CAPITOLO
TERZO

Un momento prima che fosse servita la cena, un ragazzo passò a portare un messaggio di risposta da parte dei miei fratelli:

ARRIVO PREVISTO CON PRIMO TRENO DELLA MATTINA A CHAUCERLEA STOP PER FAVORE INCONTRARE ALLA STAZIONE STOP M & S HOLMES

Chaucerlea, la cittadina più vicina alla stazione ferroviaria, si trovava a sedici chilometri da Kineford.

Per riuscire ad arrivare assieme al primo treno della giornata dovevo partire all’alba.

Per prepararmi all’evento, quella sera feci un bagno, nonostante la gran seccatura di dover trascinare da sotto il letto la vasca di metallo, sistemarla davanti al focolare, portare al piano superiore diversi secchi d’acqua e, per riscaldarla, alcune teiere d’acqua bollente. In tutto ciò, la signora Lane non fu d’alcun aiuto perché, nonostante fosse estate, si sentì assolutamente in dovere di accendere il fuoco nella mia stanza, dichiarando ai ramoscelli, alle braci e infine alle fiamme stesse che nessuna persona sana di mente si sarebbe fatta il bagno in una giornata così umida. Volevo lavarmi anche i capelli, ma non avrei potuto farlo senza l’aiuto della signora Lane la quale, tutto d’un tratto, fu colta da reumatismi alle braccia mentre riferiva agli asciugamani che stava riscaldando: «Non sono passate nemmeno tre settimane dall’ultima volta, e il tempo non è ancora minimamente accettabile».

Dopo il bagno, mi rintanai subito nel letto, e la signora Lane, continuando a borbottare, mi infilò delle borse d’acqua calda sotto i piedi.

La mattina successiva mi pettinai i capelli circa cento volte per cercare di renderli lucidi, poi li legai con un nastro bianco, in tinta con il vestito. Sapete, le ragazze aristocratiche devono assolutamente vestirsi di bianco, così da far risaltare eventuali macchie. Io indossai il mio vestito più nuovo e meno sporco, un bel paio di mutandoni di pizzo bianco, la tradizionale calzamaglia nera e un paio di stivali neri appena lucidati da Lane.

Avendo impiegato così tanto tempo per vestirmi, non riuscii a fare colazione. Siccome era una mattina molto fredda, afferrai uno scialle dall’appendiabiti in corridoio e salii in sella alla mia bicicletta pedalando vigorosamente per arrivare in orario.

Trovo che l’atto di pedalare permetta a una persona di riflettere senza il timore che qualcuno possa vederne le espressioni facciali.

Fu un vero sollievo, ma non un conforto, riuscire a meditare sui recenti avvenimenti, mentre percorrevo di fretta le strade di Kineford e svoltavo in Chaucerlea Way.

Mi chiesi cosa accidenti fosse successo a mia madre.

Tentai di non soffermarmi troppo su quel pensiero, e mi domandai invece se avrei avuto difficoltà a trovare la stazione ferroviaria e i miei fratelli.

Mi chiesi perché mai mamma avesse dato loro i nomi Mycroft e Sherlock. Letti al contrario, i loro nomi non significavano un bel niente, in nessuna lingua. Mi chiesi se mamma stesse bene.

Meglio pensare a Mycroft e Sherlock.

Mi chiesi se li avrei riconosciuti alla stazione. Non li vedevo dal funerale di mio padre, quando avevo solo quattro anni. Riuscivo a ricordare che mi erano parsi molto alti, con i loro cappelli a cilindro decorati col crespo, e severi, con quei lunghi cappotti neri, guanti neri, fasce nere, e scintillanti stivali neri di pelle verniciata.

Mi chiesi se nostro padre fosse davvero morto a causa della mortificazione provocata dalla mia nascita, come piaceva dire ai ragazzini del paese, oppure se si fosse arreso alla febbre e alla pleurite, come sosteneva mamma.

Mi chiesi se i miei fratelli mi avrebbero riconosciuta dopo dieci lunghi anni.

Perché non fossero mai venuti a far visita a me e nostra madre, e perché noi non fossimo mai andate a trovare loro, ovviamente lo sapevo: a causa del disonore che avevo portato alla famiglia nel venire al mondo. I miei fratelli non potevano permettersi di socializzare con noi: Mycroft era un uomo impegnato e influente con una carriera politica all’interno del governo londinese, e mio fratello Sherlock era un famoso investigatore su cui era stato perfino scritto un libro, Uno studio in rosso, dal suo amico e coinquilino, il dottor John Watson. Mia madre ne aveva comprato una copia…

Non pensare a mamma.

