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La casa

Celia era nel suo lettino e guardava gli iris lilla sulla tappezzeria della nursery. Si sentiva felice e assonnata.

C’era un paravento ai piedi del lettino. Serviva per non farle arrivare la luce della lampada della nannie. Invisibile a Celia, dietro quel paravento, la nannie leggeva la Bibbia. La lampada della nannie era un lume speciale: pesante, di ottone, con un paralume di porcellana rosa. Non mandava mai odore o fumo, perché Susan, la cameriera, era molto scrupolosa. Susan era una brava ragazza, Celia lo sapeva, anche se a volte aveva il difetto di “agitarsi”. Quasi sempre, quando lo faceva, buttava a terra qualche ninnolo nelle immediate vicinanze. Era una ragazzona con i gomiti del colore della carne cruda. Celia li associava vagamente alle misteriose parole “olio di gomito”.

C’era un lieve bisbigliare. La nannie ripeteva le parole tra sé, mentre leggeva. Per Celia era un mormorio rassicurante. Le palpebre le si appesantivano…

La porta si aprì e Susan entrò con un vassoio. Si sforzava di muoversi senza fare rumore, ma le sue scarpe glielo impedivano, scricchiolando.

Sottovoce, disse: «Mi spiace, nurse, sono un po’ in ritardo stasera».

L’altra disse soltanto: «Ssh! Si è addormentata».

«Oh, non vorrei certo svegliarla, allora.» Susan, un po’ ansante, sbirciò al di là del paravento.

«Che tipino, eh? La mia nipotina non è in gamba come questa qui.»

Nello scostarsi dal paravento, Susan urtò contro il tavolino. Un cucchiaio cadde a terra.

Pazientemente, la nurse disse: «Dovresti cercare di essere più attenta, Susan».

Mortificata, Susan si scusò: «Non lo faccio apposta».

Lasciò la stanza in punta di piedi, il che fece scricchiolare le sue suole più che mai.

«Nannie» chiamò Celia cautamente.

«Sì, cara, che c’è?»

«Non dormo mica, nannie.»

La nannie rifiutava di capire l’allusione. Disse soltanto: «No, cara».

Seguì una pausa.

«Nannie?»

«Sì, cara?»

«È buona la tua cena, nannie?»

«Buonissima.»

«Che cos’è?»

«Pesce lesso e crostata.»

«Oh!» sospirò Celia estasiata.

Un’altra pausa. Poi, la nannie apparve da dietro il paravento: una donnetta anziana, con i capelli grigi e una cuffia di batista annodata sotto il mento. In mano aveva una forchetta. Sulla punta della forchetta c’era un piccolo pezzo di crostata.

«Ora devi fare la brava e fare subito la nanna» disse la bambinaia, in tono di ammonizione.

«Oh! Sì» disse Celia con fervore.

Gaudio! Felicità! Il pezzetto di crostata era tra le sue labbra. Incredibile delizia.

La nannie sparì di nuovo al di là del paravento. Celia si rannicchiò su un fianco. Gli iris color malva danzavano nel chiarore del fuoco. Sapore gradevole di crostata ancora in bocca. Fruscio rassicurante di Qualcuno-nella-Stanza. Indicibile benessere.

Celia si addormentò…

Era il terzo compleanno di Celia. Stavano prendendo il tè in giardino. C’erano i bignè al cioccolato. A lei ne era stato concesso uno solo. Cyril ne aveva avuti tre. Cyril era suo fratello. Era grande, lui: aveva quattordici anni. Ne voleva un altro, ma la mamma diceva: «Ora basta, Cyril».

Seguì poi il solito genere di conversazione. Cyril chiedeva “perché?” di continuo.

Un ragnetto rosso, un cosino microscopico, correva attraverso la tovaglia bianca.

«Guarda,» disse la mamma «c’è un ragnetto portafortuna. Sta andando da Celia perché è lei che compie gli anni. È proprio di buon augurio, sai?»

Celia si sentì emozionata e importante. Cyril indirizzò la sua insaziabile curiosità su un altro argomento.

«Mamma, perché i ragni portano fortuna?»

Poi Cyril alla fine se ne andò, e Celia rimase con la mamma. Ora aveva la sua mamma tutta per sé. La madre le sorrideva attraverso la tavola. Era un bel sorriso, non di quelli che sembravano dire: “Che buffa bambina!”.

«Mamma,» pregò Celia «raccontami una storia.»

Adorava le storie di sua madre: non erano come quelle degli altri. Gli altri, quando glielo chiedeva, raccontavano di Cenerentola, di Pollicino e di Cappuccetto Rosso. La nannie parlava di Giuseppe e i suoi fratelli, di Mosè tra i papiri – i papiri venivano sempre visualizzati da Celia come dei paperi molto magri e altezzosi–; ogni tanto, raccontava dei bambini del capitano Stretton, in India. Ma la mamma!

