanza. Era questo che P. avrebbe voluto scrivere.
P. si affannava a dire a Silvia che non c’era niente di banalmente autobiografico in quelle sue ricerche, stesse pure tranquilla. Ma con la scoperta del «dismorfismo» no, purtroppo la frontiera sembrava miseramente sbriciolarsi e il richiamo autobiografico appariva più plausibile. Bisognava ammetterlo. Poi, certo, P. la poteva buttare sulla sociologia dei costumi contemporanei. E cercare di arzigogolare che solo con la rivoluzione mentale scatenata nei maschi dalla longevità vissuta come diritto inalienabile, potevano affacciarsi in modo tanto pressante alcune angosce sul proprio declinante aspetto fisico, altrimenti sconosciute in epoche in cui si affrontava più rassegnati l’inesorabile succedersi delle stagioni della vita. Ma con il «dismorfismo» non si poteva imbrogliare: la proiezione di un proprio, personalissimo, stato d’animo era sin troppo evidente.
Del resto P. non sapeva nemmeno che si chiamasse così, il «Disturbo di dismorfismo corporeo» o «Sindrome del vedersi brutto». Lo aveva appreso proprio in quei mesi da Ian McEwan e Martin Amis. O meglio: lo aveva appreso dopo aver constatato con una certa sorpresa che i due fascinosi e molto illustri scrittori più o meno suoi coetanei cinquanta-sessantenni avevano raffigurato attraverso i due personaggi a loro volta più o meno coetanei di P. e degli autori dei rispettivi romanzi (per di più scritti più o meno simultaneamente) una ferita narcisistica molto simile a quella patita dallo stesso P. quando la vita appariva normale e non stravolta da un destino atroce. Insomma, un grande concentrato di destini convergenti. La stessa ferita: il «dismorfismo». La stessa atmosfera, lo stesso identico scenario, la stessa identica sindrome. Quasi la stessa età.
Il protagonista di Solar di McEwan, Michael Beard, un uomo piacente, brillante, di successo, molto attratto dalle donne e molto attraente per le donne, entra in un periodo di crisi personale quando si disgrega il suo quinto matrimonio, peraltro il primo collasso a essere causato non già dai propri ripetuti e sfacciati tradimenti, ma da quello consumato dalla sua ultima ex coniuge. Insomma, la prima volta da vittima anziché da carnefice. A una certa età questo rovesciamento può causare traumi molto dolorosi, anche, anzi soprattutto, davanti allo specchio: «Finalmente si riconobbe per quello che era. Essendogli capitato di uscire dalla doccia e di cogliere di sfuggita una rosea sagoma conica sulla superficie appannata dello specchio a figura completa, Michael portò la mano sul vetro, vi si piazzò di fronte, e si rivolse un’occhiata incredula». «La rosea sagoma conica» piaceva molto a P.: ne apprezzava la cruda cattiveria. E infatti cominciava con questa notazione spietata l’esercizio di autodemolizione, la sindrome del vedersi brutto che avrebbe stritolato l’orgoglio di un cinquantenne improvvisamente messo a nudo nello specchio del tempo: «quali meccanismi di autoconvincimento potevano averlo indotto per tanti anni a pensare che quella forma fisica fosse attraente?». Qui in realtà Michael barava con se stesso. «Per tanti anni» era solo spargimento di fumo depistante. Con maggiore onestà avrebbe dovuto dirsi: «in questi ultimi anni». Ora, adesso, a quest’età. Non prima. Non «per tanti anni». E infatti ecco la descrizione del nuovo orrore: «l’assurdo avanzo di chioma ad altezza lobo dell’orecchio che eroicamente contrastava la sua calvizie, il recente festone di adipe che gli penzolava sotto le ascelle, l’ottusa innocenza del turgore accumulatosi su stomaco e didietro». La confessione ora era completa: la calvizie, lo strato di adipe, la sagoma conica, tutto formava la sintomatologia repellente che dimostrava l’irrevocabile cambiamento di un corpo in fase di imminente sfacelo: «Ormai uno strato di grasso drappeggiava tutti i suoi sforzi. Che possibilità aveva di tenersi accanto una donna giovane e bella come lei?».
Una conferma per le tesi che P. andava via via confusamente abbozzando. L’angoscia nasce qui: dall’invecchiamento che causa un penoso deficit di seduttività. Lo specchio non riflette astratte e accademiche considerazioni sul corpo che si deforma, ma il senso di un divario desolante e incolmabile tra ciò che si è diventati e la stessa possibilità di «tenersi accanto una donna giovane e bella». Lo screening impietoso del proprio corpo, l’adipe debordante, gli addominali cadenti, la chioma diradata, trasmettono crudelmente a Michael la percezione di non poter più competere con gli altri maschi in piena forma e in piena attività. Il deficit di seduttività: ecco la causa amara che genera il dismorfismo.
Lo stesso dismorfismo che paralizza il protagonista della Vedova incinta di Martin Amis. Rispetto al romanzo di McEwan, stessa scena, stesso specchio a figura intera. La stessa desolante nudità: «Le persone affette da DDC (Disturbo di dismorfismo corporeo) o SVB (Sindrome del vedersi brutto) fissano il proprio riflesso e vedono qualcosa che è perfino peggio della realtà. In questa fase della vita (lui aveva cinquantasei anni) ci si rassegna a una semplice verità: ogni nuova visita allo specchio sarà, per definizione, un’esperienza di inedito raccapriccio». «Raccapriccio», addirittura. Si dice che tra Amis e McEwan, nonostante la lunga e solida amicizia, sia sempre stato vivo un sentimento di robusta rivalità letteraria. E forse i due scrittori non saranno stati felicissimi nello scoprire di aver raffigurato quasi in simultanea nei loro romanzi la stessa condizione esistenziale in un contesto, se non identico, di certo sorprendentemente somigliante. Se P. avesse voluto trovare una spiegazione dall’apparenza arguta e profonda, avrebbe potuto scrivere che la curiosa coincidenza dimostrava come nel mondo contemporaneo della vecchiaia sessualmente indomabile, la cura di sé fosse diventata un’ossessione, e come l’uniformarsi a uno status estetico di giovinezza attraente si stesse trasformando in un tormentato interrogarsi sul proprio corpo (davanti allo specchio), senza voler serenamente accettare la pace dei sensi. Ma sarebbe stato un modo per eludere la pressione autobiografica che lo aveva incuriosito in quella singolare coincidenza. Perché, ecco il segreto che aveva confidato a Silvia, rassegnato al suo sarcasmo, la stessa scena, lo stesso specchio (quello del suo bagno), la stessa oramai problematica nudità erano stati vissuti anche da P., del tutto ignaro prima della lettura dei due romanzi di McEwan e Amis della potenza scientifica di una definizione come «dismorfismo». E non lo consolava affatto che, visto il ruolo brillante e la figura molto charmant dei due scrittori, quel dismorfismo avrebbe potuto rimandare a uno stato d’animo molto alla moda, contemporaneo, denso di progressisti umori post-moderni. Molto sexy, persino. No, molto sexy decisamente no. Con quel trionfo di adipe e il «raccapriccio» lamentato da Amis, sexy era (e resta) proprio da escludere, figurarsi. Senza possibilità di smentita.
