E all'improvviso ebbe chiara la sensazione che l'altra le dava fastidio. Aveva voglia di restare sola, di allungare il corpo sulle lenzuola pulite, di cancellare il dolore che si spandeva dentro la sua testa come una salsa scura, di pensare a tre o quattro delle cose che erano successe quella sera, di dimenticare le molte altre che senza dubbio sarebbero successe l'indomani. Forse se sto zitta quando lei finisce di parlare. Forse interpreta il mio silenzio come un invito a lasciarmi sola, ad andarsene. Però, per creare quella sensazione, il precedente necessario era che l'altra le togliesse il braccio dalle spalle, che si ritirasse quella mano festone serpentino che di tanto in tanto le accarezzava il collo o si lasciava cadere sull'abisso, sfiorando appena la punta del seno. Il discorso continuava. Ormai non verteva più su questioni altrui, di altri protagonisti della festa finita, ma su questioni loro.

«Problemi femminili. Che solo noi donne possiamo capire.»

Disse lei: «Come si chiama?» Uno stupido lapsus, «come si chiama?» E non poteva interromperla per chiederle: come ti chiami?, perché pochi minuti prima l'aveva pregata di restare, lei stessa aveva provocato quella situazione sostenendo lo sguardo dell'altra e sussurrando un: vuoi restare qui? che gli altri avevano sentito, che aveva pronunciato per gli altri, perché uscissero da casa sua mormorando, perché in strada spettegolassero a pieni polmoni, Celia ha passato il Rubicone, così carina e così lesbica, avrebbe detto quel frustrato di Dalmases, oppure io pensavo che la sua storia con la Donato fosse stata un gioco, e la stessa Rosa Donato, irritata o scornata, che guardava una o due volte le luci accese dell'attico, immaginando quello che poteva succedere tra Celia e... come si chiamava? Approfittò di una pausa del discorso dell'altra per alzarsi di scatto, portare la mano alla bocca e soffocare un grido.

«Ho lasciato una bottiglia di champagne nel freezer!»

La corsa del suo corpo snello lasciò un tintinnio di seni liberi sotto la maglietta e la scia dorata di un'effimera cometa. La donna sollevò un pochino il culo dal divano, ma rimase in un atteggiamento indeciso davanti alla rapidità della fuga. Restò in dubbio tra seguire la fuggitiva o lasciarsi ricadere sul divano, poi scelse la seconda opzione, mentre sospirava e la contentezza per la notte propizia e attesa le faceva esaminare una parete dopo l'altra, un oggetto dopo l'altro, come assegnando a ciascuno di essi un posto nel paradiso di soddisfazione presagito. Appena torna devo impressionarla, devo finire di disarmarla. Guardò l'orologio, l'ora adatta, le due e mezza, un po' più tardi la stanchezza, un po' più presto l'insicurezza, l'ora giusta per l'amore, finalmente, con il corpo desiderato da lontano per tanto tempo. Aveva già pronta la frase. Aveva già la domanda per il momento in cui il corpo dorato sarebbe uscito dalla cucina e si sarebbe avvicinato con quella languidezza atletica di corpo in fiore, indipendentemente dal fatto che, sì, senza dubbio c'è poca differenza d'età tra lei e me, però ci sono corpi che vengono eletti dalla giovinezza e corpi che la terra tiene per sé, come si tiene le pietre e le erbacce. Le dirò. Perché hai scelto me questa sera? Le dirò. Erano mesi che aspettavo questo momento, da quando ti ho visto al Palau de la Música, quando ci hanno presentato i Socias. Anche se in realtà mi ricordavo di te da anni. Molti. Non ci crederesti. Dall'Università. Sì, dall'Università. Tu eri un anno dietro di me, Lettere e Diritto erano ancora unite, credo che sia stato l'ultimo anno che eravamo tutti insieme nella vecchia Università. Io ti vedevo dal chiostro inferiore e sentivo quasi il tuo odore. Non ridere. Hai uno di quei corpi che si annusano. Ma il dialogo era impossibile perché Celia non tornava.

«Celia? Ci sei? E' successo qualcosa?»

Alza il culo dal divano e cammina con le gambe aperte, mentre con le mani cerca di scollare le mutande dall'inguine e dalle natiche, troppa carne e poche mutande, pensò, e intanto cercava una certa scioltezza del portamento che l'avrebbe aiutata a entrare in cucina con naturalezza. Appoggiò il gomito allo stipite per contemplare lo spettacolo. Celia era seduta a un tavolo nell'office e sembrava che contemplasse in ammirazione la bottiglia di champagne, brinata dal ghiaccio che si scioglieva lentamente alla luce della lampada. Parte della chioma di Celia si era trasformata in frangetta sulla fronte e sul naso e il suo sguardo fisso poteva essere rivolto alla mutazione della bottiglia come ai suoi capelli. Un sorriso di tenerezza addolcì i lineamenti della donna appoggiata allo stipite.

«Posso darti una mano?»

Il soprassalto spezzò l'immobilità della figura dorata e gli occhi di Celia si rivolsero critici all'intrusa.

«Sono solo stanca, ecco tutto.»

Aveva cercato il tono di voce più neutro possibile per non offenderla e nello stesso tempo per mettere bene in chiaro che la serata era finita. Ma l'altra continuò a sorridere, avanzò verso di lei, le si mise di spalle, le accarezzò i capelli con le dita prima prudenti, poi autentici aratri che aprivano solchi tra i folti capelli, fino a trovare pallidi sentieri sul cuoio capelluto e a insinuarvi l'elettricità del desiderio. Celia scosse la testa per togliersi di dosso l'oppressione di quelle dita.

«Per favore.»

«Ti do fastidio?»

«Mi fai male.»

E non voltava la testa. Vattene, vattene, cretina, vattene prima che te lo debba dire io.

«Mi hai fatto veramente felice quando mi hai chiesto di restare.»

«Il fatto è che non so perché l'ho fatto. Sono stanca.»

«Per tutta la serata ci siamo dette molte cose con lo sguardo.»

«Può darsi. Hai detto molte cose intelligenti e a me piacciono le persone intelligenti.»

«Quanti anni sono che aspetto questo momento.»

«Come dici?»

E' Celia che volta la testa con le ciglia aggrottate, irritata dalla situazione, e incontrando la sua faccia seccata le sbocciano delle labbra dure che s'impadroniscono delle sue e cercano di aprirle col bisturi della lingua che l'altra sente gelata.

«Vuoi startene buona?»

Adesso Celia si alza, s'impadronisce della sorpresa dell'altra, cambia posto alla bottiglia sulla tavola, s'inventa oggetti da mettere in ordine, il bisogno di mettere a posto i resti di una festa non troppo fortunata.

