Siamo nel marzo del 1904. Sono passati nove anni e dieci mesi. Il professor Corvara Amidei non si ricorda piú, quasi, d'essere stato lí lí per morire all'ospedale, allora, dopo quell'esercizio ancora piú difficile. Il pensiero del figlioletto lontano, là, in un paesello della Sabina, lo ha salvato. Ora egli lo ha con sé, Dolfino. Ma il povero ragazzo, che ha già dieci anni e par che li abbia proprio per forza, tirati, tirati sú dalle piú minuziose cure del babbo, il povero ragazzo corre ahimè il rischio d'aver la stessa fortuna del padre: o forse no, si spera: perché, cosí gracile, cosí miserino com'è, sembra accenni piuttosto di volersene andare dello stesso male, di cui il babbo fu minacciato da ragazzo, quand'era al seminario.

Dolfino sapeva, fino all'età di otto anni, che la mamma sua era morta nel darlo alla luce, ma, due anni fa, un bel giorno, mentre il padre si trovava all'ufficio, aveva veduto entrare in casa una certa signora vestita alla bizzarra, incipriata, imbellettata, la quale, fra molte lagrime, aveva avuto il piacere di assicurargli che non era vero niente, perché la mamma sua, invece, eccola qua, viveva ancora; era lei, proprio lei, che gli voleva bene, oh tanto! E voleva star sempre con lui e curarlo e carezzarlo giorno e notte cosí, come faceva ora, cosí, il figlietto suo bello, il figlietto suo caro.

Se non che, la balia che lo aveva allevato e che, rimasta vedova e sola, era venuta a trovarlo per star con lui, da governante ora e da serva rientrando in casa con la spesa giornaliera, s'era scagliata addosso a quella femmina, le aveva strappato il ragazzo dalle braccia; e il povero Dolfino, atterrito, aveva sentito ripetere dalla sua balia a colei che si diceva sua madre turpi parole, per cui le due donne eran venute alle mani, e n'era seguita una scena orribile, dopo la quale egli aveva dovuto mettersi a letto assalito da una violentissima febbre.

Cosmo Antonio Corvara Amidei s'era recato in questura a denunziare quella trista donna, che - non contenta di tutto il male fatto a lui - voleva farne dell'altro al figliuolo innocente.

Satanina, che fin dall'età di diciott'anni, alla morte de padre, voleva andarsene - come si sa - alla ventura, fuggita col pittore francese che le faceva il ritratto, era stata quattr'anni a Parigi, poi a Nizza, poi a Torino, poi a Milano, cadendo man mano sempre piú nel fango. Pochi giorni dopo il suo arrivo a Roma, era stata veduta dal marito il quale, nello scorgerla in quello stato, quantunque già se lo fosse immaginato, s'era sentito mancare in mezzo alla via ed era stato condotto in una farmacia, sorretto per le ascelle.

Egli era già caduto in mano d'un certo prete sardo, conosciuto a Sassari, per nome don Melchiorre Spanu, il quale s'era fisso il chiodo di ricondurre all'ovile quella pecorella da tant'anni smarrita. Gli dava a leggere, nelle interminabili ore d'ufficio, libri e libri e libri d'argomento religioso; gli dimostrava con le piú lampanti prove che unica e sola causa di tutte le sciagure sofferte era l'indegno modo con cui egli in gioventú s'era regolato con la Santa Madre Chiesa, e che non per nulla, certo, Dio pareva si volesse raccogliere ora nella sede degli angeli e dei beati quel caro ragazzo, quel buon Dolfino: insomma, era un sacro ammonimento, questo, perché il professor Corvara Amidei, l'apostata, rimasto solo, si fosse indotto a entrare in qualche convento: per esempio, in quello della Trappa, alle Tre Fontane. Santo luogo, santo luogo; quello che proprio ci voleva per far penitenza.

Sentendo questi discorsi, il professor Corvara Amidei si stringeva nelle spalle, protendeva il collo, socchiudeva gli occhi e ripeteva ancora una volta:

- E va bene!

Certi giorni, all'uscita dal Ministero, lo attendevano don Melchiorre Spanu di qua, sui gradini di Santa Maria della Minerva, la moglie di là, appoggiata maestosamente alla ringhiera del Pantheon. I due si lanciavano da lontano occhiatacce fulminanti: il prete, stropicciandosi le dita sul mento e su le guance, dove le ispide punte della barba pareva gli rinascessero ogni volta sotto il raschiamento del rasojo; la donna, con un sogghignetto perfido su le labbra dipinte.

Il professor Corvara Amidei, uscendo ogni sera su la piazza, volgeva uno sguardo obliquo a quella ringhiera, dove di solito si appostava la moglie; ma andava diviato al prete, pur sapendo che quella in Via Piè di Marmo lo avrebbe senza dubbio raggiunto per chiedergli un po' di denaro, ch'egli non sapeva negarle. Le aveva già negato piú volte il perdono, sdegnosamente. A ogni nuovo assalto, per prevenire le rampogne del prete, si accostava a lui, sospirando, con la solita mossa, e stropicciandosi per di piú le mani:

- E va bene! E va bene!

Intanto, era prossima la primavera: stagione piú delle altre nociva ai malati di petto; e il medico aveva consigliato al professor Corvara Amidei di condurre Dolfino al mare, almeno per il primo mese, durante il quale l'aria di Roma sarebbe stata per lui troppo sottile.

Cosí, Cosmo Antonio Corvara Amidei domandò un mese di licenza, e il dí 5 di marzo del 1904 si recò a Nettuno per appigionarvi un quartierino alla vista del mare.

 

 

2.

 

LA PIGNA

 

La promessa di quel mese di sollievo e di riposo non poteva essere migliore. Era piovuto fino al giorno avanti: ora, con la freschezza del primo limpido sole di marzo, pareva che la Primavera volesse dire: «Son qua».

E veramente, al professor Corvara Amidei, affacciato al finestrino d'una vettura di terza classe, parve d'intravederla, la Primavera, appena uscito dalla stazione: alle porte di Roma, la Primavera, in un non so che di roseo fuggevole e palpitante tra il tenero verde dei prati. Che era? Forse un gruppo di peschi fioriti. Sí sí, eccone un altro, e un altro. La Primavera! Ah da quanto tempo non l'aveva piú veduta cosí, nel suo primo nascere, con quel roseo riso dei peschi!

Trasse un lungo sospiro, e si sentí da quell'aria nuova inebriare, d'una ebrezza cosí limpida e pura, che lo intenerí fino alle lagrime. Gli parve una grazia che la sorte nemica gli volesse concedere quella vista deliziosa, da cui gli veniva una letizia cosí arcana che ora, ecco, non sapeva perché, pur lí presente, gli pareva dei lievi anni lontani della sua fanciullezza, là nell'incanto del suo paese nativo.

E dimenticò allora, per un momento, tutte le sue sciagure, passate e presenti; il figliuolo tanto malato, quella donnaccia che lo disonorava; quel prete che l'opprimeva; la spesa superiore alle sue misere condizioni, alla quale bisognava pur sottomettersi per la speranza, forse vana ahimè, di recar bene a Dolfino: la noja cupa, amara; il peso enorme di quella sua insopportabile esistenza. Di contro a tutto il nero che aveva nell'anima, ecco il verde dei prati, l'azzurro del cielo e quella soave freschezza dell'aria, alito vivo della Primavera. E rimase, incantato, a mirare.

Sí, poteva, poteva esser bella la vita; ma lí, in mezzo a quel verde, all'aperto, dove la sorte crudele, certo, non poteva esercitare, come in città, la sua feroce persecuzione. Di questa persecuzione per le opprimenti vie cittadine, egli aveva quasi un'immagine tangibile: se la sentiva realmente dietro le spalle, come un'ombra orrenda, che lo faceva andar curvo, guardingo, tutto ristretto in sé: sua moglie.

Ne scacciò subito l'immagine, che gli aveva tutt'a un tratto offuscato la dolce visione, e si rimise a mirare. Ecco là i Monti Albani che pareva respirassero nel cielo, lievi, come se non fossero di dura pietra. Monte Cavo, con la vetta incoronata di aceri e di faggi, e il vecchio convento e il bosco biancheggiante a mezza costa. Ecco, piú là, Frascati solatía. Al fragore del treno si levò uno stormo di passeri, e un'allodola, in alto, librata sulle ali brillanti trillò. Il professor Corvara Amidei si ricordò allora della prima proposizione della grammatica latina, che da tanti anni non insegnava piú: alauda est laeta. E tentennò il capo. Ora, quasi quasi, gli parevano belli anche i suoi primi anni d'insegnamento, quando però non s'era ancor messo a far casa comune con quel...

- E va bene! - sospirò, turbandosi di nuovo.

Ma fu per poco. Passata la stazione di Carroceto cominciò a sentir prossimo il mare, e tutta l'anima gli si allargò, ilare e trepidante, nella viva aspettazione di quella tremula azzurra immensità, che da un momento all'altro gli si sarebbe spalancata davanti a gli occhi. Ah, il suo mare! Da quanto tempo piú non lo vedeva, e che desiderio acuto, intenso, ardente, di rivederlo! Ma eccolo già! Eccolo! Eccolo! E il professor Corvara Amidei sorse in piedi, tutto tremante dall'emozione, si sporse dal finestrino, e bevve con tanta ansia e tanta voluttà la brezza marina, che n'ebbe una vertigine, e ricadde a sedere su la panca della vettura, con le mani sul volto.

Il treno si arrestò ad Anzio, per pochi minuti, e il professor Corvara Amidei stette con tanto d'occhi a mirare ciò che dalla stazione si scorgeva della bella cittadina, dove non era mai stato. Scese, di lí a poco, alla stazione di Nettuno, ancora stordito e inebriato da quel primo respiro che, rivedendo il mare, aveva tratto proprio dal fondo dei polmoni, come non gli era piú avvenuto da tanto tempo.

Gli scrivani del Ministero gli avevano dato qualche ragguaglio del paese. Si recò nella piazza principale, e domandò dove avrebbe potuto trovare un quartierino modesto, di poca spesa, alla vista del mare. Gli fu indicato un villinetto lí sotto la piazza, a destra, su la spiaggia. Era veramente un po' troppo caro per lui quel quartierino; ma, pazienza! La finestra della cameretta posta sul davanti, verso lo spiazzo, di fronte alla caserma dei soldati d'artiglieria che venivano in distaccamento per le esercitazioni di tiro, era appena all'altezza d'un mezzanino: quella della camera prospiciente il mare, all'altezza d'un secondo piano. E il mare, di qua, pareva proprio che volesse entrare in casa; non si vedeva altro che mare. Il professor Corvara Amidei pagò la caparra al proprietario, gli disse che sarebbe venuto a prender alloggio la mattina dopo, e scese sulla spiaggia.

Dirimpetto al villino, dal lato di ponente, sorgeva e s'avanzava fin nel mare, maestoso, l'antico castello sansovinesco, annerito dal tempo. Salí su la scogliera sotto il castello, e lí rimase per piú di un'ora stupefatto, a contemplare. Vide in fondo al mare levarsi azzurrino, quasi fragile, Monte Circello come un'isola aerea, e piú qua, seguendo la riviera, il Castello di Stura; vide prossimo, a destra, il porto d'Anzio popolato di navi, nereggiante per il traffico del carbone, e poi la sterminata distesa delle acque, riscintillante al sole cosí placida, che sulla spiaggia s'arricciava appena, silenziosamente. Quando alla fine poté scuotersi dal fascino di quello spettacolo, si recò a prendere un boccone; poi, sapendo che prima delle cinque non avrebbe trovato alcun treno per ritornare a Roma, pensò d'occupare le tre ore che aveva innanzi a sé in una visita al magnifico parco dei Borghese, a mezza via tra Anzio e Nettuno.

Non ricordava d'aver mai passato un giorno piú delizioso di quello in vita sua; si sentiva beato entro quel precoce, voluttuoso tepor primaverile, col mare di qua, sotto lo scoscendimento dell'altipiano, e il verde dei campi e dei boschi dall'altra parte. Il cancello del parco era aperto e il professor Corvara Amidei s'avviava, ammirato, per uno dei viali in pendío, quando si sentí chiamare da una nanerottola che gli correva dietro come una papera:

- Ehi! Ehi! Si paga... si paga il biglietto!

Cinque soldi. Li pagò, quantunque si fosse proposto di limitarsi nelle spese. E riprese a vagare per quei viali profondi, deserti, ombrosi, come in un sogno. In un sogno parevano veramente assorti quegli alberi maestosi, nel silenzio che il canto degli uccelli non rompeva, ma rendeva anzi piú misterioso. Gli avevano detto che in quel parco quasi abbandonato c'erano molti usignoli. Gli parve, ascoltando, di sentirne cantare uno, in fondo, e s'internò da quella parte Si trovò, dopo un lungo tratto, in una meravigliosa pineta. I fusti altissimi, diritti, davan l'immagine di colonne d'un tempio gigantesco; le fitte corone, lassú, eran confuse ed escludevano del tutto lo sguardo dalla vista del cielo. Pareva che la pineta avesse una sua propria aria, cuprea, insaporata di quella frescura d'ombra speciale delle chiese.

Il professor Corvara Amidei non seppe andar piú oltre. Si tolse, quasi istintivamente, il cappello, e sedette per terra; poi si sdrajò.