Era L’animale morente di Philip Roth il romanzo che P. aveva da un po’ di tempo in evidenza sulla scrivania, convinto che rappresentasse una svolta nell’autorappresentazione del maschio anziano sessualmente non rassegnato. Gli sembrava che con Roth, l’uomo maturo, anche molto maturo, che si infatua di una giovane assorbendone le forze come carburante di una nuova e insperata stagione di vitalità, fosse uscito infatti dalle catacombe della vergogna. Gli sembrava: ma con la malattia di Silvia, il personaggio di Roth sarebbe apparso ai suoi occhi in una luce tutta diversa. Prima era favorevolmente colpito dal professore (sessantadue anni) le cui lezioni attiravano «un mucchio di studentesse», peraltro allietate dal suo notevole «glamour intellettuale», e che aveva cominciato una relazione con Consuela (ventiquattro anni). Nella sua vita ordinata aveva fatto irruzione il caos, ma sembrava che lui si sentisse al sicuro, protetto da un guscio impenetrabile. Era pur sempre «un uomo di mondo». Un’autorità della cultura: «la maggior parte della gente è sbigottita dall’enorme differenza di età, ma è proprio questo che attira Consuela». Lui se la raccontava così. Ma non ne doveva essere interamente convinto, visto il formarsi nella sua mente di interrogativi sempre più lambiccati: «Ma come fai, quando hai sessantadue anni, e credi ormai di non avere più il diritto a qualcosa di tanto perfetto?». «Come fai, quando hai sessantadue anni e l’impulso di afferrare tutto ciò che esiste di afferrabile non potrebbe essere più forte?»
Il nuovo «vecchio sessualmente attivo» alla Roth è intelligente, è colto, sa riflettere, sa prevenire il ridicolo, sa interpretare le cose, comprende le contraddizioni, annusa i pericoli, e rivendica culturalmente la legittimità di ciò che gli sta accadendo: «Non è che grazie a una Consuela tu possa illuderti e pensare di poter avere un’ultima iniezione di giovinezza». Anzi, «mai come in questo momento senti la distanza che ti separa dalla giovinezza». Di più, è «impossibile confondersi sul fatto che è lei, e non tu, ad avere ventiquattro anni. Non ti senti giovane, tutt’altro: senti l’ampiezza del suo futuro illimitato contrapposto al tuo futuro limitato, senti l’intensità di ogni ultima grazia perduta. È come giocare a baseball con una squadra di ventenni. Non è che ti senti ventenne perché stai giocando con loro. Ma almeno non sei ai bordi, in panchina». Tipica conclusione alla Roth. Non senza la finale autogiustificazione di un uomo che sa come sia impossibile rassegnarsi a una vecchiaia «una volta simboleggiata dalla pipa e dalla sedia a dondolo». E che anzi sente ancora possibile il lasciarsi «coinvolgere nell’aspetto carnale della commedia umana»: «Ma cosa posso farci se, per quello che mi riguarda, non ci si mette mai l’animo in pace, per vecchio che uno sia». Cosa può farci, il maschio di Roth? Niente. Però le conseguenze, devastanti, le vedrà dopo. Forse sarebbe stato meglio tenersi la pipa e la sedia a dondolo per il povero vecchietto che non si vuole rassegnare.
Poi c’era Vergogna, di J. M. Coetzee. Con il suo incipit triste, mesto, depresso. Immerso nell’estenuazione, nella stanchezza di sé: «Per un uomo della sua età, cinquantadue anni, divorziato, gli sembra di aver risolto il problema del sesso piuttosto bene. Il giovedì pomeriggio va in macchina a Green Point. Alle due in punto preme il campanello all’ingresso di Windsor Mansions, dice il suo nome ed entra». Lo attende una prostituta gentile e senza pretese: «tecnicamente David ha l’età per essere suo padre», ma «è suo cliente da più di un anno: la trova di sua completa soddisfazione. Nel deserto della settimana, il giovedì è diventato un’oasi di luxe et volupté». Quell’oasi viene però funestata dal confronto con il passato: prima lui aveva «sempre potuto contare su una buona dose di magnetismo. Se fissava una donna con intenzione, lei ricambiava lo sguardo, immancabilmente. È stato il filo conduttore della sua esistenza». Ma quel filo, compiuti i cinquant’anni, si è spezzato: «Tutto è finito. Senza preavviso, i suoi poteri sono svaniti». Questo è il trauma del professore (quanti professori, però), la catastrofe esistenziale cui cerca di porre riparo con un «angoscioso parossismo di promiscuità» che restituisca il sapore delle passate glorie seduttive: «ha cominciato ad avere relazioni con le mogli dei colleghi; a rimorchiare turiste nei bar sul lungomare o al Club Italia, ad andare a puttane». Ma è solo il prolungamento di un’agonia. Quei rimedi effimeri non gli bastano. Anche lui è intelligente, colto, autoriflessivo: «David comincia a pensare che dovrebbe rinunciare, ritirarsi dalla partita. A che età, si chiede, Origene si è castrato?». Provvidenzialmente arriva la studentessa Melanie Isaacs a scombinare i suoi piani autodistruttivi. Corteggia la ragazza «solo trent’anni più giovane» con tutte le tecniche collaudate del manuale della seduzione intellettuale esercitata da un uomo con una donna di un’età tanto più fresca della sua. Ma poi qualcosa va storto. La ragazza parla della sua relazione ai genitori, che non la prendono bene e intentano contro il professore una causa per molestie sessuali. All’università si forma una commissione che, soprattutto su impulso di una collega molto femminista e molto vendicativa, chiede al professore una pubblica autocritica. Ma lui, per tigna e con ostinazione, rifiuta di sottoporsi alle intolleranti liturgie della «rieducazione» e della «correzione del carattere»: «Volevano uno spettacolo: mea culpa, rimorsi, se possibile lacrime». Non cede: «mi ricorda troppo la Cina di Mao. Ritrattazione, autocritica, pubbliche scuse. Sono una persona all’antica, preferisco essere messo al muro e fucilato. Farla finita».