«Forse è meglio che tu te ne vada!»

L'altra inghiotte saliva. Le parole di Celia l'hanno riportata alla pesantezza del proprio corpo, alla tensione delle mutande strette, all'inquietudine per l'immagine che offre, per l'immagine che Celia a quanto pare rifiuta.

«Non ti capisco.»

«Ma tu non eri tanto intelligente? E' così difficile da capire?»

E Celia esplode in una fuga in avanti che vuole superare la sua cattiva coscienza e l'autentico fastidio per la situazione.

«Voglio che tu te ne vada. Proprio così. E' chiaro? Vo-glio-re-sta-re-so-la. Hai capito?»

«Ma sei tu che mi hai detto...»

«Non so perché l'ho detto.»

«Se vuoi ti do una mano.»

«Non ho nessun bisogno di aiuto! Ho bisogno che te ne vada!»

Tutta l'attrazione gravitazionale che un corpo umano può sentire, la sente l'altra, con le gambe aperte, i piedi che non bastano per sopportare il peso del disprezzo.

«Non parlarmi così. Mi hai detto di restare per ingelosire gli altri. Quell'imbecille di Dalmases o quel puttanone di Rosa.»

«Non insultare i miei amici.»

«Chi ti credi di essere? Credi di poter giocare con me?»

La mano della donna si è sollevata di colpo e si è impadronita di una manciata di maglia, e quella mano è un elemento estraneo che Celia osserva spaventata, e l'altra sbalordita. E dietro la mano arriva un impulso cieco che tira la maglia e la strappa, scoprendo pelle di donna, rosata e tiepida, un capezzolo che appare e scompare al va' e vieni della respirazione di un animale spaventato.

«Non fare così. Domani vediamo di chiarire tutto.»

«Non devo fare così? Ma lo sai che cos'hai fatto, disgraziata?»

Due schiaffi colpiscono le guance attraenti e le tingono di vergogna, e quegli schiaffi spingono Celia a un assalto cieco contro la donna, un assalto a manate che la fanno appena indietreggiare e le permettono invece di colpire con due nuovi schiaffi la faccia di Celia.

«Mi fai schifo! Sei un essere ripugnante! Un maschio, una ripugnante virago!»

I colpi si abbattono su Celia con la volontà di annientarla, e la difesa delle braccia incrociate non può nulla contro quel mulinare carico di odio. E nell'aria una bottiglia, con un gioco di pieno e di vuoto, va a morire contro la piccola testa. Sigillata dal sangue, una chioma appassita all'improvviso, scolorita, da bambola rotta.

 

«Mi sarò detto venti volte: chiedi il nome di quegli uccelli, e mai che lo abbia chiesto. Ma ti assicuro che ce n'erano migliaia, milioni su quei fili, al tramonto, a competere con i penultimi rumori di Bangkok, con un pigolio che poteva essere di allegria o di disperazione, a seconda che uno fosse allegro o disperato.»

«E che cosa ci fanno quegli uccelli sui fili, capo? La giungla è vicina. Stanno meglio sui fili che sugli alberi? Non capisco. Gli uccelli di qui sono diversi. Se hanno degli alberi non ci vengono in città. Non sono mica scemi.»

Carvalho si appropriò della riflessione di Biscuter e la elevò ai cieli che cadevano sulle Ramblas al tramonto, come se stesse guardando i cieli di Bangkok dalla porta del Dusit Thani. Ripercorse con lo sguardo il telegramma aperto sul tavolo, un uccellino di carta abbattuto e disarticolato. «Bangkok è uno sballo. A Bangkok ho trovato l'amore. Teresa.» Era il terzo telegramma che Teresa Marsé gli mandava da quando aveva cominciato la scoperta dell'Asia, in un volo charter noleggiato da una discoteca della città. A Singapore, una citazione letteraria da Somerset Maugham, scoperta su un tavolino traballante nel giardino del Raffles, illuminato principalmente dai bicchieri di «Singapur Sling». A Giakarta, un messaggio-revival in omaggio a Bing Crosby, Bob Hope e Dorothy Lamour: «Road to Bali. Teresa.» E adesso, tornando a casa dai mari del Sud, Teresa Marsé era a Bangkok, a vedere come le indigene giocavano a ping pong con la vagina e i bambini cagavano nelle acque limacciose del Klonk Dan, a pochi metri dal mercato galleggiante.

«Dimmi di Bangkok, capo. E' bella?»

«Una città che imputridisce. La città moderna è imputridita dalla gente e la città fluviale è imputridita dalla merda. E ti parlo di anni fa, Biscuter. Non so se mi spiego.»

Quel non so se mi spiego dava per finita la conversazione, e Biscuter lasciò Carvalho al suo trasporto visivo sulle Ramblas. «Singapur Sling,» mormoravano le labbra di Carvalho come recitando una giaculatoria.

«E le pagode, capo?»

Gridò Biscuter dalla cucina.

«Si chiamano wats. Somigliano agli altari valenziani, ma non c'è nessun Dio che li bruci.»

«Non le piacciono gli altari, capo?»

«Sì, perché li bruciano. Se non li bruciassero li odierei.»

Singapur Sling. Un quarto di succo di limone, due quarti di cognac, un quarto di gin, ghiaccio, soda, se piace, e sulle spalle la cupola di umidità che ricopre Singapore come un coperchio sul vassoio dei formaggi, soprattutto quella porzione di delicato cacio coloniale che è il Raffles, ormai abbandonato dagli inglesi imperiali, sostituiti da coppie di bottegai europei in viaggio di nozze, avvertiti dall'agenzia che in quell'albergo si è ubriacato fino alla cirrosi un importante scrittore inglese. Il richiamo dell'Asia, si disse Carvalho mentre il freddo gli scolpiva le ossa, benché il calendario della Caixa d'Estalvis1 seguisse fedelmente il mese di ottobre.

«Sta per piovere.»

Disse o disse tra sé Carvalho, prima o dopo il primo lampo, che prestò un'illusione di movimento alla statuetta fermacarte di Pitarra. Le gocce di pioggia volevano inchiodare i frequentatori delle Ramblas che allungavano il passo o si riparavano con i giornali.

«Sono arrivati i monsoni catalani.»

Le giornate diventano sempre più corte, pensò indignato, come se gli stessero scippando un pezzo di vita o un pezzo di mondo.

L'autunno è arrivato e passerà. Poi l'inverno. Mi metterò un maglione. Me lo toglierò. La primavera. Che stupidaggine!

«Sta per succedere qualcosa, Biscuter, e non mi ricordo che cosa. Non so se sono i mondiali di calcio o la visita del papa.»