Per cominciare, non sapevi mai, ma proprio mai, quale sarebbe stato l’argomento della storia. Potevano essere i topi, o i bambini, o una principessa. Poteva essere su qualsiasi cosa… L’unico difetto delle storie della mamma era che non le raccontava mai una seconda volta. Diceva – cosa assolutamente incomprensibile per Celia – di non riuscire a ricordarsele.

«Va bene» concesse la mamma. «Quale raccontiamo?»

Celia tratteneva il respiro.

«Quella di Occhi Neri» suggerì. «Oppure quella di Coda Lunga e il formaggio.»

«Ah! No, quelle non me le ricordo più. Aspetta, ne racconteremo una nuova.» Fissava attraverso la tavola, ora, ma come se non vedesse niente, i grandi occhi castani in continuo movimento, l’ovale lungo e delicato del viso serissimo, il piccolo naso un po’ arcuato puntato verso l’alto. Tutta tesa nello sforzo di concentrarsi.

«Ecco, sì…» Improvvisamente, sembrava tornare da chissà dove. «La storia è intitolata “La candela curiosa”…»

«Oh!» Celia tratteneva il respiro. Era tutta orecchi, incantata. La candela curiosa!

Celia era una bambina molto seria. Pensava molto a Dio e a essere buona e virtuosa. Quando esprimeva un desiderio, era sempre quello di essere brava. Indubbiamente, ahimè, era una saputella, ma se non altro la sua pedanteria la teneva per sé.

A volte era presa dal timore orribile di essere “mondana”: parola misteriosa, che dava turbamento! Le capitava soprattutto quando era tutta vestita di mussola inamidata, con un gran fiocco rosa alla vita, e in attesa di scendere per il tè. Ma nel complesso era piacevolmente soddisfatta di se stessa. Faceva parte degli eletti. Era salva.

La sua famiglia, però, era causa per lei di orribili patemi d’animo. Era spaventoso ma… non era affatto sicura sul conto di sua madre. E se mamma non fosse andata in cielo? Pensiero angoscioso che la torturava.

Le leggi erano molto chiare. Giocare a croquet la domenica era peccato. Anche suonare il piano, a meno che non fossero inni. Celia sarebbe morta, martire volontaria, piuttosto che toccare una mazza da croquet nel “Giorno del Signore”, sebbene poter colpire palle a casaccio, sul prato, ogni altro giorno della settimana, fosse per lei un grande godimento.

Ma sua madre giocava a croquet la domenica, e anche suo padre. E suo padre suonava anche il piano e cantava canzoni, su un tale che “… andò a trovarla il lunedì, quando il marito era in città”. Decisamente, non era un inno sacro!

La cosa preoccupava Celia immensamente. Interrogava la nannie: la povera donna, buona e sincera, non sapeva come rispondere.

«Tuo padre e tua madre sono tuo padre e tua madre» diceva la nannie. «Tutto quello che fanno è giusto e ben fatto, e tu non devi trovarci niente da ridire.»

«Ma giocare a croquet la domenica è proibito» diceva Celia.

«Sì, cara. Vuol dire non santificare la festa.»

«Ma allora… ma allora…»

«Non tocca a te preoccuparti per queste cose, cara. Tu pensa soltanto a fare il tuo dovere.»

Così Celia continuava a scuotere la testa quando si vedeva offrire una mazza da croquet “per giocare”.

«Perché diavolo…?» si meravigliava il padre.

E la madre mormorava: «È la nurse. Le ha detto che non si deve, la domenica».

E poi, a Celia: «Non importa, cara, non giocare se non ti va».

Ma altre volte osservava gentilmente: «Sai, tesoro, il Signore ha fatto per noi un mondo bellissimo, e vuole che siamo felici. Il suo giorno è un giorno tutto speciale, un giorno in cui possiamo concederci cose speciali. Solo, non dobbiamo far lavorare gli altri: i domestici, per esempio. Ma divertirsi è assolutamente lecito».

Celia, però, strano a dirsi, per quanto profondamente amasse sua madre, non si lasciava smuovere. Le cose stavano così perché lo diceva la nannie.

Tuttavia, a un certo punto smise di preoccuparsi per sua madre. La mamma aveva sulla parete un’immagine di san Francesco, e un libriccino intitolato L’imitazione di Cristo sul tavolino accanto al letto. Dio, secondo Celia, forse avrebbe chiuso un occhio sul fatto di giocare a croquet la domenica.

Ma il padre era motivo di gravi perplessità. Spesso scherzava sulle cose sacre. A pranzo, una volta, aveva raccontato una storiella buffa su un curato e un vescovo. A Celia non era sembrata divertente: era semplicemente terribile.

Alla fine, un giorno, era scoppiata in singhiozzi e aveva confidato tutti i suoi timori alla madre.

«Ma, cara, il tuo papà è un uomo buonissimo. Ed è anche molto religioso. Si inginocchia e dice le preghiere tutte le sere, proprio come te. È uno degli uomini migliori del mondo.»

«Ride dei vescovi» piagnucolò Celia. «E la domenica gioca a croquet e canta delle canzoni: canzoni mondane. E io ho tanta paura che finirà nel fuoco dell’inferno.»

