Paul Auster
Uomo nel buio
Traduzione di Massimo Bocchiola
Einaudi
Titolo originale Man in the Dark
© 2008 Paul Auster. All rights reserved
© 2008 Giulio Einaudi editori s.p.a., Torino
ISBN 978-88-06-19474-1
A David Grossman
e a sua moglie Michal
suo figlio Jonathan
sua figlia Ruthi
e in ricordo di Uri
Sono solo nel buio a rigirarmi il mondo nella testa mentre attraverso con fatica un’altra crisi d’insonnia, un’altra notte in bianco nei grandi spazi selvaggi d’America. Di sopra, mia figlia e mia nipote dormono ognuna nella propria stanza, sole anche loro: la mia unica figlia Miriam, di quarantasette anni, che dorme sola da cinque, e la sua unica figlia Katya, di ventitre, che dormiva con un ragazzo di nome Titus Small, ma ora Titus è morto e Katya dorme sola col suo cuore spezzato.
Luce intensa, poi buio. Il sole che entra da ogni angolo di cielo seguito dal nero della notte, le stelle silenziose, il vento che fa stormire i rami. É la norma. Abito in questa casa da più di un anno - cioè da quando mi hanno dimesso dall’ospedale. Miriam aveva insistito che venissi qui, e all’inizio eravamo noi due soli più un’infermiera diurna che mi accudiva quando Miriam era al lavoro. Poi, tre mesi dopo, la disgrazia si abbatté su Katya e lei lasciò la scuola di cinema di New York per tornare a vivere con sua madre nel Vermont.
I genitori lo avevano chiamato come il figlio di Rembrandt, il bambino dei quadri, il piccolo con la chioma d’oro e il cappello rosso, lo scolaretto sognante che si arrovella sulla lezione: il bambino, insomma, che diventò un ragazzo dilaniato dalla malattia e morì nei suoi vent’anni, proprio come il Titus di Katya. É un nome maledetto, un nome che si dovrebbe mettere al bando per sempre. Ripenso spesso alla morte di Titus, all’orrore di quella morte, alle sue immagini, alle sue conseguenze disastrose per la mia disperata nipote, ma ora non voglio andare su quel terreno, non posso andarci, devo tenerlo il più lontano possibile. La notte è ancora giovane, e mentre sto supino con gli occhi che guardano nel buio, un buio casi nero che non si vede il soffitto, comincio a ricordarmi il racconto che ho iniziato la notte scorsa. Quando il sonno non vuole venire faccio casi. Rimango steso a letto e mi raccontò storie. Forse vorranno dire poco, ma fino a quando sono al loro interno mi impediscono di pensare alle cose che preferirei scordare. Restare concentrato, però, può essere dura, e il più delle volte la mia mente finisce per scivolare dalla storia che cerco di raccontare alle cose cui non vorrei pensare. Non posso farci nulla. Fallisco a ripetizione, sono più i fallimenti dei successi, ma questo non significa che non faccia il possibile.
Lo metto in una buca. Mi sembra buono come inizio, un modo promettente per avviare le cose. Metti un uomo che dorme in una buca e vedi che succede quando si sveglia e cerca di tirarsi fuori. Parlo di una buca nel terreno, profonda, due metri e mezzo o anche tre, scavata in modo da formare un cerchio perfetto, con pareti a novanta gradi di terra densa, compattissima, cosìdura che la sua superficie è liscia come ceramica o addirittura vetro. In altre parole, quando l’uomo nella buca aprirà gli occhi non sarà in grado di venirne fuori. A meno che non abbia un equipaggiamento da alpinista, per esempio un martello e dei chiodi di metallo, o una fune per prendere allaccio un albero vicino; ma quest’uomo non ha nessun attrezzo, e al risveglio capirà subito la natura della situazione problematica in cui si trova.
Bene, ora succede. L’uomo riprende i sensi e scopre di essere disteso supino, lo sguardo alzato a un cielo serale senza nuvole. Il suo nome è Owen Brick e non ha idea di come sia finito in questo posto, non ricorda di essere caduto in questa buca cilindrica del diametro - a occhio - di circa quattro metri. Si alza a sedere. Con sua sorpresa, veste una divisa militare di ruvida lana grigio-opaco. Ha un berretto in testa, ai piedi un paio di anfibi in pelle nera, decisamente usati, allacciati ben stretti sopra le caviglie con un doppio nodo. Sulle maniche della giacca ha due «baffi» di stoffa, quindi la divisa appartiene a qualcuno con il grado di caporale. Quel qualcuno potrebbe essere Owen Brick, ma l’uomo nella buca che si chiama Owen Brick non ricorda di aver fatto il soldato o combattuto una guerra in nessun momento della sua vita.
In mancanza di altre spiegazioni pensa di aver preso una botta in testa, con temporanea amnesia. Quando però si tocca il cranio con la punta delle dita e comincia a cercare bernoccoli o tagli, non trova alcun segno di gonfiore, né abrasioni, né lividi: nessun indizio che abbia avuto simili ferite. E allora, cos’è stato? Forse ha subito un trauma debilitante che gli ha annebbiato ampie porzioni di cervello? Può darsi. Ma a meno che d’un tratto non gli torni il ricordo di quel trauma, non lo potrà sapere. Poi comincia a esplorare l’eventualità di essere addormentato, a casa, nel suo letto, preso in un sogno di una lucidità soprannaturale, cosìintenso e realistico che il confine tra sogno e coscienza sembra quasi svanito. Se questo fosse vero, allora non dovrebbe fare altro che aprire gli occhi, saltare giù dal letto e andare in cucina a prepararsi il caffè mattutino. Ma come puoi aprire gli occhi quando sono già aperti? Sbatte le palpebre per un po’ di volte, pensando come un bambino che magari così spezzerà l’incantesimo - però non c’è un incantesimo da spezzare, e il letto magico non si materializza.
In alto passa una frotta di storni, che entrano per cinque o sei secondi nel suo campo visivo e poi vanno a scomparire nel crepuscolo. Brick si alza in piedi per ispezionare i dintorni, e nel gesto si accorge di un oggetto che gli gonfia la tasca anteriore sinistra dei calzoni. L’oggetto è un portafoglio, il suo portafoglio che, oltre a settantasei dollari americani, contiene una patente di guida rilasciata dallo Stato di New York a un certo Owen Brick, nato il 12 giugno 1977. Una conferma di quanto Brick sa già: cioè che sta per compiere trent’anni e vive a Jackson Heights, nel Queens. Sa anche di essere sposato con una donna di nome Flora e di aver svolto negli ultimi sette anni la professione di prestigiatore - soprattutto alle feste di compleanno dei bambini in giro per la città - col nome d’arte di Il Grande Zavello. Questi dati non fanno che infittire il mistero. Se è casi certo della propria identità, come mai è finito in fondo a questa buca, vestito nientemeno che con una divisa da caporale, senza documenti né piastrina, e senza una carta d’identità militare che ne certifichi la condizione di soldato?
Non gli ci vuole molto per capire che la fuga è impossibile. Il muro circolare è troppo alto, e quando gli dà un calcio con lo scarpone nella speranza di scalfire la superficie creando una specie di tacca per il piede che lo aiuti a salire, l’unico risultato è un alluce dolente. La notte sta calando veloce e nell’aria c’è freddo, un freddo umido primaverile che gli penetra nel corpo; e anche se Brick ha cominciato a preoccuparsi, per adesso è ancora più sconcertato che impaurito. Comunque non riesce a trattenersi dal chiamare aiuto. Finora attorno a lui tutto è stato silenzioso, da far pensare che si trovi in una campagna remota, spopolata, senza altri rumori che un grido d’uccello ogni tanto e il fruscio del vento. E invece quasi a comando, come per una qualche logica sghemba di causa-effetto, nel momento in cui grida la parola AIUTO, in lontananza esplode un fuoco di cannoni e il cielo dell’imbrunire è illuminato da sfreccianti comete di distruzione. Brick sente mitragliatrici, scoppi di bombe a mano e, in sottofondo, senza dubbio a chilometri di distanza, un coro soffocato di voci umane ululanti. Capisce che questa è una guerra e lui è un soldato di questa guerra, ma senza armi con sé, senza alcun modo di difendersi da un attacco, e per la prima volta dal risveglio nella buca ha veramente paura.
Gli spari continuano per più di un’ora, poi man mano si placano in silenzio. Poco dopo Brick sente un debole suono di sirene e immagina che siano le autopompe che accorrono verso gli edifici danneggiati nell’attacco. Quindi tacciono anche le sirene e la quiete ridiscende su di lui. Oltre che infreddolito e spaventato, Brick è esausto, e dopo essersi aggirato dentro i confini del suo carcere cilindrico finché nel cielo non appaiono le stelle, si sdraia a terra e finalmente riesce ad addormentarsi.
La mattina presto è svegliato da una voce che lo chiama da sopra la buca. Brick alza gli occhi e vede la faccia di un uomo che si sporge sull’orlo: non vedendo nient’altro che il viso suppone che l’uomo sia steso a pancia in giù.
Caporale, dice l’uomo. Caporale Brick, è ora di muoversi.
Brick si alza in piedi e, adesso che i suoi occhi sono soltanto a un metro dalla faccia dello sconosciuto, vede che è un uomo bruno, col mento squadrato, una barba di due giorni e un berretto militare identico al suo. Prima che Brick possa far presente che muoversi gli piacerebbe eccome, ma non è affatto in condizione di farlo, il viso dell’uomo sparisce.
Non temere, lo sente dire. Fra un attimo ti tiriamo fuori.
Passa qualche secondo e poi si sente il rumore di un martello, o un mazzuolo di ferro, che batte su un oggetto metallico, e poiché il rumore a ogni colpo diventa meno sonoro, Brick ipotizza che l’uomo stia piantando un picchetto. E se fosse un picchetto, forse tra poco ci attaccheranno una fune, e con quella fune Brick ce la farà ad arrampicarsi fuori dalla buca. Il baccano finisce, passano altri trenta o quaranta secondi e poi, come previsto, una fune cala fino ai suoi piedi.
Brick è un prestigiatore, non un culturista, e anche se salire circa un metro di fune non è un’impresa epica per un trentenne in buona salute ... be’, ha il suo daffare a issarsi fino in cima. La parete non gli è di alcun aiuto perché le suole degli anfibi continuano a scivolare sulla superficie liscia, e quando cerca di stringere la fune tra i piedi non trova una presa salda, quindi deve contare soltanto sulla forza delle braccia; ma dato che le sue braccia non sono né muscolose né potenti, e il materiale ruvido della fune gli sfrega i palmi, questa semplice operazione si trasforma in una specie di battaglia. Quando finalmente si avvicina all’orlo e l’altro uomo lo afferra per la mano destra issandolo all’altezza del suolo, Brick è senza fiato, e si vergogna di se stesso. Dopo una prestazione così misera, si aspetta di essere deriso per la sua inettitudine, ma miracolosamente l’uomo si astiene da commenti sprezzanti.
Mentre si alza faticosamente in piedi, Brick nota che la divisa del suo salvatore è identica alla sua, con l’unica eccezione che sulle maniche della giacca non ci sono due strisce, ma tre. C’è una fitta nebbia, e stenta a capire dove si trova. Qualche punto isolato nella campagna, come sospettava, ma la città o cittadina che è stata attaccata nella notte non si vede da nessuna parte. Le uniche cose che riesce a distinguere con una certa chiarezza sono il paletto di metallo cui è annodata la fune e una jeep infangata a tre metri dall’orlo della buca.
Caporale, dice l’uomo salutando Brick con una stretta di mano ferma e calorosa. Sono Serge Tobak, il tuo sergente. più noto come Serge Serge.
Brick abbassa lo sguardo su quell’uomo, che è almeno quindici centimetri più piccolo di lui, e ripete il nome sottovoce: Serge Serge.
Lo so, fa Tobak. É un nome troppo ridicolo, ma mi è rimasto appiccicato, e non posso farci niente. Se non puoi batterli unisciti a loro, giusto?
Cosa ci faccio qui?, chiede Brick, cercando di dominare l’ansia nella sua voce.
Vedi di calmarti, ragazzo. Stai combattendo una guerra. Cosa credevi che fosse? Un luna park?
Quale guerra ? Vuoi dire che siamo in Iraq? Iraq? E che c’importa dell’Iraq?
L’Americasta combattendo una guerra in Iraq. Lo sanno tutti.
Che si fotta, l’Iraq. Qui siamo in America, e l’America combatte contro l’America.
Che cosa dici ?
Guerra civile, Brick. Non sai niente? É il quarto anno, ormai. Ma ora che sei arrivato tu, finirà presto. Sei l’uomo della svolta.
Come sai il mio nome? Appartieni al mio plotone, scemo.
E la buca? Cosa ci facevo lì dentro?
È la procedura. Tutte le nostre nuove reclute arrivano così.
Ma io non ho firmato. Non mi sono arruolato.
Certo. Nessuno si arruola. Ma funziona in questo modo. Sei lì che stai vivendo la tua vita e poi... zac, ti ritrovi nella guerra.
Brick è così sconcertato dalle parole di Tobak che non sa cosa rispondere.
La situazione è questa, continua a blaterare il sergente.
Tu sei il cretino che hanno scelto per il lavoro grosso. Non chiedermi perché, ma lo stato maggiore ti crede l’uomo ideale per questo incarico. Forse perché nessuno ti conosce, o forse perché hai questa ... questa che cosa? quest’aria insulsa, e nessuno sospetterebbe che tu sia un sicario.
Sicario?
Esatto, sicario. Ma io preferisco usare il termine liberatore. O pacificatore. Comunque ti vada di chiamarti, senza di te la guerra non finirebbe mai.
Brick vorrebbe scappare via all’istante, ma essendo disarmato non gli vengono in mente altre soluzioni che stare al gioco. E chi dovrei uccidere?, domanda.
Non è tanto un chi, quanto un che cosa, risponde il sergente, enigmatico. Non siamo neanche certi del suo nome. Potrebbe essere Blake. Potrebbe essere Black. Potrebbe essere Bloch. Ma abbiamo un indirizzo, e se a quest’ora non se l’è già filata, non dovresti avere problemi. Ti organizziamo un contatto in città, ti metti sotto copertura e fra qualche giorno tutto sarà finito.
E come mai quest’uomo merita di morire?
Perché possiede la guerra. L’ha inventata lui, e tutto quello che succede o succederà sta dentro la sua testa. Elimina quella testa e la guerra finisce. Semplice.
Semplice? Da come ne hai parlato, sembra Dio.
Non Dio, caporale ... solo un uomo. Sta tutto il giorno seduto in una stanza a scrivere, e quello che scrive si avvera. Secondo i rapporti dell’intelligence è tormentato dal senso di colpa, ma non può fermarsi. Se quel bastardo avesse il fegato di farsi saltare le cervella, ora non saremmo qui a fare questi discorsi.
Mi dici che è una storia ... che un uomo sta scrivendo una storia, e che tutti ne facciamo parte.
Più o meno.
E quando sarà morto, cosa succederà? La guerra finirà, ma che sarà di noi?
Tutto tornerà normale.
O forse spariremo.
Forse. Però è un rischio che dobbiamo correre. Agire o morire, figliolo. Ci sono stati oltre tredici milioni di morti. Se le cose continuano così ancora per molto, metà della popolazione resterà uccisa prima che tu te ne accorga.
Brick non ha intenzione di uccidere nessuno, e più ascolta Tobak più è sicuro che sia un pazzo scatenato. Ma per ora non ha altra scelta che fingere di capire, di comportarsi come se fosse ansioso di portare a termine la missione.
Serge Serge si avvicina alla jeep, prende dal sedile posteriore una sacca di plastica bella gonfia e la porge a Brick. I tuoi nuovi vestiti, dice; e ordina al prestigiatore, lì, all’aperto, di togliersi la divisa e indossare i panni civili contenuti nella sacca: un paio di jeans neri, una camicia Oxford azzurra, un golf scollato a V, una cintura, un giubbotto di pelle marrone e scarpe di pelle nera. Poi gli consegna uno zaino di nylon verde con dentro altri vestiti, l’occorrente per radersi, uno spazzolino e un dentifricio, una spazzola, una rivoltella calibro 38 e una scatola di proiettili. Infine Brick riceve una busta con venti banconote da cinquanta dollari e un foglietto con nome e indirizzo del suo contatto.
Lou Frisk, dice il sergente. Brava persona. Appena arrivi in città vai da lui e ti dirà tutto ciò che devi sapere.
Di quale città parli?, chiede Brick. Non ho la minima idea di dove siamo.
Wellington, risponde Tobak, girando sui tacchi verso destra e indicando la densa nebbia mattutina. Venti chilometri a nord. Resta su questa strada e a metà pomeriggio ci sarai.
Ma devo andare a piedi?
Mi spiace. Ti darei un passaggio, però vado nella direzione opposta. I miei uomini Miaspettano.
Senza fare colazione ? Venti chilometri a stomaco vuoto ...
Scusami anche di questo. Avrei dovuto portarti un tramezzino con l’uovo e un thermos di caffè, ma mi sono dimenticato.
Prima di partire per tornare dai suoi, Serge Serge tira su la fune dalla buca, svelle il paletto dal terreno e getta il tutto sul sedile posteriore della jeep. Poi si mette al volante e accende il motore. Nel salutare Brick militarmente, aggiunge: Non mollare, soldato. A me non sembri troppo un killer, ma cosa ne so io? lo ho sempre torto su tutto.
Senza aggiungere altro, Tobak preme il piede sull’acceleratore e dopo un attimo non c’è più, è già sparito nella nebbia. Brick non si muove. É infreddolito e affamato, sconcertato e atterrito, e per oltre un minuto resta lì, in mezzo alla strada, a domandarsi cosa farà adesso. Alla fine comincia a rabbrividire nell’aria gelida. Ed è questo che gli fa prendere la decisione. Deve muovere le gambe per scaldarsi e così, senza nessuna idea di quello che lo aspetta, si volta, mette le mani in tasca e si incammina verso la città.
Di sopra si è appena aperta una porta e sento rumore di passi in corridoio. Miriam o Katya, non so chi delle due. La porta del bagno si apre e si richiude; riconosco appena appena la musica flebile, familiare della pipì che colpisce l’acqua, ma chiunque l’abbia fatta è abbastanza premurosa da non rischiare, azionando lo scarico, di svegliare la famiglia, peraltro già sveglia per due terzi. Poi la porta del bagno si apre, e di nuovo il cammino silenzioso in corridoio e il chiudersi della porta di una stanza da letto. Dovessi scegliere, direi che era Katya. La povera, l’addolorata Katya, non meno refrattaria ad addormentarsi del suo nonno paralitico. Come vorrei poter salire le scale, entrare in camera sua e parlare un po’ con lei. Magari raccontarle qualcuna delle mie brutte barzellette, o anche soltanto carezzarle la testa finché gli occhi si chiudono e prende sonno. Ma non posso salire le scale sulla sedia a rotelle, giusto? E se mi servissi della stampella probabilmente finirei per cadere nel buio. All’inferno questa stupida gamba. L’unica soluzione è mettere le ali, due gigantesche ali di morbidissimo piumino bianco. Così arriverei su in un lampo.