Da molti e molti anni, fra una grave sciagura e l'altra, i diuturni dolori gli avevano quasi vestito la mente d'una scorza di stupidità; le cure affannose, minute, gli avevano impedito di levar lo spirito a quelle considerazioni che in gioventú lo avevano travagliato fino a fargli perdere per un momento la ragione e poi la fede. Ora, in quel giorno di tregua, essendo finalmente riuscito a intravedere come si potesse davvero sentir la gioja di vivere, ebbe la cattiva ispirazione di provarsi di nuovo a penetrare nel folto di quelle antiche considerazioni. E si domandò perché mai egli, che non aveva mai fatto per volontà male ad alcuno, doveva esser cosí bersagliato dalla sorte, egli, che anzi s'era inteso di far sempre il bene; bene lasciando l'abito ecclesiastico, quando la sua logica non s'era piú accordata con quella dei dottori della chiesa, la quale avrebbe dovuto esser legge per lui; bene, sposando per dare il pane a un'orfana, la quale per forza aveva voluto accettarlo a questo patto, mentr'egli onestamente e con tutto il cuore avrebbe voluto offrirglielo altrimenti. E ora, dopo l'infame tradimento e la fuga di quella donna indegna che gli aveva spezzata l'esistenza, ora quasi certamente gli toccava a soffrire anche la pena di vedersi morire a poco a poco il figliuolo, l'unico bene, per quanto amaro, che gli fosse rimasto. Ma perché? Dio, no: Dio non poteva voler questo. Se Dio esisteva, doveva coi buoni esser buono. Egli lo avrebbe offeso, credendo in lui. E chi dunque, chi dunque aveva il governo del mondo, di questa sciaguratissima vita degli uomini?

Una pigna. Come? Sí: una grossa pigna, staccandosi in quel momento dai rami lassú, piombò, a guisa di fulminea risposta, sul capo del professor Corvara Amidei.

Rimase il pover'uomo a giacere, quietamente, privo di sensi, quasi fulminato. Quando poté riaversi, si trovò in una pozza di sangue. E ne perdeva ancora, da una bella ferita, che dal sommo del capo gli andava giú giú dietro l'orecchio. Ancor tutto intronato, riuscí a levarsi in piedi e a grande stento si trascinò fino al cancello della villa. La nanerottola di guardia, nel rivederlo in quello stato, col volto tutto imbrattato di sangue, strillò, inorridita:

- Gesú! Che ha fatto?

Egli levò un braccio tremolante e contrasse il volto in una smorfia, tra di spasimo e di riso:

- La... la pigna, - balbettò, - la pigna che governa il mondo... già!

«È matto!», pensò quella e, spaventata, s'affrettò a chiamare il boaro della latteria annessa alla villa, perché con l'ajuto d'uno del ferrovieri che stavano lí presso al cancello a riattare la linea, quel disgraziato fosse condotto al vicino Sanatorio Orsenigo dei Fate Bene Fratelli.

Qua il professor Corvara Amidei fu prima raso, poi medicato con sette bei punti di cucitura, e infine fasciato. Aveva fretta; temeva di perdere il treno. Il medico, sentendo ch'egli doveva mettersi in viaggio, volle abbondare in cautela, e gli combinò allora con le bende una specie di turbante, il quale gl'impedí d'assettarsi il cappello sul capo. Quando fu pronto, Cosmo Antonio Corvara Amidei si strinse nelle spalle, si provò pian piano a protendere il collo, e socchiudendo gli occhi, sospirò ancora una volta:

- E va bene!

 

 

3.

 

IL VENTO

 

«Tu, cara Primavera, non vedo perché debba proprio quest'anno venire innanzi al dí che gli uomini ne' loro calendarii t'assegnano per il ritorno. L'inverno è stato piuttosto mite, e vorrebbe, prima di spirare, fare almeno un po' di guasto: è nel suo diritto; vorrebbe che tu, per esempio, gli lasciassi il tempo di scaricarsi di qualche temporaletto che l'addoglia; ma se questo non ti garba perché temi che ti sporcheresti i rosei piedini, trovando troppo imbrattate le campagne e le vie della città per il tuo ingresso trionfale; egli ti fa sapere che è ancor tutto gonfio di vento, povero vecchio, e ti prega che sii contenta di fargli, se non altro, buttar fuori questo, che ti snebbierebbe anche l'aria ben bene e ti spazzerebbe le terre dalle sudicerie che v'ha fatto. Renderesti un gran piacere a lui e uno grandissimo a me, che proteggo tanto, se tu sapessi, un brav'uomo, fin da quand'egli è nato. Figúrati, per dirtene una, che jeri, mentre egli si beava di te, steso a pancia all'aria nella pineta d'un bel parco, mi son divertita a fargli cadere in testa una pigna bella grossa e dura, che avrebbe potuto anche accopparlo, eh altro! ma io non ho voluto. Sai bene che porto nello stemma un gatto che scherza col topolino e non l'uccide.»

Come letta in altro tempo in un libro antico, perché la crudeltà ne apparisse piú raffinata, se la ripeteva tra sé e sé, da quindici giorni, Cosmo Antonio Corvara Amidei, questa bellissima preghiera che certamente la sua buona sorte aveva dovuto rivolgere alla Primavera, e che questa - manco a dirlo - aveva subito accolto. Era ancora col turbante in capo, e se ne stava alla sponda del lettuccio di Dolfino, il quale, da che era sceso alla stazione di Nettuno, gli si consumava nel lento cociore della febbre, anche di giorno. Prima, almeno, a Roma l'aveva soltanto di notte, la febbre.

E vento, e vento, e vento! Da quindici giorni non cessava un minuto, né dí né notte. Fischiava, mugolava, ruggiva in tutti i toni, ed era in certe scosse lunghe e tremende di tanta veemenza, che pareva volesse schiantar le case e portarsele via. Pareva; perché poi, in realtà, si portava via soltanto qualche tegola, abbatteva qualche albero o qualche palo telegrafico e infrangeva qualche vetro. Si divertiva poi a rendere furioso il mare, perché si ripigliasse la spiaggia, e venisse a rompersi fragoroso e spaventevole contro le mura delle case.

Al professor Corvara Amidei sembrava di trovarsi su una nave assaltata e sbattuta dalla tempesta. Il povero Dolfino n'era atterrito, e lui non trovava piú modo a confortarlo con qualche parolina, perché quel mugolo del vento, piú che il fragore del mare, gli toglieva, non che la voce, ma finanche il respiro, gli torceva dentro le viscere, gli dava un'angoscia rabbiosa e muta, che trovava solo, di tanto in tanto, un po' di sfogo involontario nella gola della povera balia, la quale, per compir l'opera, s'era ammalata d'angina e doveva starsene a letto, anche lei.

- Piano, per carità, signorino mio! - pregava quella, appena se lo vedeva davanti, come una fantasima, con la boccetta dell'acido fenico in una mano e il pennello nell'altra. - Piano, per carità!

Si metteva a sedere sul letto e spalancava la bocca, che pareva un forno arroventato.

Il professor Corvara Amidei non voleva far forte; ma, ogni volta, come se la veemenza del vento che s'abbatteva ai vetri gli spingesse il braccio, lasciava andare certe spennellature, che a quella poveretta per miracolo non schizzavan gli occhi dal capo.

- Sputate! Sputate!

E se ne tornava accanto a Dolfino, con una fissità truce negli occhi, mentre la boccetta dell'acido fenico gli tremava in mano. Acido fenico... veleno... ma troppo poco, troppo poco e diluito... non sarebbe certamente bastato... E poi, del resto, come lasciar Dolfino in quelle condizioni! No, via! La tentazione però era forte. Quel vento lo faceva impazzire.

- Villeggiatura!... - borbottava tra sé.

Già metà del mese era passata. La spesa in piú del fitto, la mancanza dei comodi di casa, l'aggravamento del mal di Dolfino, la malattia della serva: ci aveva guadagnato questo. E poi, ancora un po' di pazienza: bisognava che si facesse tutto da sé: lui accendersi il fuoco, lui andar per la spesa, lui apparecchiar da mangiare... E non poter condurre, neanche per un minuto, il ragazzo sulla spiaggia; vedersi lí, in quelle tre stanzette, imprigionato, assediato dal mare e dal vento.

Troppo, eh?

- Tin tin tin - piano piano, alla porta.

- Chi è?

Ma lei, Satanina, si sa! Venuta in groppa a quel vento Satanina, la buona mammina, che vuole a tutti i costi rivedere il figliuolo malato.

Entra, si precipita, cade in ginocchio ai piedi del professore, il quale indietreggia sbalordito; gli s'aggrappa alla giacca, gridando, scarmigliata:

- Cosmo! Cosmo, per carità! Lasciami veder Dolfino mio! Perdonami! Salvami! Abbi compassione di me!

E scoppia, cosí gridando, in un pianto dirotto, in un pianto vero, di lagrime vere, senza fine, e in singhiozzi anche, in singhiozzi non meno veri, che la scuotono tutta; e non si leva da terra, e si nasconde la faccia con le mani seguitando a implorare:

- Bacerò, bacerò la terra, dove tu metti i piedi, Cosmo, se tu mi perdoni, se tu mi salvi! Non ne posso piú! Voglio esser tutta del mio Dolfino, ora! Lasciamelo assistere, curare, per carità!

Cosmo Antonio Corvara Amidei casca a sedere su una seggiola, si nasconde il volto con le mani anche lui, benché in quella cameretta, veramente, per l'ombra della sera sopravvenuta, non ci si veda quasi piú. Suona la campana dell'Avemaria.

- Ave Maria... - dice forte, apposta, la balia dal letto, cominciando la preghiera, per sottrarre il padrone alla tentazione.

E Dolfino chiama dall'altra camera in fondo, sbigottito:

- Papà... papà...

Allora Satanina, come sospinta da una susta, scatta in piedi e corre dal figliuolo.

Il professor Corvara Amidei rimane inchiodato sulla sedia. Gli giungono dalla camera di Dolfino le tenere espressioni d'affetto che colei rivolge al figliuolo, il suono dei baci che gli dà. Gli sembra che d'improvviso un gran silenzio si sia fatto intorno, un silenzio misterioso, di fuori, come di tutto il mondo. Si toglie le mani dal volto e resta attonito ad ascoltare. Un vetro si scuote, appena appena alla finestra. Ah, il vento - ecco - il vento è cessato. E come mai? Si reca dietro la vetrata a guardare la via illuminata di là dal prossimo giardino annesso alla casa degli ufficiali che escono allegri dalla mensa. Ma Dolfino è ancora al buio, in camera, con colei; e il professore Corvara va per accendere la candela.

- Lascia, faccio io! - gli dice subito Satanina. - Il lume dov'è? Di là?

E scappa a prenderlo, premurosa.

- Papà, - dice allora Dolfino, piano piano, - papà, io non la voglio... Fa troppo odore...

- Zitto, figliuolo mio, zitto...

- Papà, dove ti corichi tu? Per lei non c'è letto... Tu devi coricarti qui, papà, senti? Accanto a me...

- Sí, bello mio, sí... Sta' zitto, sta' zitto...

Silenzio. E perché non torna Satanina? Non trova forse il lume? Che fa? Il professore Corvara Amidei tende l'orecchio; poi avverte un fresco insolito alle gambe, come se colei di là avesse aperto la finestra. Possibile?

Si leva dalla sponda del letto e va, al bujo, in punta di piedi, a origliare, fino all'uscio della camera che ha la finestra bassa sullo spiazzo, davanti la caserma. Satanina sta affacciata a quella finestra e parla sottovoce con qualcuno giú! Come! Con chi? Ah, spudorata! Ancora? Cosmo Antonio Corvara Amidei si stringe in sé, felinamente, le si accosta, senza fare il minimo rumore, e - quando le sente dire all'ufficiale che sta lí sotto: «No, Gigino, stasera no: non è possibile. Domani... domani, immancabilmente...» - si china, l'abbranca per i piedi, e giú! La rovescia dalla finestra, gridando:

- Signor tenente, se la pigli!

Al doppio urlo che gli risponde di sotto, dell'ufficiale e della precipitata, egli si ritrae, raccapricciato, in preda a un tremor convulso di tutto il corpo: si prova a richiuder le imposte, ma non può, poiché dallo spiazzo nuove grida si levano, di soldati, di ufficiali, d'altra gente accorsa. Traballando, col passo legato, si trascina fino alla camera del figlio, ribellandosi ferocemente alla balia, che saltata dal letto in camicia, a quegli urli, vorrebbe trattenerlo per sapere che ha fatto, che è stato.

- Nulla... nulla... - risponde lui, fremebondo, abbracciando il figliuolo sul letto. - Nulla... non ti spaventare... Una tegola... una tegola sul capo a un tenente.

Bussano furiosamente alla porta. La balia scappa a infilarsi una sottana, corre ad aprire: un fiume di gente, soldati e ufficiali allagano vociando la casa ancora al bujo, dietro a due carabinieri e al delegato.

- Abbiano pazienza, accendo il lume... - balbetta la balia, spaventata.

Cosmo Antonio Corvara Amidei si tiene stretto con tutte e due le braccia Dolfino, che s'è inginocchiato sul letto.

- Via! Venite con me! - gli grida il delegato.

Egli si volta a guardarlo. Sotto il turbante delle fasce, quella faccia da morto con gli occhiali incute sgomento e orrore alla folla che ha invaso la camera.