Questo soprassalto di fierezza aveva molto colpito P. Qui era difficile ritrovare il «vecchio porco» disgustoso e lascivo della tradizione, tramandato da secoli di dileggi letterari e teatrali, nelle arti figurative, nei trattati di morale e di filosofia. Il personaggio di Coetzee rivendicava il suo stato. Questa era la novità. La novità di una debolezza raffigurata come una forza, il sentirsi in diritto di voler ancora giocare uno scampolo di partita. Tra tanti patetici vecchietti arzilli senza ritegno e fatalmente ridicoli, il professore che recide i legami della convenzione per non recitare il mea culpa sembrava a P. non privo di una certa grandezza. Una volta tanto, il vecchio che si invaghisce di una ragazza giovane appariva un po’ meno patetico (ma perderà anche lui, pateticamente, come al solito). Forse era questa la ragione per cui voleva affrontare quel tema scabroso dopo aver strappato il permesso a Silvia. Solo che adesso non avrebbe più potuto. La sua bibliografia era stata stravolta, come la sua vita, e soprattutto la vita di Silvia. Quel tema che gli sembrava così interessante aveva perso ogni appeal, appariva fatuo, frivolo. Quasi ingiurioso, arrivati a quel punto. C’era altro da fare. Altri impegni, primari e ineludibili, da onorare. Tragedie a cui pensare. E ogni pensiero sul vecchio progetto appariva fuori luogo nella nuova condizione che gli toccava di vivere accanto a una persona dolcissima scaraventata suo malgrado in una battaglia crudele. Ma che poteva più importare, davvero, dei vecchi ansimanti che corrono dietro alle ragazze. Ora la promessa era di far diventare vecchia Silvia, piuttosto. Con tutte le sue forze.
Però con Silvia sarebbe andato volentieri alle Scuderie del Quirinale per visitare una mostra del Tintoretto assieme a Ritanna, Sergio e Cinzia. Dotata di una sensibilità visiva incomparabilmente più acuta di quella di P., gli aveva insegnato a leggere molto meglio le opere d’arte. E andare alle mostre con lei era sempre una festa dello spirito. Ma Silvia non c’era più e stavolta P. non poteva mettersi al suo fianco per fissare insieme il quadro Susanna e i vecchioni. E neanche avrebbe potuto raccontarle perché trovava quel dipinto un capolavoro assoluto. Aveva infatti scoperto che quel tema iconografico era stato adottato, oltre che da Tintoretto, da molti interpreti della storia dell’arte, Guido Reni e Lorenzo Lotto, Rubens e Rembrandt, e poi Artemisia Gentileschi, fino a Hayez (che però, chissà perché, in una versione ha cancellato i «vecchioni» dalla scena e si è esclusivamente concentrato sulla figura sensuale di Susanna) e, nel Novecento, a Botero. Ma l’opera di Tintoretto conteneva una particolarità molto interessante, che forse conferiva alla rievocazione artistica del racconto biblico un significato morale leggermente diverso.
Nel Libro di Daniele si narra infatti la storia di un infame sopruso tentato da due «vecchioni» molto influenti ai danni della «casta Susanna», sposa fedele e donna di florida bellezza. I due orribili vecchiacci irrompono nel giardino di Susanna e le intimano di sottostare alle loro turpi voglie perché, in caso contrario, la denunceranno come adultera, con relativa condanna a morte assicurata. Ma lei non cede, e viene salvata in extremis dal provvidenziale intervento garantista di Daniele, che difende una figlia di Israele condannata dagli «stolti» incapaci di «indagare la verità». Un intreccio semplice, ma che indica gli estremi di nefandezza cui può giungere l’astio di due vecchi libidinosi aizzati da un potere illimitato su una donna debole. Un intreccio semplice, che ha però comprensibilmente acceso la fantasia di tanti artisti nel corso dei secoli, magari istigati da facoltosi committenti stanchi dell’ascetica iconografia religiosa e che scorgevano nel racconto dei vecchioni e di Susanna un buon viatico per la rappresentazione di situazioni morbose altrimenti interdetta. Vediamo Susanna in tutte le sue varianti, in posa civettuola, particolarmente prosperosa con Rubens, quasi una bambina con Rembrandt, timida e introversa con Lorenzo Lotto, ritrosa con Guido Reni, perversa con Hayez, ovviamente pingue con Botero, l’espressione da vittima predestinata con Artemisia Gentileschi che, si narra, volle vendicarsi raffigurando in uno dei due vecchi il suo stupratore (un trentacinquenne che la stessa Gentileschi aveva bollato come «anziano»). Non c’è artista che non abbia sottolineato il contrasto tra l’arroganza proterva dei due vecchi mascalzoni dediti all’estorsione sessuale e l’innocenza inerme di Susanna, di volta in volta più sorpresa, o spaventata, o indignata, ma sempre colta nel momento in cui si consuma il ricatto.