Negli ultimi due mesi, Katya e io abbiamo passato le giornate guardando film insieme. Fianco a fianco, sul divano del soggiorno, gli occhi fissi al televisore, aspirando due, tre, persino quattro film di seguito, interrompendoci per cenare con Miriam e poi, finito di mangiare, tornando sul divano pet un altro film o due prima di andare a letto. Dovrei lavorare al mio manoscritto: le memorie che avevo promesso a Miriam di scrivere per lei tre anni fa, quando andai in pensione, la storia della mia vita, la storia della nostra famiglia, la cronaca di un mondo scomparso, ma la verità è che preferisco stare sul divano con Katya tenendole la mano, lasciando che mi posi la testa sulla spalla, e sentendo la mia mente che si annebbia nella sfilata infinita di immagini sullo schermo. Per più di un anno ho ripreso il manoscritto tutti i giorni accumulando una bella quantità di fogli, circa metà della storia credo, forse anche un po’ di più, ma adesso è come se avessi perso lo slancio. Forse è iniziato con la morte di Sonia, non so, la fine della vita matrimoniale, la solitudine della sua esistenza, la porca solitudine dopo che l’ho persa, e poi sono andato a sbattere con quell’auto a nolo spappolandomi la gamba, rischiando di morire, forse anche questo ha contribuito; l’indifferenza, la sensazione che, dopo settantadue anni sulla terra, a fhi può mai fregare se scrivo di me stesso oppure no? É un’idea che non mi ha mai interessato, neanche da giovane, e in ogni caso non ho mai avuto l’ambizione di scrivere un libro. Mi piaceva leggerli, ecco tutto, leggere e scrivere dei libri letti, ma sono sempre stato uno scattista, mai un maratoneta: un levriero che per quarant’ anni ha lavorato a scadenza, esperto nel tirar fuori l’articolo di tremila o seimila battute, la rubrica che esce due volte alla settimana, ogni tanto un reportage per la rivista - quante migliaia di pezzi ho vomitato così? Decenni di effimero, mucchi di carta da giornale bruciata e riciclata e, a differenza della maggioranza dei miei colleghi, non ho mai avuto alcun desiderio di raccogliere le cose buone, sempre che ce ne fossero, e ripubblicarle in libri che nessuna persona sana di mente perderebbe tempo a leggere. Lasciamo per ora che il mio manoscritto semicompiuto continui ad accumulare polvere. Miriam, da parte sua, si sta affaticando su una biografia di Rose Hawthorne ormai in dirittura d’arrivo, si ritaglia le ore della notte, dei fine settimana, dei giorni in cui non deve guidare fino a Hampton per i suoi vari corsi, e forse al momento uno scrittore in casa può bastare.
Dov’ero rimasto? A Owen Brick. Owen Brick che cammina lungo la strada verso la città. L’aria fredda, il trambusto, una seconda guerra civile in America. Un preludio
a qualcosa, ma prima che capisca cosa farne del mio disorientato prestigiatore, mi serve qualche istante per riflettere su Katya e i film, dato che non so ancora stabilire se sia una cosa buona o cattiva. Quando lei ha cominciato a ordinare i dvd su Internet, l’ho considerato un segno di progresso, un piccolo passo nella direzione giusta. Se non altro dimostrava di essere disposta a farsi distrarre, a pensare a qualcosa di diverso dal suo defunto Titus. In fin dei conti studia cinematografia, si sta specializzando in montaggio, e quando casa nostra fu invasa dai dvd inizialmente mi chiesi se non pensasse di tornare a scuola, o di approfondire la propria istruzione per conto suo. Ma dopo un po’ questa cinefilia ossessiva cominciò a sembrarmi una specie di auto terapia, un rimedio omeopatico per anestetizzarsi dal bisogno di pensare al futuro. Fuggire in un film non è come fuggire in un libro. I libri ti costringono a contraccambiarli con qualcosa, a esercitare l’intelligenza e la fantasia, mentre un film si può vedere - e anche godere in uno stato di passività inerte. Ciò detto, non vorrei far credere che Katya si sia trasformata in un sasso. Sorride, qualche volta durante le scene buffe delle commedie le scappa pure una risatina, e spesso le scene commoventi dei drammi hanno stimolato i suoi dotti lacrimali. più che altro mi fa effetto la sua postura, quel modo di accasciarsi sul divano con i piedi allungati sul tavolino, immobile per ore, rifiutando di spostarsi anche solo per prendere il telefono, senza praticamente dare segni di vita tranne quando la tocco o l’abbraccio. Temo sia colpa mia. L’ho incoraggiata a questa vita piatta, e forse dovrei porvi termine: ma se tentassi dubito che mi starebbe a sentire.
Comunque certi giorni sono meglio degli altri. Ogni volta che terminiamo un film, prima che Katya faccia partire il successivo ne parliamo un po’. In genere io voglio iscutere la trama e la qualità della recitazione, mentre i suoi giudizi si concentrano sugli aspetti tecnici: l’uso della macchina, il montaggio, le luci, i suoni e così via. Proprio stasera, però, dopo aver visto tre film stranieri di fila - La grande illusione, Ladri di biciclette, Il mondo di Apu, Katya ha formulato alcuni commenti sintetici e incisivi, abbozzando una teoria di tecnica cinematografica che mi ha sbalordito per il suo acume.
Oggetti inanimati, ha detto.
In che senso?, le ho chiesto.
Gli oggetti inanimati come mezzo per esprimere le emozioni umane. Questo è il linguaggio del cinema. Solo i buoni registi capiscono come si fa, ma Renoir, De Sica e Ray sono tre fra i più grandi, sei d’accordo?
Senz’altro.
Pensa alle prime scene di Ladri di biciclette. L’eroe riesce ad avere un lavoro, ma non potrà andarci se non riscatta la bicicletta dal monte di pietà. Torna a casa in preda all’autocommiserazione. E davanti alla casa c’è sua moglie che trasporta due pesanti secchi d’acqua. Tutta la loro miseria, gli affanni di questa donna e della sua famiglia, sono dentro quei secchi. Il marito è talmente assorto nei suoi problemi che non si cura nemmeno di aiutarla finché non hanno fatto metà del cammino verso la porta. E anche allora prende uno solo dei secchi, lasciando che sia lei a portare l’altro. Tutto quello che dobbiamo sapere del loro matrimonio ci è comunicato in quei pochi secondi. Poi salgono le scale dell’appartamento e la moglie vien fuori con l’idea di riscattare la bicicletta impegnando le lenzuola. Ricorda con che violenza sferra un calcio al secchio in cucina, ricorda con che violenza apre il cassetto del comò. Oggetti inanimati, emozioni umane. Poi ci spostiamo al monte di pietà, che non è un negozio, ma un luogo enorme, una specie di deposito di beni indesiderati. La moglie impegna le lenzuola e vediamo uno degli operai portare il fagotto verso le scaffalature dove sono ammassati i vari beni. Lì per lì gli scaffali non sembrano tanto alti, però poi la macchina indietreggia e quando l’uomo comincia a inerpicarsi vediamo che salgono sempre più su, fino al soffitto, e ogni scaffale, ogni vano, è stipato di fagotti identici a quello che adesso l’uomo sta immagazzinando, ed ecco che d’un tratto ci sembra che tutte le famiglie di Roma abbiano venduto le proprie lenzuola, che l’intera città versi nelle medesime difficoltà dell’eroe e di sua moglie. In un’inquadratura, nonno, in un’inquadratura sola, riceviamo l’immagine di una società al completo sull’orlo del disastro.
Niente male, Katya. Le rotelline girano ...
Mi è venuta quest’idea proprio stasera. E mi sa che ci sono, perché ho visto degli esempi in tutti e tre i film. Ricordi i piatti nella Grande illusione?
I piatti?
Proprio verso la fine. Gabin dice alla donna tedesca che la ama, che quando la guerra sarà finita tornerà a prendere lei e sua figlia, ma ora i soldati si stanno avvicinando e lui e Dalio devono tentare di superare il confine con la Svizzera prima che sia troppo tardi. I quattro mangiano insierp.e per l’ultima volta e poi viene il momento dei saluti. É naturale che tutto sia molto commovente. Gabin e la donna ritti sulla soglia, la possibilità che non si rivedano mai più, le lacrime della donna mentre gli uomini scompaiono nella notte. Quindi Renoir stacca su Gabin e DaHo che corrono nella foresta, e potrei scommetterci che qualsiasi altro regista al mondo sarebbe rimasto con lorò fino alla fine del film. Ma Renoir no. Lui ha il genio - e quando dico genio intendo l’intelligenza, la profondità d’animo, la sensibilità - di tornare alla donna e alla sua figlioletta, alla giovane vedova che ha già perso il marito per la follia della guerra, e cosa le tocca fare? Rientrare in casa e mettersi di fronte al tavolo da pranzo e ai piatti sporchi del pasto che hanno appena consumato. Adesso gli uomini sono andati via, e poiché sono andati quei piatti si sono trasformati in un segno della loro assenza, nel solitario dolore delle donne quando gli uomini vanno in guerra; e a uno a uno, senza dire una parola, lei li raccoglie, i piatti, e rigoverna la tavola. Quanto dura la scena? Dieci secondi? Quindici? Praticamente nulla, ma ti mozza il respiro, non è vero? Ti scaraventa a terra.
Sei una ragazza coraggiosa, dissi, pensando improvvisamente a Titus.
Basta, nonno. Non voglio parlare di lui. Un’altra volta, forse, ma non ora. D’accordo?
D’accordo. Stiamo sui film. Ne resta ancora uno. L’indiano. Credo sia quello che mi è piaciuto di più.
Perché parla di uno scrittore, disse Katya con un breve sorriso ironico.
Può darsi. Ma questo non vuol dire che non sia bello.
Non lo avrei scelto se non fosse bello. Niente spazzatura. É la regola, ricordi? Film di tutte le razze, dallo strambo al sublime, ma niente spazzatura.
Intesi. Ma in Apu qual è l’oggetto inanimato? Pensaci.
Non voglio pensare. La teoria è tua, quindi dimmelo tu. Le tende e la forcina per i capelli. Una transizione da una vita all’altra, lo snodo della storia. Apu è andato in campagna per il matrimonio della cugina di un suo amico. Un tradizionale matrimonio combinato - e quando lo sposo arriva si rivela un demente, un perfetto cretino. Le nozze vengono annullate e i genitori della cugina dell’amico cominciano a cedere al panico, temendo che se la figlia non si sposa quel pomeriggio sarà maledetta per tutta la vita. Apu si è addormentato sotto gli alberi senza un pensiero al mondo, felice di essere fuori città per qualche giorno. Si avvicinano i famigliari della ragazza. Gli spiegano che è l’unico scapolo disponibile, l’unico che possa risolvere il loro problema. Apu è sgomento. Li crede dei pazzi, una banda di bifolchi superstiziosi, e si rifiuta di assecondarli. Ma poi riflette e decide di dire di sI. Solo per compiere una buona azione, un gesto di altruismo, però non ha intenzione di riportare la ragazza con sé a Calcutta. Dopo la cerimonia nuziale, quando finalmente restano per la prima volta soli insieme, Apu scopre che questa ragazza mansueta è molto più coriacea di quanto pensasse. Sono povero, le spiega, voglio fare lo scrittore, non ho niente da offrirti. Lo so, risponde lei, ma non importa: è decisa a seguirlo. Esasperato, confuso, però anche colpito dalla sua fermezza, Apu con riluttanza cede. Stacco sulla città. Un carro si ferma davanti alla casa fatiscente dove vive Apu, e scendono Apu stesso e la sua sposa. Tutti i vicini accorrono sgranando gli occhi alla bellezza di questa giovane, mentre Apu l’accompagna su per la scala fino alla sua soffitta angusta, squallida. Un attimo dopo qualcuno lo chiama e lui esce. La cinepresa rimane sulla ragazza, sola in questa stanza estranea, in questa città estranea, sposata con un uomo che conosce appena. Infine lei si avvicina alla finestra, che al posto di una vera tenda è coperta da un sudicio pezzo di tela da sacco. Nella tela c’è un buco: la ragazza guarda dentro e vede il cortile, dove un bambino piccolo in mutandine trotterella fra la polvere e i calcinacci. La macchina inverte l’inquadratura e vediamo l’occhio di lei attraverso il buco. Quell’occhio sta piangendo, e del resto ... come biasimarla se si sente turbata, impaurita, sperduta? Apu rientra nella stanza e le chiede cosa c’è che non va. Niente, risponde lei scuotendo la testa, proprio niente. Segue una dissolvenza in nero, e la grande domanda resta: e dopo? Che sorte attende questa coppia improbabile, che solo un puro caso ha fatto sposare? Con qualche colpo abile e deciso, in nemmeno un minuto ci è rivelato tutto. Oggetto numero uno: la finestra. Dissolvenza in apertura, mattina presto, e la prima cosa che vediamo è la finestra da cui stava guardando la ragazza nella scena precedente. Ma la tela consunta non c’è più: al suo posto un paio di linde tendine a quadri. La cinepresa indietreggia un po’, ed ecco l’oggetto numero due: fiori in vaso sul davanzale. Sono segni incoraggianti, però non siamo ancora sicuri del loro significato. Un’atmosfera domestica, accogliente, il tocco femminile, ma è quanto ci si aspetta da una moglie, e il solo fatto che la moglie di Apu abbia adempiuto i suoi doveri non significa che gli voglia bene. La macchina continua a indietreggiare e vediamo i due a letto, addormentati. Suona la sveglia e la moglie scende dal letto mentre Apu mugola e affonda la testa nel cuscino. Oggetto numero tre: il sari di lei. Quando la moglie scende dal letto e fa per allontanarsi, a un certo punto non le è più possibile - perché i suoi vestiti sono legati a quelli di Apu. Stranissimo. Chi può aver fatto questo - e perché? L’espressione sul suo viso è insieme di dispetto e di piacere, e capiamo subito che è stato Apu. La ragazza si riavvicina alletto, gli dà un buffetto sul sedere e scioglie il nodo. Cosa mi dice questo momento? Che hanno intesa sessuale, che è nato un senso di gioco e di complicità, che sono veramente sposati. Si, ma l’amore? Sembrano soddisfatti, però quanto sono forti i reciproci sentimenti? É qui che appare l’oggetto numero quattro: la forcina. La moglie esce dal quadro per preparare la colazione, e la macchina stringe su Apu. Finalmente lui riesce ad aprire gli occhi, e mentre sbadiglia e si stira e si volta nel letto vede qualcosa nello spazio fra i due cuscini. Infila la mano e tira fuori una delle forcine di sua moglie. Siamo al coronamento. Apu solleva la forcina e la osserva, e quando vedi gli occhi di Apu, la tenerezza e l’adorazione dentro quegli occhi, sei sicuro al di là di ogni dubbio che è pazzamente innamorato di lei, che lei è la donna della sua vita. E Ray riesce a indicare tutto questo senza una sola parola di dialogo.
Proprio come con i piatti, aggiunsi io. E con il fagotto delle lenzuola. Senza parole.
Le parole non servono, disse Katya. Quando uno sa quello che sta facendo.
C’è un’altra cosa a proposito di queste tre scene. Mentre guardavamo i film non me n’ero accorto, ma ora, sentendoteli raccontare, mi è balzata agli occhi.
Che cosa?
Sono tutte centrate sulle donne. Sul fatto che sono loro a reggere il mondo. Le donne fanno il lavoro di sostanza, mentre i loro sfortunati uomini ciampicano qua e là combinando pasticci. Oppure se ne stanno distesi senza far nulla. Come succede dopo la forcina. Apu guarda sua moglie che, all’altro capo della stanza, prepara la colazione china su una pentola, e nemmeno si muove per aiutarla. Come il marito italiano, del resto, ignaro della fatica che fa sua moglie per portare quei secchi.
Finalmente, dice Katya, dandomi una leggera ditata nelle costole. Un uomo che ci arriva.
Adesso non esageriamo. Ho solo inserito una postilla alla tua teoria. Alla tua acutissima teoria, potrei aggiungere.
E tu, nonno, che marito sei stato?
Ah ... distratto e infingardo come quelli dei film. Faceva tutto tua nonna.
Non è vero.
Si, invece. Quando tu eri con noi mi comportavo sempre al meglio di me stesso. Avresti dovuto vederci quando eravamo soli.
Mi interrompo un attimo per cambiare posizione sul letto, sistemare il guanciale, bere un sorso d’acqua dal bicchiere sul comodino. Non voglio mettermi a pensare a Sonia. É ancora troppo presto, e se mi lascio andare adesso, finirà per rimuginare su di lei per ore. Continua con la storia. É l’unica soluzione. Continua con la storia e vedi che succede se riesco ad arrivare alla fine.
Owen Brick. Owen Brick diretto verso Wellington, in quale stato non sa, in quale parte del paese non sa, ma data l’aria così umida e fredda ha il sospetto di essere nel Nord, forse nel New England, forse nello Stato di New York, forse in un punto dell’Upper Midwest; e poi, memore dei discorsi di Serge Serge su una guerra civile, si domanda perché ci si combatta e chi stia combattendo contro chi. Ancora il Nord contro il Sud? L’Est contro l’Ovest? Il Rosso contro il Blu? Il Bianco contro il Nero? Qualunque sia stata la causa della guerra, si dice, e qualunque interesse o ideale sia in gioco, non ha senso. Come può essere l’America, questa, se Tobak non sa nulla dell’Iraq? Completamente smarrito, Brick torna all’ipotesi precedente, cioè di essere prigioniero di un sogno: di trovarsi, malgrado l’evidenza fisica attorno a lui, sdraiato accanto a Flora a casa, nel suo letto.