- Dove? - domanda.

- Con me! Senza storie! - gli risponde, brusco, il delegato, prendendolo per una spalla.

- Va bene. Ma questo figlio? - domanda lui, di nuovo. - È malato. A chi lo lascio? Sappia, signor delegato...

- Via! Via! Via! - lo interrompe questi, con violenza. - Vostro figlio sarà condotto al Sanatorio. Voi venite con me!

Il professor Corvara Amidei rimette a giacere Dolfino che trema tutto dallo spavento; lo esorta pian piano a far buon animo: ché non è nulla, ché presto ritornerà a lui; e se lo bacia quasi a ogni parola rattenendo le lagrime. Uno dei carabinieri, spazientito, lo agguanta per un braccio.

- Anche le manette? - domanda il professor Corvara Amidei.

Ammanettato, si china su Dolfino, di nuovo, e gli dice:

- Figlio mio, questi occhiali...

- Che vuoi? - gli chiede il ragazzo, tremando, atterrito.

- Strappameli dal naso, bello mio... Cosí... Bravo! Ora non ti vedo piú...

Si volge verso la folla, ammiccando e scoprendo nella contrazione del volto, i denti gialli; si stringe nelle spalle, protende il collo, ma l'angoscia gli serra troppo la gola, e non può ripetere anche questa volta:

- E va bene!

 

 

 

IL GIARDINETTO LASSÚ

 

 

I

 

Che voleva dirmi?

L'affanno cresciuto non dava adito alle parole, che volevano certo esser aspre, a giudicare dagli sguardi e dai gesti con cui, tossendo, cercava di farmi comprendere.

- Il servo? - gli domandai, cercando, angustiato, un'interpretazione.

Accennò di sí piú volte col capo, irosamente; poi con la mano tremolante mi fece altri gesti.

- Lo caccio via?

Sí, sí, sí, m'accennò col capo, di nuovo.

Per quanto l'indignazione, a cui pareva in preda il povero infermo, ora si comunicasse anche a me, al pensiero che quel servo vigliacco si fosse approfittato dei brevi momenti durante la giornata, nei quali ero costretto ad allontanarmi; pure restai perplesso. Venivo proprio ad annunziargli che, d'ora in poi, non avrei piú potuto trattenermi a vegliarlo, a curarlo, come nei primi giorni della malattia. Cacciando ora il servo, poteva egli restar solo lí in casa?

Mi venne in mente lí per lí di persuaderlo a cercar ricovero o in un ospedale o in qualche casa di salute, e gliene feci la proposta.

Nonno Bauer (lo chiamavo cosí fin da quand'ero ragazzo) mi guardò con occhi smarriti, poi guardò in giro lentamente la camera, la cui vecchia suppellettile gli era tanto cara quanto la sua stessa persona, e dal seggiolone di cuojo, entro al quale stava sprofondato, volse infine gli occhi alla finestra, senza rispondermi.

C'era di là un giardinetto. Apparteneva agl'inquilini del secondo piano; ma chi veramente ne godeva era lui, Nonno Bauer, che da quella finestra bassa poteva conversar comodamente col giardiniere e, allungando appena un braccio, toccare i rami d'un mandorlo, che adesso pareva tutto fiorito di farfalle.

Mi accorsi che due lagrime erano sgorgate dai calvi occhi infossati del mio caro vecchietto; due lagrimoni che ora gli scorrevano su le guance di cera.

- Lei non vorrebbe, è vero? - m'affrettai a dirgli, impietosito.

Negò col capo, senza guardarmi, quasi vergognoso, mentre la commozione gli agitava le labbra.

- No? Ebbene, vuol dire che si provvederà in altro modo. Intanto Lei non si affligga.

Il povero vecchio alzò gli occhi lacrimosi a ringraziarmi, e un mezzo sorriso, quasi puerile, gli affiorò alle labbra che, subito, si contrassero come per fare il greppo. Tanto intenerimento aveva provato in quel punto per sé.

Povero Nonno Bauer! Moriva, o meglio si spegneva a poco a poco, lí solo; e dopo una lunga vita, tutta stenti e fatiche, esser privato all'ultimo di quegli oggetti familiari, testimoni della pace finalmente conquistata, gli era parsa una vera crudeltà.

 

 

II

 

Era nato in Italia, da genitori alsaziani; e, fin da giovanetto, era stato col nonno, e poi con mio padre, nell'umile ufficio di scritturale di banco. Dopo il nostro rovescio finanziario e la conseguente morte di mio padre, se n'era andato in Alsazia a trovare i parenti sconosciuti. Trascorsi circa sette anni, eccolo di ritorno in Italia, vinto dalla nostalgia per il paese in cui era nato e cresciuto.

Era ritornato con una modesta sostanza, ereditata da un cugino morto celibe. In quei sette anni, io ero rimasto solo, senza piú la mamma, e quasi povero. Nonno Bauer venne a trovarmi, appena ritornato, e mi profferse di abitare con lui. Non accettai, perché, per le buone relazioni di cui godevo, avevo da poco ottenuto un impiego di fiducia, che m'obbligava a viaggiare continuamente. Tuttavia, non perdetti mai di vista il buon vecchietto; andavo a trovarlo ogni qualvolta ritornavo a Roma; e lui m'accoglieva con tenerezza paterna.

Era per me una vera delizia la sua compagnia. Conversando con lui, mi pareva di tuffar l'anima in un bagno di antica semplicità.

Nonno Bauer era rimasto in uno stato di vergine ignoranza per quasi tutte le cose della vita, e bisognava vedere con quale e quanta meraviglia la sua mente si aprisse man mano alle cognizioni piú ovvie, ora che la vita per lui era quasi finita. Passava ore e ore in biblioteca a leggere, a studiare, per rendersi conto di tante e tante cose che, veramente, ormai non doveva piú importargli di sapere. Restava stordito di ciò che apprendeva cosí tardi; riportava l'ammaestramento al tempo in cui avrebbe potuto giovargli, e s'immergeva allora in lunghe e profonde considerazioni, immaginando il diverso cammino che avrebbe potuto prendere con esso la sua vita.

Ma la sua passione piú viva erano le piante. Una volta andò via da una casa per non veder morire un albero che era cresciuto, non si sa come, in mezzo al cortile.

Quel povero albero - io lo ricordo - s'era levato sul magro stelo cinereo con evidente sforzo e rizzando i rami come a supplicare, desideroso di vedere il sole e l'aria libera, angosciato dalla paura di non avere in sé tanto rigoglio da arrivare oltre i tetti delle case che lo circondavano. Ma, finalmente, c'era arrivato! E come brillavano felici le frondi della cima e quanta invidia destavano in quelle che stavano giú senz'aria, senza sole! Anche nella morte, nello staccarsi dai rami, in autunno, le foglie di lassú avevano una lieta sorte: volavano via col vento, in alto, cadevano su i tetti, vedevano il cielo ancora; mentre le povere foglie basse morivano nel fango della via, calpestate.

In tutte le stagioni, all'ora del tramonto, quell'albero si popolava d'una miriade di passeri, che pareva vi si dessero convegno da tutti i tetti della città. Quei rami allora palpitavano piú d'ali che di foglie; pareva che ogni foglia avesse voce; che tutto l'albero cantasse, fremebondo.

Dalle finestre delle case i bambini sorridevano storditi, a quel passerajo fitto, continuo, assordante. Nonno Bauer si affacciava con me; sorrideva con aria misteriosa di vecchio mago, mi diceva socchiudendo gli occhi:

- Aspetta...

E batteva forte, due volte, le mani. Subito, come per incanto, tutto l'albero taceva, esanime.

- Che te ne pare?

Ma, di lí a poco, lo sbaldore ricominciava: ogni passero tornava a inebriarsi del proprio gridío e di quello degli altri, e il concento diveniva man mano piú fitto, piú assordante di prima.

Ora avvenne che il proprietario di quella casa, un bel giorno, pensò di alzar tutto in giro il muro per fabbricare un altro piano. E allora l'albero che con tanto stento si era guadagnata la libertà del sole, dell'aria aperta, piegò avvilito la cima, si curvò sul tronco.

Nonno Bauer, vedendolo cosí, cominciò a smaniare, a sentire una pena che gli toglieva il respiro.

- Guarda, guarda! - mi diceva, mostrandomi i passerotti che dalle grondaje spiccavano il volo e si tenevano sospesi su le ali gridando quasi per esortar piú da vicino l'albero a rizzarsi.

E forse quei passerotti, anche loro, ripetevano al vecchio albero le solite frasi, gli inutili consigli, i vani ammonimenti, che si sogliono dare ai caduti, agli sconsolati: - Fatti coraggio! non bisogna avvilirsi! raccogli le forze! rialzati!

Ma il vecchio albero non aveva ormai piú forza di rialzarsi: aveva stentato tanto per arrivare fin lassú, a quell'altezza: piú sú, ormai, non poteva arrivare. Meglio morire.

Andato via da quella casa, Nonno Bauer se n'era venuto in questa col giardinetto, che non apparteneva a lui. Non andava piú da un pezzo in biblioteca; erano cominciati gli acciacchi della vecchiaja, dopo la settantina; e Nonno Bauer, non potendo piú uscir di casa tutti i giorni, se ne stava alla finestra a conversar col giardiniere e a fare all'amore - com'egli diceva - con le rose del giardino.

 

 

III

 

Di quelle rose e degli altri fiori s'innamorò tanto, che cominciò a struggersi dal desiderio di avere anche lui un giardinetto. Gli venne allora un'idea che non mi piacque affatto quando me la manifestò, quantunque la fondasse in un ragionamento pieno di buon senso.

- Alla mia età, - mi disse, - bisogna pensare, figliuolo mio, anche alla morte. E giacché non ho tanti quattrini da farmi due case con due giardinetti, me ne farò una sola, ma bella, e con un giardinetto che varrà per due. Questo mi servirà per sfogare ora il desiderio che m'è nato, quella che mi servirà per poi… E quando questo poi sarà arrivato, al giardinetto di Nonno Bauer verrai a pensarci tu.

Cosí acquistò un buon pezzo di terra al camposanto.

La casa, sotto, invece che sopra; e senza nessuna pretesa. Una piccola nicchietta, e lí. Perché i morti hanno questo di buono: che possono anche fare a meno di star comodi, e dell'aria e del sole e d'ogni altra cosa, visto e considerato che si son tolto per sempre il fastidio di muoversi, di respirare, e che, se son freddi, non sentono piú nessun bisogno di riscaldarsi.

Ma veramente Nonno Bauer, stando intere giornate lassú, quando si sentiva bene, intento a far nascere il giardino da quel suo pezzo di terra, pareva un morto venuto sú dalla sua nicchietta sotterranea per darsi ancora da fare, per muoversi, per bearsi ancora dell'aria e del sole, zitto zitto e affaccendato, senza piú nessun pensiero, nessuna curiosità della vita, senza neppure accorgersi dello stupore di certi visitatori del camposanto che si fermavano in distanza a mirarlo a bocca aperta, lí chino su questa o quella pianta con la forbice o con la zappetta o con l'annaffiatojo, o seduto su la sedia a libricino che si portava ogni mattina appesa al braccio, il cappellaccio di paglia in capo, l'ombrello aperto su la spalla, immobile, con gli occhi fissi nel vuoto, assorti in qualche pensiero lontano, che gli atteggiava d'un lieve sorriso le labbra tra la barbetta argentea.

Veniva a qualcuno, quasi quasi, la tentazione d'andarlo a scuotere e d'ordinargli che se ne tornasse giú subito, a riporsi, perché a un morto non è lecito, perdio, sconcertar cosí la gente, farla impazzire con tutte quelle sue faccende là attorno al giardinetto, o con quella immobilità sul sediolino e quell'ombrello aperto sulla spalla.

La sera, Nonno Bauer, ritornando a casa, parlava col giardiniere dalla finestra. Bisognava sentire che conversazioni! Aveva ottenuto da lui semi e tralci da trapiantare lassú; e i fiori - sosteneva - sbocciavano meglio, assai meglio là che qua, perché infine i morti a qualche cosa erano ancora buoni.

Ora, inchiodato da quindici giorni in quel seggiolone di cuojo, da cui non doveva piú rialzarsi, egli non sentiva altra pena che quella di non poter recarsi, neanche in vettura, a vedere il suo caro giardinetto lassú. Ed era per lui una consolazione veder quest'altro, invece, dalla finestra, sollevandosi un poco su la vita, a stento, e allungando il collo quanto piú poteva. Le rose che vi fiorivano non erano forse sorelle delle rose che fiorivano lassú? Meno belle, ma sorelle.

E sapete perché quel giorno io trovai Nonno Bauer cosí arrabbiato contro il suo servo? Perché non era vero che questi si fosse recato ogni mattina al camposanto a curare il giardinetto, come Nonno Bauer gli aveva ordinato. Il vicino giardiniere, venuto quella mattina a fargli visita, gliene aveva dato la brutta notizia.

Non ci fu verso: dovetti cacciar via il servo: lo cacciai anche, in verità, perché lo ritenevo infedele e sgarbato. Il vicino giardiniere promise che ci sarebbe andato lui ogni giorno a curare le piante, sorelle piú belle, e cosí Nonno Bauer si tranquillò.