«I mondiali ci sono già stati. Il papa viene alla fine del mese.»

«I mondiali ci sono già stati? Sei sicuro?»

«Sicuro, capo.»

«E chi ha vinto?»

«Non il Barça,2 poco ma sicuro.»

Biscuter rise dalla cucina e si sentì in dovere di chiarire.

«Era uno scherzo, capo. Quello che si avvicina sono le elezioni.»

Carvalho piegò il telegramma di Teresa Marsé e lo buttò nel cestino. Il telegramma reclamò la sua attenzione da quell'anticamera della morte. Carvalho tornò a raccoglierlo, a stenderlo, a leggerlo. Prima lo lasciò sul tavolo e poi lo ficcò in un cassetto che chiuse subito dopo, con una certa enfasi. Un buon periodo per visitare l'Asia, soprattutto per un europeo. Il tropico è una speranza climatica quando sull'Europa piove e nevica, quando il sole è tramontato sull'Egeo e la tramontana si è portata via con sé i giorni migliori della Costa Brava.

La voce di Teresa gli aveva spiegato per telefono:

«Sono depressa e devo andarmene. Ne ho abbastanza di mio marito e di mio figlio.»

«Che cos'è successo al tuo bambino?»

«Cose da bambino nessuna. O almeno, dipende in che senso. Ha fatto una pancia così a una sua compagna di classe. E adesso è tutta colpa mia perché non ho saputo educarlo. Me lo ha detto anche quel cinico di mio marito. Lui, che se n'è andato da casa e non si è preoccupato di suo figlio neanche un'ora, né di giorno né di notte. Tu ci sei stato da quelle parti: consigliami dei posti, delle cose.»

«Sarà cambiato tutto, e parecchio. Quando ci sono andato io la guerra del Vietnam non aveva ancora corrotto tutto quanto.»

«Ma io non vado nel Vietnam. Vado a Singapore, Bali e Bangkok... Cosa ne dici?»

«Roba da cartolina.»

«Non sono mica Jacqueline Onassis. Ho tre settimane. Dimmi il nome di qualcosa per ubriacarsi in Asia.»

«Gli aromi del Montserrat.»

«Cretino.»

«Singapur Sling.»

«Così va meglio. Cos'è?»

«E' un cocktail tipico di Singapore e soprattutto dell'hotel Raffles di Singapore.»

«Davvero?»

«Non importa. Quelli dell'albergo coltivano il mito e se ordini un Singapur Sling te lo servono con un sorriso complice.»

«Bello. Suona bene. Mi basta. T'immagini andare in giro per il mondo in cerca di qualcosa che suoni bene? E' buono quanto suona bene?»

«Sseh...»

«Ti manderò delle cartoline per raccontarti come mi va.»

«Tornerai prima che arrivino le cartoline.»

«Ti manderò dei telegrammi. Ti lusinga?»

«No.»

Silenzio.

«Ti secca?»

«Neanche.»

«Vuoi che ti porti qualcosa? La seta costa poco a Bangkok.»

«Una bottiglia di Mekong.»

«Che cos'è?»

«Un whisky tailandese. Non so con che cosa lo fanno, però ha un buon sapore.»

«Non pensi ad altro.»

Da una distanza di quasi quindici anni gli arrivò un sorriso orientale, quello dello smandrappato doganiere che palpava le interiora delle sue valigie e che aveva svegliato con le palme delle mani il fondo addormentato del vetro. Sei bottiglie di Mekong erano riuscite ad arrotondare quegli occhi orientali. Fissò Carvalho con la complicità che possono manifestare solo i beoni, aprì la mano come un ventaglio, la trasformò in un'inesauribile bottiglia da cui bevve succhiando il pollice, con l'ansia di un bambino minacciato dallo svezzamento, e poi rise con un candore imbarbarito che irritò più d'uno degli occidentali in attesa del loro turno dietro Carvalho. Carvalho assentiva e sorrideva con tutte le sue forze. Bisognava dare ragione al sospetto allegro e complice del doganiere. In effetti, amico mio, sono un alcolizzato.

 

Da quando aveva accettato il caso Daurella aveva la sensazione di lavorare secondo un orario regolare, il più possibile simile alla virtuosa abitudine catalano-giapponese di sprecare un terzo della giornata per poter dormire otto ore e cauterizzare le ferite del corpo e dell'anima nelle otto ore restanti. In parte lo si doveva al fatto che il vecchio Daurella aveva l'abitudine di dargli appuntamento tra le nove e le nove e mezzo nell'ufficio del suo magazzino di tende e piscine di Pueblo Nuevo. E poi l'unica possibilità di inseguire le derivazioni della faccenda, a partire dal centro radiale del vecchio patriarca, sussisteva durante le ore lavorative, perché i Daurella, criminali o innocenti, appena sentivano la sirena della fabbrica e lasciavano al suo posto tutto quello che dovevano trovare il giorno dopo, si disperdevano per il Mondo, all'interno di un territorio prudentemente vicino a Barcellona, ma abbastanza separati gli uni dagli altri, come per tessere un universo di punti cardinali di famiglia, ciascun figlio nel suo orizzonte e i genitori nel loro appartamento dell'Ensanche, calle del Bruch, il centro del Mondo. E così quando il vecchio Daurella parlava dei suoi Jordi, Esperança, Núria o Ausiás, dirigeva la testa a nord, a ovest, a est e a sud, perché Jordi abitava in una casetta a Sant Cugat, Esperança aveva una vecchia fattoria proprio nel punto in cui Espluga de Llobregat diventava una città dormitorio, Núria si era stabilita in un quartiere nuovo del Maresme e Ausiás, il minore e macrobiotico Ausiás, aveva più orto che casa nel Prat. Ma in realtà il vecchio non aveva motivo di spostare la testa verso quegli orizzonti, perché dopo le otto del mattino i Daurella lavoravano all'interno dell'immenso recinto della Toldos Daurella, S.p.A.

«La S.p.A. sono loro. Non creda che qui ci sia del capitale americano.»