Con Tintoretto succede però qualcosa di molto singolare, perché la scena viene temporalmente spostata un attimo prima di quel ricatto, dando modo all’artista di offrire il lato più raccapricciante e spregevole della concupiscenza senile. Al centro della scena c’è Susanna persa nella sua vezzosa vanità, inebriata dalla sua immagine riflessa nello specchio, le nudità impreziosite dai gioielli, lo sguardo languido, le vesti raccolte ai suoi piedi. Nascoste da una siepe, invece, due decrepite figure di guardoni che spiano la ragazza come dal buco della serratura, disgustosi, ripugnanti, viscidi, esitanti a entrare in scena con il ricatto per non interrompere lo spettacolo voyeuristico di cui abusano approfittando dell’assenza del marito. Sono la fotografia del vecchio lascivo preso nel suo aspetto più orribile e che consegna la figura del maschio vecchio attratto dalla bellezza di una giovane al repertorio infetto dei personaggi più meschini della nostra storia morale e culturale. Non fanno pena, fanno solo ribrezzo. I due loschi anziani del Tintoretto non sono più i «ridicoli vecchi grinzosi» che, secondo James Hillman, dilettavano gli spettatori «negli interludi comici che in Grecia accompagnavano la rappresentazione delle tragedie», ma un’immagine detestabile del vecchio, sintesi di tutto ciò che, secondo i dettami del De senectute ciceroniano, ma anche della decenza nella sua accezione più blanda, le persone di una certa età non dovrebbero mai essere.
E invece no, malgrado l’impressione negativa che suscitano, i «vecchiacci malvissuti» non demordono mai. P. avrebbe voluto mettere a parte Silvia della sua scoperta, manifestarle ancora una volta tutto il suo stupore per la testarda disponibilità dei «colleghi» maschi a cadere sempre nella trappola del ridicolo e mostrare così impudicamente la parte peggiore di sé. Prima che lei si ammalasse era riuscito a convincerla (lei era molto recalcitrante, per la verità) a sorbirsi il dvd dell’Angelo azzurro del 1930 tratto da un romanzo di Heinrich Mann del 1905 per ripassare la scena del vecchio professor Unrat umiliato nell’abiezione di un grottesco chicchirichì intonato come tributo alla Lola Lola interpretata da Marlene Dietrich. Dopo tanti secoli, con il professor Unrat («si chiamava Raat, ma la città intera lo chiamava Unrat, “spazzatura”») si imponeva l’archetipo del vecchio che crolla nella rovina irrimediabile e perde ogni barlume di dignità per sottomettersi a una giovane peccaminosa e perversa, promessa di una felicità impossibile. P. voleva capire perché quello spettro mostruoso si ripresentasse con tanta pervicacia nell’immaginazione dei maschi attempati. Perché Unrat non era più il «vecchio porco» da deplorare per la sua sconveniente lascivia, ma solo una marionetta senza spina dorsale, un clown da dileggiare, il gradino più basso di ciò che resta di un essere umano e della sua oramai polverizzata reputazione pubblica. «La sua tardiva sensualità» spiega Heinrich Mann, «quella sensualità che una lenta, insinuante opera di seduzione aveva distillato da un corpo appassito, e che era divampata con violenza innaturale sconvolgendo la sua vita e spingendo il suo spirito a estremi mai sospettati, ora gli procurava tormentose allucinazioni.» Quando le autorità scolastiche cercano di salvarlo in extremis dal mare di ridicolo da cui sta sempre più lasciandosi sommergere, lui si aggrappa disperatamente a ciò che era prima, sfoggiando citazioni classiche per giustificare il suo grottesco comportamento: «in fede mia, signor preside, l’ateniese Pericle aveva per amante Aspasia». Ma la disfatta è inevitabile. Lo spettro semovente si aggrapperà alla cattedra prima di schiantarsi. Un monito. Un esempio increscioso. Il mistero è che in tanti continuano a seguire le sue orme. Per evitare la catastrofe, forse dovrebbe essere obbligata la visione dell’Angelo azzurro ai maggiori di cinquant’anni?
Unrat non resta da solo a sprofondare nell’umiliazione. Annalena aveva suggerito a P. di dare un’occhiata a Un amore di Dino Buzzati per sincerarsene. E infatti il nuovo Unrat buzzatiano di Milano, il professionista che ha scavalcato la mezza età (cinquant’anni, per l’esattezza), dalla vita placida e senza trambusti, si infatua di una giovanissima prostituta: siamo nella norma del rincitrullito che perde la testa per un’adolescente. E se l’incontro con quella ragazza appare come una deflagrazione di inaspettata energia vitale in una vita grigia e insipida, lui si sente gioiosamente ritemprato da quel turbine di giovinezza e coltiva qualcosa di «scelleratamente intrepido e sicuro di sé che fermentava di insaziabile vita». Una ventata di libertà contro la tetra «rispettabilità» borghese e contro la noia: ci può essere svolta esistenziale più fortunata nella vita di un cinquantenne? E invece no, la libertà appena conquistata si rovescia nel suo opposto. L’Unrat milanese viene «uncinato dall’infelicità», perché per il vecchio che ama la giovane, amore e gelosia straziante sono una cosa sola. Perché la ragazza amata, piena di «insaziabile vita», è per l’uomo anziano una conquista sempre precaria, un regalo immeritato che può fuggire da un momento all’altro. L’uomo di Buzzati delira. Immagina la ragazza «che non si accorge di lui e ridacchia a braccetto di un giovanotto, che balla inverecondi balli, manipolata in ogni parte del corpo dal partner sudicione e maligno». La vede mentre «tresca con gli altri». E gli «altri», ovviamente, sono sempre giovani. Il cinquantenne che precipita vive nell’ossessione del contrasto, nella paura, assolutamente giustificata del resto, che i giovani lo caccino via con ignominia. Eppure insiste.
