Un cammino difficile*
Intervista a Ortensio da Spinetoli
Ortensio da Spinetoli, capelli e barba bianchi, accento marchigiano, parlata veloce e a basso volume quasi a invitare l’uditore a stare più attento a quello che dice. Il nonno che tutti avremmo voluto avere: paterno, saggio e che ci parla in modo appassionato di Dio. Ortensio è l’autore degli ultimi servizi biblici apparsi su «Tempi di Fraternità». Volevamo conoscerlo meglio e lo abbiamo incontrato alla cascina Penseglio ad Albugnano.
Chi sei, da dove vieni, qual è la tua esperienza? E perché «da Spinetoli»?
Fino al 1968, entrando al noviziato, si abbandonava il nome di battesimo e il cognome, come a sottolineare la totale separazione che si doveva verificare con la vecchia appartenenza. Si cessava di essere, per modo di dire, figli di Pietro Bernardone e «si diventava» figli di San Francesco. Spinetoli è poi il luogo dove sono nato.
Perché sei diventato cappuccino?
Un vero perché forse non c’è stato. Io avevo già due fratelli nell’ordine: saranno stati loro l’occasione, ma sono entrato per cominciare a fare qualcosa, mettiamo a studiare, perché nel paese non era possibile; senza escludere in partenza la scelta vocazionale se fosse maturata o si fosse rivelata. Anche i genitori erano dello stesso parere. A ogni modo a undici anni non si poteva prevedere nulla. Stando poi dentro, si è verificata quella deformazione psicologica, spirituale, quella scoperta o segnalazione di «valori superiori» di durata eterna che fanno sempre presa nell’animo, facile agli entusiasmi o alle infatuazioni, dei giovani.
Quindi la famosa «vocazione» è venuta dopo?
Sì, ma è stata una scelta motivata e profondamente convinta, su basi che sembravano granitiche. Adesso, soprattutto dopo le indagini sullo stato religioso nel Nuovo Testamento, 1 mi sembra che si tratti di valori apparenti. Quando il giovane ricco chiede cosa deve fare per avere la vita eterna, Gesù non lo esorta ad andare a Qumran (il monastero del tempo), ma a dare i suoi beni ai poveri e poi mettersi al suo seguito per annunziare e costruire il regno di Dio, il luogo della felicità di ogni uomo. Non è la veste che fa il monaco, si è sempre detto, ma neanche il convento.
La Bibbia, la scoperta di questo libro, è venuta dopo?
Dopo il seminario, dopo gli studi teologici. Negli anni 1945-49 era ancora un libro sigillato. Anche a Friburgo e a Innsbruck (1949-51), nonostante i buoni professori (Braun, Rahner), il metodo era ancora tradizionale. Sono stato al Pontificio Istituto Biblico (1951-54) e allo Studio Biblico Francescano di Gerusalemme (1954), ma si era ancora sulla vecchia linea.
Dal 1958 al 1962 cominciarono, dopo l’avvento di papa Giovanni, i primi tentativi della nuova interpretazione basati sulla storia delle forme ovvero della tradizione e della redazione dei Vangeli. Fu una scoperta. I Vangeli non sono opera di getto, ma letteratura su Gesù Cristo. Bisognava cominciare a rinnovare innanzitutto il concetto di «ispirazione» che non crea uno scrittore nuovo, non gli dona una nuova cultura, una nuova teologia, ma si serve di quella che egli ha. 2 Su queste basi avevo cominciato a studiare la figura di Maria; 3 incontrai tanti consensi (soprattutto dalle riviste qualificate), ma anche gravi difficoltà perché veniva presentata un’immagine diversa della madre di Gesù, reale più che devozionale.
Quindi i tuoi guai con la gerarchia sono iniziati nel 1964?
Per l’appunto. È l’anno della prima convocazione personale al Sant’Uffizio («giudice» più che interlocutore mons. P. Parente). Già nel 1963 avevo avuto una severa contestazione durante la Settimana mariologica nazionale per il clero, tenutasi a Loreto, da parte degli uditori, degli organizzatori, dei vescovi della regione.