…e l’avevamo letto entrambe. Da allora avevo cominciato a sognare Londra, il grande porto, la sede della monarchia, il centro dell’alta società, ma anche, secondo il dottor Watson, «quel grande pozzo nero in cui vengono irresistibilmente risucchiati tutti gli sfaccendati e i perdigiorno dell’Impero». Londra, dove uomini in cravatta bianca e donne ricoperte di diamanti andavano all’opera, e dove, secondo un altro dei miei libri preferiti, Black Beauty, cocchieri crudeli portavano i cavalli allo sfinimento per le strade. Londra, dove gli accademici studiavano al British Museum e la gente affollava i teatri per essere “mesmerizzata”. Londra, dove individui famosi tenevano sedute per comunicare con gli spiriti dei defunti, e altri provavano a spiegare con la scienza come uno spiritista era riuscito a levitare attraverso una finestra verso la carrozza che lo attendeva in strada.

Londra, dove bambini poveri indossavano stracci e scorrazzavano liberi per le strade, senza mai andare a scuola. Londra, dove i cattivi uccidevano le “signore della notte” (chi fossero io non lo sapevo) e portavano via i loro figli per venderli come schiavi. A Londra c’erano la famiglia reale e i tagliagole. A Londra c’erano grandi musicisti, grandi artisti e grandi criminali che rapivano i bambini e li forzavano a lavorare in luoghi di perdizione. Nemmeno questi sapevo esattamente cosa fossero. Ma sapevo che mio fratello Sherlock, assunto talvolta dalla famiglia reale stessa, si avventurava nei luoghi di perdizione per sfidare in arguzia malviventi, ladri e principi del crimine. Mio fratello Sherlock era un eroe.

Ricordai la lista stilata dal dottor Watson in cui esponeva i talenti di mio fratello: studioso, chimico, violinista superbo, cecchino, spadaccino, schermidore col bastone, pugile e brillante pensatore deduttivo.

Poi feci un elenco mentale dei miei, di talenti: in grado di leggere, scrivere e fare i conti; esploratrice di nidi di uccelli e vermi, pescatrice; e, ah, sì, ciclista.

Il confronto era talmente penoso che smisi di pensarci e prestai invece attenzione alla strada, avendo nel frattempo raggiunto la periferia di Chaucerlea.

La folla che riempiva le vie selciate mi intimorì un po’. Dovetti farmi largo tra persone e veicoli sconosciuti in giro per le strade sterrate di Kineford: uomini che vendevano frutta dai carretti, donne con ceste che smerciavano caramelle, bambinaie che spingevano carrozzine e un gran numero di pedoni che cercava di non farsi investire da un gran numero di carri, carrozze e calessi, cassette di birra, carbone, legna, un cocchio e perfino un omnibus trainato da ben quattro cavalli. Come avrei fatto a trovare la stazione ferroviaria in mezzo a tutto quel trambusto?

Un attimo! Avvistai qualcosa. Come una piuma di struzzo su un cappello da signora, un pennacchio bianco si sollevava nel cielo grigio oltre i tetti delle case. Il fumo di una locomotiva a vapore.

Pedalando in quella direzione, udii presto un suono frastornante, stridente, metallico… il rombo del motore che avanzava. Io e il treno giungemmo alla banchina nello stesso momento.

Scesero pochi passeggeri e tra questi non ebbi difficoltà a riconoscere due alti londinesi: senza alcun dubbio, i miei fratelli. Erano vestiti da gentiluomini di campagna, con abiti di tweed sfrangiati, morbide cravatte e bombette e… guanti di capretto. Solo l’aristocrazia terriera portava i guanti in piena estate. Uno dei miei fratelli si era un po’ irrobustito, tradito dal rigonfiamento del panciotto di seta. Quello doveva essere Mycroft, supposi, di sette anni più anziano di Sherlock, che camminava ritto come un palo con il suo completo antracite e gli stivali neri. Aveva l’aspetto slanciato di un levriero.

Dondolando i bastoni da passeggio, osservarono i dintorni, ma il loro sguardo indagatore non si soffermò su di me.

Nel mentre, tutti i presenti sulla banchina rivolgevano loro occhiate furtive.