Insiste come il personaggio di un breve racconto di Italo Svevo scoperto casualmente da P. e che si intitola La novella del buon vecchio e della fanciulla. Pubblicato postumo nel 1929 per merito del primo curatore Eugenio Montale, era stato scritto negli anni della Prima guerra mondiale, a Trieste, perciò non molto lontano dal cuore dello scontro bellico. Mentre il protagonista sveviano di Senilità aveva solo trentacinque anni (ma la «senilità» in questo caso era una malattia dello spirito, non una maledizione anagrafica), il «buon vecchio» di anni ne ha invece «sessanta o giù di lì». Un signore austero e sobrio, molto preso dal lavoro e dagli affari. Il fortuito incontro su una tramvia con una bella fanciulla povera e vestita con «cenci colorati» gli rimescola il sangue e lui offre subito alla ragazza soldi e impiego. Ma per il signore tutto casa e lavoro quel pagamento (anticipato) non configura un atteggiamento «odioso da seduttore» ma nientemeno che da «filantropo protettore». Un autoinganno patetico. Che gli fa immaginare addirittura «di essere stato il primo amante» della fanciulla. Ovviamente non tarderà a presentarsi il tarlo che devasta tutti i vecchi, buoni o cattivi, che nella letteratura sono incantati dalle ragazze giovani e che con loro intrecciano pericolosissime relazioni erotiche. La gelosia, la gelosia divorante: «gli si figgeva in mente il pensiero che la giovinetta senza dubbi avesse degli altri amanti e tutti giovani quanto lui era vecchio». E proprio nei giorni della disfatta di Caporetto, lui vede dalla sua finestra passeggiare un «giovane vestito esageratamente alla moda» assieme alla sua «giovinetta» che «rideva e ciacolava». Gli balena (ce ne ha messo di tempo, però) un dubbio tormentoso. Non sarà che la ragazza, così diversa dalla «fanciulla del popolo» a suo tempo abbordata sulla tramvia, stia finanziando la sua nuova eleganza (e magari quella del giovane esagerato), comprese le sue «calze trasparenti», con i proventi della generosa «protezione» elargiti da un vecchio buono ma rimbambito? Piomba nella pazzia. Riempie ancora di soldi la ragazza per «avviarla ad anni di vita migliore». Cambia persino il testamento per lasciarle una fortuna. Lei, avidamente, ha pure il coraggio di lamentarsi: «si lagnava che il denaro non bastava più e lo pregava di aumentare lo stipendio». Alla fine il «buon vecchio», stipendio dopo stipendio, muore nelle nebbie della demenza. E solo quando è stato sepolto, si viene a sapere che il bellimbusto, quello vestito «esageratamente alla moda», aveva promesso di sposare l’ex «fanciulla del popolo» solo a condizione che incassasse l’intera eredità del «protettore» così a lungo raggirato.
Poveri vecchi, è stato davvero crudele il trattamento che la letteratura ha riservato loro. Per fortuna che c’è chi di loro parla bene, e incondizionatamente. Come il monumento alla bella vecchiaia ricca e vigorosa costruito da James Hillman nella Forza del carattere. La vecchiaia come splendida «forma d’arte». Che non è più afflizione, perdita, decadimento, collasso, tormentosa attesa della fine ma carattere, forza, esperienza. Nella prosa immaginifica di Hillman, l’esperienza del vecchio assume un connotato di fascino irresistibile e di ricchezza interiore. Sono trasfigurate persino le bizzarrie e l’eccentricità tipiche della senilità. L’ossessiva ripetizione, il tornare sempre sullo stesso argomento, da sintomi di svanimento mentale si trasformano in potente forza narrativa, arte inesauribile del raccontare. Al contrario della banale manualistica sulla nuova lunga vecchiaia tutta incentrata sugli imperativi del salutismo, della forza fisica e dello scimmiottamento dei cliché giovanilistici, il vecchio descritto da Hillman, con tutte le sue rughe, è il magnifico rappresentante di un’età baciata dagli dèi. È il simbolo di una condizione esistenziale che sa rompere con le convenzioni, emanciparsi dalle paure e dai vincoli che rendono frenetica e tremendamente competitiva la vita attiva. Una condizione invidiabile, che detronizza la mitologia del «nuovo» di cui siamo succubi. È la nostra stolta e nuovista idea di giovinezza che ci fa rendere «morbosa la vecchiaia». Sì, ma la fisicità, il sesso, l’energia erotica?
È proprio qui che Hillman si fa prendere la mano dall’entusiasmo pro-senile. Nel capitolo intitolato «Ars amatoria» concede al vecchio ogni genere di gratificazioni. Liberandosi dell’ansia di prestazione imposta dai giovani, sostiene Hillman, nei territori bollenti dell’erotismo il vecchio può infatti finalmente liberare la sua potente «vis immaginativa». Tutto è (sarebbe, almeno) in lui esplosione vitale e felice trasgressione: il «richiamo di Dioniso tende a scompaginare il corso normale della civiltà» e paradossalmente, ammesso che le «prestazioni declinino», «la portata della fantasia erotica si amplia e si vivacizza». E la «pulsione del desiderio» intensifica la «gioia di vivere». Sarà davvero così? A sostegno della sua tesi Hillman convoca come testimoni grandi poeti, artisti, scrittori. Cita William Butler Yeats: «A te sembra orribile che lussuria e ira / ancora corteggino la mia vecchiaia; / da giovane non erano un tale assillo; / ma adesso, che altro potrebbe spronarmi al canto?». Per Walt Whitman, scrive ancora Hillman, «l’erotismo era la chiave di accesso alla libertà immaginativa», tanto che, alla vigilia della sua morte, nel 1891, il poeta si fece trovare «impegnato nella pubblicazione della decima revisione di Leaves of Grass, il “libro osceno” a causa del quale venticinque anni prima era stato licenziato in tronco dal ministero degli Interni». Hillman aggiunge un particolare un po’ macabro (e un po’ ridicolo, almeno così sembrava a P., certamente prigioniero di un pregiudizio). Mentre infatti Whitman era impegnato a predicare con scatenata ispirazione «i liberi voli in tutte le direzioni» dell’erotismo, il suo corpo si stava disfacendo come in un processo di putrefazione anticipata, tanto che l’autopsia «evidenziò ascessi tubercolari sotto lo sterno e il piede sinistro; polmoni, intestini e fegato devastati dalla tubercolosi; reni malandati e una crisi sovrarenale; prostata ingrossata e un enorme calcolo alla vescica; atrofia cerebrale e arteriosclerosi». Uno stato pietoso del corpo e il ruggito letterario dell’ultimo «richiamo di Dioniso»: il contrasto non avrebbe potuto essere più netto (e più patetico, insisteva P.).