«Cosa ne sai, tu, di cose come il fuoco dell’inferno?» domandò la madre, e ora la sua voce era irritata.

«È lì che vanno quelli che peccano» rispose Celia.

«Chi ti ha spaventata con tutte queste sciocchezze?»

«Non sono spaventata» rispose Celia, meravigliandosi. «Io non ci vado all’inferno. Ho intenzione di essere sempre buona e di andare in paradiso. Ma…» le labbra le tremavano «voglio che anche papà venga in cielo.»

E allora la mamma prese a farle un lungo discorso: sull’amore e sulla misericordia di Dio e sul fatto che il Signore non sarebbe mai stato così crudele da far bruciare qualcuno in eterno.

Ma Celia non ne fu minimamente convinta. C’era l’inferno e c’era il paradiso, e c’erano pecore e caproni. Se soltanto… se soltanto avesse potuto essere certa che papà non era un caprone!

Certo che esistevano l’inferno e il paradiso! Era uno dei fatti incontrovertibili della vita, una realtà come il budino di riso, lavarsi dietro le orecchie e dire “sì, per piacere” e “no, grazie”.

Celia sognava molto. Alcuni dei suoi sogni erano soltanto buffi e strani: cose accadute davvero, ma che si mescolavano. E poi c’erano quelli speciali: Celia allora sognava luoghi conosciuti che, nei sogni, erano diversi.

Difficile spiegare perché questo fosse tanto emozionante, eppure nel sogno lo era.

C’era quella vallata giù vicino alla stazione. Nella vita reale ci passava la linea ferroviaria; in quei bei sogni, invece, là c’era un fiume, e primule che punteggiavano le rive e i boschi. Ogni volta lei diceva con gioiosa sorpresa: «Che bello… io credevo che qui ci fosse una ferrovia». E invece c’era la bella vallata verde e il fiume d’argento.

Poi c’erano campi meravigliosi in fondo al giardino, dove nella vita vera c’era la brutta casa di mattoni rossi. E, più emozionante di tutto, le stanze segrete dentro la sua stessa casa. A volte ci arrivavi attraverso la dispensa; oppure, nel modo più inaspettato, portavano fuori dallo studio di papà. Ma c’erano sempre, anche se per tanto tempo le avevi dimenticate. Ogni volta provavi una deliziosa sorpresa nel rivederle; eppure, erano ogni volta completamente diverse. Ma c’era sempre quella strana, segreta gioia nel ritrovarle…

Poi, c’era quel sogno orribile: l’Uomo col Fucile, con i capelli impolverati e l’uniforme rossa e blu. E – cosa più tremenda di tutte – dove le mani sarebbero dovute spuntare dalle maniche, non c’erano mani, ma soltanto due moncherini. Ogni volta che lui veniva in sogno, ti svegliavi urlando. Era la cosa più saggia da fare. E ti ritrovavi al sicuro nel tuo letto, e la nannie era nel letto accanto e tutto era a posto.

Non c’era una ragione speciale per la quale l’Uomo col Fucile dovesse essere così spaventoso. Non c’era pericolo che potesse spararti. Il suo fucile era un simbolo, non una minaccia diretta. No, era qualcosa nella sua faccia, nei duri, fissi occhi azzurri, nella malignità dello sguardo che ti rivolgeva. Ti faceva stare male dalla paura.

E poi c’erano le cose alle quali pensavi durante il giorno. Nessuno lo sapeva ma, quando Celia camminava composta lungo la strada, in realtà si trovava in groppa a un palafreno bianco. Le sue idee su un palafreno erano piuttosto vaghe. Immaginava un supercavallo delle dimensioni di un elefante. Quando invece camminava lungo il muretto di mattoni che delimitava l’orto, stava procedendo sull’orlo di un pauroso precipizio. A seconda delle occasioni era una duchessa, una principessa, una guardiana delle oche o una piccola mendicante. Tutto questo rendeva la vita molto interessante, per Celia, e perciò lei era quel che si dice “una brava bambina”, nel senso che era molto tranquilla, era felice di giocare da sola e non importunava i grandi perché la facessero divertire.

Le bambole che le venivano regalate non facevano davvero parte del suo mondo. Ci giocava docilmente, quando la nannie glielo suggeriva, ma senza vero entusiasmo.

«È una cara bambina» diceva la nannie. «Non ha molta fantasia, ma non si può avere tutto. Il signorino Tommy – il maggiore dei figli del capitano Stretton – non la smetteva mai di tormentarmi con le sue domande.»

Celia raramente faceva domande. Il suo mondo era quasi tutto dentro di lei. Quello esterno non suscitava la sua curiosità.

Un aprile accadde qualcosa che l’avrebbe resa timorosa del mondo esterno.

Era andata con la nannie a raccogliere primule. Era una giornata di primavera limpida e soleggiata, con piccole nuvole che si rincorrevano nel cielo terso. Erano scese lungo la ferrovia – proprio dove c’era il fiume, nei sogni di Celia – e poi si erano spinte su per la collina, addentrandosi in un boschetto dove le primule formavano addirittura un tappeto giallo. Ne avevano raccolte tante. Era proprio una giornata splendida, e le primule avevano un profumo lieve, vagamente di limone, che a Celia piaceva tanto.