Ma quello che ti contestavano cos’era?
Non accettavano il ridimensionamento della figura di Maria, la sottolineatura dei suoi aspetti umani. Una creatura che non aveva capito bene la sua identità e la sua missione accanto al figlio. Aveva tanto creduto ma non aveva molto capito. Anche lei il paradiso se l’è guadagnato. Cadeva un quadro a cui si era troppo affezionati per rimanere indisturbati.
A questa reinterpretazione seguiranno, come sappiamo, delle altre su Cristo (di cui Itinerario spirituale di Cristo, voll. I, II, III), sui Vangeli (Introduzione ai Vangeli dell’infanzia, Matteo, Luca), sulla chiesa (Chiesa delle origini, Chiesa del futuro, La conversione della Chiesa) eccetera. Si può sapere da dove nasce questa esigenza?
Si tratta di tenersi al corrente del rinnovamento degli studi biblici. Migliorando le interpretazioni si potevano modificare le concezioni, le dottrine, le opinioni teologiche che a esse erano agganciate. Molte «verità» tradizionali sono frutto di cattive, cioè improprie, letture del testo sacro.
Queste prese di posizione hanno cambiato la tua vita?
No, me l’hanno solo un po’ amareggiata. Ho perso i consensi all’interno dell’istituzione sia religiosa che ecclesiale, ma non mi hanno costretto a recedere, né dall’una né dall’altra. Ci fu un tempo (1966-71) in cui ogni parrocchia e ogni diocesi cercava «l’esperto biblico» per i corsi di aggiornamento. Poi l’interesse è calato e sono sopraggiunte la diffidenza, l’ostruzionismo, il rigetto. Ci vuole pazienza. Fortunatamente nella mia giovinezza avevo avuto due momenti di «grazia», un ricovero ospedaliero a ventotto anni con un intervento chirurgico e un immeritato maltrattamento all’interno dell’istituto. Sono state prove salutari; se adesso mi trovo tanto tranquillo lo debbo forse a quelle lezioni.
Il punto discriminante fra la tua esegesi e quella ufficiale qual è?
Non è sul metodo, sui criteri interpretativi che sono gli stessi, tutti ordinati a scoprire il senso ultimo del testo, cioè quello che l’autore ha voluto propriamente dire. Quello che normalmente non si fa è segnare una linea di demarcazione fra l’eventuale messaggio e quelle che possono essere, o meglio sono, le opinioni, le interpretazioni dell’autore sacro. Il punto critico dell’esegesi è stabilire quanto di soggettivo, di relativo, di secondario vi è nella «parola» che si chiama «di Dio».
Paolo ha una sua opinione su Gesù Cristo, sulla salvezza, sulla chiesa, che è frutto delle sue riflessioni o della sua cultura teologica, che deve rimanere a lui e non vincolare la coscienza dei credenti. Non basta determinare se lo dice Matteo o Giovanni, occorre chiedersi se lo dice Dio.
All’interno della chiesa ti trovi con persone che non vogliono mettersi in discussione: come vivi questa situazione?
In realtà i contatti con la chiesa ufficiale sono diminuiti. Ormai mi sento come pellegrino e forestiero all’interno dell’istituzione. La «chiesa» non sembra più essere la mia patria. Ma con rammarico. Nel 1975 ne La conversione della Chiesa dicevo che «i figli che osano rimproverare la loro madre non l’amano meno di quelli che per falsa pietà o per opportunismo le celano i propri mali». E aggiungevo: «L’amore alla chiesa non si misura dagli onori che si accumulano ma dalle sofferenze che si sopportano per il suo bene». Ma fui frainteso.