Come rottura della «gabbia delle convenzioni» operata dai vecchi mobilitati dal «richiamo di Dioniso», Hillman cita anche i casi di numerose donne capaci di violare il tabù dell’età e di schivare i pericoli dell’erotismo maturo: «Colette e Marguerite Duras trovavano indispensabili per la loro arte la bellezza incarnata nei loro giovani amanti. A cinquant’anni, Colette si prese per amante il figlio dell’ex marito, un ragazzo di vent’anni. Yann, l’amante della Duras, ne aveva venticinque». E ancora: «a ispirare Martha Graham novantenne nell’invenzione di sempre nuove coreografie, sarà stata la sempre rinnovata presenza di freschi corpi danzanti? La superba bellezza delle popolazioni della Nubia, nel Sudan, avrà avuto un effetto analogo su Leni Riefenstahl, quando, più che settantenne, andò a filmarle?». P. leggeva questi esempi con un certo imbarazzo perché, insomma, in effetti il tema del sesso delle donne di una certa età era davvero imperdonabilmente estraneo al centro della sua ricerca (e Silvia glielo aveva fatto notare, con accenti di rimprovero). Male, d’accordo. Ma per fortuna non era una materia sguarnita di attenzione nel mondo culturale. Nel suo libro Non è un paese per vecchie, per esempio, Loredana Lipperini già aveva ricordato il «finale tragico» di Viale del tramonto di Billy Wilder, quando, in una delle scene più famose della storia del cinema, la vecchia gloria interpretata da Gloria Swanson scende allucinata la grande scalinata. Interessante sapere che la protagonista «che si innamora del giovane ambizioso» William Holden era poco più che «cinquantenne» (e la stessa Swanson aveva solo cinquantun anni quando girò il film: gliene avresti dati una settantina). Nei film più recenti, a parte l’orribile Harold e Maude dove era l’ottantenne Maude il personaggio solare, ribelle, gioioso in salsa hippy (e P. si domandava come avesse fatto a entusiasmarsi nella sua gioventù estremista per un film così brutto), c’era poi da ricordare Tutto può succedere, con una splendida Diane Keaton matura che sceglie il pingue Jack Nicholson anziché il giovane belloccio Keanu Reeves. Oltre all’indimenticabile Mrs Robinson del Laureato, naturalmente. «God bless you please», come cantavano Simon & Garfunkel. C’era altro da aggiungere?
Ultimo, ma decisivo dettaglio. Nella sua apologia della vecchiaia trasgressiva, Hillman tesse il panegirico di una delle opere universalmente considerate tra le meno smaglianti di Picasso: la Suite 347. «A ottantasette anni, tra il 16 marzo e l’8 ottobre del 1968, Pablo Picasso eseguì 347 incisioni a soggetto erotico. Si tratta di disegni realistici di organi genitali, di voyeur che guardano coppie licenziose, di rappresentazioni dell’atto sessuale, il tutto però come distanziato con l’uso di distorsioni e l’aggiunta di una galleria di figure mediatrici – artisti del passato nei costumi dell’epoca, papponi, prostitute nei bordelli – e di specchi, maschere, modelle.» Hillman sembra davvero entusiasta: «la sfacciata esibizione pelvica della pornografia è trasformata dal contesto immaginativo», e «i genitali realistici diventano decorativi, fantastici, ridicoli». Quanta grazia. Ma davvero? Chissà perché, allora, nella sterminata letteratura su Picasso di questa sua tarda monografia si parla sempre pochissimo e distrattamente, o comunque in misura imparagonabilmente minore rispetto alle sue opere più famose. Tutto questo entusiasmo è stato nascosto, nascosto molto bene dalla critica ufficiale e paludata. Perché? Non sarà perché suona quasi imbarazzante, composta da un ottantasettenne, questa «sfacciata esibizione pelvica» che sublimerebbe un’opera pornografica? A guardarle con attenzione, si tratta davvero di incisioni di un manierismo questo sì sfacciato, alimentato da un’insistenza voyeuristica che sembra la cifra psicologica prima ancora che estetica del suo autore. Incisioni che non appaiono affatto come il culmine della straordinaria arte di Picasso, ma come sue proiezioni intrise di una tristezza senza confini. Dove non c’è libertà, ma cupezza. Non gioia, ma malanimo. Forse l’erotismo dei vecchi, anche dei più grandi e sensibili, continua a manifestarsi come qualcosa di indigeribile, di lascivo, di sgradevole persino per chi, carico di anni, ne vorrebbe beneficiare illimitatamente. Una maledizione che si porta dietro malgrado la liberazione dai tabù. E anche quando la longevità sessualmente attiva è (felicemente?) diventata condizione di massa.
Poi, per inciso, ci sono quei casi in cui, non si sa bene perché, viene perdonato ciò che comunemente è invece bollato come una nefandezza. E il «vecchio porco» diventa addirittura una figura simpatica dall’appetito gagliardo, un grande personaggio della letteratura. Lo dimostra il famoso incipit delle Memorie delle mie puttane tristi di Gabriel García Márquez: «L’anno dei miei novant’anni decisi di regalarmi una notte di amore folle con un’adolescente vergine». Possiamo almeno tentare di immaginarci, obiettava P., le spregevoli procedure standard con cui verosimilmente era stata arruolata l’adolescente vergine prescelta come regina dei festeggiamenti di un vecchio decrepito? No, nessun critico, sia pur solitamente occhiuto, si sarebbe messo volgarmente a eccepire in questo modo su una grande opera letteraria composta da uno scrittore da sempre celebrato. Ma perché tanta indulgenza esagerata per uno scrittore «progressista»? Le eccezioni così squilibrate sono sempre la faccia oscura del moralismo intransigente. Che invece, per esempio, non ha fatto eccezioni con l’anziano Berlusconi reclutatore ossessivo di Olgettine giovani, giovanissime. Senza capire però, accecati da banale scandalismo e incapaci di vedere lo scandalo esistenziale vero, che la condanna inappellabile, l’oltraggio più crudele al narcisismo stagionato di un uomo potente attratto dal vortice del bunga bunga, non ha avuto a che fare con il codice penale e le vicende giudiziarie. Ma si è piuttosto espressa con quell’ingiurioso, insolente, sgarbato «culo flaccido», alludendo al quale, nelle telefonate intercettate, l’Olgettina Capo svillaneggiava il munifico anziano che si credeva ancora molto seducente, come il «buon vecchio» di Italo Svevo. «Culo flaccido»: la punizione più atroce, la sentenza più crudele per chi si crede di essere, dall’alto dei suoi anni, un irresistibile seduttore. Ecco, in pieno Duemila, qual è la sorte triste del vecchio che aspira all’immortalità, se non dell’anima, almeno del sesso. Sbertucciato e deriso come un «culo flaccido».