Ed ecco – un po’ come nel sogno dell’Uomo col Fucile – che una voce forte e aspra le aveva investite all’improvviso.

«Ehi» diceva. «Che cosa fate qui?»

Era un uomo, un omone con la faccia rossa, vestito di fustagno. Le guardava accigliato.

«Questa è proprietà privata. Chi sconfina viene denunciato.»

La nurse disse: «Oh, scusi. Proprio non lo sapevo».

«Andatevene subito, allora. Forza, muovetevi!» E mentre loro si avviavano per allontanarsi, la voce gridò: «Vi farò bollire vive. Sì, proprio così. Bollirete vive, se in tre minuti non sarete fuori dal mio bosco».

Celia incespicava in avanti, trascinandosi disperatamente dietro la nannie. Perché non cercava di affrettarsi? Quell’uomo le avrebbe rincorse. Le avrebbe messe a bollire vive in un gran pentolone. Si sentiva male dalla paura… Continuava ad arrancare, disperata, il piccolo corpo tremante invaso dal terrore. L’uomo si avvicinava, stava per raggiungerle, le avrebbe messe a bollire… Si sentiva atterrita, raggelata. Presto… oh, presto!

Erano di nuovo sulla strada. Ansimando, Celia emise un gran sospiro.

«Ora… non può più prenderci» mormorò.

La nurse la guardava, sorpresa dal pallore di quel faccino.

«Cara, ma che cos’hai?» Un dubbio l’aveva colpita. «Non ti sarai spaventata per quello che ha detto quell’uomo, vero? Voleva soltanto scherzare… Lo sai, vero?»

E, ubbidiente allo spirito di remissiva falsità che ogni bambino possiede, Celia mormorò: «Sì, certo, nannie. Lo sapevo che era uno scherzo».

Ma c’era voluto molto tempo prima che potesse rimettersi dal terrore di quegli istanti. Non li aveva più dimenticati, nemmeno da adulta.

Il terrore era stato orribilmente reale.

Per il suo quarto compleanno, a Celia regalarono un canarino. Gli venne dato il nome poco originale di Goldie. In poco tempo fu addomesticato e si posava sul ditino della bambina. Lei lo adorava. Era il suo uccellino che nutriva con semi di miglio, ma era anche il suo compagno di avventure. Lei era una regina e lui era il principe Dicky, suo figlio: insieme giravano il mondo in cerca di nuove imprese. Il principe Dicky era bellissimo e indossava vestiti di velluto color oro.

Tempo dopo, quello stesso anno, a Dicky venne data una moglie di nome Daphne. Daphne era molto grossa e con tante piume scure. Era goffa e pesante. Versava l’acqua e rovesciava le cose sulle quali si posava. Non si addomesticò mai come Dicky. Il padre di Celia la chiamava Susan, perché “si agitava”.

Susan aveva la mania di solleticare i due uccelletti con un fiammifero “per vedere che cosa fanno”, diceva lei. I canarini ne avevano paura, e quando la vedevano avvicinarsi si aggrappavano alle sbarre e sbattevano le ali. Susan trovava buffe le cose più curiose. Aveva riso tanto quando era stata trovata una piccola coda nella trappola per topi.

Susan voleva molto bene a Celia. Giocava con lei a nascondersi dietro le tende e poi a saltare fuori dicendo “Bu!”. Celia non era davvero affezionata a Susan: la trovava troppo grossa e rumorosa. Voleva molto più bene alla signora Rouncewell, la cuoca. Rouncy, come la chiamava Celia, era una donna enorme, monumentale, ed era la calma personificata. Non si affrettava mai. Si muoveva per la cucina in modo lento e dignitoso, compiendo il rituale delle preparazioni culinarie. Non era mai affannata o nervosa. Serviva i pasti sempre con lodevole puntualità. Rouncy non aveva fantasia. Quando la madre di Celia le domandava: «Bene, che cosa consiglia per il pranzo, oggi?», lei dava immancabilmente la stessa risposta: «Be’, signora, potremmo fare un bel pollastrino e poi un pudding allo zenzero». La signora Rouncewell sapeva preparare sufflè, vol-au-vent, creme, salmì, torte di ogni genere e i più elaborati piatti della cucina francese, ma non suggeriva mai altro all’infuori di un pollastrino e di un pudding allo zenzero.

A Celia piaceva andare in cucina. Era un po’ come la stessa Rouncy: molto grande, molto ampia, pulitissima e molto tranquilla. In mezzo a quel lindore e a quello spazio c’era Rouncy, la bocca sempre in movimento. Mangiava in continuazione. Pezzettini di questo, di quello e di quell’altro.

Diceva: «Allora, signorina Celia, desidera qualcosa?».