La visibilità è scarsa, ma nella nebbia Brick riesce vagamente a capire che è fiancheggiato da alberi su entrambi i lati; che non si vedono in nessuna direzione né case né altri edifici, né pali del telegrafo né cartelli stradali, nessun segnale di presenza umana salvo la strada stessa, una striscia male in arnese di catrame e di asfalto seminata di buche e di crepe che senz’altro non viene riparata da anni. Cammina per un chilometro, poi per un altro e un altro ancora senza mai incontrare un’auto, né una persona che emerga dal vuoto. Infine, dopo una ventina di minuti, sente qualcosa che si avvicina, un rumore, un sibilo metallico che stenta a identificare. Dalla nebbia gli esce incontro un uomo in bicicletta. Brick alza la mano per richiamare la sua attenzione, dice: Salve, signore, scusi, tuttavia il ciclista lo ignora e si allontana pedalando. Dopo un po’ cominciano ad apparire altre persone in bicicletta, alcuni vanno in una direzione, altri nell’altra, ma per l’attenzione che prestano a Brick quando domanda loro di fermarsi, potrebbe anche essere invisibile.
Dopo altri otto-dieci chilometri, sulla strada cominciano ad apparire segni di vita - o meglio, segni di vita precedente: case bruciate, negozi di alimentari rasi al suolo, un cane morto, alcune automobili saltate in aria. D’un tratto compare davanti a lui una vecchia in vestiti laceri che spinge un carrello della spesa pieno delle sue cose.
Mi scusi, chiede Brick. Sa se questa è la strada che va a Wellington?
La donna si ferma e guarda Brick con gli occhi di una che non ha capito. Brick nota un ciuffetto di peli che le spunta dal mento, la bocca raggrinzita, le mani nodose, artritiche. Wellington?, dice lei. Chi glielo ha chiesto?
Nessuno me l’ha chiesto, risponde Brick. Sono io che lo chiedo a lei.
A me? E io che c’entro? Se non la conosco nemmeno. Né io conosco lei. Le sto solo chiedendo se questa strada va a Wellington.
La donna scruta Brick per un attimo e dice: Le costerà cinque dollari.
Cinque dollari per un sìo per un no? Lei è matta.
Tutti da queste parti sono matti. Sta cercando di dirmi che lei non lo è ?
Non sto cercando di dirle niente. Voglio solo sapere dove sono.
È su una strada, tonto.
Sì, certo, sono su una strada, ma quello che voglio sapere è se questa strada va a Wellington.
Dieci dollari.
Dieci?
Venti dollari.
Se li sogna, fa Brick, ormai al limite della sopportazione. Lo capirò da solo.
Che cosa, capirà?, chiede la donna.
Invece di rispondere, Brick si rimette in cammino, e mentre avanza nella nebbia sente che alle sue spalle la donna scoppia a ridere come se qualcuno le avesse appena raccontato una barzelletta.
Le strade di Wellington. È già passato mezzogiorno quando entra in città, esausto e affamato, i piedi indolenziti per l’asprezzadella lunga marcia. Il sole ha bruciato la nebbia mattutina, e mentre vaga nei quindici gradi di un clima mite, Brick è contento di vedere che si trova in un luogo ancora quasi intatto, anziché in una zona di guerra bombardata, ingombra di macerie e cadaveri di civili. Nota diversi edifici distrutti, alcune strade crivellate di crateri, qualche barricata abbattuta, ma nel complesso Wellington sembra una città funzionante, con viavai di pedoni, gente che entra ed esce dai negozi e nessuna minaccia imminente sospesa nell’aria. L’unica cosa che la distingue da una normale metropoli americana è l’assenza di macchine, camion e autobus. Quasi tutti si spostano a piedi, e quelli che non camminano sono in sella a una bicicletta. Brick non può ancora sapere se questo sia l’effetto della penuria di benzina o di una politica municipale, ma deve ammettere che il silenzio ha un effetto gradevole, che gli piace di più del baccano e del caos delle strade di New York. Al,di là di questo, Wellington non ha molto di attraente. É un luogo desolato, in decadenza, con fabbricati brutti e mal costruiti, non si vede un albero e i marciapiedi sono seminati da mucchi di spazzatura. Una città deprimente, forse, ma non il vero e proprio buco infernale che Brick si aspettava.
Il primo problema da risolvere è riempirsi lo stomaco, però a Wellington i ristoranti sembrano merce rara, e deve girare molto prima di adocchiare una tavola calda in una viuzza laterale. Sono quasi le tre, l’ora di pranzo è passata da un pezzo e quando entra trova il posto vuoto. Alla sua sinistra c’è un bancone con sei sgabelli liberi, a destra, disposti lungo la parete di fronte, quattro séparé angusti, liberi anche quelli. Brick decide di sedersi al bancone. Pochi secondi dopo che si è accomodato su uno degli sgabelli esce dalla cucina una ragazza che gli sbatte davanti la lista dei cibi. Sarà sui venticinque, ventotto anni: è bionda e magra, con lo sguardo stanco e l’ombra di un sorriso sulle labbra.
Che c’è di buono oggi?, domanda Brick senza nemmeno aprire il menu.
Diciamo piuttosto che cosa abbiamo, oggi, risponde la cameriera.
Eh? Be’, cosa si può prendere?
Insalata di tonno, insalata di pollo, e uova. Il tonno è di ieri, il pollo dell’altro ieri e le uova fresche di stamattina. Gliele possiamo fare come vuole. Fritte, strapazzate, in camicia. Sode, barzotte, alla coque. Quel che vuole, come vuole.
Avete pancetta o salsicce? Pane tostato, patate?
La cameriera straluna gli occhi con beffarda incredulità. Lei è un sognatore, bello. Le uova sono uova. Non uova e qualcos’altro. Uova e basta.
Va bene, dice Brick, deluso ma sforzandosi di fare buon viso a cattivo gioco. Vada per le uova.
Come le vuole?
Dunque ... come le voglio? Strapazzate.
Quante?
Tre. No, anzi, quattro.
Quattro? Guardi che le costeranno venti dollari. La cameriera stringe gli occhi e guarda Brick come se lo vedesse per la prima volta. Scuote la testa e aggiunge: Cosa ci fa in una chiavica come questa, con venti dollari in tasca?
Perché voglio mangiare delle uova, risponde Brick. Quattro uova strapazzate servite da ...
Molly, risponde la cameriera con un sorriso. Molly Wald.
... da Molly Wald. Qualcosa da ridire?
No, a occhio e croce niente.
Così Brick ordina le sue quattro uova strapazzate, sforzandosi di mantenere un tono leggero, canzonatore, con la magra e abbastanza amichevole Molly Wald, ma sotto sotto sta calcolando che con questi prezzi - un uovo a cinque dollari in un buco sudicio e di infimo livello - il denaro che Tobak gli ha dato stamattina non può durare molto. Mentre Molly si volta per riferire l’ordine alla cucina, Brick si chiede se sia il caso di cominciare a farle delle domande sulla guerra, o se convenga non sbottonarsi e stare con la bocca chiusa. Ancora in dubbio, chiede una tazza di caffè.
Spiace, non si può fare, dice Molly. È finito: Tè caldo. Quello, se vuole gliela posso fare.
D’accordo, dice lui. Un bricco di tè. Dopo un momento di esitazione prende coraggio e chiede: Solo per curiosità... quanto costa.
Cinque dollari.
Cinque dollari? Sembra che tutto costi cinque dollari, qui dentro.
Chiaramente perplessa per la sua battuta, Molly si fa avanti, puntella le braccia sul bancone e scuote la testa. Lei è un po’ tonto, vero?
Probabile, fa Brick.
Sono sei mesi che abbiamo smesso di usare i biglietti da uno e le monete. Dov’è stato, cocco? É straniero, o che cosa?
Non so. lo sono di New York. Quindi sono straniero, o non lo sono?
New York City?
Queens.
Molly fa una risatina asciutta che sembra comunicare a un tempo disprezzo e pietà per questo sprovveduto di cliente. Questa è grande, commenta, ma grande. Un tipo di New York che non distingue la sua testa dal culo.
Io... mhh...balbetta Brick, sono stato malato. Fuori uso. Capisce, in ospedale... e non so nulla di quanto è successo.
Be’, per sua norma e regola, signor citrullo, fa Molly, siamo in guerra, ed è stata New York a cominciarla.
Oh?
Proprio: oh. Secessione. Forse ne ha sentito parlare. Quando uno stato si dichiara indipendente dal resto dell’Unione. Adesso siamo sedici stati, e Dio solo sa quando finirà. Non sto dicendo che sia una brutta cosa, ma quando è troppo è troppo. Ti sfianca, e presto ti ritrovi nauseata da tutto.
Ieri sera si è sentito sparare parecchio, dice Brick, azzardando finalmente una domanda diretta. Chi ha vinto?
I Federali hanno attaccato, ma i nostri li hanno respinti. Non credo che ci riproveranno tanto presto.
Quindi la situazione a Wellington sarà abbastanza tranquilla?
Si, almeno per adesso. O casi dicono. Ma chi può saperlo?
Una voce dalla cucina annuncia: quattro strapazzate, e un attimo dopo un piatto bianco appare sullo scaffale alle spalle di Molly. Lei gira su se stessa, prende il pranzo di Brick e lo depone davanti a lui. Poi comincia a preparare il tè.
Le uova si rivelano troppo asciutte e troppo cotte: nemmeno una robusta dose di sale e pepe riesce a insaporirle granché. Famelico dopo i venti chilometri a piedi, Brick si rovescia nella bocca una forchettata di cibo dopo l’altra, masticando faticosamente le uova gommose e innaffiandole con frequenti sorsi di tè - che non è caldo come dichiarato, ma tiepido. Non fa niente, dice fra sé. In mezzo a tante domande senza risposta, la qualità del cibo è l’ultimo dei suoi pensieri. Interrompendosi un momento a metà della battaglia con le uova, Brick guarda Molly che, sempre ritta dietro il bancone, lo guarda mangiare con le braccia conserte spostando il peso ora sulla gamba sinistra, ora sulla destra, mentre i suoi occhi verdi lampeggiano di’ quella che sembra una specie di ilarità soffocata.
Che cosa c’è da ridere?, le chiede.
Niente, risponde lei facendo spallucce. Solo ... mangia casi in fretta che mi ricorda un cane che avevamo quand’ ero bambina.
Chiedo scusa, risponde Brick. Ho fame.
L’avevo capito.
Magari avrà anche capito che sono nuovo di qui, fa lui.
Non conosco un’anima a Wellington, e ho bisogno di un posto dove stare. Lei per caso non avrebbe un’idea?
Quanto tempo?
Non so. Forse una notte, forse una settimana, forse per sempre. É troppo presto per dirlo.
Non è un po’ troppo vaga, come intenzione?
Non posso farci nulla. Mi trovo in una situazione, sa... una situazione strana, e insomma, ecco... brancolo nel buio. A dire il vero non so neanche che giorno è.
Giovedi 19 aprile.
Il 19 aprile. Bene. É quello che avrei detto anch’io. Ma di che anno?
Mi prende in giro?
No, purtroppo. In che anno siamo?
Nel 2007.
Strano.
Perché strano?
Perché l’anno è giusto, ma tutto il resto è sbagliato. Mi stia a sentire, Molly...
La ascolto, amico. Sono tutta orecchi.
Bene. Dunque, se ora le dico le parole 11settembre... hanno un significato speciale per lei?
Non particolarmente.
E World Trade Center?
Le torri gemelle? Quei grattacieli alti di New York?
Esatto.
Embè?
Sono ancora in piedi?
Certo. Cosa le prende?
Nulla, risponde Brick, mormorando fra sé con voce quasi impercettibile. Poi abbassa gli occhi sulle uova mezze mangiate e sussurra: Un incubo dopo l’altro.
Cosa? Non l’ho sentita.
Alzando la testa e guardando Molly dritto negli occhi, Brick le fa un’ultima domanda: E non ci sono guerre in Iraq, vero?
Se sa già la risposta, perché lo chiede a me?
Volevo solo essere sicuro. Mi scusi.
Senta, signor...
Owen. Owen Brick.
Bene, Owen. Io non so che problema abbia tu, e non so cosa ti è successo in quell’ospedale, ma fossi in te finirei quelle uova prima che si freddino. Vado un attimo in cucina a telefonare. C’è un mio cugino che fa il turno di notte in un alberghetto qua dietro l’angolo. Magari hanno una stanza libera.
Perché sei casi gentile? Non mi conosci nemmeno. Non sono gentile. Mio cugino e io abbiamo fatto un patto. A ogni nuovo cliente che gli mando lui mi dà il dieci per cento sulla prima notte. Sono affari e nient’altro, extraterrestre. Se ha posto per te, non mi devi un bel niente.
Risulta che ce l’ha. Ora che Brick ha finito di mandar giù il suo cibo (con l’ausilio di un’altra sorsata di tè ormai freddo), Molly è tornata dalla cucina con la buona notizia. Ci sono tre stanze libere, gli dice: due da trecento a notte, e la terza da duecento. Non conoscendo i suoi mezzi, si è presa la responsabilità di prenotargli quella da duecento: segno evidente, pensa con gratitudine Brick, che malgrado il discorso cinico sugli affari e nient’altro, per fargli un piacere Molly si è ridotta di dieci dollari la sua quota. Una brava figliola in fondo in fondo, pensa Brick, nonostante si sforzi di nasconderlo. Si sente così solo, così scombussolato dagli eventi delle ultime diciotto ore, che vorrebbe che lei abbandonasse il suo posto al bancone per accompagnarlo in albergo - ma sa che non può, ed è troppo timido per chiederle di fare un’ eccezione per lui. In compenso Molly fa uno schizzo su un tovagliolo di carta indicandogli la strada da seguire per arrivare all’Exeter Hotel, che è solo a un isolato di distanza. Quindi Brick paga il conto insistendo per darle dieci dollari di mancia, e la saluta con una stretta di mano.
Spero di rivederti, le dice, all’improvviso e scioccamente sull’orlo delle lacrime.
Sono sempre qui, risponde lei. Dalle otto alle sei, da: lune di al venerdì. Se hai ancora voglia di mangiar male, sai dove andare.
L’Exeter Hotel è una palazzina in calcare di sei piani, al centro di un isolato con negozi di scarpe a poco prezze e bar male illuminati. Forse sessanta o settant’ anni fa sad stato un bel posto, ma a Brick basta uno sguardo nell’atrio, con le sue poltrone di velluto semisfondate e rose dalle tarme e le palme defunte nei vasi, per capire che a Wellington con duecento dollari non si compra granché. Rimane alquanto perplesso quando alla reception insistono per far· gli pagare la notte in anticipo, ma non conoscendo bene gli usi locali non si mette nemmeno a protestare. L’impiega· to, che potrebbe passare per il gemello di Serge Tobak, conta i quattro biglietti da cinquanta dollari, li infila in un cassetto sotto il bancone di marmo incrinato, e consegna a Brick la chiave della camera 406. Senza richiedere né firme né prove della sua identità. Quando Brick domanda dove sia l’ascensore, l’impiegato risponde che è guasto.
Abbastanza sfiatato dopo quattro piani di scale, Brick apre la porta ed entra nella stanza. Nota che il letto è stato rifatto, che i muri bianchi sembrano pitturati di fresco, che tutto è relativamente pulito, ma quando comincia a guardarsi attorno sul serio è colto da un senso di angoscia che lo annienta. La stanza è casi squallida, casi poco accogliente, che immagina che decine di disperati negli anni siano venuti ad alloggiare qui senz’altro scopo che suicidarsi. Da dove gli deriva questa sensazione? É il suo stato d’animo, si chiede, o può essere confermato dai fatti? Per esempio, la scarsità del mobilio: solo un letto e un armadio malandato, isolati in uno spazio fin troppo grande. Né sedie, né telefono. L’assenza di qualsiasi quadro alle pareti. Il bagno spoglio, tetro, con un’unica minisaponetta posata nel suo involucro sul lavabo bianco, un solo tela bianco appeso al portasciugamani, lo smalto arrugginito nella vasca bianca. Aggirandosi nella stanza in una spirale di depressione, Brick decide di accendere il vecchio televisore in bianco e nero vicino alla finestra. Forse guardarlo lo calmerà, pensa, o forse, con un po’ di fortuna, troverà un telegiornale e saprà qualcosa della guerra. Quando preme il bottone esce dall’apparecchio un ping sonoro, echeggiante. Un segno promettente, dice fra sé, ma poi, dopo aver atteso a lungo che il televisore si sia scaldato, sul video non appare nessuna immagine. Nient’altro che neve, e il sibilo acuto dell’elettricità statica. Cambia canale. Altra neve, altro sibilo. Gira la manopola fino in fondo, ma ogni scatto dà lo stesso risultato. Anziché limitarsi a spegnere il televisore, Brick stacca il cavo dalla parete. Poi si siede sul letto vetusto, che scricchiola sotto il peso del suo corpo.
Prima che abbia modo di accasciarsi in un inutile gorgo di pietà di se stesso, qualcuno bussa alla porta. Uno del personale, pensa Brick, ma sperando in segreto che sia Molly Wald, riuscita in qualche modo a evadere per due minuti dalla tavola calda per venire a trovarlo e controllare che stia bene. Non è molto probabile, ovviamente, e appena apre la porta la sua flebile speranza è cancellata. La visitatrice non è Molly, però non è neanche un dipendente dell’albergo. No: si trova di fronte una donna alta, bellissima, con i capelli scuri e gli occhi azzurri, che indossa un paio di jeans neri e un giubbotto di pelle marrone - panni simili a quelli che gli aveva dato quella mattina Serge Serge. Osservandone la faccia, Brick si convince che si sono già visti, ma la mente si rifiuta di porgergli un ricordo del dove o del quando.
Ehilà, Owen, fa la donna con un sorriso ammaliante e fugace; e guardando la sua bocca lui nota che è dipinta di rosso carico.
Io ti conosco, vero?, risponde Brick. Almeno, mi sembra. O forse mi ricordi solo qualcuno.
Virginia Blaine, annuncia la donna con allegria, un’eco di trionfo nella voce. Non ricordi? In seconda superiore ti eri anche preso una cotta per me.
Oh mio Dio, mormora Brick, più smarrito che mai. Virginia Blaine. Eravamo compagni di banco durante le lezioni di geometria di Miss Blunt.
Non mi fai entrare?
Ah, certo, certo, dice lui scostandosi dalla soglia e osservandola entrare con passo deciso.
Dopo aver girato lo sguardo per la stanza nuda e triste, Virginia si volta verso di lui e dice: Che posto orrendo. Cosa ti è saltato in mente di venire qui?
È una lunga storia, risponde Brick, non volendo entrare nei dettagli.
Così non va, Owen. Dovremo trovarti qualcosa di meglio.
Domani, forse. Per stanotte ho già pagato, e dubito che adesso mi renderebbero i soldi.
Non c’è neanche una sedia.