Io pensai (conoscendo purtroppo che la morte non poteva esser lontana) di domandare l'assistenza di due suore per quegli ultimi giorni, ed egli non si oppose. Era cosciente del suo stato, e non se ne rammaricava punto; aveva vissuto a lungo, aveva assaporato la pace; ora si sentiva stanco: era tempo di chiudere gli occhi e dormire per sempre, là, nella nicchietta, sotto le rose dell'altro giardino.

 

 

IV

 

Ogni giorno, andando a visitarlo, mi sorgeva innanzi alla porta la speranza che la mia assidua costernazione dovesse essere ovviata da un repentino miglioramento; ma la men giovane delle suore che veniva ad aprirmi la porta, rispondeva sempre con un gesto di triste rassegnazione alla mia prima, ansiosa domanda.

Mi trattenevo da lui qualche ora; la conversazione però languiva, poiché egli, dopo avermi accolto con un sorriso mesto e muto di riconoscenza, spesso richiudeva gli occhi; e allora io, per non disturbarlo, me ne stavo zitto, come le due suore assistenti. Veramente, quegli occhi, non si sapeva piú come guardarglieli, cosí scavati dentro com'erano nel male che lo consumava.

Nessun rumore, nessun segno di vita arrivava in quella linda casetta appartata, in cui il vecchietto aspettava tranquillo la morte. Talvolta, nel silenzio, attraverso le vetrate, giungeva il cinguettío di un passero: io e le due suore alzavamo gli occhi alla finestra: il passero era lí, sul ramo fiorito del mandorlo, e, scotendo or di qua or di là il capino, guardava curioso nella camera, come se volesse domandare: - Che fate? - Poi, a un tratto, un frullo, e via! Quasi avesse compreso che cosa in quella camera si stesse ad aspettare.

Un giorno Nonno Bauer mi domandò se ero stato a vedere il suo giardinetto. C'ero stato, ma non avevo voluto dirglielo.

- Perché non me l'hai detto? - fece egli. - Qua o là, ormai, non è lo stesso? Anzi, meglio là... Hai visto come è bello? Vi tengo tutti impicciati, e io ho tanta voglia di dormire...

Gli parlai allora delle sue piante tutte in fiore, esagerando, per fargli piacere, la mia ammirazione. Gli occhi di Nonno Bauer si avvivarono di contentezza.

- Ci andrò presto... Peccato, che non possa piú vederlo...

Lo spettacolo di quell'essere ancor del tutto cosciente che con tanta tranquillità s'era conciliato col pensiero della morte, mi cagionava un occulto, indefinibile sentimento. Ma, di lí a pochi giorni, un'altra cosa doveva stupirmi maggiormente.

S'era ammalato d'una malattia assai grave l'unico figlio di un mio intimo amico, vispo e leggiadro fanciullo di circa sette anni, che già s'accarezzava sul labbro un pajo di baffetti immaginarii e, a cavallo d'una seggiola, con una sciabola di legno in mano, un elmo di cartone in capo, marciava a debellare in Africa i Beduini.

Ero andato a casa di quel mio amico per affari e lo avevo trovato con la moglie in preda a un cordoglio angoscioso, attorno al lettuccio dell'infermo adorato.

- Tifo... tifo...

Non sapevano dir altro, padre e madre, e si nascondevano la faccia con le mani, come per non vedere il fanciulletto avvampato dalla febbre.

Ancora turbato e commosso andai quel giorno con molto ritardo a visitare Nonno Bauer. Egli prestò ascolto alla triste notizia recata da me per scusare il ritardo: volle anzi sapere quanti anni avesse il bambino e se i medici avessero dichiarata la malattia.

- Tifo?

Scosse il capo, con le ciglia corrugate, poi richiuse gli occhi, e nella cameretta ritornò il silenzio consueto.

- Quanti giorni sono? - domandò dopo un lungo tratto, senza aprire gli occhi.

Non potendo supporre che egli pensasse ancora a quel fanciullo infermo e non intendendo perciò la domanda, gli domandai a mia volta:

- Quanti giorni di che?

- Che il bambino è ammalato? - spiegò Nonno Bauer, come se parlasse in sogno.

- Nove giorni, - risposi. - E la febbre sempre alta a un modo.

- Bagni freddi, gliene fanno? Anche uno ogni due ore, senza paura... Diglielo al tuo amico.

Dopo un altro lungo silenzio, volle sapere anche il nome del fanciullo.

Il giorno appresso mi recai con lo stesso ritardo a visitare Nonno Bauer, e cosí nei giorni successivi. Andavo prima a prender notizia del bambino, e non già perché questo mi interessasse piú del mio caro vecchietto, ma perché Nonno Bauer se ne interessava lui piú di me, e per prima cosa, ogni giorno, nel vedermi entrare, mi domandava:

- Come sta? Come sta?

Era rimasto impressionato del caso di quel bambino che moriva contemporaneamente a lui; e, mentre per sé non si lagnava nemmeno, di quello si affliggeva cosí che pareva non se ne potesse dar pace.

- Ma di', ma un consulto non l'hanno ancora tenuto?

E consigliava i medici da chiamare. Avrebbe voluto salvarlo a ogni costo.

Purtroppo però il fanciullo era spacciato. Il giorno in cui diedi a Nonno Bauer la triste notizia, c'era da lui a visita il vicino giardiniere, il quale era venuto a riferirgli che il rosajo tutto intorno aveva gettato tanto, che la pietra sepolcrale ne era quasi nascosta.

- Signor Bauer, le rose dicono: là dentro non ci si va

Ma Nonno Bauer stava peggio anche lui, quel giorno. Guardava con occhi spenti; pareva non intendesse.

Andato via il giardiniere, cadde in letargo. Poi, si riscosse con un sospiro e disse:

- Se volessero portarlo lí...

Credetti che vaneggiasse, e, per richiamarlo in sensi, gli domandai:

- Dove, Nonno Bauer?

- Lí...

E alzò appena la mano.

Compresi, e provai una viva tenerezza. Egli intendeva nel suo giardinetto, lassú, al camposanto. Voleva con sé il bambino, lí, nella nicchietta, sotto le rose.

- Diglielo... diglielo... - riprese con insistenza, rianimandosi un po' e guardandomi negli occhi: - Glielo dirai?

 

 

 

LA MASCHERA DIMENTICATA

 

Nella sala già quasi piena per la riunione indetta dal Comitato elettorale in casa del candidato Laleva, tutti, vedendolo entrare zitto zitto zoppicante e con gli occhi fissi e cupi sotto la fronte grinzuta, s'erano voltati, stupiti, a mirarlo.

Don Ciccino Cirinciò? Possibile? E chi lo aveva invitato?

Si sapeva che da anni e anni non s'immischiava piú di nulla, tutto assorto com'era nelle sue sciagure: la morte della moglie e di due figliuoli, la perdita della zolfara dopo una sequela di liti giudiziarie, e la miseria: sciagure che avrebbe fatto meglio a portare in pubblico con dignità meno funebre, perché non spiccasse agli occhi di tutti i maldicenti del paese quel sigillo particolare di scherno con cui la sorte buffona pareva si fosse spassata a bollargliele, se era vero che la moglie gli fosse morta per aver partorito su la cinquantina non si sapeva bene che cosa: chi diceva un cagnolo, chi una marmotta; e che avesse perduto la zolfara per una virgola mal posta nel contratto d'affitto; e che zoppicasse cosí per una famosa avventura di caccia, nella quale invece dell'uccello era volato in aria lui con tutti gli stivaloni e lo schioppo e la carniera e il cane, investito dalle alacce d'un mulino a vento abbandonato sul poggio di Montelusa, le quali tutt'a un tratto s'erano messe a girare da sé; per cui ormai era inteso da tutti come don Ciccino Cirinciò «quello del mulino».

Cosa strana: se da qualche malcreato sentiva fare allusione a quel parto della moglie o a quella virgola nel contratto d'affitto, sorrideva triste o scrollava le spalle; ma nel sentirsi chiamare quello del mulino usciva dai gangheri, minacciava col bastone e urlava che il suo era un paese di carognoni imbecilli.

 

Ora questi carognoni imbecilli ecco che si maravigliavano del suo intervento alla riunione elettorale. Ma ci voleva tanto i pensare ch'egli doveva - prima di tutto - gratitudine eterna al vecchio avvocato don Francesco Laleva, padre del candidato d'oggi, l'unico tra tutti gli avvocati del foro che lo avesse ajutato e difeso nell'occasione delle liti per la zolfara? Queste liti, è vero, le aveva perdute; l'ajuto, perciò, se vogliamo, era stato vano; ma che per questo? L'obbligo della gratitudine non restava forse per lui stesso, sacrosanto? E poi - a parte la gratitudine - ci voleva tanto forse a crederlo capace di un sentimento, che doveva in quell'ora esser comune a tutti i galantuomini, disgraziati e non disgraziati? Perdio, il sentimento della dignità del proprio paese! Era, sí o no, un cittadino anche lui? Le disgrazie, va bene; ma, come cittadino, non poteva essere forse indignato anche lui delle spudorate vergogne che il vecchio deputato uscente commetteva da venti anni impunemente? Non parlava; non aveva mai parlato, perché - le parole - vento! Ma ora ch'era venuto il tempo d'agire, sissignori; eccolo qua; si presentava da sé, non invitato, per mettersi a disposizione del figlio del suo antico e unico benefattore.

I radunati stettero un pezzo a mirarlo a bocca aperta; qualcuno si toccò con un dito la fronte, come per dire: «Eh, che volete? Gli s'è voltato il cervello, poveretto!». Perché sapevano tutti che non era vero che dovesse poi tanta gratitudine al padre del Laleva, il quale non lo aveva né ajutato né difeso; ma solo dissuaso dal mettersi in lite per quella zolfara maledetta. Se non che, a forza di ragionare tra sé e sé le sue disgrazie, chi sa, povero Cirinciò, com'era arrivato adesso a rappresentarsi uomini e cose, tutti gli avvenimenti della sua vita; e quali parti in questi lontani avvenimenti della sua vita attribuiva a presunti amici, a presunti nemici! E chi sa da che strambe ragioni era stato perciò indotto a presentarsi ora lí non invitato; e che cosa, nei misteriosi arzigogoli, nelle segrete previsioni del suo spirito conturbato, doveva rappresentare per lui questa sua partecipazione alla lotta politica in favore del figlio di don Francesco Laleva; che beneficii sbardellati se ne riprometteva, che tremendi pericoli e responsabilità si immaginava di dovere affrontare... Ma sí, quegli occhi che lampeggiavano sotto la fronte aggrottata; quelle pugna serrate su i ginocchi... Povero don Ciccino!

 

Cirinciò, invece, guardava cosí, perché non riusciva a spiegarsi il perché di tutta quella meraviglia per la sua venuta.

Vedendosi osservato, spiato da lontano con quell'aria di costernazione perplessa e afflitta, cominciò a entrare in sospetto, che non lo volessero lí. Aveva forse capito male l'invito del Comitato elettorale?

A un certo punto, non potendone piú, s'alzò sdegnoso, e, zoppicando, s'accostò a domandarlo al Laleva:

- Scusate, debbo rimanere o me ne debbo andare? Ho forse fatto male a venire?

- Ma no! Perché, caro don Ciccino? - s'affrettò a rispondergli il Laleva. - Siamo tutti felicissimi, e io particolarmente, della sua venuta! Ma si figuri! Segga, segga. L'ho per un onore; e ne ho tanto piacere!

- E allora? - domandò a sé stesso Cirinciò, tornando a sedere. - Perché tutti mi guardano cosí?

Che ci fosse in lui qualche cosa ch'egli non vedeva e che gli altri vedevano? Perché in quel momento gli pareva proprio che potesse, come tutti gli altri, occuparsi delle elezioni, e che non ci fosse, in questo, nulla di straordinario.

Capiva bene, sí o no? Ma sí, perdio, che capiva benissimo tutte le discussioni che ora si facevano attorno a lui su le probabilità piú o meno di vittoria, sulla disposizione dei varii partiti locali in questo e in quel comune del collegio, sul computo dei voti favorevoli e contrarii, non solo, ma gli pareva anzi di veder piú chiaro di certuni nella tattica da seguire verso qualche capoelettore ancora neutrale nella lotta. Tanto che a un certo punto, dimenticandosi del dubbio che lo aveva finora tenuto ingrugnato e sospettoso, non poté piú trattenersi; s'alzò, prese la parola e in breve, con chiarezza e semplicità, espresse il suo concetto, come a lui pareva che si dovesse fare.

Fu nella sala uno sbalordimento generale; perché proprio nessuno riusciva a capacitarsi come mai don Ciccino Cirinciò potesse vedere cosí chiaro e giusto. Eppure, sí, era proprio quella la mossa da tentare; si doveva far proprio come diceva lui.

Tre, quattro volte, durante la lunga discussione, si rinnovò quello sbalordimento per il retto giudizio e la giustezza dei consigli e la finezza degli espedienti da lui suggeriti. Non pareva vero! Signori miei, don Ciccino Cirinciò... Ma parlava benissimo! Chi l'avrebbe creduto? Un oratore... Ma bravo! Ma bene! Viva Cirinciò!

Piú sbalordito di tutti, alla fine, perché da un canto non gli pareva proprio d'aver detto cose cosí straordinarie da suscitare tanto stupore, tanto fervore d'ammirazione; ma, dall'altro canto, mezzo ubriacato dagli applausi, Cirinciò si trovò designato da tutti a un posto di combattimento difficilissimo, nel comune di Borgetto, che si riteneva la cittadella inespugnabile del partito avversario.