La definizione più giusta sembra proprio questa: tristezza infinita. «Uncinati dall’infelicità», come il povero vecchio pollo di Buzzati che si fa abbindolare da una giovanissima e furbissima prostituta. Come la desolazione che trasuda dalle incisioni dell’ultimo Picasso. Come Komarovskij che si rintana in casa da «belva prigioniera». Come il novantenne di García Márquez che vuole festeggiarsi con una vergine minorenne. Come quel campionario di abiezioni piccole piccole, di meschinità, di patetici autoinganni, di ragazze che al telefono si prendono spietatamente gioco di un vecchio carico di soldi e di potere, di professori universitari che precipitano dalla cattedra illudendosi di condurre il gioco per esserne invece prima o poi schiacciati. Non esiste divertimento, neanche un barlume di leggiadria in questo prolungamento dell’erotismo senile. Niente di vitale, anche se viene presentato come la nuova frontiera della liberazione di una parte sempre più consistente dell’umanità maschile. La vacanza dello spirito invocata da P. per non restare invischiato nella routine della saggistica politica, ora sembrava esercitarsi su qualcosa di avvilente, privo di ogni grazia. Poteva essere, questo cambiamento, la proiezione di uno stato d’animo prostrato per la malattia di Silvia. Ma se tutti raccontano la stessa storia mesta, la stessa illusione che si spezza, la stessa sovreccitazione che finisce sempre nell’imbuto della malinconia e della disperazione, pensava P., una ragione dovrà pur esserci.
Tanto è vero che neanche i sofisticatissimi uomini maturi di Roth e di Coetzee sfuggono al destino dei vecchi che impazziscono di gelosia. Non sono sprovveduti come il professor Unrat. Hanno gli strumenti per capire, teorizzare, contestualizzare. Ma la forsennata sofferenza degli anziani gelosi delle ragazze giovani non dà scampo neanche a questi campioni della modernità disinibita. Il protagonista di Roth: «La gelosia. Quel veleno. Geloso anche quando mi dice che va a pattinare sul ghiaccio insieme al fratello diciottenne». Ecco come si dispera: «Non sei più sicuro di te, non quando la ragazza ha quasi un terzo della tua età. […] non era mai successo prima? No, prima non avevo mai avuto sessantadue anni». C’è davvero una grande differenza con il professor Unrat? No, la solita febbre parossistica. La certezza atroce che la giovane ti tradisca con un suo coetaneo. Il sospetto che i giovani ti prendano per il naso, che siano arroganti, ti trattino come un reperto archeologico. E ti considerino un poveretto da manipolare. Anche per il protagonista del romanzo di Coetzee è così: «Gli passa accanto una motocicletta rombante, una Ducati argentea con due figure in nero. Indossano il casco, ma lui li riconosce lo stesso. Melanie siede sul sellino posteriore con le ginocchia divaricate, inarca il bacino. David si sente lacerare da un brivido di desiderio. “Io sono stato lì”, pensa. Poi la motocicletta parte di scatto, portandola via». È il terrore di venire scalzato da qualcuno anagraficamente simile a lei. È quella che Roth alla fine definisce «pornografia della gelosia» infettata dalla «ferita della vecchiaia». Che fa dire persino a un professore che sfoggia una casa piena di libri, così ricco di «glamour intellettuale»: «Un giovanotto la troverà e la porterà via». Somiglia all’eterna tragedia dell’uomo ridicolo, camuffata da sottili divagazioni sociologiche. Se sapessero cosa davvero le più giovani pensano di loro, forse si renderebbero conto finalmente di essere considerati, dietro le spalle, soltanto dei poveri «culi flaccidi». Ma per loro fortuna non dispongono di intercettazioni telefoniche come prova eloquente della più tremenda delle umiliazioni.
E poi quei vecchi sessualmente impenitenti con il terrore della malattia, il corpo che non risponde più, la paura di conseguenze letali sulla propria «autostima». Per esempio il delirio sex addicted del nonno Bepy Sonnino nell’incipit di Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno: «dopo aver incassato la diagnosi di tumore alla vescica», l’idea «che le cure potessero essere peggiori della morte» rese «più spaventoso lo spettro della compromessa mascolinità che l’orrore del nulla» e perciò nonno Bepy chiese al medico se il rischio dell’impotenza aleggiasse come conseguenza dell’operazione chirurgica. E alla risposta affermativa del dottor Limentani, lui replicò ostinato con un «No», come lo scrivano Bartleby del racconto di Hermann Melville. Un «No» molto simile a quello di un altro romanzo di Philip Roth, Controvita, il cui protagonista Henry, sebbene meno anziano di nonno Bepy, oppose un altro demenziale gran rifiuto. Soffriva di un’ostruzione arteriosa curabilissima con le normali medicine che tengono a bada la malattia, che però hanno un solo «terribile effetto collaterale»: esattamente quello. Henry voleva farsi operare, a costo di lasciarci le penne. Il medico sconsigliò l’operazione, ma l’ossessione non dava tregua: «Il peggio dell’adattamento al farmaco risultò essere l’adattamento stesso. Poter vivere senza sesso fu per lui uno choc». Il suo cuore era sotto controllo, poteva continuare a battere per chissà quanti anni. Ma gli riusciva «impossibile continuare a vivere con una perdita che lo aveva inebetito». Dunque Henry si operò. E morì.