Lo aveva avvertito il vecchio Daurella pensando all'onorario. Loro erano Jordi, Esperança, Núria e Ausiás, bruni o dorati, secondo la loro grassezza. E somiglianti al padre, con maggiore o minore dilatazione dei lineamenti, come se al momento del coito con la signora Mercè, Daurella avesse imposto la condizione sine qua non che i figli, tutti i figli, dovessero assomigliargli. E, forse predestinati cromosomicamente nell'amore, i ragazzi Daurella avevano cercato consorti che somigliassero loro, a parte Ausiás, il minore, el més mimat,3 che come diceva Daurella padre quando si riferiva a lui, fosse o non fosse presente, era riuscito a sposare un essere umano biondo, un'olandese che solo cinque anni prima avrebbe meritato il paginone centrale di «Playboy», e che adesso lavorava a tempo pieno per i parti e la macrobiotica, sembrava una bionda attraente e sfasciata che curava le relazioni con l'estero della Daurella S.p.A. perché parlava inglese come un'inglese - insisteva il vecchio Daurella - e il francese come il generale De Gaulle. Anche questa metafora era del patriarca. Anche i generi lavoravano nell'azienda. Il marito di Esperança, la maggiore, era il coordinatore dei commessi viaggiatori, e lui stesso viaggiava per tutta la Spagna per visitare i clienti. Il marito di Núria era direttore delle vendite, e la moglie del maggiore, Jordi, dirigeva l'ufficio situato in un capannone prefabbricato cui conferiva una nota di esotismo un manifesto delle Folies Bergères che annunciava la supervedette spagnola Norma Duval. Il signor e la signora Daurella lo avevano appena portato da Parigi, dove erano andati a festeggiare le nozze d'oro.

«Non mi ero preso delle vacanze dall'anno della nevicata.» Aveva detto il vecchio. Cioè dal 1962, aveva aggiunto, non perché avesse una memoria meteorologica, ma perché il 1962 era stata l'unica occasione, dopo l'ultima glaciazione, in cui Barcellona capitale si era trasformata in una stazione sciistica. Neanche un Daurella che non avesse niente da fare. Era questa l'impressione che Carvalho riceveva quando girava tra i magazzini e le banchine di scarico, recintati da un vecchio muro di pietra sormontato da cocci di vetro, qua e là una vegetazione sorprendente, acacie, una palma, oleandri, buganville tra capannoni fine secolo di mattoni rossi erosi dalle brezze marine che fanno di Pueblo Nuevo un quartiere umido e propizio alla vegetazione spontanea dei suoi cortili e dei suoi orti abbandonati. Il disordine visivo del commercio e della botanica, dei camion e dei caprifogli, che avevano trovato il loro ambiente favorevole dopo anni e anni di tentativi lontani dall'attenzione degli uomini, attraeva Carvalho come avrebbe potuto attrarlo un cimitero consegnato alle leggi dell'erosione e della vegetazione selvatica. Era un vecchio sogno carvalhiano, che all'improvviso la natura spezzasse l'asfalto e si adattasse a crescere dove poteva, correggendo la stupida volontà della materia prefabbricata, ma senza annullarla del tutto. Spire di pomodori che asfissiavano i semafori, felci che sorgevano come pennacchi dai tombini delle fogne, edere voraci che strisciavano sugli edifici di cristallo, con la falsa tenerezza delle loro foglioline intraprendenti. Ad Angkor o a Micene era stato necessario predire il destino delle rovine monumentali, restituire la pietra lavorata alla sua condizione di roccia, indifferente alla geometria degli uomini. O ad Ayutthaya, pochi chilometri a nord di Bangkok, un'escursione che Teresa Marsé avrebbe fatto, dove l'architettura religiosa buddista da altare valenziano raggiungeva splendore e meritava rispetto nella sua decadenza. Però preferiva le rovine contemporanee. I palazzi obsoleti di Montjuïc, costruiti in occasione dell'esposizione internazionale del 1929, o la stazione termale di Kalitea, abbandonata dalle acque calde e dai clienti sulla costa a nor-dest di Rodas, o la tonnara di Sancti Petri, vuota come un villaggio sommerso, vicino al mare, vicino a Chiclana, vicino all'oblio. E aveva qualcosa della rovina contemporanea anche la zona di Pueblo Nuevo, dove tre generazioni di Daurella avevano contribuito a far sì che gli spagnoli avessero ombra d'estate e, più recentemente, piscine smontabili di caucciù, di tutte le misure, da quella che consentiva cinque metri liberi di caute bracciate a quella progettata perché qualche beniamino di famiglia potesse bagnarsi il culetto. Nemmeno indispensabile il giardino. Bastava una terrazza.

«Adesso vendiamo più piscine che tende. Vede come vanno le cose. Prima no. Prima era il contrario.»

Prima di cosa? Carvalho non se lo chiese. Prima della nevicata, probabilmente, o prima dell'ammanco. Quando la parola ammanco usciva dalla bocca di Carvalho, il vecchio Daurella chiudeva gli occhi con l'atteggiamento di chi contiene una pena interiore.

«Mi stanno derubando. Ci stanno derubando.»

Erano state le prime parole di Daurella, seduto davanti al tavolo da lavoro di Carvalho. Sua moglie, la signora Mercè, aveva fatto personalmente un controllo contabile per mesi e mesi, fine settimana dopo fine settimana, nel villino che i vecchi avevano a Vallirana. C'era un immenso buco di sei milioni di pesetas.

«Mia moglie sa quello che dice. Non è una vecchia scema. Hi toca. Hi toca»4.

Aveva insistito il signor Daurella in catalano.

«E' stata una delle prime donne contabili uscite dall'accademia Cots. Prima della guerra, chiaro. Perché mio suocero era un uomo di ideali e ha voluto che Mercè studiasse come un uomo. Mio suocero era dell'Estat Català, molto della ceba5, molto.»

E il signor Daurella aveva incoraggiato sua moglie, fine settimana dopo fine settimana, perché rivedesse i conti dei ragazzi, e soprattutto di Jordi e della sua cognata olandese.

«L'ho fatto fare per tutti e due, per evitare un malinteso, sa? Un cattivo pensiero può averlo chiunque.»

Mancavano sei milioni nei conti di Mercè, e il signor Daurella aveva riunito la famiglia. C'era stato un rifiuto generale dei sospetti dei genitori, e tanto Jordi quanto l'olandese avevano reclamato una revisione dei conti da parte di un commercialista. Il commercialista non aveva fatto altro che ratificare il bilancio della signora Mercè, una delle prime contabili dell'accademia Cots della Ronda, e restare estasiato davanti alla perfezione dei calcoli della vecchia, all'utilizzo della matita rossa e blu, di marca Hispania, che la signora Mercè aveva conservato per anni.

«Credo di averla comprata ai magazzini Alemanes.»

I magazzini Alemanes non si chiamavano più così dal tempo della guerra, ma senza dubbio la matita era stata comprata ai magazzini Alemanes ed era servita a dimostrare che c'era un ammanco di sei milioni.

«Qualcuno della famiglia?».

Domandò e rispose Daurella alla domanda-risposta di Carvalho.

«Impossibile.»

Lo disse con le labbra ma non con gli occhi, e giorno dopo giorno andò informando Carvalho su vizi e virtù dei suoi figli carnali e acquisiti. Jordi non aveva vizi. Era come lui, però era amareggiato e non sapeva perché. L'olandese fumava come un carrettiere. Ausiás era poeta e macrobiotico.