Cercò di tirarsi indietro, con la scusa che non conosceva nessuno lí; che non c'era mai stato; disse anche che non erano imprese per lui; che aveva esposto cosí, in astratto il suo modo di vedere, ma che nell'atto pratico si sarebbe perduto. Non vollero neppur lasciarlo finire di parlare; lo costrinsero ad accettare quel posto di combattimento: e cosí, la mattina dopo, don Ciccino Cirinciò, provvisto di mezzi e di commendatizie, partí per Borgetto.

 

Vi fece miracoli, a detta di tutti, nei quindici giorni che precedettero l'elezione politica. Veri miracoli, se in due settimane riuscí a cambiare la posizione del Laleva in quel comune da cosí a cosí.

Fu per il bisogno di raggiungere e toccare una realtà qualunque nel vuoto strano, in cui quell'avventura impensata lo aveva cosí d'improvviso gettato? Vuoto arioso e lieve, nel quale tutti gli aspetti nuovi, d'uomini e di cose gli apparivano come in una luce di sogno, nella freschezza di quell'azzurro di marzo corso da allegre nuvole luminose? O fu per il prorompere di tante energie ancor vive e ignorate, da anni e anni compresse in lui, soffocate dall'incubo delle sciagure? Energie giovanili, intatte, che lo avrebbero portato chi sa dove, chi sa a quali imprese, a quali vittorie, se la sua vita non si fosse chiusa come s'era chiusa nel lutto di quelle sciagure?

Il fatto è che operò miracoli in quel paesello dove nessuno lo conosceva. E certo perché nessuno lo conosceva.

Tutto fuori di sé, là, in preda a quelle energie insospettate e scatenate d'un subito in lui, affrontò imperterrito gli avversarii, li forzò a discutere e a riconoscere prima gli errori e l'insipienza, poi la vergogna del loro vecchio deputato; e non si diede un momento di requie: ora qua a scrollare i titubanti; ora là a sventare un'insidia, a presiedere un comizio, a sfidare al contraddittorio anche lo stesso deputato uscente, o chi per lui: tutto quanto il paese!

Cose che non avrebbe mai supposto non che di poter dire, ma neppure di pensare lontanamente, gli venivano alle labbra, spontanee, con un'abbondanza e facilità di parola, un'efficacia d'espressioni, che ne restava lui stesso come abbagliato. Pareva che una vena nuova di vita gli fosse rampollata dentro, e si fosse messa a scorrere in lui con urgenza impetuosa. Coglieva a volo tutto, comprendeva tutto a un minimo cenno; e ogni cosa, dentro, pur restandogli nuova e fresca, gli diventava subito nota e propria; se n'impadroniva con quelle forze vergini, che non avevano potuto aver mai uno sfogo in lui, e che ora lo rendevano alacre e sicuro della vittoria, come un giovane, tra la frenesia che già aveva preso a bollire in tutti coloro che gli si facevano attorno sempre in maggior numero, e che a stento riuscivano a tenergli dietro in quella tumultuosa agitazione.

Non pensò piú neanche d'aver una gamba zoppicante. Non gli faceva piú male. Gli anni? Sessantadue, sí... Ma che voleva dire? Avanti! Era come se cominciasse ora la vita. Avanti! Avanti! Qua, per il momento, c'era da correre a minacciare a quel signor assessore la denunzia delle cento schede trattenute ai soci del circolo operajo, poi a documentare il tentativo di corruzione del signor sindaco: il pagamento di cinquanta voti a dieci lire l'uno. Come documentarlo? Ma con le testimonianze, perdio! S'incaricava lui di far confessare quei contadini alla presenza d'un notajo, lui, lui... Avanti!

Arrivò cosí al giorno della vittoria che pareva un altro, ricreato in quell'aura di popolarità, tra gente nuova, in un paese nuovo, preso d'assalto, messo sottosopra e conquistato in pochi giorni. E, la sera della proclamazione del nuovo eletto, si presentò raggiante nella vasta sala del Circolo dei «civili» dove era imbandita una splendida mensa in suo onore; per quanto già gli apparissero evidenti i segni della stanchezza nella vecchia maschera dimenticata.

 

Circolava intanto in quella sala, nell'attesa che i posti fossero assegnati nella mensa, un certo squallido ometto scontorto, dal cranio d'avorio, luccicante sotto i lumi. Quasi a nascondersi, teneva il capo insaccato nelle spallucce ossute, ma cacciava in tutti i crocchi la punta della barbetta arguta, gialliccia, come scolorita, e figgeva in faccia a questo e a quello gli occhietti lustri, acuti come due spilli, che gli spiccavano maligni nel cereo pallore del viso. Si fermava un momento a ripetere una domanda insistente alla quale era chiaro che non riceveva una risposta che lo soddisfacesse; negava col dito, scrollava le spalle come se esclamasse: «Ma che! Ma che! Impossibile!», o stirava il volto sporgendo il labbro inferiore, come uno che non riesca a capacitarsi, e s'allontanava rivoltandosi a guardare di sfuggita e di sbieco, con quegli occhietti puntuti, Cirinciò.

 

Cirinciò se n'accorse subito.

Pur tra il fervore entusiastico dell'accoglienza, si sentí ferire fin da principio da quegli occhietti. Cercò di sfuggirli, rituffandosi in mezzo alla confusione della festa. Ma di qua, di là, da vicino, da lontano, donde meno se l'aspettava, si sentiva pungere dalla fissità quasi spasimosa di quegli occhietti persecutori; e, appena punto, raggelare, sconcertare, rimescolar tutto da un sentimento oscuro che, facendogli impeto rabbiosamente, gli occupava come di una tenebra di vertigine il cervello. Si ripigliava; ma avvertiva internamente che non gli era piú possibile ormai tenersi fermo, ché tutto, dentro, gli vagellava, non tanto per la persecuzione di quegli occhietti, di cui in fine non aveva nulla da temere, quanto perché... perché non lo sapeva bene lui stesso.

Non era timore, non era vergogna; ma si sentiva come tratto di dentro a nascondersi e a scomparire da quella festa.

Troppo chiasso, oh Dio... troppo chiasso.

E andando in giro per la sala, intronato, faceva atto con le mani di smorzare i rumori.

Ma piú faceva cosí, piú si acuiva proprio fino allo spasimo in quei tali occhietti una curiosità pazzesca.

E allora Cirinciò cadde in preda a una cosí cupa esasperazione, che di fuori ebbe lo strano effetto di farlo apparire quasi cangiato all'improvviso.

Si riebbe un momento allorché tutti lo presero e lo portarono in trionfo a sedere a capo tavola; ma, cessata l'agitazione della cerca dei posti, appena tutti si furono accomodati, Cirinciò, volgendo lo sguardo in giro, ricadde piú intronato che mai e nell'intronamento si fissò, come impietrato, vedendosi vicinissimo, a quattro posti di distanza, quell'ometto che seguitava a fissarlo, e ora - ecco - allungava il collo verso di lui, con l'indice teso come un'arma presso uno di quegli occhietti diabolici, quasi a prender la mira, e gli domandava:

- Ma scusate, non siete don Ciccino Cirinciò, voi?

Non era sul nome la domanda. Non potevano capirlo gli altri; ma lui, sí, Cirinciò lo intese benissimo.

Che quegli fosse don Ciccino Cirinciò, glielo dovevano aver detto e ripetuto tutti cento volte, a quell'ometto. Ma appunto di questo non riusciva a capacitarsi quell'ometto: che cioè don Ciccino Cirinciò ch'egli tempo addietro aveva conosciuto, fosse questo che ora gli stava davanti... Questo? Possibile!

- Quello del mulino?

Sí, sí, quello del mulino... Aveva ragione! Non era credibile!

Cirinciò adesso tutt'a un tratto lo riconosceva anche lui.

Non era credibile, non appariva piú credibile neanche a lui stesso, che quello del mulino, lui, proprio lui, potesse trovarsi lí, in mezzo a quella festa, e che avesse potuto fare tutto quel che aveva fatto, senza saperne piú il perché.

Che importava a lui, infatti, ora che con gli occhi di quell'ometto si vedeva rientrare in sé medesimo con tutte le sue sciagure e la sua miseria, che importava piú a lui della vittoria del Laleva? Delle vergogne del deputato sconfitto?

Tutti i convitati, nel vederlo cosí d'un subito appassire, credettero in prima che fosse effetto di momentanea stanchezza, e cercarono di ravvivarlo con incitamenti e congratulazioni; ma si sentirono rispondere e agghiacciare con certi scemi e strascicati: «Già... già...» che rivelarono assente, lontano mille miglia dalla festa, lo spirito di lui.

E quando, il giorno appresso, Cirinciò se ne partí da Borgetto, ingrugnato, funebre, rispondendo a mala pena ai saluti, tutti restarono a guardarsi tra loro, non sapendo comprendere la ragione di un mutamento cosí improvviso, e parecchi avanzarono il sospetto che fosse un imbroglione, un miserabile impostore venuto a mistificarli.

 

 

 

LA BALIA

 

 

I

 

- Finalmente! - esclamò la signora Manfroni, strappando di mano alla serva la lettera da Roma tanto sospirata, nella quale il genero, Ennio Mori, doveva darle tutti i minuti ragguagli promessi, intorno al parto recente della figlia Ersilia.

Inforcò subito gli occhiali e si mise a leggere.

Già sapeva da telegrammi precedenti, che il parto era stato laborioso, ma che tuttavia la figlia non correva alcun rischio. Ora però la lettera le dava a sapere che qualche rischio Ersilia veramente lo aveva corso e che anzi c'era stato bisogno d'un ostetrico. Questa notizia il Mori la dava non certo per affliggere i parenti della moglie, ora che tutto, bene o male, era passato; ma per lagnarsi della caparbietà di lei che, contro i suoi saggi consigli, s'era ostinata a portare fino all'ultimo il busto troppo stretto, i tacchi delle scarpe troppo alti.

- Asino! i tacchi!

E parecchie volte la signora Manfroni, friggendo, ripeté quell'asino! durante la lettura. A un tratto s'impuntò, piú che mai stizzita, e levò gli occhi dalla lettera e guardò in giro, quasi cercasse qualcuno con cui sfogarsi.

- Come? come?

Ah, la balia non doveva essere romana? O perché no, signor avvocato Mori? Le balie romane hanno troppe pretensioni? Oh guarda, l'economia adesso! Come se la dote di Ersilia non potesse permettere un tal lusso al signor avvocato socialista. Eh già! e intanto che bella figura avrebbe fatto Ersilia per le vie di Roma con a fianco una zotica contadinotta siciliana da lavare a sei o a sette acque, parata da balia!

- Asino! Asino! Asino!

- Ohé! Non si mangia oggi? Perché la tavola non è ancora apparecchiata?

Il signor Manfroni entrò, vociando cosí, al solito. Di là aveva già sgridato la serva e la cuoca.

- Piano, Saverio, piano... - disse la moglie. - Sai bene che c'è sempre un mondo da fare in casa nostra.

- Da fare? Voi? E io?

- Leggiti, leggiti la bella lettera del tuo carissimo genero, piuttosto.

- Ersilia?

- Sentirai.

Il signor Manfroni si calmò di botto; scorse la lettera poi, ripiegandola:

- Benissimo! Ho la balia che ci vuole.

Aveva di questi lampi il signor Manfroni, nei quali egli per primo s'abbagliava e a cui doveva - a suo credere - la sua ingente fortuna commerciale.

Con aria derisoria e di sfida la signora Manfroni domandò:

- Sarebbe?

- La moglie di Titta Marullo.

- La moglie di quell'avanzo di forca?

- Taci!

- La moglie di quel capopopolo?

- Taci!

- La moglie d'un coatto!

- Lasciami dire! - gridò il Manfroni. - Sei donna tu e, per tua norma, qua, Domineddio, stoppa, stoppa, cara mia, ti ci ha messo! stoppa in luogo di cervello. Con le belle condizioni sociali, nelle quali viviamo...

- Come c'entrano le condizioni sociali? - domandò, stordita, la moglie.

- C'entrano! C'entrano! - ribatté furiosamente il signor Saverio. - Perché, noi, noi che siamo riusciti col lavoro assiduo e per... come si dice? perticace, cioè, no... sí, giusto dico, perticace, a metter da banda una sostanza qualsiasi, noi, oggi, per tua norma, di fronte all'avvenire che si fa man mano piú torbido e minaccioso... hai capito?

- No! Che vuoi che capisca?

- E non te lo dico io? Stoppa!

Afferrò una seggiola, l'accostò a quella su cui stava la moglie e vi sedette in gran furia, sbuffando.

- Io, Titta Marullo, - riprese, sforzandosi di parlar sotto voce, perché i servi non udissero, - io, Titta Marullo, per tua norma, lo scacciai dal panificio, per le sue idee rivoluzionarie.

- Come quelle del signor Mori, a cui hai dato tua figlia!

- Lasciami dire! - urlò il Manfroni. - E perché gli ho dato mia figlia, io? Prima di tutto perché Ennio è un ottimo giovine; poi, sissignora, perché socialista! sissignora! E mi è convenuto! e mi ha fatto gioco! Sai dirmi perché sono tanto rispettato, io, da tutta quella canaglia a cui do da mangiare? Stoppa! Ma qui Ennio non c'entra... Parlavamo di Titta Marullo. Lo scacciai dal panificio. Rimasto sul lastrico, il disgraziato, si regolò in modo da farsi mandare all'isola, a domicilio coatto. Ora io, ricco, ma con qui dentro qualcosa che batte e che, per tua norma, si chiama cuore, prendo sua moglie, la ficco in un vagone di terza classe e la spedisco a Roma, balia del mio nipotino!