Lo so. Ma se vuoi, ti puoi sedere sul letto.
Grazie, dice Virginia, dando un’occhiata al liso copriletto verde; preferisco stare in piedi.
Cosa ci fai qui?, chiede Brick, saltando di palo in frasca. Ti ho visto entrare nell’albergo, e sono venuta a...
No, no, non dico questo, la interrompe lui. Parlo di qui a Wellington, una città che io non avevo mai sentito nominare. In questo paese che dovrebbe essere l’America ma non è l’America, almeno non quella che conosco io.
Non posso dirtelo. Almeno, non ancora.
Vado a letto con mia moglie a New York. Facciamo l’amore, ci addormentiamo, e al mio risveglio sono steso in una buca in uno stramaledetto nulla, e con addosso una cazzo di divisa da soldato. Che diavolo sta succedendo?
Calmati, Owen. So che all’inizio si è un po’ disorientati, ma poi ti abituerai, te lo prometto.
Non voglio abituarmi. Voglio tornare alla mia vita. Ci tornerai. E molto prima di quello che pensi.
Be’, meglio di niente, dice Brick, che non sa se crederle o meno. Ma se io potrò tornare, tu invece?
Io non voglio tornare. Sono qui da tanto tempo, e mi piace più di dov’ ero prima.
Tanto tempo... ma allora quando hai smesso di venire a scuola non era perché tu e i tuoi genitori avevate cambiato città.
No.
Mi sei mancata molto. Ci avevo messo tre mesi a farmi coraggio per chiederti di uscire con me e poi, proprio quando ero pronto, sei partita.
Non c’era niente da fare. Non avevo altra scelta.
Che cosa ti trattiene qui? Sei sposata? Hai dei figli? Figli no, ma sono stata sposata. Mio marito è morto all’inizio della guerra.
Mi spiace.
Anche a me. E mi spiace pure un pochino sentire che sei sposato tu. Non ti ho dimenticato, Owen. Lo so che è passato tanto tempo, ma anch’io desideravo quell’appuntamento, come te.
E me lo dici adesso.
È la verità. Insomma, di chi credi sia stata l’idea di farti venire qui?
Vuoi scherzare. E dài, Virginia, perché avresti dovuto farmi una vigliaccata simile?
Perché volevo rivederti. E poi pensavo che saresti stato perfetto per il lavoro.
Quale lavoro?
Non fare l’indiano, Owen. Sai di che cosa sto parlando. Tobak. Quel pagliaccio che si fa chiamare Serge Serge. E Lou Frisk. Dovevi andare subito da lui, ricordi?
Ero stanco. Avevo camminato tutto il giorno a stomaco vuoto, e dovevo mangiare qualcosa e dormire un po’. Stavo per buttarmi a letto quando hai bussato tu.
Ti è andata male. Siamo tiratissimi, e dobbiamo andare da Frisk immediatamente.
Non posso. Sono troppo sfinito. Lasciami dormire un paio d’ore, e poi verrò con te.
Non dovrei proprio...
Per favore, Virginia. In nome dei vecchi tempi.
D’accordo, dice lei guardando il suo orologio. Ti do un’ ora. Adesso sono le quattro e mezzo. Alle cinque e mezzo precise sentirai bussare alla tua porta.
Grazie.
Però non fare il furbo, Owen. Intesi?
Stai tranquilla.
Dopo avergli rivolto un caldo, affettuoso sorriso, Virginia saluta Brick con un abbraccio. É stato bellissimo rivederti, gli sussurra all’orecchio. Brick sta zitto, le braccia lungo i fianchi, mentre nella mente gli guizzano mille pensieri. Alla fine Virginia si stacca da lui, gli dà un buffetta sulla guancia e va verso la porta che apre spingendo rapidamente in basso la maniglia. Prima di uscire si volta e gli dice: Cinque e mezzo.
Cinque e mezzo, le fa eco Brick, poi la porta si chiude con un tonfo e Virginia Blaine se n’è andata.
Brick ha già un piano - e una serie di principi. Non intende per nessun motivo incontrarsi con Frisk, né eseguire il lavoro che gli è stato assegnato. Non ucciderà nessuno, non obbedirà all’ordine di nessuno, sparirà dalla circolazione fino a quando sarà necessario. Dato che Virginia sa dove abita, dovrà uscire subito dall’albergo e non tornare mai più. Il problema più urgente è dove andare adesso, e gli vengono in mente solo tre possibili soluzioni. Tornare alla tavola calda e chiedere aiuto a Molly Wald. E se non fosse disposta a darglielo? Girare per la città in cerca di un altro albergo, oppure aspettare il buio e svignarsela da Wellington.
Si concede dieci minuti, un tempo più che sufficiente perché Virginia scenda i quattro piani di scale ed esca dall’Exeter. Naturalmente potrebbe essere nell’atrio, o di guardia all’ingresso dell’albergo sull’altro lato della strada - ma se non è nell’atrio lui uscirà da una porta sul retro, purché ci sia e riesca a trovarla. E se invece Brick la incontrasse nell’atrio? Non farà altro che scappare a gambe levate. Magari non sarà l’uomo più veloce del mondo, però durante il colloquio ha notato che Virginia portava stivali con i tacchi: e un uomo con le scarpe senza tacchi non dovrebbe avere alcun problema a correre più svelto di una donna con gli stivali con i tacchi.
Quanto all’abbraccio e al sorriso affettuoso, cosìcome al desiderio professato di rivederlo e al rimpianto di non essere uscita con lui ai tempi del liceo, Brick è oltremodo scettico. Virginia Blaine, la sua passione di quindicenne, era la ragazza più carina della classe, e tutti i ragazzi si scioglievano di voglie inespresse ogni volta che passava. Quando aveva detto che era lì lìper chiederle un appuntamento non era stato sincero. Certo, avrebbe voluto farlo, ma in quella fase della sua vita non avrebbe mai osato.
Cerniera del giubbotto tirata su, zaino appeso alla spalla destra, ecco che Brick scende imboccando la scala sul retro, l’uscita antincendio, che per fortuna gli permette di evitare completamente l’atrio conducendolo a una porta di metallo che si apre su una via parallela all’ingresso principale dell’albergo. Nessun segno di Virginia da nessuna parte, e il nostro stanchissimo eroe è talmente rasserenato dal successo della fuga che prova un momentaneo impulso di ottimismo: sente di poter finalmente aggiungere al lessico delle sue vicissitudini la parola speranza. Cammina svelto, sgusciando accanto a gruppi di pedoni, schivando un ragazzo su un bastone pogo, rallentando un po’ all’avvicinarsi di quattro soldati armati di fucile, ascoltando l’onnipresente rumore metallico delle bici per strada. Gira un angolo, poi un altro, poi un altro ancora, ed ecco lo lìdi fronte al Pulaski Diner, la tavola calda dove lavora Molly.
Brick entra e anche stavolta il posto è vuoto. Adesso che conosce l’ambiente, la cosa non lo sorprende più di tanto: perché la gente dovrebbe perder tempo a entrare in una tavola calda dove non hanno nulla da mangiare? Perciò non si vede ombra di cliente, ma la cosa più allarmante è l’assenza della stessa Molly. Pensando che magari sia uscita presto dal lavoro, Brick chiama il suo nome, e quando lei non compare lo chiama un’altra volta. Dopo qualche secondo di ansia la vede con sollievo entrare nella sala, però quando lei lo riconosce l’espressione annoiata sul suo volto subito si trasforma in preoccupazione, forse anche rabbia.
É tutto a posto?, gli chiede con voce tesa, sulla difensiva.
Sì e no, risponde Brick.
Cosa vuoi dire? Ti hanno fatto problemi, all’albergo? Nessun problema. Mi aspettavano. Ho pagato in anticipo una notte e sono salito in camera.
E com’era, la camera? Non ti è piaciuta?
Lascia che te lo dica, Molly, dice Brick, senza poter reprimere il sorriso che si sta allargando sulle sue labbra, ho viaggiato in tutto il mondo, e se parliamo di alloggi di prim’ordine, cioè del massimo di comfort ed eleganza, non c’è niente che regga lo strascico alla camera 406 dell’Exeter Hotel di Wellington.
A questa ironica osservazione, Molly fa un grande sorriso e di colpo sembra un’altra persona. Sì, lo so, dice. É un posticino di classe, vero?
Vedendo quel sorriso, Brick afferra di colpo il motivo del suo allarme. Inizialmente doveva aver creduto che lui fosse tornato per lagnarsi, per accusarla di averlo truffato, ma ora che sa che non è così ha abbassato la guardia, si è sciolta in un atteggiamento più amabile.
L’albergo non c’entra niente, dice. C’entra la situazione di cui ti avevo parlato prima. Ho un gruppo di persone alle calcagna. Vogliono farmi fare qualcosa che non voglio fare, e adesso sanno che alloggio all’Exeter. Quindi non posso più restarci. Per questo sono tornato. Per chiederti aiuto.
Perché a me?
Perché sei l’unica persona che conosco.
Tu non mi conosci, dice Molly, spostando il peso dalla gamba destra alla sinistra. Ti ho dato delle uova, ti ho trovato una stanza, abbiamo parlato per cinque minuti. Questo io non lo chiamo conoscermi.
Hai ragione. Non ti conosco. Ma non mi viene in mente un altro posto dove andare.
Perché dovrei rischiare per te? Probabilmente sei nei guai. Guai con la polizia o con l’esercito. Forse ci sei scappato, da quell’ospedale. Chissà, scommetto che era un manicomio. Dimmi un motivo valido per cui dovrei aiutarti.
Non ne ho. Neanche uno, risponde Brick, avvilito per aver sbagliato cosìmalamente il giudizio su questa ragazza, per essere stato cosìsciocco da credere di poter contare su di lei. La sola cosa che ti posso offrire sono i soldi, aggiunge, ricordando la busta di biglietti da cinquanta nello zaino. Se conosci un posto dove posso nascondermi per un po’, naturalmente ti pagherei.
Ah, be’, allora il discorso cambia, dice la trasparente, non troppo sveglia Molly. Quanti soldi sarebbero?
Non so. Dimmelo tu.
Diciamo che potrei tenerti a casa mia una notte o due.
Il divano è abbastanza lungo, a occhio dovresti starei. Però, le mani a posto. Il mio ragazzo vive con me e ha un brutto carattere, non so se mi spiego, quindi non metterti in testa scemenze.
Sono sposato. Non mi interessano queste cose.
Da morir dal ridere. In questo mondo non esiste uomo sposato che rinunci a una scopata extra, se gli capita a tiro.
Non è detto che io viva in questo mondo.
Sì, forse è vero, a pensarci bene. Questo spiegherebbe un sacco di cose, no?
D’accordo, allora, quanto mi fai pagare?, chiede Brick, ansioso di chiudere la trattativa.
Duecento carte.
Duecento? Siamo un po’ esose, non ti sembra?
Tu non sai proprio un cazzo, mio caro. Da queste parti più basso di cosìnon si può, è già sottoterra. Prendere o lasciare.
Va bene, dice Brick, chinando la testa con un lungo, lugubre sospiro. Prendo.
All’improvviso un urgente bisogno di svuotare la vescica. Ho fatto male a bere quell’ultimo bicchiere di vino, però la tentazione era troppa, e il fatto è che mi piace andare a dormire un po’ brillo. La bottiglia di succo di mela è appoggiata per terra accanto alletto, ma quando allungo una mano e la cerco a tastoni nel buio, sembra proprio introvabile. La bottiglia è stata un’idea di Miriam per risparmiarmi le pene e la difficoltà di scendere dal letto e zoppicare fino al bagno nel cuore della notte. Ottima, come idea, ma poi tutto sta ad avere sottomano la bottiglia, e in questa specifica notte le mie dita brancolanti, protese, non trovano il contatto col vetro. L’unica soluzione è accendere la lampada da notte, ma una volta fatto questo ogni possibilità che mi addormenti svanirà definitivamente. La lampadina è da soli quindici watt, però accenderla nel buio nero-inchiostro di questa stanza sarà come espormi a una vampata di fuoco lancinante. Per qualche secondo resterò abbagliato e poi, con l’espandersi delle pupille, sarò completamente sveglio e il mio cervello continuerà a rimuginare anche dopo aver rispento la luce, fino all’alba. Lo so per lunga esperienza: tutta una vita di battaglie contro me stesso nelle trincee della notte. E sia: non c’è niente da fare, proprio un bel niente. Accendo. Resto abbagliato. Sbatto piano le palpebre mentre i miei occhi si assuefanno ed ecco che l’ho vista, la bottiglia, ritta sul pavimento a quattro dita dal suo solito posto. Mi allungo, tendo il corpo ancora un po’ e afferro la maledetta. Poi, rovesciando indietro le coperte, a poco a poco mi tiro a sedere - con prudenza, piano piano, per non destare l’ira della mia gamba malandata -, svito il tappo, infilo il pistolino nel foro e lascio uscire la pipi. É sempre appagante questo momento in cui il fiotto comincia, e poi anche guardare il liquido giallo che sgorga nella bottiglia spumeggiando mentre il vetro si scalda nella mano. Quante volte orina una persona in settantadue anni? Potrei anche fare i calcoli, ma perché prendermi la briga adesso che il lavoro è quasi finito? Mentre sfilo il pene dall’imboccatura guardo il mio vecchio compare e mi chiedo se mi capiterà ancora un’occasione sessuale, se troverò mai più una donna disposta a venire a letto con me, a passare una notte fra le mie braccia. Ricaccio il pensiero e dico a me stesso di desistere, sapendo che questa è la strada della follia. Perché dovevi morire tu, Sonia? Perché non me ne sono andato io per primo?
Ritappo la bottiglia, la rimetto al suo posto preciso sul pavimento, e tiro su le coperte. E adesso? Spegnere la luce o non spegnerla? Vorrei tornare alla mia storia e scoprire che cosa succede a Owen Brick, ma sul ripiano basso del comodino ci sono le ultime puntate del libro di Miriam, e ho promesso di leggerle e dirle cosa ne penso. A furia di guardare film con Katya sono rimasto indietro, e mi secca pensare di averla trascurata. E allora solo un po’, un altro capitolo o due - per amore di Miriam.
Rose Hawthorne, ultima dei tre figli di Nathaniel Hawthorne, nata nel 1851, appena tredici anni quando morì suo padre, Rose rossa di capelli, nota in famiglia come Rosebud, il Bocciolo di Rosa, una donna che visse due vite, la prima triste, tormentata, fallimentare, la seconda straordinaria. Mi sono chiesto spesso perché Miriam avesse scelto di sobbarcarsi questo progetto, ma ora credo di cominciare a capire. Il suo ultimo libro è stato una biografia di John Donne, il principe coronato dai poeti, il genio dei geni, e poi si imbarca in un lavoro d’indagine su una donna che per quarantacinque anni ha brancolato per il mondo, una persona scontrosa e difficile, una «straniera a se stessa» per propria ammissione, che dapprima tentò la sorte con la musica, poi con la pittura, e non avendo avuto risultati con nessuna di queste attività si volse alla poesia e ai racconti, riuscendo anche a pubblicarne alcuni (senz’altro grazie al nome di suo padre), ma la sua produzione era pesante e goffa, a essere generosi mediocre: tranne un verso di una poesia citata nel manoscritto di Miriam, che mi piace moltissimo: Eil folle mondo viene avanti rotolando.
Aggiungiamo al ritratto pubblico le circostanze private della fuga d’amore, a vent’anni, col giovane scrittore George Lathrop, un talento che non mantenne mai le promesse, gli amari conflitti del loro matrimonio, la separazione, la riconciliazione, la morte a cinque anni del loro unico figlio, la separazione definitiva, i litigi protratti di Rose con suo fratello e sua sorella, e viene da pensare: perché darsi la pena, perché dedicare tempo all’esplorazione dell’anima di una persona così insignificante e infelice? Ma poi, nella maturità, Rose ebbe una metamorfosi. Si converti al cattolicesimo, prese i voti e fondò un ordine di suore, le Serve del conforto per il cancro incurabile, dedicando i suoi ultimi trent’anni alla cura dei malati terminali poveri come appassionata tutrice del diritto di ognuno a morire con dignità. Il folle mondo viene avanti. In altre parole, come per Donne, la vita di Rose Hawthorne fu una storia di conversione, e questa doveva essere l’attrattiva, l’elemento che accese la scintilla dell’interesse di Miriam verso di lei. Perché dovesse poi interessarle, è un’ altra faccenda, ma credo che le venga direttamente da sua madre: una fondamentale convinzione che le persone hanno il potere di cambiare. Insomma era l’influsso di Sonia, non il mio, e forse è per questo che è una persona migliore, ma per quanto mia figlia sia intelligente, in lei c’è anche qualcosa di ingenuo e fragile, e vorrei tanto che imparasse che le azioni abiette che gli esseri umani perpetrano gli uni contro gli altri non sono solo aberrazioni, ma una parte essenziale di quello che noi siamo. In questo modo soffrirebbe meno. Il mondo non le crollerebbe addosso ogni volta che le succede qualcosa di negativo, e non si addormenterebbe ogni notte in lacrime.
Non voglio dire che il divorzio non sia una cosa crudele. Dolore indicibile, atroce disperazione, rabbia diabolica, e nella testa una nuvola costante di tristezza, che a poco a poco si trasforma in una specie di lutto, come se stessimo piangendo una morte. Ma Richard ha lasciato Miriam cinque anni fa, e uno si aspetterebbe che ormai si sia adattata alla sua nuova situazione, si sia rimessa in gioco, abbia cercato di ridisegnare la propria vita. Invece tutta la sua energia si è convogliata nell’insegnamento e nella scrittura, e ogniqualvolta sollevo la questione di altri uomini drizza il pelo. Per fortuna, quando ci fu la rottura Katya aveva già diciotto anni ed era via all’università, era abbastanza grande e forte da assorbire il trauma senza crollare. Era stata molto più dura per Miriam quando io mi separai da mia moglie. Aveva solo quindici anni, lei, un’età molto più vulnerabile, e anche se Sonia e io tornl’tmmo insieme.nove anni dopo, ormai il danno era fatto. É già difficile da adulti sopravvivere a un divorzio, ma da ragazzi è ancora peggio. Sono del tutto impotenti, e portano il peso più grande del dolore.