«Il marito di Esperança, Pau, o meglio Pablo, come dite voi in castigliano, lui si spende tutto in pullover e scarpe. I pullover li compra a Londra e le scarpe a Roma. Gli altri sono persone normali. Gente del popolo, sì, ma lavoratori. Perché se non fossero lavoratori non durerebbero neanche cinque minuti in questa casa.»

 

Per venire a capo dei vizi e delle reali virtù dei Daurella Carvalho aveva impiegato tre settimane di lavoro regolare, come se, contagiato dallo spirito del vecchio, si fosse impegnato a lavorare per tutte le ore lavorative di ogni giorno. Jordi si intendeva con la cognata olandese: da parte sua esisteva un'attitudine passionale alimentata dalla fragilità della moglie, collezionista di anni e di oggetti di consumo. Ausiás lo ignorava o considerava inutile crearsi un problema alternativo a quello di sopravvivere senza troppi desideri in un mondo che a nord aveva come confine il magazzino dei suoi genitori e a sud l'orto in cui coltivava i prodotti basilari della sua alimentazione. Le ragazze Daurella erano lavoratici limpide e oneste e, quanto ai generi, il responsabile del magazzino era un essere opaco nella quotidianità e oscuro nei fine settimana, perché i giorni feriali li dedicava al lavoro e quelli festivi a guardare i filmini da sedici millimetri di una collezione da maniaco. L'altro genero, Pau, fu quello che diede meno da fare a Carvalho. La sua firma sulla carta VISA era conosciuta in tutti i locali di Barcellona, e i quattro portieri delle case da gioco si toglievano il cappello al suo ingresso biascicando ironicamente un sorpreso e divertito:

«Signor Pau, lei qui? Vediamo se ha fortuna.»

Per qualche mese aveva mantenuto una vedova in un appartamentino ammobiliato affittato nella Valle de Hebron e approfittava dei viaggi ispettivi delle delegazioni di tutta la Spagna per dirottare di tanto in tanto l'aereo e presenziare come le farfalle alle luminarie turistiche più riprese in tivù: Costa del Sol, Puerto de la Cruz, ed era arrivato fino a Casablanca, su un volo condiviso con la figlia del rappresentante delle Tende e Piscine Daurella S.p.A. di Siviglia. Carvalho sapeva tutto di Pablo, consorte di una Daurella, e sapere tutto significava che era lui che si era preso i sei milioni durante i sei anni in cui aveva condiviso la bruna carnagione dei Daurella, lui, figlio di un avvocato con studio sulla Diagonal, tre anni di Diritto, figura di spicco della goliardia tra il millenovecentosessantasette e il millenovecentosettanta, mulo da trasporto ad Algeciras finché suo padre non lo aveva tirato fuori utilizzando l'influenza di una sorella monaca, e poi il matrimonio con la ragazza Daurella, quattro anni più vecchia di lui, e con i capezzoli troppo scuri per i suoi gusti, come aveva raccontato in una casa di piacere in cui faceva da maîtresse la Andaluza, vecchia amica di Charo e di Pepe.

«Perché un uomo che racconta come li ha sua moglie mentre è a letto con un'altra, non è né uomo né niente.»

Aveva sentenziato la Andaluza. Carvalho lasciò la cartelletta sulla scrivania e fece finta di non vedere che il vecchio aveva strizzato gli occhi e non glieli toglieva di dosso, come fossero punte di trapano pronte a trapassarlo. Sedette dall'altra parte della scrivania, lasciò passare qualche secondo, rilassò i muscoli e le ossa abbandonandosi nella poltrona.

«E allora?»

«Trovato.»

«Chi è?»

A quale scuola interpretativa apparteneva il vecchio Daurella? Non c'è essere umano che non ricorra a un modello interpretativo dominante, soprattutto quando è costretto a vivere situazioni anomale, che fino ad allora ha visto solo a teatro, al cinema, alla televisione o forse ha letto nei romanzi. Data l'età, il vecchio Daurella poteva scegliere tra il modello di Lee J. Cobb, padre violento davanti al tradimento dei figli, quello di John Gielgud, padre sempre più intelligente dei figli, o quello di Frederich March, padre frustrante e frustrato in Morte di un commesso viaggiatore. Ma, come se la storia del cinema e la televisione fossero passate invano, Daurella fece ricorso al dramma sociale catalano del primo dopoguerra e si portò le mani al viso come per cancellarsi i lineamenti, mormorando Déu meu. Déu meu6 e sperdeva lo sguardo nell'infinito per riportarlo di tanto in tanto su Carvalho e verificare l'effetto che produceva la sua disperazione.

«E' stato Jordi?»

«No.»

Sospiro di sollievo perché non era stato l'hereu7.

«Uno dei miei figli?»

«No.»

Sulla faccia di Daurella comparve una soddisfazione razziale. Dunque era stato qualcuno estraneo al suo sangue.

«Pau?»

«Pau.»

«Il cuore me lo aveva detto.»

E come gli antichi rapsodi che levavano le mani in aria quando nominavano il cielo, Daurella si portò la mano al cuore. Carvalho aveva redatto un rapporto sui movimenti di Pablo, dal quale aveva omesso solamente lo sprezzante commento sul colore dei capezzoli della moglie, e indicò al vecchio la cartelletta, perché la aprisse. Forse il tremito era spontaneo, ma la volontà di renderlo più evidente fece sì che Daurella lo facesse cominciare dai gomiti, in senso discendente, mentre la cosa più logica, pensò Carvalho, è far sembrare che il tremito scenda dalle mani ai gomiti. Fece lui stesso il gesto di tremare e dubitò di quel che aveva pensato, anche se cercava di farlo di nascosto, perché Daurella non pensasse che lo stava prendendo in giro.

«Poca-vergonya!»8.

Esclamò il vecchio a metà della lettura. Doveva essere arrivato all'episodio del viaggio a Casablanca.

«Con la figlia di un rappresentante. Mettere in pericolo una piazza importante come Siviglia. Ma lo sa quante piscine dodecagonali abbiamo venduto quest'estate nella zona di Siviglia?»

«Non ne ho la minima idea.»

«Cinquanta. E pensi che non hanno acqua.»

Incredibile. Incredibile, diceva di tanto in tanto Daurella, e quando arrivò alla fine del rapporto batté le palme delle mani aperte sulla scrivania.