Poteva avere centomila ragioni il signor Manfroni, ma aveva anche su uno zigomo un ridicolissimo porro, sul quale la moglie appuntava gelidamente uno sguardo quanto mai dispettoso, quando si vedeva costretta a sottomettersi a quelle ragioni. E il signor Manfroni, nel vedersi ogni volta guardato il porro, provava un tale urto di nervi che, per non fare uno sproposito, troncava subito la discussione. Sonò il campanello e ordinò alla serva:

- Di' a Lisi che venga subito qua.

Lisi, che fungeva da cocchiere e da servotto, si presentò su la soglia senza giacca, con le maniche della camicia rimboccate su le braccia e la bocca aperta a un riso muto, come soleva ogni qual volta i padroni lo chiamavano al loro cospetto.

Il signor Manfroni, fin dal primo vederlo, aveva scoperto uno straordinario ingegno in questo ragazzo.

- Sai dove sta la moglie di Titta Marullo?

- Sissignore. Ho capito! - rispose Lisi, e sollevò una spalla e si contorse, mentre un sorriso scemo gli alzava quasi il bollo in gola.

- Che hai capito, animale? - gli gridò il Manfroni, che non era in vena d'ammirarlo, in quel momento.

Lisi si storcignò di nuovo, come se il padrone gli avesse fatto un bel complimento, e rispose:

- Vado a dirglielo, sissignore.

- Dille che venga subito qua. Debbo parlarle.

E, di lí a poco, il signor Manfroni ebbe una prova lampantissima del non comune ingegno di Lisi. Figurarsi che, mentre era ancora a tavola con la moglie, vide irrompere nella stanza Annicchia, la moglie di Titta, piangente di gioja, con un bambinello in braccio di circa due mesi.

- Ah, signorino! signorino mio! si lasci baciare la mano!

E, cosí esclamando, gli s'inginocchiò ai piedi. La serva, la cuoca s'erano affacciate all'uscio per assistere alla scena, e Lisi innanzi a loro rideva, trionfante, beato.

Tra gli occhi e le sopracciglia del signor Saverio s'impegnò una viva lotta: quelli volevano sbarrarsi per lo stordimento improvviso, e queste contemporaneamente aggrottarsi dalla rabbia. Ritrasse subito la mano che la giovine inginocchiata voleva baciargli: guardò verso l'uscio e urlò:

- Fuori! No, tu qua, Lisi! Che le hai detto?

- Che Titta verrà! - esclamò Annicchia senza levarsi. - Che me l'ha liberato Lei, signorino mio!

Il Manfroni balzò in piedi e brandí la seggiola:

- Aspetta, canaglia!

Lisi scappò via come un daino.

- Non è vero? - fece Annicchia, appassendo, rivolta alla signora Manfroni.

E si rialzò lentamente. Ci volle del bello e del buono per farle intendere che la liberazione del marito non dipendeva, né poteva dipendere in alcun modo dalla volontà e dalle amicizie del signor Manfroni, il quale, se lo aveva scacciato dal panificio, ella era testimonia di quanta longanimità avesse prima dato prova, unicamente per lei che, da bambina, gli era cresciuta in casa ed era stata compagna di giuoco d'Ersilia, tant'anni.

Mentre il marito dava queste spiegazioni, la signora Manfroni osservava la giovine e, con l'immaginazione, la parava da balia e approvava col capo, approvava come se già la vedesse con un goffo zendado rosso in testa e uno spillone dai tremuli fiori d'argento tra i biondi capelli.

Annicchia, allorché il Manfroni le espose la ragione per cui aveva mandato Lisi a chiamarla, restò tra stordita e perplessa.

- E questo mio bambinello? - disse, mostrandolo. - A chi lo lascio?

Se lo strinse al seno; si mise a piangere di nuovo.

- Tata non torna, Luzzí! non torna!

Infine, scoprendo la faccia lacrimosa, aggiunse, rivolta alla signora Manfroni:

- Non lo conosce; ancora non l'ha veduto, quest'angeletto che gli è nato.

- Potresti darlo ad allevare, con un po' di quello che avrai da Ersilia.

- Oh, per la signorina Ersilia, - s'affrettò a dire Annicchia, - si figuri con che cuore lo vorrei fare! Ma... troppo lontano! a Roma!

Il signor Saverio spiegò lí per lí che: Partenza! Pronti! col treno e col piroscafo, non c'erano piú distanze, ormai.

- Sissignore, - disse Annicchia, - Vossignoria, dice bene; ma io sono una povera ignorante; mi sperderei. Non ho mai dato un passo fuori del paese. E poi, - aggiunse, - Vossignoria sa che ho con me la suocera: come potrei lasciarla, povera vecchia? Siamo restate noi due sole. Titta me l'ha tanto raccomandata! E se sapesse come viviamo! io, con le braccia legate da questa creaturina; lei, vecchia di settant'anni! Volevo dare ad allevare il piccino e mettermi a servizio. Già, Titta non troverà piú nulla della bella roba comperata quando sposammo: roba da poverelli, si sa, ma pulita. Svenduta, a questo e a quello... Ma la vecchia non vuole ch'io vada a servizio. È superba; non vuole. Però, essendo per la signorina Ersilia, forse... Ecco, potrei tentare di dirglielo.

- Sí, ma la risposta, subito. Dovresti partire domattina, al piú tardi.

Annicchia rimase ancora perplessa.

- Sentirò, e Le saprò dire sí o no, - disse infine; e andò via.

Abitava in una viucola lí presso. Già tutte le vicine, al tanto lieto quanto falso annunzio di Lisi, s'erano affollate nella nuda casetta a pian terreno, intorno alla vecchia madre del deportato che se ne stava seduta, tutta inarcocchiata, con un fazzoletto nero in capo annodato sotto il mento e le mani nodose su un rozzo scaldino di terracotta posato su le ginocchia. Lodavano quelle il buon cuore e la generosità del Manfroni, e la vecchia, con la testa bassa, emetteva di tratto in tratto come un grugnito, non si sapeva se d'assenso o di dispetto, saettando con gli occhi certi sguardi che esprimevano diffidenza e fastidio. Quando Annicchia si presentò su la soglia e con l'aspetto e con le prime parole raggelò su le labbra delle vicine le frasi ammirative per il signor Manfroni, la vecchia suocera alzò la testa e guardò in giro con sdegno le vicine; poi, all'annunzio della proposta del Manfroni, si levò in piedi.

- Che gli hai risposto?

Annicchia volse uno sguardo alle vicine, come per dire: Fatele intender voi, che io debbo accettare.

- Gli ho risposto che sarei venuta a dirvelo, mamma.

- Non voglio! Non voglio! - gridò subito, irosa, la vecchia.

- Non vorrei nemmeno io; ma...

E di nuovo Annicchia si rivolse per ajuto alle vicine. Queste allora, un po' l'una e un po' l'altra, cercarono di persuadere alla vecchia le ragioni per cui la nuora non avrebbe dovuto perder l'occasione che le si offriva di provvedere onestamente a sé, a lei, al bambino. Una, anzi, ch'era venuta col suo figliuolo in braccio, attaccato a una enorme poppa:

- Qua! qua! guardate, - si mise a gridare, - ho latte per due! Me lo piglio io, il bambino... Qua, guardate!

E, cavando il capezzolo di bocca al poppante, sollevando con una mano la mammella, fece sprizzare il latte in faccia alle comari del vicinato che, ridendo e riparandosi con le braccia, si scostarono addossandosi l'una all'altra.

Ma la vecchia non volle piegarsi; si ribellò a tutte le insistenze, gridando alla nuora:

- Se vai, è contro la mia volontà, e ti maledico! Ricordatene!

 

 

II

 

L'avvocato Ennio Mori aspettava alla stazione l'arrivo del treno da Napoli. Piccolo di statura, magrissimo, con le spalle in capo, sbuffava, impaziente, o si grattava la faccetta ossuta, dalla tinta itterica, invasa e quasi oppressa da una barba nera troppo cresciuta, o si aggiustava le lenti che non volevano reggerglisi sul naso, o si tastava di tanto in tanto le tasche del pastrano e della giacca piene di giornali.

Si accostò a un ferroviere.

- Scusi, il treno da Napoli?

- È in ritardo di quaranta minuti.

- Ferrovie italiane! Cose da pazzi!

E s'allontanò, in cerca d'un posto qualunque per sedere; là in fondo, sotto l'orologio, in qualche sporgenza del muro, poiché tutti i sedili erano ingombri.

Gli toccava fare anche da servitore alla balia che doveva arrivare:

- Cose da pazzi!

Dopo due anni di matrimonio e di dimora in Roma, sua moglie era come uscita or ora da quella tribú di selvaggi dell'estremo lembo della Sicilia: non sapeva né muoversi per casa, né uscir sola per provvedere ai bisogni minuti della famiglia; non sapeva far altro che rimproverar lui dalla mattina alla sera, sempre imbronciata, e punzecchiarlo dove piú si teneva: nella logica, nella logica; e affliggerlo con la piú stupida e odiosa gelosia, non per amore, ma per puntiglio. Non si sentiva amata! E sfido! Che aveva mai fatto, che faceva per essere amata? Se pareva anzi che provasse gusto a farsi odiare! Mai una parola gentile, mai una carezza, mai! e sempre armata di diffidenza, spinosa, dura, arcigna, permalosa. Ah, parola d'onore, aveva fatto un bel guadagno a sposarla!

- Cose da pazzi!

Sbuffò, tornò ad aggiustarsi sul naso le lenti; trasse uno dei tanti giornali e si mise a leggere.

Ma, pure in quella lettura, come in casa trattando con la moglie, non riusciva a trovare un momento di requie; e, quasi a ogni notizia, tornava a ripetere quella sua solita frase: - Cose da pazzi! - Seguitava a leggere, tuttavia; e, ogni giorno, non si dichiarava soddisfatto, se non aveva scorso da capo a fondo tutti i fogli piú in vista di Roma e di Milano, di Napoli, di Torino, di Firenze, di cui aveva sempre cosí piene le tasche.

- Medicina, - soleva dire. - Mi muovono la bile.

Troppo, però! Eh, glielo aveva detto anche il medico. Troppo, sí, forse; ma poi, non leggendo i giornali, lo spettacolo diretto dell'amenissima vita italiana, la compagnia della moglie, non gli avrebbero guastato il fegato? Meglio dunque i giornali.

- E questo maledetto treno da Napoli, insomma, arriva o non arriva?

Guardò l'orologio; scattò in piedi, smarrito. Era trascorsa piú di un'ora! S'avviò di corsa verso l'uscita. Dove trovare adesso quella poveretta, che doveva essere arrivata e non sapeva l'indirizzo di casa?

Ma la trovò, per fortuna, nell'ufficio della dogana, dove si visitano i bagagli, che piangeva seduta sul sacco. I doganieri cercavano di confortarla; le consigliavano di andare in questura, non conoscendo essi quell'avvocato moro di cui ella parlava.

- Annicchia!

- Signorino! - gridò la poveretta, levandosi d'un balzo, alla voce.

E per poco non l'abbracciò, dalla gioja. Tremava tutta.

- Perduta, signorino mio, perduta... E come avrei fatto io, se Vossignoria non veniva?

- Ma quel degnissimo galantuomo di mio suocero, - le gridò Mori, - non poteva scriverti l'indirizzo di casa mia su un pezzettino di carta?

- Ma io non so leggere... - gli fece osservare Annicchia, che si sforzava di soffocare gli ultimi singhiozzi e si asciugava le lagrime.

- Cose da pazzi. Avresti potuto dare l'indirizzo a un vetturino, senza che m'incomodassi io a venire. Del resto son venuto. Ero dentro la stazione. Non mi sono accorto dell'arrivo del treno. Basta.

Montando in vettura, le raccomandò:

- Non far parola a mia moglie di quest'incidente. Succederebbe un caso del diavolo.

Trasse di tasca un altro giornale e si mise a leggere.

Annicchia si restrinse, per occupare nella vettura quanto meno posto le fosse possibile. Provava una gran soggezione, seduta lí, accanto al padrone, sola con lui. Ma fu per poco. Era addirittura intronata dal lungo viaggio, dalle tante e nuove impressioni che le avevano tumultuosamente investito la povera anima, chiusa finora e ristretta là, nelle abituali occupazioni dell'angusta sua vita. Non ricordava piú nulla; non pensava, non vedeva piú nulla; sentiva soltanto il sollievo d'esser giunta, finalmente; d'aver superato il terrore della traversata sul piroscafo da Palermo a Napoli, lo sgomento della furia del treno. Ov'era giunta? Si provava a guardar fuori della vettura; ma gli occhi le dolevano. Avrebbe avuto tanto tempo di veder Roma, la grande città dov'era il Papa! Intanto, già si trovava accanto a uno ch'ella conosceva, e tra poco avrebbe riveduto la «signorina sua» e si sarebbe di nuovo sentita quasi nel suo paese. Sorrise. Le si affacciò per un istante al pensiero il figliuolo lontano, la vecchia suocera, ma ne scacciò subito l'immagine per il bisogno istintivo di non turbarsi quel momento di sollievo dopo le lunghe sofferenze angosciose del viaggio.