E poi, con un lento sorriso che si apriva nel faccione roseo, andava verso un credenzino, apriva un barattolo e versava una manciata di uva passa o di pinoli nelle manine a coppa di Celia. A volte le dava una fetta di pane con la melassa, o un bel triangolino di crostata, ma qualcosa c’era sempre.

E Celia si portava il suo tesoro in giardino, nel posto segreto presso il muraglione di cinta e, al riparo tra i cespugli, diventava una principessa che si nascondeva ai suoi nemici e alla quale i devoti seguaci avevano portato provviste nel cuore della notte…

Su nella nursery, la nannie sedeva a cucire. Era una bella cosa che la signorina Celia avesse un così bel giardino dove giocare: un giardino sicuro, senza stagni o altre cose pericolose. Quanto a lei, stava diventando vecchia, le piaceva starsene seduta a cucire e a ripensare a tante cose: i piccoli Stretton, tutti cresciuti ormai, maschi e femmine. Perfino la piccola Lilian stava per sposarsi, il signorino Roderick e il signorino Phil, che vivevano entrambi a Winchester… La sua mente riandava dolcemente al passato.

Accadde qualcosa di tragico. Goldie scomparve. Era così addomesticato che la sua gabbia veniva lasciata aperta. Lui soleva svolazzare libero per la nursery. Si appollaiava in cima alla testa della nannie e si puliva il becco sulla cuffia, e lei diceva bonariamente: «Andiamo, andiamo, signor Goldie, le proibisco di fare certe cose». Si posava sulla spalla di Celia e prendeva un seme di avena dalle labbra di lei. Era come un bambino viziato. Se non gli prestavi attenzione, si arrabbiava e protestava, col becco aperto.

E, in quell’orribile giornata, Goldie si perse.

La finestra era aperta. Goldie doveva essere volato via.

Celia piangeva, piangeva. La madre e la nannie tentavano invano di consolarla.

«Tornerà, vedrai, non piangere.»

«È andato soltanto a fare un giro. Appenderemo la sua gabbia fuori dalla finestra.»

Ma Celia piangeva, disperata. Gli altri uccelli beccavano i canarini a morte: lei l’aveva sentito dire da qualcuno. Goldie era sicuramente morto: morto da qualche parte, sotto gli alberi. Lei non avrebbe più alimentato quel beccuccio vorace. Ebbe continue crisi di pianto per tutta la giornata. Non volle mangiare, né a pranzo né all’ora del tè. La gabbia di Goldie, fuori dalla finestra, rimaneva vuota.

Finalmente, venne l’ora di andare a letto. Celia era coricata nel suo lettino bianco. A tratti singhiozzava, automaticamente. Stringeva forte forte la mano della mamma. Più che la nannie, voleva la mamma. La nannie aveva detto che forse il papà avrebbe comperato a Celia un altro canarino. La mamma si guardava bene dal dire una cosa del genere. Non era un canarino, quello che Celia voleva – in fin dei conti, aveva ancora Daphne – era Goldie. Oh, Goldie… Goldie… Goldie… Lei voleva bene a Goldie, e ora lui non c’era più, l’avevano ucciso a forza di beccate. Disperata, Celia stringeva forte la mano della mamma. E la mamma ricambiava la stretta.

E a un tratto, nel silenzio rotto soltanto dal respiro pesante di Celia, si udì un lieve rumore: il cip-cip di un uccellino.

Il caro “signor Goldie” scese svolazzando dall’asta della tenda, dov’era rimasto tranquillamente appollaiato per tutta la giornata.

Per tutta la sua vita, Celia non avrebbe mai dimenticato l’incredula, meravigliosa gioia di quel momento…

Era diventato un detto, in famiglia, quando si cominciava a stare in ansia per qualche cosa: «Su, coraggio, ricordati di Goldie e dell’asta della tenda».

Il sogno dell’Uomo col Fucile cambiò. Diventò, in un certo senso, ancora più spaventoso.

Di solito cominciava bene. Era un sogno bello: c’era sempre un picnic o una festa. E all’improvviso, proprio mentre ti stavi divertendo, cominciavi a provare una strana sensazione. C’era qualcosa che non andava… Cos’era? Ma sì, certo, l’Uomo col Fucile era lì. Ma non era lui. Uno degli ospiti era l’Uomo col Fucile…

La cosa orribile era che poteva trattarsi di chiunque. Li guardavi. Tutti erano allegri, parlavano e ridevano. E all’improvviso capivi. Poteva essere la mamma, o il papà, o la nannie: qualcuno con cui stavi parlando. Guardavi la faccia della mamma – era certamente la mamma – e le vedevi gli occhi freddi come l’acciaio, e dalle maniche del vestito – che orrore! – spuntava quell’atroce moncherino. Non era la mamma, era l’Uomo col Fucile… E ti svegliavi, urlando.

Non potevi spiegarlo a nessuno, né alla mamma né alla nannie; a raccontarlo non sembrava molto spaventoso. Ti dicevano: «Su, su, cara, hai fatto soltanto un brutto sogno», e ti facevano una carezza. Dopo un po’ ti riaddormentavi, ma non ti andava di lasciarti andare al sonno perché il sogno poteva ritornare.