Miriam e Richard commisero lo stesso errore mio e di Sonia: si sposarono quando erano troppo giovani. Nel nostro caso avevamo entrambi ventidue anni - caso non molto raro nel lontano 1957. Ma quando Miriam e Richard salirono all’altare un quarto di secolo dopo, lei aveva la stessa età di sua madre. Richard aveva qualche anno in più, diciamo ventiquattro o venticinque, ma ormai il mondo era cambiato, ed erano poco più che bambini, due studentelli-primi-della-classe che si stavano specializzando a Yale; e meno di due anni dopo ebbero anche una figlia. Non lo capiva, Miriam, che c’era il rischio che Richard scivolasse nell’irrequietudine? Non capiva che un professore quarantenne, davanti a un’aula piena di studentesse rischiava di finire stregato da quei giovani corpi? É la storia più vecchia del mondo, ma Miriam - la sgobbona, fedele, nervosa Miriam - non ci badava. Pur avendo la storia di sua madre impressa a fuoco nel profondo dell’anima: quel momento terribile in cui quel farabutto di suo padre, dopo diciotto anni di matrimonio, se n’era andato con una ragazza di ventisei anni. lo allora ne avevo quaranta. Diffidate dei quarantenni.
Perché faccio casi? Perché insisto a percorrere questi sentieri vecchi e stanchi; perché questa pulsione a tormeqtare le vecchie ferite e farle sanguinare un’ altra volta? É impossibile descrivere un disprezzo maggiore di quello che provo talora per me stesso. Avrei dovuto leggere il manoscritto di Miriam e invece eccomi qui con gli occhi fissi su una crepa nel muro, a setacciare i resti del passato, cose rotte che non si potranno riparare mai. Datemi il mio racconto. Non voglio altro, adesso - il mio raccontino per tener lontani i fantasmi. Prima di spegnere la luce sfoglio a caso il manoscritto fino a un’ altra pagina ed ecco cosa trovo: gli ultimi due paragrafi della nota biografica di Rose sul padre - scritti nel 1896 -, che raccontano l’ultima volta in cui lo vide.
Mi sembrò terribile che un uomo di eccezionale forza, così sensibile e luminoso come mio padre, dovesse farsi vieppiù debole e fioco, e infine immoto e bianco come un fantasma. E tuttavia, mentre il passo era vacillante e la figura quella di uno spettro, conservava la dignità dei suoi giorni più fieri, portandosi, con militaresco autocontrollo, ancor più eretto di prima. Non mancava di venire a cena col suo migliore abito nero, laddove l’estrema modestia del vitto non influiva sulla distinzione del pasto. Odiava il fallimento, la dipendenza e il disordine, la trascuraggine delle regole e la mollezza della disciplina, come odiava la codardia. Non so esprimere quanto mi apparisse coraggioso. L’ultima volta che lo vidi stava lasciando la casa per compiere quel viaggio curativo che lo condusse improvvisamente nell’altro mondo. Mia madre doveva accompagnarlo alla stazione: mia madre, che quando le dissero che era morto, come si seppe in seguito barcollò e gemette, seppur tanto lontana da lui, dicendoci che qualcosa sembrava inaridirle ogni forza; a fatica lasciai che i miei occhi si posassero sulla sua persona rattratta e sofferente in quel giorno degli addii. Mio padre sapeva per certo quello che lei sentiva vagamente, cioè che non sarebbe mai tornato.
Come il simulacro di neve di un uomo non piegato ma vecchio, molto vecchio, rimase per un attimo a guardarmi. Mia madre singhiozzò camminando al suo fianco verso la carrozza. Ci è mancato sempre, da allora: con il sole, la pioggia, nel crepuscolo.
Spengo, e daccapo mi ritrovo al buio, risucchiato dal buio infinito, balsamico. In lontananza sento i rumori di un camion che viaggia su una strada di campagna deserta. Ascolto l’aria entrarmi e uscirmi dalle narici. Stando alla sveglia sul comodino, che ho controllato prima di spegnere la lampada, è mezzanotte e venti. Ore e ore fino all’alba, gran parte della notte ancora davanti a me... A Hawthorne non importava. Se il Sud vuole staccarsi dal paese, disse, lasciamoli andare, sarà meglio perderli che trovarli. Il folle mondo, il mondo percosso, il mondo che viene avanti mentre le guerre divampano attorno a noi: le braccia mozzate in Africa, le teste mozzate in Iraq, e nella mia testa quest’altra guerra, una guerra immaginaria sul suolo di casa nostra, l’America spaccata, il nobile esperimento infine morto. I miei pensieri vagano ancora verso Wellington e di colpo rivedo Owen Brick seduto in uno dei séparé al Pulaski Diner, che guarda Molly Wald passare lo straccio su tavoli e bancone mentre si avvicinano le sei. Poi sono sulla strada, camminano insieme in silenzio, lei lo conduce verso il suo appartamento, i marciapiedi gremiti di uomini dall’aria stanchissima e di donne che tornano a casa arrancando dopo il lavoro, soldati con i fucili di guardia agli incroci principali, un cielo dai riflessi rosei sopra la testa. Brick ha perso ogni fiducia in Molly. Capendo che non può contare su di lei, che non può contare su nessuno, una ventina di minuti prima che uscissero è sgattaiolato nel gabinetto della tavola calda e ha trasferito la busta di biglietti da cinquanta dallo zaino nella tasca anteriore destra dei jeans. Sentiva che così avrebbe corso meno rischi di essere rapinato, e quando quella sera andrà a dormire è ben deciso a tenersi i calzoni. Nel gabinetto si è preso finalmente la briga di controllare i soldi, e vedere la faccia di Ulysses S. Grant incisa sul davanti di ciascuna banconota lo ha un po’ rincuorato. È la dimostrazione che questa America, quest’altra America che non ha passato l’Il settembre o la guerra in Iraq, tuttavia ha forti legami storici con l’America che lui conosce. La domanda è: a che punto le due storie hanno cominciato a divergere?
Molly, dice Brick, rompendo il silenzio quando camminano da dieci minuti, ti spiace se ti faccio una domanda?
Dipende dalla domanda, risponde lei.
Hai mai sentito parlare della seconda guerra mondiale? La cameriera fa un breve grugnito di irritazione. Cosa mi credi?, gli chiede. Una ritardata? Sicuro che ne ho sentito parlare.
E del Vietnam?
Mio nonno è stato uno dei primi soldati che han fatto evacuare.
Se ti dicessi New York Yankees, cosa diresti?
Ma dài, lo sanno tutti.
Ma tu cosa diresti?
Con un sospiro di impazienza, Molly lo guarda e annuncia in tono sarcastico: Le New York Yankees? Sono quelle ragazze che ballano alla Radio City Music Hall.
Ottimo. E invece le Rockettes sono una squadra di baseball, vero?
Esatto.
Bene. Un’ultima domanda, poi smetto.
Lo sai che sei davvero un rompiballe?
Mi spiace. So che mi credi uno stupido, ma non è colpa mia.
No, infatti. Sei solo nato così.
Chi è il presidente?
Come, il presidente? Cosa dici? Non abbiamo nessun presidente.
No? E allora chi sta a capo del governo?
Il primo ministro, scemo. Oh Cristo santo, ma da che pianeta arrivi?
Ho capito. Gli stati indipendenti hanno un primo ministro. Ma quelli federali? Loro ce l’hanno ancora, un presidente?
Naturale.
E come si chiama?
Bush.
George W.?
Si. George W. Bush.
Brick mantiene la parola evitando di fare altre domande e i due continuano a camminare in silenzio. Un paio di minuti dopo Molly indica una casa di legno a quattro piani in un quartiere popolare, costituito da una schiera di case in legno a quattro piani simili, tutte abbastanza bisognose di pittura. Cumberland Avenue 628. Eccoci, dice Molly, tirando fuori una chiave dalla borsa e aprendo la porta; poi Brick la segue su due rampe di scale traballanti, fino all’appartamento che occupa insieme al suo ragazzo. Piccolo ma in ordine, composto da una camera da letto, il soggiorno, la cucina e un bagno con doccia però senza vasca. Mentre si guarda attorno, Brick nota con stupore che non ci sono né il televisore né la radio. Quando lo segnala a Molly, lei gli spiega che tutti i ripetitori dello stato sono stati fatti saltare nelle prime settimane di guerra e il governo non ha abbastanza soldi per ricostruirli.
Forse quando la guerra sarà finita, dice Brick.
Seh, forse, risponde Molly, sedendosi sul divano del soggiorno e accendendosi una sigaretta. Fatto sta che sembra non interessi più a nessuno. All’inizio è stata dura - mioddio, niente Tv! - ma poi diciamo che ci si abitua, e dopo un altro paio d’anni comincia a piacerti. Cioè, il silenzio. Niente più voci urlanti ventiquattro ore al giorno. Ora, vabbè, è una vita un po’ all’antica, tipo come saranno state le cose cento anni fa. Se vuoi avere notizie, leggi il giornale. Se vuoi vedere un film, vai al cinema. Niente più stravaccamenti sul divano. So che è morta un sacco di gente e che è proprio bruttissima, là al fronte, ma forse ne è davvero valsa la pena. Forse. Soltanto forse. Se la guerra non finisce presto, andrà tutto a puttane.
Brick non sa perché, ma capisce che Molly non gli sta più parlando come se fosse un deficiente. Come interpretare questo inatteso cambiamento di tono? Con il fatto che ha finito di lavorare, e se ne sta comodamente seduta nel suo appartamento a fumare una sigaretta? Con il fatto che comincia ad avere pietà di lui? O viceversa con il fatto che l’ha resa più ricca di duecento dollari e quindi lei ha deciso di smetterla di prenderlo in giro? In ogni caso, pensa Brick, una ragazza dai diversi volti, magari non ottusa come sembra, ma neanche un’aquila. Avrebbe altre cento domande da farle, ma decide di non abusare della propria fortuna.
Spenta la sigaretta, Molly si alza in piedi e dice a Brick che fra meno di un’ora ha un appuntamento per cena dall’altra parte della città col suo ragazzo. Si avvicina a un armadio fra la camera da letto e la cucina, tira fuori due lenzuola, due coperte e un cuscino, li porta in soggiorno e li lascia cadere sul divano.
To’, ecco qua, gli dice. Biancheria da letto per il tuo letto, che non è un vero letto. Spero non abbia troppi bozzi.
Sono talmente stanco, risponde Brick, che riuscirei a dormire anche sui sassi.
Se ti vien fame, in cucina c’è un po’ di roba. Un barattolo di minestra, il pane, delle fette di tacchino. Puoi farti un sandwich.
Quanto?
Non ho capito.
A quanto me lo metti?
Finiscila. Non ti faccio pagare per un po’ di cibo. Mi hai già dato abbastanza.
E per la colazione di domattina?
Non c’è problema. Ma non abbiamo molto. Solo caffè e pane tostato.
Senza aspettare la risposta di Brick, Molly corre in camera a cambiarsi. La porta sbatte e Brick comincia a farsi il letto che non è un letto. Quando ha finito si aggira nella stanza cercando giornali o riviste, nella speranza di trovare qualcosa che lo informi sulla guerra, qualcosa che gli dia un’idea di dove si trova, qualche frammento di notizia che lo aiuti a saperne un po’ di più del paese sconcertante dove è capitato. Ma in soggiorno non ci sono né giornali né riviste, solo una piccola libreria stipata di mystery e thriller tascabili che non ha voglia di leggere.
Torna verso il divano, si siede, posa il capo sul poggiatesta foderato e si addormenta subito.
Mezz’ora dopo, quando riapre gli occhi, la porta della camera da letto è socchiusa e Molly non c’è più.
Fruga nella stanza in cerca dei giornali - invano.
Poi entra in cucina per riscaldarsi un barattolo di minestra di verdure e prepararsi un sandwich al tacchino.
Nota che le marche gli sono conosciute: Progresso, Boar’s Head, Arnold’s. Lavando i piatti dopo aver terminato questo pasto modesto, guarda il telefono bianco alla parete e si domanda che succederebbe se provasse a chiamare Flora.
Prende il ricevitore, compone il numero di casa sua a Jackson Heights e in breve conosce la risposta. Il numero è fuori servizio.
Asciuga i piatti e li rimette nella credenza. Quindi, spenta la luce in cucina, va nel soggiorno e pensa a Flora, la sua compagna di letto argentina con i capelli scuri, il suo piccolo vulcano, sua moglie negli ultimi tre anni. Cosa starà passando, dice fra sé.
Spegne la luce in soggiorno. Si slaccia le scarpe. Si infila sotto le coperte. Si addormenta.
Qualche ora dopo lo sveglia il rumore di una chiave che entra nella serratura dell’appartamento. Tenendo gli occhi chiusi, Brick ascolta lo scalpiccio, il suono basso di una voce maschile, quella più acuta e metallica della sua compagna, senz’altro Molly, certo, è proprio Molly, che parla all’uomo chiamandolo Duke, e poi si accende una luce che ondeggia come un barlume rossastro sulla superficie delle sue palpebre. Sembrano tutti e due un po’ ubriachi, e quando la luce si spegne ed entrano a passi pesanti nella camera - dove immediatamente si accende un’altra luce -, Brick capisce che stanno bisticciando. Prima che la porta si chiuda coglie le parole non mi va, duecento, pericoloso, innocuo, e si rende conto che l’argomento della discussione è lui, e che Duke non è al settimo cielo per la sua presenza in casa.
Riuscendo a riaddormentarsi quando il trambusto in camera si spegne (suoni di accoppiamento: grugniti di Duke, squittii di Molly, cigolii di materasso e molle), Brick scivola poi in un complicato sogno su Flora. Dapprima le sta parlando al telefono. Non è la voce di Flora, però, con le sue r sonore e la cantilena, ma la voce di Virginia Blaine, e Virginia/Flora lo sta pregando di volare - non camminare, volare - fino a un certo angolo di Buffalo, nello Stato di New York, dove lei sarà in piedi, nuda sotto un impermeabile trasparente, con un ombrello rosso in una mano e un tulipano bianco nell’altra. Brick scoppia a piangere, le dice che lui non sa volare, al che Virginia Flora grida rabbiosamente nella cornetta che non vuole vederlo mai più, e riaggancia. Sbigottito per tanta veemenza, Brick scuote la testa e mormora fra sé: Ma oggi non sono a Buffalo, sono a Worcester, nel Massachusetts. Quindi sta camminando su una strada a Jackson Heights, vestito nel suo costume da Grande Zavello con il lungo mantello nero, alla ricerca della sua palazzina condominiale. Ma la palazzina non c’è più, e al suo posto c’è una villetta a un piano, di legno, la porta sormontata da un cartello con la scritta Clinica Odontoiatrica All-American. Entra e c’è Flora, quella vera, vestita da infermiera. Sono molto contenta che sia venuto, Mr Brick, gli dice, a quanto pare senza riconoscerlo, e poi lo sta accompagnando in uno studio e gli fa cenno di sedersi su una poltrona da dentista. É davvero un peccato, dice, prendendo una pinza grossa, scintillante, un peccato davvero, ma sembra proprio che dovremo strapparle tutti i denti. Proprio tutti?, chiede Brick, di colpo atterrito. Si, risponde Flora, tutti quanti. Ma non si preoccupi. Quando avremo finito, il dottore le darà una faccia nuova.
Il sogno termina qui. Qualcuno sta scrollando Brick per una spalla mentre sbraita parole al suo indirizzo, e quando infine il sognatore intontito apre gli occhi, vede un uomo grande e grosso, con spalle larghe e braccia nerborute, che torreggia su di lui. É uno di quelli che fanno body building, pensa Brick, il fidanzato Duke, quello con un brutto carattere, in maglietta nera aderente e calzoncini azzurri, che gli dice di levarsi dai coglioni, fuori di qui.
Ma io ho già pagato... comincia Brick.
Per una notte, grida Duke. Adesso la notte è finita, e devi andartene.
Un momento, un momento solo, dice Brick alzando la mano destra in segno di pace. Molly mi ha promesso la colazione. Caffè e pane tostato. Mi accontento di un goccio di caffè, poi me ne vado.
Niente caffè. Né pane. Niente di niente.
E se te li pagassi? Cioè, un piccolo extra.
Che, sei sordo, allora?
E con queste parole Duke si china, agguanta Brick per il maglione e lo solleva di peso. Ora che è in piedi, Brick ha una vista chiara della porta della stanza da letto, e nel momento in cui la vede esce Molly, che si stringe la cintura dell’accappatoio e si passa le mani fra i capelli.
Basta, fa a Duke. Non devi metterla sulla violenza. Taci, ribatte lui. Hai combinato tu questo casino, e adesso tocca a me rimediare.
Molly alza le spalle e poi guarda Brick con un sorrisetto di scuse. Mi rincresce, dice. Ora sarà meglio che tu vada.
Mentre infila i piedi nelle scarpe senza neanche allacciarle, prende il giubbotto dal fondo del divano e se lo rimette addosso, Brick le dice: Non capisco. Ti do tutti ‘sti soldi, e ora mi cacci. Non ha senso.
Invece di rispondergli, Molly guarda per terra e rialza le spalle. Quel gesto apatico ha in sé tutta la forza di una diserzione, di un tradimento. Senza più un’alleata che si batta per lui, Brick decide di andarsene senza protestare oltre. Si china e solleva dal pavimento lo zaino verde, ma appena si volta per uscire Duke gliela strappa di mano.
Questo cos’è?, gli chiede.
La mia roba, risponde Brick. Ovviamente.
La tua roba?, ribatte Duke. Secondo me no, buffone.
Cosa stai dicendo?
Che adesso è mia.
Tua? Non puoi farlo. Lì dentro c’è tutto quello che ho.
Allora prova a riprendertela.
Brick capisce che Duke vuole la rissa, e che la borsa è solo un pretesto. Sa anche che se viene alle mani col fidanzata di Molly è praticamente sicuro che prenderà un sacco di botte. O questo è quanto gli dice il cervello nell’istante in cui sente Duke lanciare la sfida: ma Brick non pensa più col cervello, perché l’indignazione che gli monta dentro ha sgominato ogni raziocinio, e se consentirà a questo bestione di fare a modo suo senza opporgli nessuna resistenza, perderà il poco rispetto di se stesso che gli rimane. E allora Brick non si arrende, ma inaspettatamente ristrappa la borsa dalle mani di Duke, e qui all’istante comincia il pestaggio, un’ aggressione così unilaterale e fulminea che l’energumeno atterra Brick con soli tre colpi: sinistro al ventre, destro al volto e ginocchiata nelle palle. Il dolore si espande in ogni angolo del corpo del prestigiatore, e mentre lui si rotola sul tappeto sdrucito annaspando per riprendere fiato, tenendosi una mano sullo stomaco e l’altra attorno allo scroto, vede prima del sangue gocciolare dalla ferita che si è aperta nella sua guancia; e poi, sdraiato nella pozza rossa che si sta formando, il frammento di un dente - la metà inferiore del suo incisivo sinistro. Si rende conto solo vagamente delle grida di Molly, flebili come se provenissero da dieci isolati più in là. Un momento dopo, non capisce più nulla.