E con grande fastidio, mentre saltavo giù dal sellino della bicicletta, mi accorsi di tremare. Un nastro di pizzo dei miei mutandoni (maledetti affari delicati) si impigliò nella catena, si strappò e cominciò a penzolare sopra al mio stivale sinistro.

Mentre cercavo di rimboccarlo da qualche parte, feci cadere lo scialle.

Non c’eravamo proprio… Feci un respiro profondo, lasciai lo scialle sulla bici, che appoggiai contro il muro della stazione, mi raddrizzai e mi avvicinai ai due londinesi, senza riuscire a tenere la testa alta come avrei voluto.

«Signor Holmes» iniziai «e, ehm, signor Holmes?»

Due paia di intensi occhi grigi si fissarono su di me. Due paia di sopracciglia aristocratiche si sollevarono.

Proseguii: «Mi-mi avete chiesto di incontrarvi qui…»

«Enola?!» esclamarono entrambi nello stesso momento. E poi, in rapida successione: «Cosa ci fai qui? Perché non hai mandato la carrozza?»

«Avremmo dovuto riconoscerla: è identica a te, Sherlock.» Allora quello alto e magro era proprio lui! Mi piacevano la sua faccia ossuta, gli occhi da falco e il naso simile a un becco, ma avevo come la sensazione che l’affermazione sulla nostra somiglianza non volesse essere un complimento…

«Pensavo fosse una teppistella.»

«In bicicletta?»

«Perché hai portato la bicicletta? Dov’è la carrozza, Enola?»

Sbattei le palpebre: Carrozza? Nella rimessa c’erano un landò e una phaeton polverosi, ma da anni non avevamo più cavalli, da quando il vecchio cacciatore della tenuta se n’era andato verso pascoli più erbosi.

«Suppongo che avrei potuto noleggiare dei cavalli» dissi lentamente «ma non so come imbrigliarli o condurli…»

Mycroft esclamò: «E allora perché mai paghiamo un garzone e uno stalliere?»

«Prego?»

«Mi stai dicendo che non ci sono cavalli?»

«Più tardi, Mycroft. Tu!» Con disinvolta autoritarietà, Sherlock si rivolse a un giovanotto che bighellonava lì vicino. «Vai a chiamarci una carrozza coperta!» Lanciò una monetina al ragazzo, il quale si toccò il cappello e corse via.

«Dovremmo aspettare al riparo» disse Mycroft. «Con questo vento i capelli di Enola assomigliano sempre più al nido di una taccola. Dov’è il tuo cappello, Enola?»

A quel punto, ormai era passato il momento di chiedere: “Come state?” o che loro mi dicessero: “È così bello rivederti, cara” e di darci la mano o qualcosa del genere, anche se in effetti ero il disonore della famiglia. Inoltre, a quel punto, stavo iniziando a rendermi conto che PER FAVORE INCONTRARE ALLA STAZIONE significava la richiesta di un mezzo di trasporto, non di un’accoglienza di persona.

Be’, se non desideravano il piacere della mia conversazione tanto meglio: sarei rimasta lì, muta.

«O i tuoi guanti» mi rimproverò Sherlock, prendendomi per il braccio e guidandomi verso la stazione, «o degli abiti decenti e decorosi? Enola, ormai sei una giovane donna.»

Quell’affermazione mi allarmò tanto da farmi ritrovare la voce. «Ma… ho appena compiuto quattordici anni!»

Con tono interdetto, quasi lamentoso, Mycroft mormorò: «Ma sto continuando a pagare una sarta…»

Rivolgendosi a me, Sherlock decretò in quel suo modo sbrigativo e imperiale: «Avresti dovuto iniziare a indossare gonne lunghe già a dodici anni… chissà cosa aveva in mente tua madre. Immagino sia diventata una suffragetta in piena regola…»

«Non ho idea di dove sia!» lo interruppi e, con mia stessa sorpresa, dopo essermi trattenuta a lungo, scoppiai in lacrime.

Venne rimandato qualsiasi altro riferimento a mamma, almeno finché non ci fummo seduti nella carrozza a noleggio, sul retro della quale avevamo legato la mia bicicletta, e ci fummo avviati ondeggiando in direzione di Kineford. «Siamo dei bruti sconsiderati» aveva commentato a un certo punto Sherlock rivolgendosi a Mycroft. Mi passò un grande fazzoletto inamidato, tutt’altro che confortevole per il mio naso. Sicuramente erano convinti che le mie lacrime fossero per mamma, e in parte era così. Ma stavo piangendo anche per me stessa.