«Bisogna tagliare finché si è in tempo. La mela marcia può guastare tutto il canestro. Lei cosa farebbe al mio posto? Stando a quello che lei dice, i soldi li ha fatti sparire falsificando le spese di assistenza alle delegazioni. Quindi, se la cosa diventasse di dominio pubblico, lo verrebbero a sapere tutte le delegazioni, e il prestigio della Tende e Piscine Daurella S.p.A. finirebbe in malora, per dirla volgarmente.»

Non tanto volgarmente, pensò Carvalho. Avrebbe potuto dire in merda, in culo, a puttane, e invece aveva optato per un discreto «in malora», che non raggiungeva l'asepsi di «a quel paese», ma ci si avvicinava abbastanza.

«Bisogna tagliare finché si è in tempo. Il mio Jordi non c'è, perché è andato in Francia per trattare con i costruttori, ma arriva stasera. E domani mattina stessa facciamo una riunione e gli sbattiamo tutto in faccia. Conto su di lei.»

«Il mio lavoro è finito.»

«Ma io la prego di assistere alla riunione di domani, in cui ho intenzione di mettere le carte in tavola. Mi spiace per Esperança, che è una brava ragazza e più tenera di un fico, e mi spiace per i miei nipoti, ma questo mascalzone ha bisogno di una strapazzata. Mascalzone! Peggio che mascalzone! Io che l'ho tolto dalla strada, senz'arte né parte, e ho fatto di lui un lavoratore, che si guadagnava da vivere bene, con una moglie giovane e bella, che bisogno aveva di andarsene in giro a fare il puttaniere?»

Tante domande, tante risposte. A Carvalho costava fatica alzarsi in piedi, chiedere i soldi, congedarsi da Daurella o annunciare che sì, il giorno seguente avrebbe assistito all'ultimo atto della tragicommedia, e gli costava perché la regola consuetudinaria del lavoro si era impadronita di lui e sapeva che avrebbe sentito la mancanza delle conversazioni con il vecchio, di buon mattino, del deambulare tra quel disordine di capannoni e spazi a disposizione della natura eroica, di quella bellezza da stazione abbandonata che i più vecchi magazzini di Pueblo Nuevo conservavano. E nel domandarsi il perché di quella presagita nostalgia, la memoria gli fornì una serie di immagini spezzate, disfacimenti simili, simili rovine, intraviste in fotografie ingiallite della sua infanzia. Non era stato in un giorno di festa in un magazzino della Letona dove un lontano parente lavorava come guardiano notturno? O un vecchio cantiere di Badalona dove il cugino Nicolás di Cartagena era carpentiere? O un deposito di ferraglie vicino al ponte di Marina? Spinse i frammenti di fotografia nel pozzo dell'oblio e si alzò, deciso a rompere l'incantesimo.

«Verrò domani. A ritirare l'onorario e a presenziare al giudizio finale.»

«Domani vedrà come vanno fatte le cose. Mi consiglierò con Mercè e ci dormirò sopra, ma guardi, guardi come mi ribolle il sangue.»

 

E gli tese gli avambracci venosi, bianchi, lentigginosi, che gli uscivano dalla camicia rimboccata, non londinese, non italiana, una camicia comprata dalla signora Mercè ai saldi del Corte Inglés9.

«Il delitto della bottiglia di champagne», titolava «El Periódico», e Carvalho saltò di riga in riga alla ricerca della marca della bottiglia usata per l'assassinio. Nessuna traccia. Non è lo stesso che si ammazzi qualcuno con un Codorniu Gran Cremant o con un Brut Nature Torelló, con un Juvé y Camps Reserva Familiar o con un Marti Solé Nature. Poteva anche darsi che il titolo fosse davvero preciso e l'omicidio fosse stato commesso con una bottiglia di champagne francese, ma anche se si fosse prodotta tale circostanza, sono la stessa cosa un assassinio a base di Moêt-Chandon e un assassinio perpetrato con un Krug o un Bollinger? La vittima aveva avuto una lunga agonia tra il momento dell'aggressione e la scoperta del cadavere a opera della domestica alle nove del mattino. La polizia non aveva voluto precisare l'ora dell'omicidio e il giornalista si dilungava in considerazioni sugli alibi dei compagni di festa dell'assassinata, Celia Mataix Cervera. La testimone fermata, Marta Miguel, era stata rilasciata dopo una notte di permanenza al commissariato. Era l'ultima persona che aveva visto Celia Mataix con la testa sana. Carvalho si disse che era impossibile precisare l'ora esatta del trauma in un caso di agonia prolungata e che un margine di mezz'ora era sufficiente per costituire un buon o un cattivo alibi. La foto della morta permetteva di apprezzare una bellezza bionda e romantica, di lusso, con una nota adolescenziale, sebbene la carta d'identità battesse l'ora dei quarant'anni. Quando mise da parte il giornale, l'immagine di Celia rimase negli occhi di Carvalho e la fantasia di un possibile incontro nel passato lo accompagnò mentre risaliva le Ramblas. Era una donna cui senza dubbio erano stati bene i maglioni un po' morbidi e le gonne scampanate per creare la musica del movimento di un corpo elastico, e i capelli sciolti sul petto e il gesto di scostarli con il volo di una mano piccola e molto articolata, cioè una mano con le varie parti molto ben delimitate, mani sensibili dicevano i romanzieri di una volta per risparmiarsi di descriverle. Se la si fosse incontrata al bar Boadas, per esempio, mentre beveva un cocktail da sola, la conversazione sarebbe nata con qualsiasi pretesto, e poi le Ramblas, le confidenze prima ironiche, poi serie, gli ammiccamenti con gli occhi e le parole, le aggressività precedenti la nudità del sesso. Ragazza di una notte o di tutta una vita, ma inutile stabilire una relazione breve approfittando dell'impulso della prima notte, inutile e nefasto perché avrebbe cancellato il sospetto di quel che avrebbe potuto essere e non era stato. Ragazza adatta anche per addii nelle stazioni e nei porti, mai negli aeroporti. Negli aeroporti dovrebbe essere vietato dirsi addio, è come dirsi addio in una farmacia moderna, nel reparto detersivi di un supermercato illuminato al neon. Forse avrebbero potuto sposarsi e vivere in uno chalet sulla spiaggia, una spiaggia lunga, se possibile californiana, astenersi dall'offerta di succedanei, esigete il tagliando di garanzia. Invecchiare con lei? Una frustata di ridicolo spezzò l'immagine costruita con il cristallo delle favole e, tra intimi rumori di vetri infranti, Carvalho deviò bruscamente a sinistra in direzione del mercato della Boquería. Non aveva chiaro il menu, ma quella sì, era una sera per cucinare e per fare a qualcuno la sorpresa di un invito. Forse a Charo, se si comportava bene e non gli rinfacciava la poca attenzione che le aveva riservato ultimamente. Comprò tre fette di salmone affumicato nella salumeria all'angolo del corridoio superiore di accesso al mercato e in una macelleria si fece tagliare delle fette regolari di carne di maiale magra e tante fette di prosciutto crudo quanti erano i pezzi di carne. Una spesa tanto parca non colmava il vuoto che gli aveva lasciato nel cuore l'evidenza del fatto che Celia Mataix e lui non sarebbero invecchiati insieme e decise di comprare delle scarpe oppure un prosciutto. Troppo tardi per le scarpe, mentre invece avrebbe fatto ancora in tempo a comprare un prosciutto ben scelto nella drogheria di Pérez della calle del Hospital, prosciutto di confine tra la Huelva e l'Estremadura che il padrone della drogheria sapeva scegliere a vista. Di ritorno, prosciutto sottobraccio, avrebbe osservato la fine dei lavori di plaza del Padró, la miracolosa restituzione della piazza alla geometria della sua infanzia. Mutilata per lasciare il passo alla barbarie automobilistica, d'improvviso gli angeli giustizieri della democrazia si erano impietositi per la profonda malinconia di Carvalho e avevano sottratto spazio ai viali, erano tornati ad appoggiare la piazza alla base della cappella romanica e delle vecchie bicocche che uniscono la calle del Hospital a quella del Carmen, avevano creato la promessa dell'alberato nascente dalle fosse terrose, rotonde come le cialde dei mantecati ludici degli anni Quaranta. Prima il prosciutto e poi la morale, si disse Carvalho, e attaccò bottone con il gestore sui miti e i fatti della geografia prosciuttesca di Spagna.