Quando riprende il filo della propria storia, Brick si ritrova in piedi, impegnato a far scendere il proprio corpo dalle scale reggendosi alla ringhiera con entrambe le mani, procedendo verso il piano terra lentamente, un gradino alla volta. Lo zaino non c’è più, il che significa che non ci sono più neppure la pistola e le pallottole, per non parlare di tutte le altre cose che erano nella borsa, ma quando Brick si interrompe per frugare nella tasca anteriore destra dei suoi jeans, sulla bocca devastata gli frulla la traccia di un sorriso, il sorriso amaro di chi non è completamente sconfitto. I soldi ci sono ancora. Non più i mille che gli aveva dato Tobak ieri mattina, ma cinquecentosessantacinque dollari sono meglio di niente, pensa lui, più che sufficienti per trovarsi una stanza da qualche parte e un boccone da mangiare. Adesso i suoi pensieri non possono portarlo più in là di tanto. Nascondersi, lavarsi il sangue dalla faccia, riempire lo stomaco se e quando l’appetito tornerà.
Per modesti che siano, questi piani svaniscono nell’attimo in cui esce di casa e si trova sul marciapiede. Dritta di fronte a lui, con le braccia conserte e la schiena appoggiata alla portiera di una jeep militare, Virginia Blaine sta guardando Brick con una faccia disgustata.
Niente furbate, dice. Me l’avevi promesso.
Virginia, risponde Brick, facendo del suo meglio per cadere dalle nuvole. Che cosa ci fai qui?
Ignorando la domanda, l’ex reginetta del corso di geometria di Miss Blunt scuote il capo e ribatte: Dovevamo vederçi ieri pomeriggio alle cinque e mezzo. Mi hai bidonata.
É successa una cosa e son dovuto andare via all’ultimo momento.
Vuoi dire che sono successa io, e sei scappatovia.
Non riuscendo a trovare una risposta, Brick tace.
Non hai un bell’aspetto, Owen, continua Virginia.
No, immagino di no. Mi hanno appena fatto un mazzo così.
Dovresti stare attento alle compagnie che frequenti.
Quel Rothstein è uno tosto.
Chi è Rothstein?
Duke. Il ragazzo di Molly.
Lo conosci?
Lavora per noi. È uno dei nostri uomini migliori.
È un animale. Un sadico pezzo di merda.
É stata tutta una commedia, Owen. Per darti una lezione.
Ah, sì? Brick sbuffa, gonfiandosi di sdegno. E che lezione sarebbe? Mi ha rotto un dente, il figlio di puttana.
Ti è andata bene che non te li ha rotti tutti.
Tante grazie, borbotta Brick in tono sarcastico, e poi, d’un tratto, gli ritorna in mente l’ultimo capitolo del sogno: la Clinica Odontoiatrica All-American, Flora e la pinza, la faccia nuova. Bene, pensa Brick toccandosi la ferita sulla guancia, adesso ho la mia faccia nuova, giusto? Grazie al pugno di Rothstein.
Non puoi vincere, gli dice Virginia. Ovunque tu vada ci sarà qualcuno che ti osserva. Non ci sfuggirai mai.
Questo lo dici tu, fa Brick, che non vuole ancora cedere, ma in cuor suo sa che Virginia ha ragione.
Ergo, mio caro Owen, questo piccolo intermezzo di temporeggiamenti e nascondini è finito. Salta sulla jeep. E ora che parli con Frisk.
Scordatelo, Virginia. lo non posso saltare, non posso correre e non posso ancora andare da nessuna parte. Ho la faccia sanguinante, i coglioni in fiamme, e tutti i muscoli dell’addome a pezzi. Prima devo rimettermi in sesto. Poi parlerò con quel tizio. Però almeno lasciami fare un bagno, accidenti.
Per la prima volta dall’inizio della conversazione, Virginia sorride. Povero scemo, dice, con un sorrisetto lezioso di compassione, ma se questa nuova sollecitudine per lui sia vera o falsa, Brick proprio non lo capisce.
Stai con me o no?, le chiede.
Monta, gli dice lei, dando un buffetto alla portiera. Certo che sto con te. Ti porto a casa mia, e lì ti rimetteremo a posto. É ancora presto. Lou può aspettare. Basta che ti veda prima di sera.
Rassicurato, Brick zoppica fino alla jeep e issa la sua carcassa sofferente sul sedile del passeggero mentre Virginia si mette al volante. Quindi accende il motore e si lancia in un lungo e tortuoso racconto della guerra civile, sentendosi evidentemente in dovere di illustrare a Brick lo sfondo storico del conflitto; ma il problema è che lui non è in condizione di seguire quello che sta dicendo, e mentre corrono sulle strade tutte buche di Wellington, ogni sobbalzo e ogni accelerata trasmettono al suo corpo un nuovo assalto di dolore. Peggio ancora, il fracasso del motore è così forte che quasi sovrasta la voce di Virginia, e per sentire almeno qualcosa Brick deve tendere le orecchie per quanto gli permettono le forze, che sono come minimo ridotte, se non del tutto azzerate. Afferrando a due mani il fondo del sedile, puntando contro il pavimento le suole per reggersi al sobbalzo successivo del telaio, resta per tutti i venti minuti del viaggio con gli occhi chiusi, e delle mille e mille notizie che gli vengono disordinatamente seminatè addosso tra l’appartamento di Molly e la casa di Virginia, questo è quanto riesce a trattenere:
Le elezioni del 2000... subito dopo la sentenza della corte suprema... proteste... tumulti nelle principali città... un movimento per abolire il collegio elettorale... la proposta di legge battuta al Congresso... un nuovo movimento... capeggiato dal sindaco e dai presidenti dei boroughs di New York... secessione... approvata dal corpo legislativo dello stato nel 2003... le truppe federali attaccano... Albany, Buffalo, Syracuse, Rochester... la città di New York bombardata, 80000 morti... ma il movimento cresce... nel 2004 il Maine, il New Hampshire, il Vermont, il Massachusetts, il Connecticut, il New Jersey e la Pennsylvania si uniscono a New York negli Stati Indipendenti d’America... più tardi quell’anno stesso la California, l’Oregon e Washington si staccano per formare una propria repubblica, la Pacifica... nel 2005 l’Ohio, il Michigan, l’Illinois, il Wisconsin e il Minnesota entrano a far parte degli Stati Indipendenti... l’Unione Europea riconosce il nuovo paese vengono strette relazioni diplomatiche ... poi il Messico quindi i paesi dell’America centrale e di quella meridionale... segue la Russia, e poi il Giappone... Nel frattempo gli scontri continuano, spesso terrificanti, il conto delle perdite sale senza sosta... risoluzioni dell’Onu ignorate dai Federali, ma finora non si è fatto uso di armi nucleari, che significherebbero morte per tutti da entrambe le parti... Politica estera: non intromettersi negli affari di nessuno... Politica interna: assistenza sanitaria per tutti, niente più petrolio, niente auto o aeroplani, aumento del quattrocento per cento degli stipendi degli insegnanti (per attirare verso la professione gli studenti migliori), rigoroso controllo delle armi da fuoco, istruzione gratuita e formazione lavorativa per i poveri... per ora tutto nel regno della fantasia, un sogno per il futuro, dato che la guerra continua a trascinarsi ed è ancora in vigore lo stato di emergenza.
La jeep rallenta e poi si ferma. Quando Virginia spegne il motore, Brick apre gli occhi e scopre di non essere più al centro di Wellington. Sono arrivati in una lussuosa via suburbana con grandi case in stile Tudor circondate di prati inappuntabili, aiuole di tulipani, cespugli di forsizie e rododendri, la miri ade di simboli del benessere. Mentre scende dalla jeep e guarda lungo l’isolato, però, nota che alcune case sono in rovina: finestre rotte, muri carbonizzati, grossi buchi nelle facciate, gusci abbandonati dove un tempo vivevano persone. Brick immagina che il quartiere abbia subito un bombardamento durante la guerra, ma non fa domande. Invece osserva blandamente, puntando il dito verso la casa dove stanno per entrare: Che bel posto, Virginia. Pare che tu ne abbia fatta di strada.
Mio marito era avvocato, esperto di diritto commerciale, risponde lei con voce atona, riluttante a parlare del passato. Ha guadagnato un sacco di soldi.
Virginia apre con una chiave la porta ed entrano in casa.
Un bagno caldo, immerso fino al collo nell’acqua per venti minuti, mezz’ora, inerte, placido, solo. Poi si mette l’accappatoio del defunto marito di Virginia, entra in camera da letto e si siede su una sedia mentre Virginia gli applica con pazienza un antibatterico sulla guancia e copre la ferita con una piccola benda. Brick comincia a sentirsi un po’ meglio. Le meraviglie dell’acqua, dice fra sé, rendendosi conto che il dolore all’addome e alle parti basse è quasi scomparso. La guancia gli fa ancora male, ma pure questo fastidio finirà per calmarsi. Quanto al dente in meno, non si può fare nulla finché non potrà andare dal dentista a farsi mettere una capsula; ma dubita che succederà presto. Per ora (come confermato dall’esame del proprio volto nello specchio del bagno) l’effetto è davvero ripugnante. Basta qualche centimetro di smalto in meno per sembrare un povero balordo, uno zotico ritardato. Meno male che il buco si vede solo quando sorride; e nelle condizioni attuali sorridere è l’ultima cosa che Brick ha voglia di fare. A meno che l’incubo non finisca, pensa, è molto probabile che non sorriderà mai più per il resto della vita.
Venti minuti dopo, vestito e seduto in cucina con Virginia - che gli ha preparato pane tostato e caffè, la stessa colazione minima che quel mattino gli era quasi costata la vita -, Brick sta rispondendo alla decima domanda che lei gli ha fatto riguardo a Flora. La curiosità di Virginia lo lascia perplesso. Se è la responsabile di averlo portato in questo posto, logica vuole che sappia già tutto di lui, comprese le vicende del suo matrimonio con Flora. Invece lei è insaziabile, e adesso Brick comincia a sospettare che tutte queste domande siano solo un espediente per trattenerlo in casa, per fargli perdere la nozione del tempo cosicché non ritenti di fuggire prima dell’arrivo di Frisk. E lui in effetti vorrebbe fuggire, ma dopo il lungo ammollo nella vasca da bagno, e l’accappatoio, e la delicatezza delle dita di Virginia mentre gli bendava il viso, qualcosa in lui ha cominciato ad ammorbidirsi, e sente pian piano riaccendersi la vecchia fiamma dell’adolescenza.
L’ho conosciuta a Manhattan, le spiega. Circa tre anni e mezzo fa. A una sontuosa festa di compleanno di un ragazzo, nell’Upper East Side. lo facevo il prestigiatore, e lei era nel catering.
È bella, Owen?
Per me, si. Non una bellezza come sei tu, Virginia, con il tuo viso incredibile e il tuo fisico slanciato. Flora è piccola, uno e sessanta o poco più, un donnino, davvero, ma ha quei due occhioni di fuoco, e i capelli scuri aggrovigliati e la risata più bella che abbia mai sentito.
La ami? Certo.
E lei ti ama?
Sì. Almeno, quasi sempre. Flora ha un caratteraccio, e può partire per la tangente con tirate paurose. Quando litighiamo mi vie n sempre da pensare che l’unico motivo per cui mi ha sposato sia che voleva la cittadinanza americana. Ma non capita spesso. Nove giorni su dieci andiamo d’accordo. Sul serio.
Bambini, ne volete?
Sono in programma. Abbiamo cominciato a provarci un paio di mesi fa.
Non rinunciate. É l’errore che ho fatto io. Ho aspettato troppo tempo, e adesso... guardami. Niente marito, niente figli: niente.
Sei ancora giovane. E sei sempre la bella del quartiere. Qualcun altro arriverà, ne sono sicuro.
Prima che Virginia possa rispondergli, suona il campanello. Lei si alza, mormorando sottovoce cazzo come se fosse sincera, come se l’intrusione la contrariasse davvero, ma Brick sa che ormai ha le spalle al muro: ogni speranza di fuga è svanita. Prima di uscire dalla cucina, Virginia si volta verso di lui e dice: Ho chiamato mentre facevi il bagno. Gli ho detto di venire fra le quattro e le cinque, ma evidentemente non poteva aspettare. Scusami, Owen. Avrei voluto avere quelle ore con te per sedurti fino a farti saltare i pantaloni. Sul serio. Avrei voluto scopare con te fino a farti scoppiare la testa. Ricordalo quando tornerai a casa.
A casa? Stai dicendo che tornerò a casa?
Lou ti spiegherà. È il suo mestiere. lo sono solo un ufficiale addetto al personale, un piccolo ingranaggio in una grande macchina.
Lou Frisk si rivela un cinquantenne accigliato, bassotto, con le spalle striminzite, gli occhiali cerchiati di metallo e la pelle butterata di chi ha sofferto di acne. Indossa un maglione a V, una camicia bianca e una cravatta scozzese, e nella mano sinistra ha una borsa nera che sembra una valigetta da medico. Appena entra in cucina posa la borsa e dice: Tu hai cercato di evitarmi, caporale.
Non sono caporale, risponde Brick. Lo sai benissimo. Non ho mai fatto il soldato in vita mia.
Non nel tuo mondo, dice Frisk, ma in questo mondo sei un caporale del Settimo Massachusetts, un membro delle forze armate degli Stati Indipendenti d’America.
Prendendosi la testa fra le mani, Brick fa un piccolo gemito mentre un altro elemento del sogno gli torna in mente: Worcester, Massachusetts. Alza gli occhi, vede Frisk sedersi su una sedia all’altro lato del tavolo e dice: Allora sono nel Massachusetts. È questo che mi stai dicendo?
Frisk annuisce. Wellington, Massachusetts. Già nota come Worcester.
Brick batte il pugno sul tavolo dando finalmente sfogo alla rabbia che si è accumulata in lui. Questo non lo accetto!, grida. Ho qualcuno dentro la testa. Neanche i miei sogni mi appartengono più. Mi hanno rubato tutta la mia vita. Poi, voltandosi verso Frisk e fissandolo negli occhi, grida a squarciagola: Chi mi sta facendo questo?
Non prendertela, gli risponde Frisk, dandogli un buffetto sul capo. Hai tutti i diritti di essere confuso. Per questo sono qui. Sono quello che spiega, che sistema le cose. Non vogliamo che tu soffra. Se fossi venuto da me quando dovevi, non avresti fatto quel sogno. Capisci cosa sto cercando di dirti?
No, risponde Brick più pacatamente.
Attraverso i muri della casa coglie il suono leggero del motore della jeep che si accende, e poi lo stridore lontano di un cambio di marcia mentre Virginia va via.
Virginia?, chiede.
Virginia cosa?
È lei che è partita, vero?
Ha molto da fare, e la nostra faccenda non la riguarda. Non mi ha nemmeno salutato, aggiunge Brick, restio a lasciar cadere l’argomento. Ha un tono offeso, come se non potesse credere che lei lo abbia mollato con tanta leggerezza.
Dimentica Virginia, dice Frisk. Abbiamo cose più importanti di cui parlare.
Mi ha detto che sarei tornato a casa. É vero?
Si. Ma prima devo spiegarti perché. Ascoltami bene, Brick, e poi rispondimi sinceramente. Frisk appoggia le braccia sul tavolo, si fa avanti e domanda: Siamo nel mondo reale, oppure no?
Come faccio a saperlo? Tutto sembra reale. Tutti i discorsi sembrano reali. Sto qui seduto nel mio corpo, ma nello stesso tempo non posso essere qui, giusto? Il mio posto è altrove.
È vero, tu sei qui. E il tuo posto è altrove.
Entrambe le cose non sono possibili. Deve essere vera o l’una o l’altra.
Ti dice qualcosa il nome Giordano Bruno?
No. Mai sentito.
Era un filosofo italiano del Cinquecento. Sosteneva che se Dio è infinito, e i poteri di Dio sono infiniti, allora ci dev’essere un numero infinito di mondi.
Be’, un senso ce l’ha. Purché uno creda in Dio.
Per questa idea l’hanno messo al rogo. Ma ciò non significa che avesse torto, no?
Perché lo chiedi a me? Non ne so un tubo, di queste cose. Come faccio ad avere un’opinione su una cosa che non conosco?
Prima che ti svegliassi nella buca, l’altro giorno, tutta la tua vita era trascorsa in un solo mondo. Ma come potevi essere sicuro che fosse l’unico?
Perché... perché è l’unico mondo che abbia mai conosciuto.
Però adesso ne conosci un altro. E questo cosa ti suggerisce, Brick?
Non ti seguo.
Non c’è un’unica realtà, caporale. Ce ne sono molte. Non c’è un unico mondo. Ci sono molti mondi, e tutti continuano in parallelo l’uno all’altro, mondi e antimondi e mondi-ombra, e ciascun mondo è sognato o immaginato o scritto da qualcuno in un altro mondo. Ciascun mondo è la creazione di una mente.
Mi sembri Tobak: ha detto che la guerra era nella mente di un tale, e che eliminandolo la guerra finirebbe. É la castroneria più grossa che abbia mai sentito.
Magari Tobak non sarà il soldato più intelligente dell’esercito, ma ti ha detto la verità.
Se vuoi che creda a una follia simile, dovrai darmene una dimostrazione.
D’accordo, risponde Frisk battendo le mani sul tavolo, che mi dici di questo? Senza aggiungere altro, si fruga sotto il maglione con la mano destra e tira fuori dalla tasca della camicia una fotografia formato 8 x 15. Questo è il colpevole, dice, facendo scivolare la foto sul tavolo verso Brick.
Brick si limita a sbirciare l’immagine. È il ritratto a colori di un uomo sulla settantina seduto su una sedia a rotelle davanti a una casa dicampagna bianca. Non sembra male come persona, nota Brick, con i capelli grigi a spazzola e la faccia cotta dal vento.
Questo non dimostra nulla, commenta, restituendo bruscamente la foto a Frisk. È solo un uomo. Uno come tanti. Per quanto ne so, potrebbe essere tuo zio.
Si chiama August Brill, comincia Frisk, ma Brick lo interrompe prima che possa aggiungere altro.
Per Tobak, no. Lui mi ha detto che si chiamava Blake. Blank.
Quello che era.
Tobak non è aggiornato sugli ultimi rapporti dei servizi. Blank è stato a lungo il nostro principale sospetto, ma poi l’abbiamo depennato. É Brill, l’uomo. Ormai ne siamo certi.