Celia diceva disperatamente a se stessa, nel buio della notte: “Mammina non è l’Uomo col Fucile. Non lo è. Io lo so che non lo è. È la mia mamma”.

Ma di notte, quando le ombre e il sogno ti stavano ancora intorno, non potevi essere sicura di niente. Forse niente era ciò che sembrava e tu l’avevi sempre saputo, in fondo.

«Signora, stanotte la bambina ha fatto un altro brutto sogno.»

«Cos’ha sognato, nurse?»

«Mah, non so, un uomo con un fucile, signora.»

Celia diceva: «No, mamma, non un uomo con un fucile. L’Uomo col Fucile. Il mio Uomo col Fucile».

«Temevi che ti sparasse, cara? Di questo avevi paura?»

Celia scuoteva la testina rabbrividendo.

Non poteva spiegare.

Sua madre non tentava di forzarla. Dolcemente, diceva: «Sei qui con noi, tesoro mio, non hai niente da temere. Nessuno può farti del male».

Lei si sentiva confortata.

«Nannie, che parola è quella? Quella lunga, sul manifesto?»

«“Ristoratrice”, cara. “Fatevi una tazza di tè ristoratrice”.»

Questo si ripeteva ogni giorno. Celia mostrava un’insaziabile curiosità per le parole. La madre, però, era contraria al fatto che i bambini imparassero a leggere troppo presto.

«Aspetterò che Celia abbia sei anni, prima di insegnarle a leggere.»

Ma non sempre le teorie sull’educazione risultano applicabili alla realtà. A cinque anni e mezzo, Celia era in grado di leggere tutti i libri di favole della nursery, e praticamente tutte le parole dei manifesti. A volte, però, faceva confusione tra una parola e l’altra. Allora andava dalla nannie e diceva: «Nannie, per favore, questa parola è “avaro” o “avido”? Non mi ricordo più». Dato che riconosceva la parola nell’insieme, ma non sapeva compitare, in avvenire avrebbe sempre avuto problemi di ortografia.

Celia trovava la lettura meravigliosa. Le apriva un mondo nuovo, un mondo di fate, streghe, gnomi, folletti. Le storie di fate erano la sua passione, quelle sui bambini come lei la lasciavano piuttosto indifferente.

Aveva pochi amichetti della sua età con cui giocare. La sua casa era piuttosto isolata e le automobili erano rare, a quei tempi. C’era una bimbetta maggiore di lei di un anno: Margaret McCrae. Ogni tanto, Margaret veniva invitata per il tè, oppure era Celia a essere invitata dall’amica. Ma in quelle occasioni, Celia chiedeva ardentemente di non andare.

«Perché, tesoro, non ti piace Margaret?»

«Sì, mi piace.»

«Perché, allora?»

Celia poteva soltanto scuotere la testa.

«È timida» sentenziava Cyril, in tono di scherno.

«È innaturale non voler vedere altri bambini» diceva il padre.

«Forse Margaret le fa i dispetti?» chiedeva la madre.

«No» gridava Celia, e scoppiava in pianto.

Non sapeva spiegare. Proprio non le riusciva. Eppure, i fatti erano semplicissimi. Margaret aveva perso tutti i dentini davanti. Le parole le uscivano rapidissime, sibilando, e Celia non riusciva a capire bene quello che l’altra diceva. Il peggio era stato quando insieme avevano fatto una passeggiata. Margaret aveva detto: «Ti racconto una bella storia, Celia» e immediatamente si era messa a dire, fischiando e sibilando, di una “Prinscipescia e gi un giolsce velenoscio”. Celia ascoltava, ed era una tortura. Di tanto in tanto Margaret si fermava e domandava: «Sci piascie quescia scioia?». Celia, nascondendo eroicamente il fatto di non avere la più pallida idea di quello che la storia raccontasse, tentava di dare risposte intelligenti. E intimamente, com’era sua abitudine, faceva ricorso alla preghiera:

“Signore, ti prego, ti prego, fammi tornare a casa presto: non farle capire che non capisco. Voglio tornare a casa, Signore, ti prego!”

In modo oscuro, sentiva che far capire a Margaret che il suo modo di parlare era incomprensibile sarebbe stato il colmo della crudeltà. Margaret non doveva saperlo.

Ma lo sforzo era tremendo. Celia arrivava a casa pallida e quasi in lacrime. Tutti pensavano che Margaret non le fosse simpatica. In realtà, era l’opposto. Proprio perché Margaret le piaceva tanto, non sopportava il pensiero che si accorgesse di non essere capita perché biascicava.

E nessuno capiva: nessuno! Celia provava un orribile senso di panico e di solitudine.

Il giovedì c’era il corso di ballo. La prima volta che Celia vi andò era terrorizzata. La stanza era piena di bambini, e c’erano bambine grandi, che l’abbagliavano con i loro tutù di raso.