«Nel mondo non ci sono abbastanza ghiande per tutto il maiale cresciuto a ghiande che si pretende di vendere. Però nella Huelva c'è una miniera di prosciutto buono, e non solo i jabugos, ma anche i corteganas e i Cumbres Mayores. Ci sono zone dove si trova del buon prosciutto anonimo, come si trova ancora nei dintorni di Ronda.»

«Uno di questi sabati vado dalle parti di un paese che sta tra Marbella e Ronda dove mi hanno assicurato che c'è un prosciutto eccellente.»

Il droghiere guardò Carvalho con diffidenza. «Sono capacissimo di farlo. Il paese si chiama Montejaque.»

«Poi mi dirà come le è sembrato, perché se le piace ci vado anch'io a dare un'occhiata.»

Il droghiere scelse un prosciuttino con una patina promettente e ci piantò il succhiello per poi darlo da annusare a Carvalho. Doveva essere di osso di prosciutto quel succhiello per prosciutti nobili, creati per l'uomo e non per divoratori di proteine da qualsiasi parte provengano. Con queste considerazioni filosofiche e il prosciutto sottobraccio, Carvalho attraversò la calle del Hospital, percorse il marciapiede destro, si fermò come sempre davanti al negozio di ortopedica e alla coltelleria, magiche istituzioni, e uscì nello splendore ritrovato della plaza del Padró, agorà del quartiere, con la Semana Trágica dinnanzi nell'incendio del convento delle suore di san Geronimo, sostituito dall'attuale chiesa modernista del Carmen e da una cappella romanica mascherata per secoli da spaccio e sartoria, i lombi addossati all'antico ospedale di San Lázaro, poi lavatoio pubblico per compensare tutta la lebbra imputridita fra le sue mura. La plaza del Padró sapeva d'infanzia e di autunno, intrepide le sue aiuole appena scavate, vecchia la fontana trasferita a prua, con i suoi faccioni di pietra tarlata dall'umidità e dagli sguardi impressionati dei bambini, colti di sorpresa davanti al mistero delle teste di pietra da cui sgorgava l'acqua e, più sopra, una santa Eulalia franchista, rimessa sul trono sotto il franchismo come atto riparatorio alla deposizione perpetrata dagli anarchici durante la guerra civile. Carvalho aveva il petto pieno di gratitudine e si sentiva solidale con la popolazione della piazza. Ogni metro che veniva ricuperato da un marciapiede, da una piazza, era immediatamente occupato da bambini, vecchi e cani, le tre migliori specie di animali domestici che esistano, perché Carvalho aveva sempre considerato i gatti randagi come visitatori di passaggio e i canarini come prigionieri della pericolosa pietà degli uomini. Non era l'ora migliore per chiamare Charo, che cominciava a ricevere i clienti con cui aveva preso appuntamento per telefono, anche se era indispensabile comunicarle che sentiva il bisogno di telefonarle e ricostituire la catena invisibile che li legava.

«Sei molto occupata?»

«Occupata? E a far cosa? Li hai visti i giornali? C'è un fiorire di puttanaggine da far finire la disoccupazione. Che cosa ti ha morso che mi hai telefonato?»

«Cucino qualcosa, e se ti attira ti aspetto a Vallvidrera.»

«Non sono dell'umore.»

«Non c'è niente di meglio che attaccare il malumore agli altri.»

«Questo è vero. Allora vengo. Sei uguale all'ultima volta che ti ho visto?»

«Perché me lo chiedi?»

«Perché non mi ricordo quando è stato.»

«Dieci giorni fa.»

«Undici.»

La conversazione era prevedibile, tanto prevedibile che Carvalho girò al largo dalla cabina e d'improvviso sentì una nuova vergogna, quella di portare un prosciutto, un osceno prosciutto aromatizzato dalle ghiande, risultato di un atavico artigianato della conservazione nell'era degli scamponi surgelati e degli hamburger di polistirolo, e quando voltò lo sguardo per portarsi via una veduta d'insieme della nuova vecchia plaza del Padró, provò una collera profonda, perché gliel'avevano restituita tardi.

 

Fermò la macchina davanti alla casa Fuster, il commercialista. Pigiò il campanello e Fuster apparve dopo pochi secondi sulla terrazza, accentuando la sua aria fratesca con la vestaglia.

«Spaghetti alla Annalisa e saltimbocca alla romana.»

Gridò Carvalho dalla strada.

«Ti ricordi dell'elettorato solo quando ci sono le elezioni. Sembri un politico. Vino?»

«Un Chianti. Riserva 76.»

Fuster ci pensò su, poi ribatté.

«Mi devi ancora la seconda rata della dichiarazione dei redditi. Non considero la cena sostitutiva del pagamento. Accendi il caminetto?»

«Già fatto.»

«E brucerai un libro?»

«Naturalmente.»

«Festival Carvalho completo. Allora vengo. Ti do un'ora per cominciare a cucinare. Ti omaggerò di un barattolo di tartufi di Villores al cognac e uno di lonza di maiale in salsa, flan e qualche alpargata.»

«Tutto di Villores?»