- A Napoli, - le domandò a un tratto il Mori, - è venuto qualcuno a rilevarti sul piroscafo?

- Ah, sissignore! Un galantuomo! Tanto buono... - s'affrettò a rispondergli Annicchia. - Anzi mi ha comandato di salutarla.

- Ti ha comandato?

- Sissignore, di salutarla.

- Ti avrà pregato.

- Sissignore; ma... un padrone mio...

Ennio Mori sbuffò e si rimise a leggere il giornale.

- Medicina, medicina!

- Come dice? - arrischiò, timidamente, Annicchia.

- Niente: parlo con me.

Annicchia rimase un po' perplessa, poi aggiunse:

- Anche a Palermo è venuto alla stazione un altro galantuomo che mi ha poi accompagnata fino al vapore: tanto buono anche lui.

- E t'ha comandato anche lui di salutarmi?

- Sissignore, anche lui.

Il Mori abbassò su le gambe il giornale, si aggiustò sul naso le lenti e le domandò, accigliato:

- Tuo marito?

- Sempre là! - sospirò Annicchia. - All'isola! Ah, se Vossignoria che sta qui a Roma, che c'è il Re...

- Sta' zitta! - la interruppe, di scatto, il Mori, come se, nominando il re, quella poveretta gli avesse pestato un piede.

- Basterebbe una parolina... - osò d'aggiungere Annicchia, sommessamente.

- Cose da pazzi! - sbuffò di nuovo il Mori, cosí urtato, che spiegazzò il giornale che teneva su le gambe e lo buttò fuori della vettura. - Credi che ci abbiano mandato soltanto tuo marito, a domicilio coatto? Ci mandano anche noi!

- I signori? - domandò Annicchia, stupita e incredula. - Come ce li mandano i signori?

- Sta' zitta! - replicò il Mori, a cui riusciva addirittura insopportabile quella supina ignoranza.

E si mise, fosco, a riflettere su l'impresa disperata di dare una nuova coscienza a quell'infima gente della sua Sicilia, in cui era cosí profondamente radicato il sentimento della servilità.

La carrozza, alla fine, giunse in Via Sistina, ove il Mori abitava.

Ersilia era ancora a letto. Sotto il roseo parato a padiglione dell'ampio letto, tra il candore dei guanciali e de' merletti, appariva piú bruna di carnagione, quasi nera, immagrita com'era dalle doglie del recente parto.

Annicchia corse ad abbracciarla festosamente.

- Signorina! Signorina mia! Eccomi qua... Mi pare un sogno! Come sta? Ha sofferto molto, è vero? Oh, figlia mia! Si vede... Non si riconosce piú... Mah, cosí vuole Dio: noi donne siamo fatte per patire.

- Un corno! - protestò Ersilia. - Che stupide, le donne... Tutte cosí! Ci provate gusto, è vero? a ripetere che noi donne siamo fatte per patire. E a furia di ripeterlo, eccoli qua, i signori uomini, credono davvero, adesso, che nojaltre dobbiamo stare al loro servizio, per il loro comodo e per il loro piacere. Noi le schiave, è vero? e loro i padroni. Un corno!

Ennio Mori, a cui era diretta la botta, ripiegò furiosamente il terzo giornale, sbuffò e uscí dalla camera.

Annicchia guardò la padrona, un po' impacciata, e disse:

- Anche loro, poveretti, hanno tanti guaj...

- Dormire, mangiare e andare a spasso. Vorrei fare un po' il cambio, io. Ah, uomo, uomo, e cieco d'un occhio!

- Certo, quando abbiamo finito da poco di patire per loro...

- No, sempre! Li odio tutti!

A questo punto, s'intese dall'altra parte un grido di Ennio Mori:

- L'universo mondo!

A cui rispose un altro grido:

- Eccomi, signorino! Mi comandi.

Ersilia scoppiò a ridere e spiegò ad Annicchia:

- Ho la serva sorda. Appena si grida un po', si sente chiamata. Margherita! Margherita!

Su la soglia si presentò la vecchia sorda, con un'aria tra di offesa e di stralunata. Di là, il Mori, con gli occhi fuori del capo, le aveva fatto un gesto... un certo gesto sguajato.

- Senti, Margherita, - riprese Ersilia. - Questa è la balia, arrivata adesso... adesso, sí. Bene: ora tu insegnale la sua camera. Hai capito? Andrai a lavarti, - aggiunse, rivolgendosi ad Annicchia, - sei tutta affumicata.

Annicchia sporse il capo per guardarsi nello specchio dell'armadio e subito esclamò, con le mani per aria:

- Mamma mia!

Il fumo della ferrovia e le lagrime versate alla stazione le avevano insudiciato il volto. Prima d'andare a lavarsi, volle però raccontare alla "signorina sua", con vivacissimi gesti e frequenti esclamazioni, che facevano sbarrare tanto d'occhi alla serva sorda, le peripezie del viaggio di mare, poi di quello in ferrovia, e come a un certo punto, sentendosi scoppiare il seno per la furia del latte, si fosse messa a piangere come una bambina. I compagni di viaggio le domandavano che avesse; ma ella si vergognava a dirlo; alla fine, quelli capirono; e allora un giovinastro le propose di succhiarle lui il latte - malcreato! - e già le stendeva, ridendo, le mani al petto. Ella, gridando, aveva minacciato di buttarsi dal finestrino del vagone. Ma poi, per fortuna, alla prima fermata del treno, un vecchio ch'era lí accanto a lei, l'aveva condotta a un altro scompartimento, dove c'era una donna che aveva con sé una bambinuccia di tre mesi, misera misera, alla quale finalmente aveva potuto dar latte, sentendosi man mano rinascere.

Ersilia credeva d'aver già preso l'aria della «continentale» ed ebbe perciò fastidio di quelle vive, ingenue espressioni di pudor paesano.

- Basta, a lavarti, ora! Poi mi dirai della mamma e del babbo. Va', va'.

- E il bambinello? - chiese Annicchia. - Non me lo vuol far vedere? Lo vedo e me ne vado.

- Là, - disse Ersilia, indicando la culla. - Ma tu no, non toccare il velo con le mani sporche. Sú, Margherita, faglielo vedere.

Tra tanta ricchezza di nastri, di veli, di merletti, Annicchia vide un mostriciattolo dal volto paonazzo, piú misero di quella bimba a cui aveva dato latte in treno. Pure esclamò:

- Bello! Bello! Coruccio mio, dorme come un angioletto... Vossignoria vedrà quanto glielo farò diventare... Anche il mio Luzziddu era nato cosí, piccolo piccolo, e ora, se lo vedesse!

S'interruppe, commossa:

- Vado e torno, - poi disse; e seguí la serva nell'altra camera.

 

 

III

 

Avrebbe voluto attaccarsi subito al seno il piccino; il padrone era d'accordo con lei; ma Ersilia, che doveva in tutto contrariare il marito, nossignore, volle prima che un medico esaminasse il latte.

- C'è bisogno del medico? - disse Annicchia, ridendo. - Non vede come sto?

Era raggiante di salute, fresca e rosea.

Ersilia, dal letto, la guardò odiosamente, come se ella, con quelle parole, avesse voluto attirare l'attenzione del marito.

- Il medico! Voglio subito il medico! - insistette.

E il Mori, borbottando la sua solita frase, dovette andare per il medico.

Questi venne verso sera, quando già Annicchia spasimava di nuovo per il seno inturgidito, e il bambino, che non riusciva ad attaccarsi a quello, del resto, arido della madre, trangosciava, affamato.

Ennio avrebbe voluto assistere alla visita; ma la moglie lo cacciò via:

- Che hai da vedere? Di' piuttosto a Margherita che porti un cucchiajo e un bicchier d'acqua.

- Bionda, eh?... bionda... bionda... - diceva, in tanto, il medico che aveva in vezzo ripetere tre e quattro volte di seguito la stessa parola, guardando con aria astratta, come se stentasse ogni volta a fissare il pensiero.

Annicchia, nel vedersi osservata a quel modo, diventò rossa come un papavero.

- Bionda, eh? diciamo, gentilissima signora, - seguitava intanto il medico, - bionda, è vero? gentilissima signora... Bella giovane... bella, e pare sana, anche sana... Ma bruna, eh, bruna, bruna sarebbe stata meglio... Il latte delle brune, sicuro, il latte delle brune... Basta, vediamo un po'.

Fece alzare il capo ad Annicchia e le esaminò le glandule del collo; dopo altre osservazioni, distratto, cominciò a sbottonarle il corpetto. Annicchia, tremante di vergogna, stupita e imbarazzata, cercò di impedirglielo, riparandosi il seno con le mani.

- Cava, eh? cava fuori, - le disse il medico.

Ersilia scoppiò a ridere.

- Perché... perché ri... perché ride, gentilissima signora?

- Ma non vede come si vergogna codesta sciocca? - gli fece notare Ersilia.

- Di me? Io sono il medico!

- Non c'è avvezza, - riprese Ersilia. - E poi le nostre donne, sa, noi siciliane non siamo mica come le donne di qua.

- Ah, - fece subito il medico, - capisco, capisco... so bene, so bene... piú pudibonde, eh? pudibonde... Ma io sono il medico; un medico è come il confessore. Vediamo un po': spremi tu stessa qualche goccia in questo cucchiajo. Quanto tempo ha il tuo figliuolo?

- L'ho comprato, - rispose Annicchia, forzandosi a guardarlo in volto, - che saranno due mesi.

- L'hai comprato? che dici?

- Come debbo dire?

- Ma fatto, figliuola mia, fatto... I figliuoli si fanno... si fanno... Che c'è di male?

Quando il medico finalmente, dopo l'esame del latte, andò via, Annicchia si abbandonò su una seggiola, sfinita come se avesse sostenuto una tremenda fatica:

- Ah, signorina mia, che vergogna! mi sentivo morire.

Poco dopo, udendo vagire il bambino, corse alla culla e subito gli porse il petto.

- Tie', sàziati, figlio bello mio, animuccia mia!

Ersilia, dal letto, la guatò di nuovo: le vide i biondi capelli dorati, spartiti nel mezzo, in due bande che si ripiegavano sugli orecchi e le incorniciavano il volto delicato; le intravide il seno meravigliosamente bianco e formoso; e le disse, stizzita:

- Sarebbe stato meglio custodirlo, prima; e poi dargli il latte per addormentarlo.

- Lo lasci succhiare, poverino! - esclamò Annicchia. - Ha proprio fame! Se sentisse come succhia, come succhia!

Poco dopo, nella camera accanto, destinata a lei e al piccino, non rifiniva d'esclamare, ammirando la mobilia e i cortinaggi:

- Gesú! che cose, a Roma! che cose!

E si sentí impacciata davanti a quel letto nuovo, cosí bello, apparecchiato per lei. Ricordò allora l'impaccio piú vivo provato, due anni addietro, alla vista di un altro letto, nel quale per la prima volta avrebbe dovuto coricarsi non piú sola: rivide col pensiero la sua casetta lontana, com'era già, allorché Titta, senza quelle ideacce cattive che lo avevano rovinato, aveva messa sú, amorosamente, per le nozze; com'era adesso, squallida e nuda, con due seggiole appena e un letto solo, per lei e per la suocera.

Ora la vecchia laggiú lo aveva tutto per sé, quel letto a due, poiché forse il bambino dormiva in casa della vicina. Povero Luzziddu, cosí piccino, là, fuori di casa, e con la mamma sua cosí lontana! Certo quella donna non poteva aver per lui le cure che aveva per il proprio figliuolo; e Luzziddu, messo da parte, doveva aspettar quieto quel po' che avanzava: lui, lui che finora aveva avuto tutta per sé la mamma sua!

Annicchia si mise a piangere; ma poi, temendo che qualcuno se n'avvedesse, asciugò le lagrime e, per confortarsi, pensò che lí presso, a guardia, c'era la nonna, la quale, all'occorrenza, avrebbe saputo farsi valere con quel suo fare cupo e imperioso. Degna madre di Titta! Ma buona in fondo, com'era buono Titta; certo col tempo si sarebbe convinta che, se la nuora aveva osato disobbedire, vi era stata costretta dalla necessità e per il bene di tutti.

Ora, per dimostrare quasi a se stessa ch'era stato un sacrifizio il suo e che, nel compierlo, aveva pensato soltanto al bene degli altri e non al suo, avrebbe voluto dormire magari per terra e non lí, su quel letto signorile, sotto quel cortinaggio: il piccino, lí, poiché tutta quella ricchezza era profusa per lui; e lei per terra, come una cagna. Non le dava proprio l'animo di entrare sotto quelle coperte, pensando allo strame su cui giaceva il suo Luzziddu e a quello della suocera.

Ma, di lí a pochi giorni, il goffo e pomposo abbigliamento recato dalla sarta doveva maggiormente offenderla in quel suo segreto sentimento. Erano proprio per lei tutte quelle galanterie, grembiuli ricamati, nastri di raso, spilloni d'argento? E doveva uscire cosí, come se dovesse andare a una mascherata?

Ersilia, che già s'era levata di letto, si stizzí acerbamente:

- Uh, quante smorfie! Me l'aspettavo. Qua usa cosí, e cosí devi vestire, ti piaccia o non ti piaccia.