Che rabbia, però. E che idiozia, morire pur di non mancare un’erezione. Assistendo alle imprese dei vecchi resi matti dall’allungamento della loro vita sessuale, P. scoprì che la tragedia di Silvia aveva segnato nettamente un «prima» e un «dopo». Prima, quella follia di erotomani indomiti lo faceva sorridere. Ora gli faceva pietà, e anche rabbia. Per un’ossessione, la «perdita» di una virilità instancabile, Henry aveva lasciato una vedova e dei figli non ancora adulti. Ma come era possibile? Cosa lo aveva fatto obnubilare così? La malattia di Silvia aveva trasformato in irritazione, anzi in una vera e sincera insopportazione, tutta la benevolenza precedente di P. nei confronti di questi portabandiera dell’indocilità senile abbacinati da un mondo in cui la sessualità si esibisce, moltiplica le tentazioni, offre lo spettacolo colorato di una società in cui si può tutto, e per un numero elevatissimo di anni. Per la prima volta nella storia dell’umanità, l’imperativo della giovinezza eterna si era imposto come diritto assoluto e incondizionato a favore di una vecchiaia iper-attiva, concorrenziale con le generazioni nuove, vitalistica. Ma il risultato finale è offerto da questi anziani inebetiti che sentono come un oltraggio imperdonabile l’avanzare inesorabile del tempo. Una pena infinita, davvero.
Troppa stupidità, troppi cervelli offuscati. Se placassero i loro fuochi, capirebbero quanto sono diventati ridicoli, oramai. Era moralismo, il suo? Oppure P. era offeso per lo squilibrio troppo doloroso di una cattiva sorte che aveva troncato anzitempo la vita di Silvia? Forse era la sindrome dell’escluso dalla festa a fargli vedere tutto sotto una luce sgradevole. Come se fosse un peccato l’uso smodato di una innocua pillola capace di regalare qualche momento in più di felicità. Non era un peccato. Però, pensava ora P., la saggezza deve essere anche accettazione di un destino. Un dovere, certo. Il saper stare al proprio posto. La gratitudine per gli anni di vita in più, più di quelli che erano stati concessi a Silvia, che possono essere consumati, possibilmente non oberati da troppi malanni, non funestati oltremodo dagli acciacchi dell’età. E invece, all’improvviso, tutto sembrava a P. vagamente osceno, una festicciola nemmeno troppo divertente che non trovava più il modo di concludersi con dignità. Era un rigurgito moralistico? O che cosa?
Pochi giorni prima che Silvia finisse i suoi giorni su questa terra, Lucio Magri si era tolto la vita in una clinica svizzera con una procedura abitualmente e burocraticamente definita «suicidio assistito». Magri era una persona oramai molto anziana, un intellettuale piegato dalla delusione politica, e soprattutto schiantato dalla morte della sua amata uccisa dal cancro. La sua fine colpì molto sia P. che Silvia, ma per ragioni diverse. P. intravvedeva l’incubo della nera depressione che può inghiottire chi resta solo dopo un lungo combattimento (lo stesso: quello contro il cancro) e non riesce più a ricucire lo strappo di una violenta e irrevocabile separazione. Silvia scorgeva invece le buone ragioni per ribadire il diritto ad andarsene di sua volontà dal mondo se il progredire del male l’avesse inchiodata a una condizione di penosa immobilità e di assoluta mancanza di indipendenza. Ne parlarono a casa con un gruppo di amici molto assidui nelle ultime tappe della vita di Silvia, ovviamente imbarazzati di affrontare l’argomento con una persona cara e palesemente sempre più priva della speranza di vivere a lungo. «Datemi l’indirizzo di questa clinica svizzera», troncò lei la discussione con un tono di spudorata ilarità, trovando ancora la forza di ridere. La forza di ridere, in questo caso, era tutto. L’avesse detta in un altro modo, il silenzio sarebbe piombato nella stanza. Detta con la forza di ridere, appariva ancora una sfida su cui era possibile addirittura scherzare. Era possibile alleggerire la tensione, dopo aver condiviso, assieme agli altri, la pena per la scelta estrema di una persona piena di dignità, incapace di sopportare l’insensatezza di una vita svuotata di significato. Che contrasto tra l’irrevocabilità del gesto compiuto in Svizzera da un uomo mangiato dalla depressione e l’inebetimento di tutti quei vecchi incapaci di invecchiare. Non avevano niente in comune, se non l’età avanzata, ma sembravano appartenere a due mondi incomunicabili. Non era possibile sbagliare la scelta tra i due.
Di nuovo: era moralismo? P. era forse diventato davvero vecchio, se deplorava i vecchi che hanno smarrito ciò che può rendere autorevole la vecchiaia? Norberto Bobbio, commentando il De senectute di Cicerone, amava citare il detto: «La vecchiaia è bella. Il guaio è che dura così poco». Adesso la vecchiaia dura molto di più. E, dopotutto, quel che sosteneva Cicerone non era privo di senso, anche se talvolta sovraccarico di uno stile austero decisamente antiquato e retrò. Diceva Cicerone che nel mondo dei vecchi, «quando domina la libidine, non vi è posto per la moderazione», perché nel «regno del piacere» si «offuscano gli occhi della mente». Raccomandava anche di capire che «il decadere delle forze del corpo» poteva opportunamente intensificare «le gioie dello spirito». Be’, in questo era veramente esagerato. Però, che limpidezza di ragionamento e di linguaggio, al contrario degli «occhi della mente» offuscati dall’illusione che «il regno del piacere» possa non finire mai. Razionalmente, è proprio come dice Cicerone. Anche a costo di una smisurata tristezza, se davvero il tutto diventa nulla. «Le cose belle finiscono sempre» gli diceva Silvia quando fingeva di fare la saggia. E P. faceva finta di non aver sentito. Come i bambini che si tappano le orecchie per non ascoltare i rumori della realtà.