Enola.

Sola.

Seduti spalla contro spalla sul sedile di fronte a me, i miei fratelli rivolgevano lo sguardo verso qualsiasi cosa non fossi io. Era evidente che mi consideravano un motivo di imbarazzo. Qualche minuto dopo aver lasciato la stazione ferroviaria, fui in grado di calmare i miei singhiozzi, ma non riuscii a pensare a qualcosa da dire. La nostra carrozza, una specie di scatola con delle ruote e delle finestrelle, non avrebbe facilitato la conversazione nemmeno se fossi stata disposta a far notare le bellezze della natura, cosa che in quel momento non mi andava affatto.

«Allora, Enola» chiese in modo burbero Mycroft dopo qualche momento «ti sei ripresa abbastanza da raccontarci cosa è successo?»

Stavo certamente meglio, ma non avevo molto da aggiungere a ciò che già sapevano. Mamma era uscita presto il martedì mattina e non era più tornata. No, non aveva lasciato messaggi o spiegazioni di alcun tipo. No, non c’era ragione di credere che avesse avuto un malore, la sua salute era eccellente. No, nessuno aveva mandato notizie o informazioni. No, in risposta alle domande di Sherlock, non avevo notato macchie di sangue, impronte, segnali di furto, e non avevo visto alcuno sconosciuto nei dintorni della casa.

No, non c’erano state richieste di riscatto. Se mamma aveva dei nemici, io non ne ero al corrente. Sì, avevo fatto denuncia alla polizia di Kineford.

«Questo lo vedo» rimarcò Sherlock, affacciandosi dalla finestrella mentre la carrozza entrava nel parco di Ferndell. «Eccoli là, assieme a tutti i perditempo del paese, a rovistare tra i cespugli e a guardarsi in giro in maniera del tutto inconcludente.»

«Si aspettano di trovarla al riparo di qualche biancospino?» Con un grugnito, Mycroft si sporse in avanti per vedere a sua volta, intralciato dal ventre sporgente. Le sue sopracciglia cespugliose scomparirono sotto l’orlo del cappello. «Cosa accidenti è successo alla proprietà?!» esclamò.

Colta di sorpresa, protestai: «Niente!»

«Assolutamente niente, infatti, e da anni, sembrerebbe! È tutto vergognosamente coperto di vegetazione e…»

«Interessante» mormorò Sherlock.

«Che barbarie!» rimbeccò Mycroft. «L’erba è alta mezzo metro, ci sono alberelli ovunque, ginestre, cespugli di rovi e…»

«Quelle sono rose selvatiche.» A me piacevano.

«Cresciute in quello che dovrebbe essere il nostro giardino? Dimmi, come si guadagna il suo salario il giardiniere?»

«Giardiniere? Non c’è alcun giardiniere.»

Mycroft si chinò verso di me come un falco in picchiata. «Ma certo che c’è, un giardiniere! Si chiama Ruggles, e lo pago dodici scellini alla settimana da ben dieci anni!»

Devo ammettere che rimasi a bocca aperta per diverse ragioni: come poteva Mycroft vivere nell’assurda illusione che avessimo un giardiniere? Io non conoscevo nessun Ruggles! Inoltre, non avevo idea che Mycroft ci mandasse dei soldi… Fino a quel momento avevo dato per scontato che i soldi, come le ringhiere delle scale, i lampadari e il resto dell’arredo, fossero parte della proprietà.

Sherlock intervenne: «Mycroft, se questo tale esistesse sono certo che Enola lo saprebbe».

«Mah, non era a conoscenza del fatto che…»

Sherlock lo interruppe, voltandosi verso di me. «Enola, lascialo perdere. Mycroft diventa piuttosto intrattabile quando deve abbandonare la sua quotidianità fatta di casa, lavoro e Diogenes Club.»

Ignorandolo, anche Mycroft mi si avvicinò e chiese: «Enola, davvero non ci sono più cavalli, né stallieri o garzoni?»

«No. Voglio dire, sì…» Sì, davvero non ce n’erano.

«Quindi qual è la risposta, sì o no?»

«Mycroft» intervenne Sherlock «avrai pur notato che la testa della ragazza è piuttosto piccola rispetto al suo corpo notevolmente alto. Lasciala in pace, non ha alcun senso confonderla e turbarla quando presto scoprirai tutto tu stesso.»

Infatti, in quel preciso istante la nostra carrozza si fermò davanti a Ferndell Hall.