- Come comanda Vossignoria, - s'affrettò a risponderle Annicchia, per calmarla. - Mi perdoni. Vossignoria ha speso tanti bei denari per me che non merito nulla. E poi, che c'entra? Vossignoria è la padrona... Dicevo, che mi sembra curioso... perché nel nostro paese...

- Qua siamo a Roma, - troncò Ersilia. - Del resto, stai benissimo.

Era vero. Il rosso acceso dello zendado dava un vivo risalto al biondo dei capelli, all'azzurro degli occhi limpidi e gaj. Ersilia era certa che, uscendo a passeggio con lei, avrebbe fatto una pessima figura; ma la vanità, l'ambizione di aver la balia parata riccamente, erano piú forti in lei della stessa gelosia.

La condusse con sé, la prima volta, in carrozza.

Annicchia, infocata in volto dalla vergogna, teneva gli occhi bassi, sul piccino che le giaceva in grembo. Ersilia intanto notava che tutti per via si fermavano e si voltavano a mirarla.

- Sú, sú, - le disse, - tieni alta la testa. Non diamo spettacolo! Pare che t'abbiano schiaffeggiata!

Annicchia si provò ad alzare gli occhi e a tener alta la testa. A poco a poco, la maraviglia dello spettacolo insolito e grandioso della città le fece scordar la vergogna, e si mise a guardare come allocchita, dove Ersilia le indicava.

- Gesú, Gesú, - mormorava tra sé Annicchia, - che cose grandi! che cose...

Rientrò in casa, da quella prima passeggiata, stordita, quasi vacillante, con gli orecchi che le ronzavano, come se fosse stata in mezzo a un tumulto e avesse faticato tanto a uscirne. E si sentí di gran lunga, di gran lunga piú lontana dal suo paese, come non si sarebbe mai immaginato, e quasi sperduta in un altro mondo, che non le pareva ancor vero.

- Gesú! Gesú!

Intanto, di là, il Mori dava a leggere alla moglie una lettera arrivata dalla Sicilia, durante l'assenza di lei.

La signora Manfroni scriveva alla figlia che la vecchia Marullo le aveva rimandato il denaro che ella, secondo l'accordo con Annicchia, le aveva anticipato sulla prima mesata del baliatico: la vecchia non aveva voluto neanche vederlo da lontano; piuttosto, diceva, sarebbe morta di fame o sarebbe andata a mendicare di porta in porta un tozzo di pane. Intanto, era venuta la vicina, a cui Annicchia aveva affidato il bambino, a protestare contro quella vecchia strega, che non le voleva dar nulla, neanche per provvedere ai bisogni della creaturina. La signora Manfroni aggiungeva che aveva dato a quella vicina metà della mesata, a patto però ch'ella desse ogni giorno alla vecchia, come carità che partisse da lei, un piatto di minestra per non farla proprio morir di fame. Consigliava alla figlia di non stare a mandar l'altra metà che la Marullo non avrebbe mai accettato, e concludeva dichiarandosi dolentissima di essersi cacciata in questo impiccio per aver voluto seguire il consiglio altrui.

- Il tuo bel consiglio! - scattò Ersilia, ripiegando la lettera. - Non devi farne mai una giusta!

- Io? - rimbeccò Ennio. - E che ho forse scritto alla tua degnissima signora madre che mi scegliesse per balia la nuora d'una pazza furiosa?

- No; ma di volere una balia siciliana! Se non avessi avuto questa splendida idea, non ci troveremmo ora in questi impicci. Del resto, va' là, va' là che ti piace, e molto, la balietta siciliana! Già me ne sono accorta.

Il Mori sgranò tanto d'occhi.

- La balia di mio figlio?

- Grida, grida: fa' sentire tutto di là...

- Prima mi pungi, e poi vuoi che non gridi? Anche gelosa della balia di mio figlio, adesso? Sei pazza?

- Tu sei pazzo! Avessi tu tanto sale qui, quanto ne ho io! Intanto, che si fa? che dobbiamo farne, di questo denaro?

- Non vorrai mica, spero, spiattellarle che sua suocera lo rifiuta.

- Ma figúrati! Darle questo dispiacere? Me ne guarderei bene!

Il Mori perdette la pazienza e, scrollandosi rabbiosamente, andò via.

 

 

IV

 

Gli toccava, ora, anche questo: privarsi di fare una carezza, finanche di volgere uno sguardo al suo piccino, perché la moglie sospettava già che la balia potesse interpretar quelle carezze, quegli sguardi come rivolti a lei.

- E perché, - gli domandava ella, infatti, - perché non ti compiaci di tuo figlio quando sta in braccio a me, e vai invece a fargli tante smorfie quando sta con quella?

Sdegnato, avvilito di quell'ingiusto e odioso sospetto, Ennio le gridava:

- Ma se con te non ci sta mai!

Il bambino, ogni qual volta ella se lo prendeva in braccio, si metteva a piangere e tendeva le manine alla balia. Forse ella lo teneva male, non tanto perché non ci fosse avvezza, quanto per timore che potesse averne sporcate le ricche vesti da camera di cui faceva grande sfoggio.

Quantunque non ricevesse mai visite e di rado uscisse di casa, pure spendeva enormemente per gli abiti, dei quali alla fine restava sempre scontenta, come di tutto e di se stessa. Si sentiva, ed era forse davvero infelice; ma di questa sua infelicità incolpava gli altri, anziché la propria indole scontrosa, l'aspro carattere, la mancanza di ogni garbo. Era convinta che se si fosse imbattuta in un altr'uomo che l'avesse amata e compresa, non avrebbe sentito tutto quel vuoto che sentiva dentro e attorno a sé. Ora le era venuto in uggia finanche il bambino, perché questi dimostrava di voler piú bene alla balia che a lei. E non passava giorno che, anneghittita in quell'ozio, non piangesse di nascosto. Il marito le vedeva qualche volta gli occhi gonfii e rossi, ma fingeva di non accorgersene; schivava quanto piú poteva di parlare con lei, ormai certo che, per quanto dicesse o facesse, non sarebbe riuscito a ispirarle, a comunicarle quell'affetto per la vita, di cui ella sentiva il desiderio smanioso, ma del quale nello stesso tempo la riteneva incapace. Se l'aspettava dagli altri, la vita, senza intendere che ciascuno deve farsela da sé. Del resto, se era infelice, non meno infelice era lui che doveva viverci insieme. Bella esistenza, la sua! Tutto il giorno tappato lí, nello studio. Meno male che, di tanto in tanto, venivano a trovarlo gli amici del partito, coi quali poteva almeno sfogarsi, discutere liberamente.

Durante quelle discussioni, il vecchio scrivano dello studio era mandato in sala. S'inchinava, ogni volta, profondamente, il signor Felicissimo Ramicelli a quei signori rivoluzionari e usciva con molta dignità. Appena varcata la soglia però, e richiuso l'uscio, strizzava un occhio, sollevava un piede e si stropicciava, contentone, le mani; poi rizzandosi le punte dei baffetti ritinti, andava a seder su la panca della sala d'ingresso, con la speranza che vi capitasse Annicchia, la bella balietta siciliana.

Già aveva tentato d'attaccar discorso con lei:

- Sai come mi chiamo? Felicissimo.

Ma Annicchia pareva non capisse; gli voltava le spalle; e il signor Ramicelli diceva allora a sé stesso:

- Felicissimo, eh già! Ma di che?

Gli avevano imposto, come un augurio, questo bel nome superlativo. - Grazie! - ma, proprio, nella vita, non aveva trovato mai di che dichiararsi, non che felice, ma neppure appena appena contento, il signor Ramicelli. Guadagnava otto lirette al giorno, che gli sarebbero bastate forse, se non avesse avuto un vizietto... un certo vizietto...

- Eh, come si fa? Le belle donnine...

Quell'Annicchia, per esempio, che bocconcino! Ogni qualvolta la vedeva, si sentiva toccar l'ugola. E gli pareva anche una buona ragazza: gli pareva, intendiamoci! perché tutte le balie, si sa: ragazze andate a male, roba da... da guerra, là!

Annicchia, notando le occhiate, i lezii da scimmia del signor Ramicelli, non sapeva se dovesse riderne o aversene a male. Le sembrava tanto curioso quel vecchietto ancora cosí biondo! Certo, se non era già andato via col cervello, poco ci doveva mancare.

Là, nella saletta d'ingresso, ella tentava di mettere a prova i piedini del bimbo, reggendolo sotto le ascelle. Non era ancor riuscita, dopo sei mesi, a pronunziare correttamente il nome che il Mori aveva imposto al bambino: Leonida. Lo chiamava Nònida.

- Ma che Nònida! - le diceva il signor Ramicelli, per stuzzicarla. - LE-O-nida.

- Io non so dirlo.

- E Felicissimo? Non sai dirlo neppure Felicissimo? Mi chiamo proprio cosí, sai?

Annicchia si riprendeva in braccio il bambino e andava via dalla saletta, dicendo:

- Non ci credo.

- E neppure io, - concludeva, filosoficamente, il signor Ramicelli, che restava lí ad aspettare che la discussione nello studio terminasse.

- Tattica... Farabutti... L'educazione del proletariato... Programma minimo... - Queste e simili espressioni giungevano, di tratto in tratto, agli orecchi del Ramicelli, il quale scoteva malinconicamente il capo e si volgeva piuttosto a guardare verso l'uscio per cui era andata via la balia, e sospirava. Gli giungeva di là, qualche volta, una certa ninna-nanna paesana, che Annicchia cantava con voce dolce e malinconica, forse pensando al suo bambino, e guardando intanto questo che già, col suo latte, s'era fatto grosso e bello, anche piú grosso di quanto aveva lasciato il suo, là! Ah, un gigante, certo, si sarebbe fatto, povero Luzziddu, se ella avesse potuto allattarlo! E invece... chi sa! Le passavano tante brutte ideacce per il capo! Spesso se lo sognava infermo, magro magro, pelle e ossa, col colluccio vizzo e un testone da rachitico che gli s'abbandonava ora su una spalluccia ora sull'altra e gl'ingrossava di punto in punto, mentr'ella stava a contemplarlo, raccapricciata, allibita: - Questo, il mio Luzziddu? cosí s'è ridotto? - E voleva, nel sogno angoscioso, dargli il suo latte, subito subito; ma il bambino allora la guardava con gli occhi cupi, truci della nonna, e voltava la faccia, rifiutando il seno ch'ella gli porgeva. Che strazio! Si destava col cuore in gola, e fino a giorno non riusciva a togliersi dagli occhi l'immagine del figliuolo ridotto in quello stato.

Non ardiva piú, intanto, di parlarne alla padrona che già piú volte le aveva risposto male, forse perché urtata della sua soverchia insistenza, o forse perché temeva che ella - pensando troppo alla sua creaturina - trascurasse il bimbo. Ma questo no, in coscienza: non poteva, né doveva dirlo: eccolo qua Nònida, florido e vispo!

Annicchia quasi quasi non sapeva piú riconoscere nella padrona d'oggi la signorina Ersilia d'un tempo, cosí malamente si vedeva trattata: peggio d'una serva. Faceva di tutto per lasciarla contenta, si piegava a tanti servizii a cui non era obbligata, ora che Margherita, la sorda, era andata via; e si sforzava di parere allegra e di rincorare anche la padrona che dava in ismanie e si disperava per ogni nonnulla.

- Eccomi qua, ci sono io, faccio tutto io, signorina mia, non si confonda.

Avrebbe voluto, in compenso, un po' piú di considerazione. Per esempio, quando arrivavano le lettere dalla Sicilia... Gliele recava lei, tutta contenta, esultante:

- Signorina! Signorina!

- Che c'è? Hai preso un terno al lotto?

La agghiacciava, ogni volta, con quelle parole. Stava ad aspettarla ch'ella finisse di leggere la lettera, sperando che le desse subito notizia del suo bambino, ma che! nulla; doveva domandargliene lei, quando le vedeva rimettere il foglio nella busta.

- E di Luzziddu, niente?

- Sí; dice che sta bene.

- E mia suocera, mia suocera?

- Anche.

Doveva contentarsi di queste risposte. Ma possibile che di laggiú non le mandassero a dire altro? Ah come si pentiva adesso di non avere imparato a scrivere! Aveva, sí, supposto, partendo, che la lontananza le sarebbe riuscita penosa; ma tanto poi no: era un vero supplizio, cosí!

Il bambino, però, tra pochi giorni, avrebbe compiuto sette mesi: a nove, per volontà del padre, doveva essere svezzato: dunque, due mesi ancora di quelle sofferenze. Pazienza!

Non s'aspettava, confortandosi e rassegnandosi cosí alla mala sorte, quel che doveva accaderle proprio nel giorno che il bambino compiva il settimo mese: giorno di doppia festa, perché a Nònida era anche spuntato il primo dentuccio.

Sentendo sonare quel giorno il campanello alla porta, e parendole dalla scampanellata che fosse il postino, s'era recata ad aprire tutta contenta, al solito; ma a un tratto, senza aver avuto neanche il tempo d'accorgersi a chi avesse aperto, s'era trovata per terra, intronata da un terribile schiaffo. Titta Marullo, il marito, pallido, scontraffatto dall'ira, le era sopra, con un piede alzato, per pestarle la faccia.

- Brutta cagna! Dov'è il tuo padrone?