Al centro della sala, nell’atto di infilarsi un lungo paio di guanti bianchi, c’era la signorina Mackintosh, ossia la persona più imponente – ma al tempo stesso la più affascinante – che Celia avesse mai visto. La signorina Mackintosh era altissima: secondo Celia, la persona più alta del mondo. Anni dopo, fu uno shock per lei rendersi conto che la signorina Mackintosh era di statura poco superiore alla media. Otteneva quell’effetto grazie alla gonna vaporosa, al portamento incredibilmente eretto e alla sua grande personalità.

«Ah!» disse con grazia la signorina Mackintosh. «Così, questa è Celia. Signorina Tenterden?»

La signorina Tenterden, una creatura dall’aria ansiosa che danzava in modo squisito ma non aveva carattere, accorse come un cagnolino ubbidiente.

Celia venne consegnata a lei e, poco dopo, si ritrovò in fila con altre bambine molto piccole che manipolavano “estensori”: pezzi di elastico blu con una maniglia a ciascuna estremità. Dopo gli estensori passarono ai segreti della polka, e poi i più piccoli si misero a sedere e guardarono gli esseri lucenti in tutù di raso eseguire una fantasiosa danza con i tamburelli.

Finita quella, venne annunciata la quadriglia dei lancieri. Un bambino con gli occhi neri e maliziosi si affrettò ad avvicinarsi a Celia.

«Senti… vuoi essere la mia dama?»

«Non posso» rispose lei, con dispiacere. «Non so come si fa.»

«Oh, che peccato.»

Ma poco dopo piombò su di lei la signorina Tenterden.

«Non sai come si fa? Be’, cara, non importa se non lo sai, sei qui per imparare. Ecco, questo sarà il tuo compagno.»

Celia si trovò accoppiata con un bambino biondiccio con le efelidi. Di fronte a loro, c’era il ragazzino con gli occhi neri, con la sua dama. Quando si incontrarono al centro, lui disse a Celia, in tono di rimprovero: «Ecco, non hai voluto ballare con me. È proprio un peccato».

Una fitta dolorosa, che negli anni a venire avrebbe finito col conoscere molto bene, investì per un attimo Celia. Come spiegare? Come dire: “Ma io volevo ballare con te. Avrei preferito ballare con te. C’è stato un errore”.

Per la prima volta sperimentava una delle tragedie dell’adolescenza di una ragazza: il compagno sbagliato!

Ma le esigenze della quadriglia li separarono. Si ritrovarono ancora una volta nella grande catena, ma quel bambino si limitò a rivolgerle un’occhiata di profondo rimprovero e a stringerle la mano.

Lui non tornò più alle lezioni di ballo, e Celia non seppe mai come si chiamasse.

Quando Celia aveva sette anni, la sua cara nannie se ne andò. Aveva una sorella ancora più vecchia di lei, e quella sorella aveva ormai problemi di salute; la nannie doveva andare a stare con lei e averne cura.

Celia era davvero inconsolabile e pianse amaramente. Quando la nannie partì, Celia prese a scriverle ogni giorno, letterine illeggibili e dall’impossibile ortografia, che le costavano uno sforzo considerevole.

Gentilmente, la madre osservò: «Sai, cara, non occorre scrivere tutti i giorni alla nannie. Lei non pretende tanto. Un paio di volte alla settimana sarà più che sufficiente».

Ma Celia scosse la testa, con decisione.

«La nannie penserebbe che l’ho dimenticata. Io non la dimenticherò, invece: mai.»

Rivolta al marito, la madre commentò: «La piccola è molto tenace nei suoi affetti. Troppo, forse».

E lui rise: «Un bel contrasto con il nostro signorino Cyril».

Cyril non scriveva mai a casa dalla scuola in cui si trovava, a meno che non gli venisse imposto o non gli servisse qualcosa. Ma il fascino dei suoi modi era tale che tutti quei piccoli misfatti gli venivano perdonati.

L’ostinata fedeltà di Celia al ricordo della nannie preoccupava la madre.

«Non è logico» diceva. «Alla sua età, dovrebbe dimenticare più facilmente.»

Nessuna nuova bambinaia venne a sostituire l’altra. Si occupava Susan di Celia, nel senso che le faceva il bagno la sera e l’aiutava a prepararsi al mattino. Una volta pronta, Celia andava nella camera della mamma. Sua madre faceva sempre colazione a letto. Celia riceveva una fettina di pane tostato con la marmellata, poi faceva galleggiare nel lavabo della camera della mamma un’ochetta di porcellana celeste. Il padre a quell’ora era nel suo spogliatoio, lì accanto. Qualche volta chiamava Celia e le dava un penny, che lei infilava dentro un piccolo salvadanaio di legno dipinto. Quando la cassettina-salvadanaio era piena, tutti quei soldini venivano messi in banca, su un libretto di risparmio, e una volta che la somma risparmiata fosse stata sufficiente, Celia si sarebbe comperata qualcosa di molto bello col suo denaro. Che cosa dovesse essere quel “qualcosa”, era una delle preoccupazioni principali della vita di Celia. Gli oggetti favoriti variavano da una settimana all’altra. Prima, ci fu un elegante pettine di tartaruga ricoperto di brillantini per la mamma, da usare per fermare i capelli sulla nuca. Un pettine simile era stato indicato a Celia da Susan, in una vetrina. «Una signora importante potrebbe portarlo, un pettine così» aveva detto Susan in tono riverente. Poi c’era un vestito da ballo di seta bianca con la gonna plissettata: anche quello faceva parte dei sogni di Celia… ma era un vestito “da grande”, che indossavano soltanto le bambine che danzavano con il tutù. E c’era anche un paio di pantofole d’oro vero – Celia non aveva dubbi sull’esistenza di cose del genere – e poi un pony. Una di queste bellissime cose – e anche altre – era in serbo per lei il giorno in cui vi fosse stato “abbastanza sul libretto di risparmio”.