Allora fammi vedere la storia. Fruga in quella valigia lì, tira fuori il suo manoscritto e indicami una frase in cui compaia il mio nome.
Questo è il problema. Brill non scrive mai niente. La storia se la racconta nella testa.
E voi come fate a saperlo?
Segreto militare. Ma lo sappiamo, caporale. Credimi.
Palle.
Vuoi tornare a casa, no? Be’, questo è l’unico modo. Se non accetti il lavoro, resterai bloccato qui per sempre.
Bene. Soltanto per ipotesi, immaginiamo che io spari a questo tizio... questo Brill. Cosa succederà dopo? Se lui ha creato il vostro mondo, nel momento in cui morirà voi non esisterete più.
Non ha inventato questo mondo. Ha soltanto inventato la guerra. E ha inventato te, Brick. Non capisci? Questa è la tua storia, non la nostra. Il vecchio ti ha inventato per ucciderlo.
Quindi si tratterebbe di un suicidio.
In modo indiretto, si.
Brick si prende di nuovo la testa fra le mani e ricomincia a gemere. Non ce la fa più, e dopo essersi sfiancato per tener duro contro i deliri demenziali di Frisk, sente che la sua mente si scioglie, roteando impazzita in un universo di pensieri sconnessi e orrori amorfi. Solo una cosa gli è chiara: vuole tornare a casa. Vuole essere di nuovo accanto a Flora e riprendere la sua vecchia vita. Per ottenere questo deve accettare l’ordine di uccidere un uomo che non ha mai visto, un perfetto sconosciuto. Dovrà accettare, ma quando arriverà dall’altra parte cosa gli impedirà di esimersi dal compiere il lavoro?
Sempre con gli occhi al tavolo, si costringe a dire queste parole: Raccontami qualcosa di quel tizio.
Ah, così va meglio, dice Frisk. Cominciamo a ragionare, se Dio vuole.
Non farmi l’accondiscendente, Frisk. Dimmi soltanto quello che devo sapere.
Critico letterario in pensione, settantadue anni, abita vicino a Brattleboro, nel Vermont, con una figlia di quarantasette anni e una nipote di ventitre. Sua moglie è morta da poco più di un anno. Il marito della figlia l’ha lasciata cinque anni fa. Il fidanzato della nipote è stato ucciso. É una casa di anime in lutto, ferite, e ogni notte Brill veglia al buio cercando di non pensare al suo passato, inventandosi storie di altri mondi.
Perché è su una sedia a rotelle?
Incidente stradale. Una gamba maciullata. Ha rischiato l’amputazione.
E se accetto di uccidere quest’uomo, mi manderete a casa.
Questo è il patto. Ma non provare a svignartela, Brick. Se non mantieni la promessa, ti cercheremo. Due pallottole. Una per te e una per Flora. Pam, pam. Fine per te. Fine per Flora.
Però, se mi eliminate, la guerra continuerà.
Non necessariamente. Allo stato attuale è solo un’ipotesi, ma alcuni di noi pensano che eliminare te produrrebbe lo stesso effetto che eliminare Brill. La storia sarebbe conclusa, e la guerra finita. Non credere che non saremmo disposti a correre quel rischio.
E come faccio a tornarci?
Nel sonno.
Ma mi sono già addormentato, qui. Due volte. Ed entrambe le volte mi sono svegliato nello stesso posto.
Quello è sonno normale. lo invece sto parlando di un sonno indotto farmacologicamente. Ti faranno un’iniezione. L’effetto è simile a un’ anestesia, quando ti addormentano prima di un’operazione. Il vuoto nero dell’oblio, un nulla profondo e buio come la morte.
Proprio uno spasso, dice Brick, così sconcertato da quello che l’aspetta che non può esimersi dal fare una battuta sciocca.
Te la senti di provarci, caporale?
Perché, ho altra scelta?
Sento la tosse addensarsi nel mio petto, un lieve borbottare di catarro sepolto in fondo ai bronchi, e prima che riesca a trattenermi, una furiosa detonazione mi erompe dalla gola. Da’ una raschiata, risucchia il grumo gelatinoso verso nord, stacca i residui viscidi imprigionati ai condotti - ma non basta un tentativo, né due, né tre, ed eccomi qui in preda a uno spasmo: sento tutto il corpo che si contrae convulsamente. É colpa mia. Avevo smesso di fumare quindici anni fa, ma adesso che in casa c’è Katya con le sue onnipresenti American Spirits ho cominciato a ricadere nei vecchi, sporchi piaceri, scroccandole sigarette mentre fianco a fianco sul divano trangugiamo l’opera omnia del cinema mondiale, soffiando fumo in tandem, due locomotive che sbuffando si allontanano dall’odioso, intollerabile mondo - ma senza rimpianti, posso aggiungere, senza un ripensamento e nemmeno una fitta di rimorso. É la compagnia che conta, il legame di complicità, la solidarietà stile fanculo tutto dei dannati.
Ritornando ai film, mi rendo conto di avere un altro esempio da aggiungere alla lista di Katya. Devo ricordarmi di dirglielo domattina presto - in sala da pranzo, mentre facciamo colazione - perché sono sicuro che le farà piacere, e se riesco a strappare un sorriso a quella sua faccia triste lo considererò un grande risultato.
L’orologio alla fine di Viaggio a Tokyo. Abbiamo visto il film qualche giorno fa ed era per entrambi la seconda volta, ma la prima per me risaliva a decenni orsono, alla fine degli anni Sessanta o ai primi anni Settanta, e anche se ricordavo che mi era piaciuto, gran parte della storia era svanita dalla mia mente. Ozu, 1953, otto anni dopo la sconfitta del Giappone. Un film lento, solenne, che ci racconta la più semplice delle storie, ma realizzato con un’eleganza e una profondità di sentimento tali che alla fine avevo le lacrime agli occhi. Certi film sono belli come i libri, belli come i migliori libri (si, Katya, questo te lo concedo), e Viaggio a Tokyoè senza dubbio fra questi: è un’opera sottile e commovente come una novella di Tolstoj.
Un’anziana coppia si reca a Tokyo in visita ai figli ormai adulti: un medico in cattive acque, con moglie e figli, una parrucchiera sposata e proprietaria di un salone di bellezza e una nuora che è stata sposata con un altro figlio, morto in guerra: una giovane vedova che vive sola e lavora in un ufficio. É chiaro fin dall’inizio che il figlio e la figlia considerano la presenza dei vecchi genitori un peso, una seccatura. Sono occupati col proprio lavoro, le proprie famiglie, e non hanno tempo di dedicare loro le dovute premure. Solo la nuora si fa in quattro per coprirli di attenzioni. Alla fine i genitori ripartono da Tokyo per tornare nel luogo dove vivono (mai nominato, credo, o ho avuto un attimo di distrazione e mi è sfuggito), e qualche settimana dopo, improvvisamente, senza malattie che lo facessero prevedere, la madre muore. A questo punto l’azione si sposta nella casa di famiglia, in quella città o cittadina innominata. I figli adulti vengono da Tokyo per il funerale, insieme alla nuora Norika - o Noriko, non ricordo: ma facciamo Noriko e non parliamone più. Poi arriva un secondo figlio maschio da un’altra località, e infine c’è la figlia più giovane che viveva ancora con i genitori, una maestra elementare poco più che ventenne. Presto capiamo che quest’ultima non solo adora e ammira Noriko, ma la preferisce ai fratelli e alla sorella. Dopo il funerale la famiglia è seduta attorno a un tavolo, pranzano, e anche qui il figlio e la figlia di Tokyo sono indaffarati, indaffaratissimi, troppo assorti nelle loro preoccupazioni per sostenere veramente il padre.
Cominciano a guardare l’orologio e decidono di tornare a Tokyo con l’espresso della notte. Anche il secondo fratello decide di partire. Nella loro condotta non c’è nulla di apertamente crudele - questo va sottolineato, perché di fatto è l’argomento essenziale di Ozu. Sono solo distratti, presi nel vortice delle loro vite: altre responsabilità li allontanano. Ma la dolce Noriko rimane, non volendo lasciar solo il suocero affranto dal dolore (un dolore racchiuso, dal volto di pietra, ma dolore tuttavia), e l’ultima mattina della sua visita prolungata lei e la figlia insegnante fanno colazione insieme.
La ragazza è ancora arrabbiata per la partenza frettolosa dei suoi fratelli. Dice che avrebbero dovuto trattenersi più a lungo, li chiama egoisti. Noriko difende la loro condotta (anche se non avrebbe mai fatto come loro), spiegando che alla fine tutti i figli si allontanano dai genitori, che hanno le proprie vite a cui pensare. La ragazza ripete che lei non sarà mai così. Che senso ha appartenere a una famiglia se ci si comporta a quel modo?, dice. Noriko ribadisce la considerazione precedente e cerca di consolare la ragazza dicendole che con i figli queste cose succedono e c’è poco da fare. Segue una lunga pausa, poi la ragazza guarda sua cognata e dice: La vita è una delusione, vero? Noriko ricambia lo sguardo e con un’espressione distante le risponde: Sì.
La maestra va a lavorare e Noriko comincia a riordinare la casa (qui mi ricorda le donne degli altri film di cui mi ha parlato Katya stasera), e poi arriva la scena con l’orologio, il momento verso cui è indirizzato tutto il film. Il vecchio entra in casa dal giardino e Noriko gli dice che partirà col treno del pomeriggio. Si siedono e parlano, e se riesco a ricordare più o meno il succo e il tenore del colloquio, è perché ho chiesto a Katya di rifarmi vedere la scena dopo la fine del film. A tal punto mi aveva colpito, e volevo studiare meglio il dialogo per vedere come Ozu riusciva a renderlo.
Il vecchio inizia ringraziandola di tutto quello che ha fatto, ma Noriko scuote il capo e risponde che non ha fatto nulla. Il vecchio insiste, ribadendo che lo ha aiutato molto e che sua moglie gli aveva detto che era stata tanto gentile con lei. Ancora, Noriko rifiuta il complimento definendo i propri atti futili, trascurabili. Il vecchio non si arrende: racconta che sua moglie gli ha detto che a Tokyo ha passato i momenti più felici in compagnia di Noriko. Era così in ansia per il tuo futuro, continua. Non puoi andare avanti così. Devi risposarti. Dimenticati di X (suo figlio, marito di lei). È morto.
Noriko è troppo turbata per reagire, ma il vecchio non demorde, non vuol lasciar cadere il discorso. Parlando nuovamente di sua moglie, aggiunge: Diceva che eri la donna più buona che avesse mai conosciuto. Noriko tiene duro, protesta che la moglie l’ha sopravvalutata, ma il vecchio le ribatte senza mezzi termini che sbaglia. Noriko comincia a lasciarsi andare. Non sono così brava come credete, dice. Anzi, sono una bella egoista. E poi spiega che non è vero che pensa sempre al figlio del vecchio, che sovente passano giorni senza che lui le venga in mente neanche una volta. Dopo una breve pausa gli confessa di sentirsi tanto sola e che di notte, quando non riesce a dormire, rimane stesa a letto a chiedersi cosa sarà di lei. Il mio cuore sembra aspettare qualcosa, gli dice. Sono egoista.
VECCHIO: No, non lo sei.
NORIKO: Sì che lo sono.
VECCHIO: Sei una brava donna. Una donna onesta.
NORIKO: Non è vero.
A questo punto, finalmente Noriko crolla e si mette a piangere, il volto fra le mani mentre si aprono le cateratte - questa giovane donna che ha sofferto in silenzio così a lungo, questa persona buona che rifiuta di credere di essere buona perché soltanto i buoni dubitano della propria bontà, ed è questo il presupposto che li rende buoni. I cattivi sanno di essere buoni, ma i buoni non sanno niente.
Passano la vita perdonando gli altri, però non possono perdonare se stessi.
Il vecchio si alza in piedi e pochi secondi dopo torna con l’orologio, un vecchio cipollone con il quadrante protetto da un coperchio di metallo. Apparteneva a sua moglie, dice a Noriko, e vuole che sia lei ad averlo. Accettalo per amor suo, dice. Sono sicuro che sarebbe contenta.
Commossa dal gesto, Noriko lo ringrazia mentre il pianto continua a rigarle le guance. Il vecchio la studia con uno sguardo pensoso, ma quei pensieri a noi restano impenetrabili dato che tutte le sue emozioni sono nascoste dietro una maschera di cupa neutralità. Poi, mentre guarda piangere Noriko, fa un’affermazione semplice, pronunciando le parole in un modo così diretto e privo di sentimentalismi da farla scoppiare in un nuovo accesso di singhiozzi, singhiozzi prolungati, strazianti, un grido di infelicità così profonda e dolorosa, come se fosse stato squarciato il nucleo più intimo del suo io.
Voglio che tu sia felice, dice il vecchio.
Una frase breve e Noriko si spezza, schiacciata sotto il peso della sua vita. Voglio che tu sia felice. Mentre lei continua a piangere, prima che la scena finisca il suocero fa un’altra osservazione. É strano, dice, quasi incredulo. Abbiamo figli nostri, eppure sei tu quella che ha fatto di più per noi.
Stacco sulla scuola. Sentiamo dei bambini cantare e un attimo dopo siamo nella classe della figlia. In lontananza si sente il rumore di un treno. La ragazza guarda l’orologio e si avvicina alla finestra. Passa un treno: l’espresso del pomeriggio che riporta a Tokyo la sua diletta cognata.
Stacco sul treno - con il rombo delle ruote che corrono sui binari. Stiamo andando avanti, verso il futuro.
Pochi secondi dopo ci troviamo all’interno di un vagone. Noriko è seduta sola, con gli occhi vuoti fissi nello spazio, la mente altrove. Passa ancora qualche attimo, e poi solleva dal grembo l’orologio di sua suocera. Apre il coperchio e improvvisamente sentiamo il ticchettio della lancetta dei secondi che percorre il quadrante. Noriko continua a esaminare l’orologio con un’ espressione insieme triste e assorta, e mentre guardiamo lei con l’orologio sul palmo della mano sentiamo che stiamo guardando il tempo stesso, il tempo che corre avanti mentre il treno corre avanti, spingendoci più in là a vivere e a vivere ‘ancora, ma pure il tempo come passato, il passato della suocera morta, il passato di Noriko, il passato che ancora vive nel presente, il passato che portiamo con noi nel futuro.
Il fischio di un treno risuona stridulo nelle nostre orecchie, un rumore crudele e penetrante. La vita è una delusione, vero?
Voglio che tu sia felice.
E poi la scena termina di colpo.
Vedove. Donne che vivono sole. Nella mia mente un’immagine di Noriko che singhiozza. Impossibile ora non pensare a mia sorella e alla disgrazia che le è toccata di sposare un uomo morto giovane. Da quando ho cominciato a pensare alla mia guerra civile sta crescendo dentro di me l’idea che nella vita mi è stata risparmiata qualsiasi vicenda militare. La casualità della data di nascita, la fortuna di essere venuto al mondo nel 1935, di essere perciò troppo giovane per la Corea e troppo vecchio per il Vietnam, e poi il colpo ulteriore di essere stato scartato dall’esercito alla visita di leva, nel 1957. Dissero che avevo un soffio al cuore, cosa che dopo si rivelò falsa, e mi riformarono. Niente guerre, dunque, ma il momento in cui arrivai più vicino a qualcosa di simile fu in compagnia di Betty e del suo secondo marito, Gilbert Ross. Era il 1967, saranno esattamente quarant’anni questa estate, e stavamo cenando noi tre nell’Upper East Side, credo in Lexington Avenue, all’angolo con Sixty-sixth o Sixty-seventh Street, in un ristorante cinese che non esiste più da tempo, il Sun Luck, si chiamava. Sonia era andata a trovare i suoi genitori in Francia, vicino a Lione, con Miriam, che aveva sette anni. Avrei dovuto raggiungerle in seguito, ma per il momento ero rintanato nel nostro microappartamento dalle parti di Riverside Drive, a partorire nel sudore un lungo pezzo per «Harper’s» sulle recenti opere di poesia e narrativa americane ispirate alla guerra nel Vietnam; niente aria condizionata, solo un modesto ventilatore di plastica: scrivevo a mano e a macchina in mutande, mentre torrenti mi uscivano dai pori nell’ennesima ondata di calura newyorkese. Soldi ai tempi ne vedevamo pochi, ma Betty aveva sette anni più di me e viveva agiatamente, come si dice: e quindi era in grado di invitare ogni tanto il fratellino a cena fuori. Dopo un primo matrimonio riuscito male e durato troppo, circa tre anni prima aveva sposato Gil. Scelta saggia, pensai - o almeno all’epoca appariva tale. Gil si guadagnava da vivere facendo l’avvocato del lavoro e il mediatore negli scioperi, ma all’inizio degli anni Sessanta era anche stato assunto dal Comune di Newark come capo dell’ufficio legale, e quando lui e mia sorella vennero a New York, quella sera di quarant’anni fa, guidava un’ auto del Comune dotata di ricetrasmittente. Non ricordo nulla della cena, però quando tornammo alla macchina e Gil accese il motore per riportarmi a casa, sentimmo delle voci trafelatissime - sulle frequenze della polizia, immagino - dire che il CentraI Ward di Newark era nel caos. Senza neanche puntare verso uptown per lasciarmi al mio appartamento, Gil partì dritto verso il Lincoln Tunnel, e fu cosìche potei essere testimone di uno dei più gravi tumulti razziali della storia americana. Oltre venti morti, oltre settecento feriti, oltre millecinquecento arresti, oltre dieci milioni di dollari di danni alle cose. Ricordo queste cifre perché Katya qualche anno fa, quando era alle superiori, compilò una ricerca sul razzismo per il corso di Storia americana e mi intervistò riguardo alla sommossa. Strano che quelle cifre mi siano rimaste impresse, ma visto che ormai sento tante altre cose scivolare via mi aggrappo a loro come prova che non sono completamente andato.
Entrare a Newark quella sera fu come entrare in uno dei gironi più profondi dell’inferno. Case in fiamme, orde di uomini che correvano all’impazzata per le strade, il rumore dei vetri di una vetrina dopo l’altra che andavano a pezzi, le sirene, il rumore degli spari. Gil si fermò davanti al Municipio, e quando fummo dentro l’edificio andammo direttamente tutti e tre nell’ufficio del sindaco. Seduto alla scrivania c’era Hugh Addonizio, tarchiato, calvo, piriforme, sui cinquantacinque anni, eroe di guerra, sei volte deputato al Congresso, al secondo mandato come sindaco, e l’omaccione era totalmente smarrito, lì al suo tavolo con la faccia bagnata di lacrime. E ora cosa faccio?, diceva, alzando lo sguardo su Gil. Che diavolo faccio?