Da quel tempo ho perso sempre più spazio e dopo il secondo «processo» (si fa per dire, perché sono stato sempre assente) al Sant’Uffizio (1974) l’ho perso del tutto. Non ti danno più fiducia perché hai osato alzare la voce contro i fiduciari, i «rappresentanti» di Dio, quasi che egli potesse essere qualche volta assente. Eppure parlano di «servizio», confondendolo con una forzata cortesia e non vivendolo come la carenza di potere. Anche Giovanni Paolo II al Concilio era contro la Lumen gentium, la costituzione della nuova chiesa; non l’ha accettata allora e non l’accetta adesso. Lui parla ancora dell’infallibilità del magistero, della chiesa cattolica al centro delle chiese cristiane (affossando l’ecumenismo) e ignora la portata salvifica delle altre religioni.
Ma allora perché rimani nell’istituzione?
La fuga non è mai la migliore scelta, né la migliore strategia. È quello che qualsiasi avversario sempre desidera. Se uno crede alla causa che difende deve restare sul campo, diciamo, di battaglia. Il dissenso, la contestazione, hanno un senso se fatti dal di dentro, non dal di fuori. Oltre a ciò, di fronte alla comune mentalità clericale, un cambio di schieramento, di collocazione, vanificherebbe tutti gli sforzi che sono stati finora compiuti. Non occorre avere una particolare fede nell’episcopato per dargli credito; basta il fatto che ci sia e che rappresenti ancora una delle «cinque piaghe della chiesa» per potersi impegnare a scoraggiare il potere. Certo non cambierà molto, forse non cambierà nulla; ma se non si assommano i granelli di sabbia, non si arriverà mai a quel «sasso», non diciamo macigno, che secondo il profeta Daniele (Dn 2,34-35) colpirà e farà traballare la statua del monarca e quelle dei gregari.
Sul futuro della chiesa sei ottimista o pessimista?
Molto ottimista. Il Concilio ha aperto una nuova era di comunione e corresponsabilità ecclesiale che non potrà più essere annullata. In superficie e in profondità avanza il rinnovamento che dopo questa parentesi darà i suoi frutti. Tutti aspettiamo un Giovanni XXIV e un Vaticano III o un Concilio gerosolimitano II.
Torniamo alla Bibbia. Che cosa è per te, che cosa rappresenta nella tua vita?
È il libro su cui, bene o male, ho passato l’intera esistenza. L’ho spiegata a scuola, dall’altare e da pulpiti occasionali sparsi un po’ in tutta Italia e qualcuno anche all’estero. La Bibbia racconta l’esperienza di un popolo che funge da mediatore per un rapporto con l’Essere. Soprattutto, attraverso la Bibbia, si ha l’incontro con la testimonianza di Gesù Cristo, la provocazione più sconvolgente che la storia registri. Il Vangelo non è un libro devozionale ma rivoluzionario. Se lo si prende sul serio non si può rimanere a dormire nelle chiese o nei conventi, ma si diventa perturbatori dell’ordine ingiustamente costituito. San Francesco è stato definito un «Vangelo vivente» perché ha avviato una nuova convivenza umana di eguali, di amici, di fratelli. Anche Gandhi è sulla strada di Cristo perché ha dato la vita per il bene di molti.
Se incontri l’uomo d’oggi, frustrato, senza ideali, con difficoltà a comprendere il momento storico, che cosa gli diresti partendo dalla tua esperienza?
Se riesce a capirlo, non potrei non richiamarlo alla speranza che non è il rifugio nel nirvana ma l’inquietudine del presente e impone tutto il necessario coraggio per renderlo diverso, migliore. Una speranza perciò innanzitutto intramondana, temporale, terrena, che veramente può confortare l’uomo: il «paradiso terrestre». Non è un’eresia ma un’utopia; non però nel senso che non ha posto nella storia, ma che non l’ha ancora avuto e che dovrà un giorno, «tra breve», averlo. La speranza dà la forza, addirittura le ali per l’attuazione di questo grande «sogno» che è l’esistenza propria e di tutti.