Di giorno Celia giocava in giardino, facendo correre un cerchio – che poteva essere qualsiasi cosa, da una diligenza a un treno espresso –, arrampicandosi sugli alberi e creandosi nascondigli nel mezzo di folti cespugli, dove starsene in segreto a inventare storie. Se il tempo era piovoso, leggeva nella nursery o colorava con i pastelli vecchi numeri del «Queen». Tra il tè e la cena c’erano giochi meravigliosi da fare con la mamma. A volte, con gli asciugamani sorretti dalle sedie, costruivano delle case da cui entravano e uscivano camminando a quattro zampe. Oppure facevano le bolle di sapone. Non sapevi mai quale sarebbe stato, ma era sempre un gioco delizioso e divertente: il genere di gioco che non saresti mai riuscita a inventare da sola, il genere di gioco che si poteva fare soltanto con la mamma.

Ora al mattino c’erano le “lezioni”, che facevano sentire Celia molto importante. C’era l’aritmetica, che imparava col padre. Le piaceva l’aritmetica, e le piaceva sentire papà dire: «Questa bambina ha un’ottima mente matematica. Lei non conterà sulle dita come fai tu, Miriam». Al che la mamma rideva e diceva: «Io non ho mai avuto testa per i numeri». Celia imparò dapprima le addizioni e le sottrazioni, poi a moltiplicare, che era molto divertente, e infine a fare le divisioni, una cosa piuttosto difficile e da grande. Alla fine, vennero i “problemi”. Celia adorava i problemi. Parlavano di bambini e di mele, di pecore in un campo oppure di torte o di uomini al lavoro, e sebbene in fondo si trattasse soltanto di addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni o divisioni camuffate, le risposte erano sempre in bambini, mele o pecore, il che rendeva tutto molto più interessante. Dopo l’aritmetica c’era la “copia”, da fare in un quaderno di esercizi. La mamma scriveva una frase sulla prima riga in alto e Celia doveva copiarla e ricopiarla finché arrivava in fondo alla pagina. A Celia copiare non piaceva molto, ma a volte la mamma scriveva una frase molto buffa, tipo “Scimpanzé scimuniti non possono scegliere con coscienza”, che faceva tanto ridere la bambina. Poi doveva esercitarsi a compitare: erano paroline brevi e semplici, ma le creavano molti problemi. Ansiosa di fare bene, inseriva lettere in più nelle parole tanto da renderle irriconoscibili.

La sera, dopo che Susan le aveva fatto il bagno, Celia aspettava la mamma che veniva a darle “un’ultima rimboccatina”: “la rimboccatina della mamma”, la chiamava Celia, e cercava di rimanere immobile nel suo letto, perché “la rimboccatina della mamma” fosse tale e quale al suo risveglio. Ma, chissà perché, non era mai così.

«Vuoi che ti lasci una luce accesa, tesoro? O la porta socchiusa?»

Ma Celia non voleva mai la luce accesa. Le piaceva la calda, confortevole oscurità in cui lasciarsi sprofondare a poco a poco. L’oscurità le era amica.

«Be’, non sei una che ha paura del buio» le diceva Susan. «La mia nipotina… oh!, quella urla come una pazza, se la lasciano al buio.»

La nipotina di Susan – Celia in cuor suo lo pensava da un pezzo, ormai – doveva essere una bambina odiosa, e anche molto stupida. Che ragione c’era di avere paura del buio? La sola cosa che poteva fare paura erano i sogni. Quelli erano spaventosi perché mettevano sottosopra la realtà. Se lei si svegliava urlando per avere sognato l’Uomo col Fucile, saltava dal letto, orientandosi perfettamente anche al buio, e correva lungo il corridoio fino alla camera della mamma. La mamma allora la riaccompagnava e rimaneva un po’ con lei, dicendo: «Non c’è nessun Uomo col Fucile, cara. Stai tranquilla: non c’è nessuno». E Celia si riaddormentava, sapendo che la mamma le era accanto, e che di lì a qualche istante si sarebbe ritrovata a cogliere primule nella valle in riva al fiume, dicendo trionfante tra sé: “Lo sapevo, io, che qui non c’era la ferrovia: c’è sempre stato il fiume”.