Un quadro indelebile, nitidissimo dopo tanti anni: la vista di quel personaggio patetico, paralizzato dal peso degli eventi, irrigidito dalla disperazione mentre la città gli scoppiava attorno. Frattanto Gil sbrigava le sue cose con calma, chiamando il governatore a Trenton, chiamando il capo della polizia, facendo del suo meglio per assumere il controllo della situazione. A un certo punto lui e io uscimmo dalla stanza e scendemmo nella prigione al piano più basso dell’edificio. Le celle erano stipate di prigionieri, tutti di colore, e almeno metà di loro avevano i vestiti strappati, le teste sanguinanti, i volti tumefatti. Non era difficile indovinare cosa avesse provocato quelle ferite, ma Gil fece ugualmente la domanda. Un uomo dopo l’altro, la risposta non cambiava mai: tutti erano stati picchiati dalla polizia.
Tornammo nell’ufficio del sindaco, e poco dopo entrò anche un comandante della polizia di stato del New Jersey, tale colonnello Brand o Brandt, un quarantenne con i capelli a spazzola dritti come un puntaspilli, la mascella quadra contratta e gli occhi duri del marine pronto a imbarcarsi per una missione di commando. Strinse la mano ad Addonizio, si sedette e pronunciò le seguenti parole: Daremo la caccia a ogni negro bastardo di questa città. Probabilmente non avrei dovuto esserne scioccato, ma lo fui. Non dalla frase, forse, ma dal glaciale disprezzo della voce che la pronunciava. Gil gli disse di non usare quel linguaggio, tuttavia il colonnello si limitò a sospirare e a scuotere la testa, archiviando il commento di mio cognato come se lo considerasse un povero idiota.
Questa fu la mia guerra. Non una vera guerra, forse, ma quando hai assistito a una violenza su quella scala, non fatichi a immaginare qualcosa di peggio; e quando la tua mente è in grado di far questo, capisci che le peggiori possibilità della fantasia sono incarnate dal paese in cui vivi. Basta pensarlo, e ci sono buone probabilità che succeda.
Quell’autunno, quando Gil fu messo nell’insostenibile posizione di dover difendere la città di Newark contro decine di denunce di esercenti i cui negozi erano andati distrutti nella sommossa, lasciò il suo posto e non lavorò mai più per gli enti pubblici. Quindici anni dopo, due mesi prima del suo cinquantatreesimo compleanno, era morto.
Voglio pensare a Betty, ma per farcela devo pensare a Gil; e per pensare a Gil devo tornare all’inizio. Si, però quanto so? Non molto, alla fin fine, solo qualche fatto pertinente, spigolato dai suoi racconti e da quelli di Betty. Era il primo dei tre figli del proprietario di una mescita di Newark che, a quanto pare, era praticamente il sosia di’ Babe Ruth. A un certo punto Dutch Schultz, imponendo la legge della malavita, portò via il locale al padre di Gil, non so come o perché: e non molto dopo il pover’uomo morì di infarto. Gil aveva undici anni, e dato che il padre era morto in rovina le uniche cose che ereditò da lui furono una cronica ipertensione e un disturbo del cuore che gli fu diagnosticato la prima volta quando aveva diciotto anni, e ad appena trentaquattro sfociò in un vero e proprio infarto coronarico, seguito da un secondo due anni dopo. Gil era un pezzo d’uomo alto e robusto, ma passò tutta la vita con una condanna a morte in circolo nelle vene.
Quando lui aveva tredici anni sua madre si risposò, e il patrigno non si oppose a tenere in casa i due figli più piccoli, ma di Gil non volle saperne e lo mandò via - con l’assenso della madre. Pensa un po’: essere cacciato da tua madre ed esiliato presso parenti in Florida per il resto dell’infanzia.
Dopo il liceo tornò al Nord e si iscrisse alla N.Y.U., sempre al verde, costretto a fare diversi lavoretti part-time per sopravvivere. Una volta, ricordando la miseria di quei tempi, raccontò che andava da Ratner’s, il vecchio ristorante ebreo sul Lower East Side, si sedeva a un tavolo e diceva al cameriere che aspettava da un momento all’altro l’arrivo della sua ragazza. Una delle principali attrattive del posto era la rinomata pietanza di panini di Ratner’s. Appena ti sedevi arrivava un cameriere e ti piazzava davanti un cestino con quei panini tondi accompagnati da un’abbondante razione di burro. Un panino imburrato dopo l’altro, Gil faceva fuori tutto il cestino, guardando ogni tanto l’orologio e fingendo dispetto per il ritardo dell’inesistente ragazza. Quando il primo cestino era vuoto veniva automaticamente sostituito da un secondo, poi il secondo da un terzo. Infine la ragazza non si faceva vedere, e Gil usciva dal ristorante con aria delusa. Dopo un po’ i camerieri mangiarono la foglia, ma non prima che Gil stabilisse un record personale di ventisette panini consumati gratis in un’unica seduta.
La facoltà di Legge, seguita dalla fondazione di uno studio di successo e dal crescente impegno nel Partito democratico. Di un progressismo idealista, di sinistra, sostenitore di Stevenson per la nomination presidenziale del 1960, presente alla convention di Atlantic City del 1964, e nel frattempo una fotografia {in mio possesso dalla morte di Betty) di Gil che stringe la mano a John F. Kennedy durante una visita a Newark nel 1962, o nel 1963, mentre Kennedy gli dice: Abbiamo sentito grandi cose di lei. Ma tutto ciò dopo il disastro di Newark perse il sapore che aveva, e quando Gil lasciò la politica, lui e Betty fecero armi e bagagli e si trasferirono in California. Da allora non li vidi molto spesso, ma nei sei o sette anni successivi era chiaro che tutto andava bene. Gil avviò uno studio di avvocato, mia sorella aprì a Laguna Beach un negozio di accessori per la cucina (stoviglie, tovaglieria, tritacarne e aggeggi di prima qualità), e anche se Gil per rimanere vivo doveva ingoiare più di venti pillole al giorno, le volte in cui vennero sulla costa orientale a trovare la famiglia mi sembrò in buona forma. Poi la sua salute cambiò. A metà degli anni Settanta, dopo una serie di arresti cardiaci e altri malanni, non riusciva quasi più a lavorare. lo inviavo loro tutto quello che potevo quando potevo, e ora che Betty lavorava a tempo pieno per reggere la baracca Gil passava gran parte dei suoi giorni solo in casa, a leggere libri. Mia sorella maggiore e suo marito moribondo, lontani cinquemila chilometri da me. Betty mi raccontò che in quegli ultimi anni Gil le lasciava bigliettini d’amore nei cassetti del comò, nascondendoli fra reggiseni, slip e culottes; e lei ogni mattina, quando si alzava e si vestiva, trovava un nuovo billet doux su cui c’era scritto che era la donna più bella del mondo. Niente male, diciamolo. Pensando a tutti i guai che avevano, proprio niente male.
Non voglio pensare alla fine: il cancro, l’ultima degenza ospedaliera, il sole osceno che inondava il cimitero la mattina del funerale. Ho già rivangato a sufficienza, e tuttavia non posso staccarmi da questo argomento senza rivisitare un ultimo dettaglio, un’ultima pennellata di bruttura. Quando morì Gil, Betty ormai era indebitata fino al collo, al punto che pagare il terreno della tomba fu un autentico dramma. lo ero pronto ad aiutarla, ma lei mi aveva già chiesto così spesso del denaro che non se la sentì di farlo un’ altra volta. Anziché a me, si rivolse a sua suocera, la snaturata donna che aveva acconsentito ad allontanare Gil da ragazzino. Non ne ricordo il nome (forse perché la disprezzavo troppo), ma nel 1980 era sposata col suo terzo marito, un uomo d’affari in pensione che fra l’altro era ricco come Creso. Quanto al marito numero due, non ricordo se la sua dipartita fosse dovuta alla morte o al divorzio...:. ma poco importa. Il facoltoso marito numero tre era proprietario di un’ ampia area in un cimitero nel Sud della Florida, e mia sorella riuscì a convincerlo a lasciarvi seppellire Gil. Meno di un anno dopo il marito numero tre morì e fra i suoi figli e la madre di Gil scoppiò una grande guerra balzachiana per l’eredità. La portarono in tribunale, vinsero il processo e una delle clausole dell’accordo finale perché avesse comunque una liquidazione fu che i resti di Gil fossero rimossi dal lotto di famiglia. Immaginarsi. Una donna sfratta il figlio dalla sua casa quando è bambino e poi, per un pugno di quattrini, lo sfratta dalla tomba da morto. Betty chiamò per dirmi quello che era successo: stava piangendo. Aveva resistito alla morte di Gil con una specie di grazia risoluta, stoica, ma questo era troppo: si abbatté, perse totalmente il controllo. Quando Gil fu esumato e sepolto di nuovo, non era più la donna di prima.
Durò altri quattro anni. Vivendo sola in un appartamentino nei sobborghi del New Jersey diventò prima grassa, poi grassissima, e in breve si ritrovò col diabete, le arterie occluse e un cospicuo dossier di altri disturbi. Mi stette vicina quando Gona mi lasciò e i nostri catastrofici cinque anni di matrimonio finirono, mi fece festa quando Sonia e io tornammo insieme, incontrava suo figlio quando lui e la moglie venivano in aereo da Chicago, partecipava alle riunioni di famiglia, guardava la televisione da mane a sera, sapeva ancora raccontare buone barzellette quando era in vena, e si trasformò nella persona più triste che abbia mai conosciuto. Una mattina della primavera del 1987 la sua donna di servizio mi telefonò in uno stato di semi-isteria. Era appena entrata nell’appartamento di Betty servendosi della chiave che aveva per le pulizie settimanali, e aveva trovato mia sorella sdraiata sul letto. Mi feci prestare la macchina da un vicino, andai nel New Jersey e identificai il corpo per la polizia. Il trauma di vederla in quel modo: così immobile, così remota, così terribilmente, terribilmente morta. Quando mi chiesero se volevo che l’ospedale eseguisse l’autopsia, risposi di soprassedere. Delle due l’una. O il suo corpo era crollato, o aveva preso qualche pillola: e io non volevo sapere il verdetto, perché in entrambi i casi non sarebbe stata la vera storia. Betty era morta di crepacuore. Ci sono persone che ridono quando sentono questa espressione, ma è perché non sanno nulla del mondo. La gente muore di crepacuore. Succede tutti i giorni, e continuerà a succedere fino alla fine dei tempi.
No, non ho dimenticato. La tosse mi ha proiettato in un’ altra zona, ma ora sono tornato e Brick è ancora con me. Nella buona e nella cattiva sorte, malgrado la sinistra escursione nel passato, ma come impedire alla mente di vagare dove vuole? La mente ha una sua vita propria, non le si può comandare. Chi ha detto questo? Qualcuno, o forse l’ho solo pensato io, fa lo stesso. Coniare aforismi nel cuore della notte, inventare storie nel cuore della notte - stiamo andando avanti, mie piccole care, e per straziante che sia, questo disastro contiene anche della poesia, purché si trovino le parole per esprimerla, ammesso che quelle parole esistano. Sì, Miriam, la vita è una delusione. Ma voglio anche che tu sia felice.
Niente smanie. Sto segnando il passo perché vedo che la storia può puntare nell’una o nell’altra di varie direzioni e non ho ancora deciso che via prendere. Speranza o non speranza? Sono disponibili entrambe le possibilità, eppure nessuna mi soddisfa del tutto. Esiste una via di mezzo dopo un simile inizio, dopo aver gettato il povero Brick in mezzo ai lupi e avergli terremotato il cervello? Probabilmente no. E allora pensa cupo e non fermarti, accompagnalo fino alla fine.
Gli hanno già praticato l’iniezione. Brick cade nel nero senza fondo dell’incoscienza, e diverse ore dopo riapre gli occhi e scopre di essere a letto con Flora. É mattina presto, le sette e mezzo o le otto, e mentre guarda la schiena nuda di sua moglie addormentata, Brick pensa che forse ha sempre avuto ragione, che il tempo trascorso a Wellington apparteneva solo a un incubo di un realismo nauseabondo. Ma poi, spostando il capo sul cuscino sente la benda di Virginia premergli nella guancia, e quando passa la lingua sull’orlo seghettato dell’incisivo rotto non ha altra scelta che guardare in faccia la situazione: è stato di là, e tutto quanto gli è successo in quel luogo era reale. Ormai resta soltanto un’unica, improbabile possibilità di salvezza: e se i due giorni passati a Wellington, in questo mondo non fossero più che un batter di ciglia? Se Flora non avesse mai saputo che è stato via? Questo risolverebbe il problema di dover spiegare dove è andato, perché Brick non ignora che la verità sarà dura da digerire, specie per una donna gelosa come sua moglie; e tuttavia, anche se la verità può sembrare menzogna, lui non ha la forza o la determinazione di inventarsi una storia che suoni più plausibile, qualcosa che calmi i sospetti di lei e le faccia capire che questi due giorni di assenza non c’entrano nulla con un’ altra donna.
Purtroppo per Brick, gli orologi di entrambi i mondi segnano la stessa ora. Flora sa che è stato assente e quando, girandosi nel sonno, lui tocca inavvertitamente il corpo della moglie, subito lei si sveglia di soprassalto. Le ansie di Brick sono spente dalla gioia che corre negli intensi occhi marroni di lei, e d’un tratto ha vergogna di se stesso, è mortificato di aver mai potuto dubitare dell’amore di Flora.
Owen?, chiede lei, come se non osasse credere a quello che è successo. Sei proprio tu?
Sì, Flora, dice lui. Sono tornato.
Lei gli butta le braccia al collo stringendoselo contro la pelle liscia, nuda. Stavo dando i numeri, gli dice, arrotando la rcon un forte trillo della lingua. Oh, sì, davo i numeri. Poi, quando vede la benda sulla guancia e i lividi attorno alle labbra, la sua espressione si fa allarmata. Che è successo?, gli chiede. Sei tutto pesto, amore.
Impiega più di un’ ora a raccontare per filo e per segno il misterioso viaggio nell’altra America. L’unica cosa che omette è l’ultima frase di Virginia sul volerlo sedurre fino a fargli saltare i pantaloni e scopare con lui fino a fargli scoppiare la testa, ma è un dettaglio secondario, e non vede nessun motivo per destare l’ira di Flora con argomenti di scarso rilievo nella storia. La parte più difficile viene verso la fine, quando cerca di ricapitolare la sua conversazione con Frisk. Sul momento l’aveva trovata praticamente senza senso, e adesso che è tornato a casa sua e sta seduto in cucina a bersi un caffè con sua moglie, tutto quel parlare di molteplici realtà e molteplici mondi sognati e immaginati da altre menti gli sembra completamente incomprensibile. Scuote la testa, come per scusarsi di non essere riuscito a raccontare meglio la storia. Ma l’iniezione, aggiunge, era vera. E l’ordine di sparare ad August Brill era vero. E se non porta a termine il lavoro, lui e Flora saranno in costante pericolo.
Fin qui Flora ha ascoltato in silenzio, osservando con pazienza suo marito raccontare la sua storia assurda e ridicola, che lei considera il più gran cumulo di cazzate mai fabbricato da menti umane. In circostanze normali partirebbe con una delle sue sfuriate accusandolo di averla tradita, ma qui non siamo in circostanze normali e Flora, che conosce tutti i difetti di Brick e nei tre anni del loro matrimonio gli ha mosso innumerevoli critiche, non gli ha mai dato del bugiardo, e di fronte alle assurdità che le sono state appena riferite si ritrova attonita, senza parole.
So che sembra incredibile, dice Brick. Ma è tutto vero, dalla prima parola all’ultima.
E tu ti aspetti che ti creda, Owen?
Stento a crederlo io stesso. Ma è successo tutto, Flora, esattamente come te l’ho raccontato.
Mi prendi per scema?
Come, scusa?
O mi prendi per scema, o sei ammattito.
Non ti prendo per scema e non sono ammattito.
A sentirti parlare, sembri uno di quei fuori di testa...
Sai, uno di quei tizi che sono stati rapiti dagli alieni. Come erano fatti i marziani, eh, Owen? Avevano una grande astronave?
Basta, Flora. Non fai ridere.
Ridere? E chi vuoi far ridere? Io voglio solo sapere dove sei stato.
Te l’ho già detto. Non credere che mi sia venuta la tentazione di inventarmi un’altra storia. Una stupidaggine, tipo che mi hanno aggredito e ho perso la memoria per due giorni. O che sono stato investito da un’ auto. O che sono caduto dalle scale in metrò. Qualche scemenza del genere. Ho deciso di dirti la verità.
Forse è vero. In fin dei conti, le botte le hai prese. Forse gli ultimi due giorni sei rimasto svenuto in un vicolo, e hai sognato tutto.
E allora perché avrei questo sul braccio? Me lo ha messo un’infermiera, dopo che mi hanno fatto l’iniezione. É l’ultima cosa che ricordo prima di stamattina, quando ho riaperto gli occhi.
Brick si rimbocca la manica sinistra, indica un cerotto colar carne sul braccio, in alto, e poi lo stacca con la mano destra. Guarda, dice. La vedi questa crosticina? É il punto dove l’ago mi è entrato nella pelle.
Non vuol dire niente, ribatte Flora, liquidando l’unica prova concreta che Brick le possa offrire. Potresti essertela procurata in un milione di modi diversi.
Vero. Ma fatto sta che è successo in un modo solo, proprio come te l’ho raccontato. É stato l’ago di Frisk.
D’accordo, Owen, dice Flora cercando di stare calma, forse ora dovremmo smetterla di parlarne. Sei tornato. Per me è l’unica cosa che conta. Cristo, tesoro, non sai come ho passato questi due giorni. Ho dato fuori di testa, ma fuori veramente. Ho pensato che fossi morto. Ho pensato che mi avessi lasciato. Ho pensato che fossi con un’ altra ragazza. E adesso sei tornato. É come un miracolo, e se vuoi sapere la verità, non m’interessa molto di cosa sia successo. Eri andato via, e ora sei tornato. Fine della storia, va bene?
No, Flora, non va bene. Sono tornato, però la storia non è finita. Devo andare nel Vermont a uccidere Brill. Non so quanto tempo ho a disposizione, ma non posso indugiare troppo a lungo. Se non eseguo verranno a prenderci. Una pallottola per te e una per me. Così ha detto Frisk, e non scherzava.
Brill, brontola Flora, pronunciando il nome come se fosse un insulto in una lingua straniera. Scommetto che non esiste nemmeno.