«Assolutamente tutto. Certo che non può mica essere di Tripoli. Vediamo se sarai all'altezza dei miei regali.»

Carvalho non perse nemmeno tempo a vuotare la cassetta della posta. Tutta la corrispondenza consisteva in pubblicità di cose che non avrebbe mai comprato ed estratti conto della banca e della Cassa di Risparmio che lo avrebbero messo di malumore, perché aveva sempre meno soldi di quello che si aspettava. La prospettiva di una vecchiaia senza il denaro sufficiente, ad esempio, perché qualcuno gli pulisse il culo, se ne avesse avuto bisogno, lo indignava, perché lo indignava avere paura, soprattutto di se stesso. Dalla dispensa portò su in cucina un'attraente scatola di cartone da cui tolse un elettrodomestico ambiguo, che avrebbe potuto essere allo stesso modo un tritacarne o un distillatore portatile di ambrosia. Ma in realtà era una macchina per fare la pasta all'italiana, con il semplice procedimento di infilarci farina e acqua oppure uova attraverso un imbuto di plastica trasparente, metterci un filtro a seconda del tipo di pasta desiderato e aspettare che ne uscissero le tenere creature, e al momento in cui raggiungevano la lunghezza desiderata, usare un coltello ben affilato per tagliarle e dar loro la bellezza della regolarità. Eccedere in acqua o uova avrebbe potuto significare la catastrofe e Carvalho verificò la precisione del misurino come se in quell'atto risiedesse la salvezza di un popolo eletto. La macchina cominciò a girare e a lamentarsi e, quando l'impasto fu perfettamente amalgamato, Carvalho sollevò la saracinesca della chiusa e il ghiacciaio di pasta attraversò il corridoio d'uscita spinto da un embolo a spirale che lo mise di fronte all'evidenza del filtro, alla fatalità della forma, senza rispettare la sua volontà di essere tagliatelle, spaghetti, lasagne, spaghettini o maccheroni. Carvalho lo aspettava con il coltello puntato e quando i teneri vermicelli raggiunsero la statura di quaranta centimetri li affettò ed essi caddero agonizzanti in una conca di duralex dove ancora si concedevano qualche contorcimento prima di acquisire il rigor mortis che sogliono avere tutti gli spaghetti freschi o cotti, in attesa del successivo genocidio perpetrato da Carvalho contro la cascata di tenaci vermicelli che tornava a uscire dal filtro prodigioso. Il coltello in una mano e l'altra che tastava il monte di spaghetti che s'andava formando, Carvalho sperimentava un'emozione che supponeva simile a quella di Dio quando aveva fatto evolvere la tràcina e l'aveva trasformata nel primate da cui sarebbe uscito l'uomo. Farina e acqua e il prodigio di una mutazione sottovalutata dalla banalità che l'uso aveva conferito alla parola spaghetti, ma se questi filamenti meravigliosi di magico tessuto avessero un nome tedesco, greco o latino, le tre lingue non banalizzagli, sarebbero apprezzati come meriterebbero e disporrebbero di un posto d'onore in qualsiasi Museo dell'Uomo. Coprì la pasta con un panno e uscì nel giardino in cerca delle foglie di salvia fresca, indispensabile per i saltimbocca, e del basilico che coltivava in un vaso per i piatti di pasta. Il ramo di basilico si stava seccando, compiuto il suo ciclo vitale, e Carvalho se ne congedò fino alla primavera ventura. Intanto avrebbe utilizzato il basilico seccato al sole e triturato. Cominciò col preparare i saltimbocca. Fetta di carne, foglia di salvia, fetta di prosciutto e uno stuzzicadenti per unire i tre elementi e così fino a quindici corpicini steccati che si dovevano friggere pochi istanti prima di sedersi a tavola. Nemmeno la preparazione degli spaghetti era laboriosa. Tritò la cipolla, la rese traslucida facendola appassire nel burro, tolse la padella dal fuoco e ne versò il contenuto in un recipiente. A parte sbatté della panna liquida molto fredda fino a renderla più densa e la aggiunse lentamente al burro e alla cipolla. Poi tritò il salmone in pezzi abbastanza grandi perché la lingua ne potesse distinguere il tessuto e li mescolò alla salsa, cui alla fine aggiunse il basilico tritato. Era già tutto pronto in attesa di Fuster, che arrivò carico dei suoi regali e indicò imperioso il caminetto spento, annusò il vino e apparecchiò mentre Carvalho cercava nella libreria il libro che sarebbe servito da combustibile base per la focata. Scelse un libro di versi di Justo Jorge Padrón e un piccolo opuscolo con due opere teatrali di Beckett, L'ultimo nastro di Krapp e Atto senza parole. Fuster esaminò i libri prima che Carvalho li sfasciasse e bruciasse.

«Perché?»

«Prima di tutto perché sono libri e poi perché sì.»

«Li hai letti?»

«Anni fa. Quando leggevo.»

«Chi è Justo Jorge Padrón?»

«Un poeta ispano-svedese che divenne famoso traducendo Vincente Alexandre nella lingua delle Canarie.»

«E l'altro perché lo bruci?»

«Non sono nato per fare il critico letterario. Diciamo che lo brucio perché a suo tempo mi è piaciuto e man mano che divento vecchio mi fa paura l'idea di sentire un giorno o l'altro la tentazione di rileggerlo.»

Fuster sceglie un paragrafo de L'ultimo nastro di Krapp e legge con comica magniloquenza:

 

«Forse i miei anni migliori sono finiti. Quando la felicità era ancora possibile. Ma non li rivorrei indietro. Non col fuoco che sento in me ora. No, non li rivorrei indietro. (Krapp immobile guarda fisso davanti a sé. Il nastro continua a girare in silenzio»10.

 

Consegnò il libro a Carvalho come il doganiere diffidente che rende il passaporto a un turista sospetto. Carvalho ammucchiò la legna e lasciò alla base un vuoto in cui introdurre le pagine dei libri distrutti. Diede fuoco alla carta e la vampata salì come un crescendo di luce e di suono che li ipnotizzò per qualche secondo, finché Carvalho se ne andò in cucina e Fuster si mise a preparare la tavola.

Carvalho buttò gli spaghetti nell'acqua bollente e salata, e mentre cuocevano cominciò a friggere i saltimbocca. Accese il forno perché a suo tempo conservasse la temperatura della carne e saggiò uno spaghetto. I denti lo tagliarono senza schiacciarlo e il palato considerò il tessuto della farina nel momento in cui le rubava l'aroma del cereale. Erano pronti. Scolò l'acqua bollente e aggiunse alla salsa due rossi d'uovo che sbatté insieme a tutto il resto. Versò la salsa sugli spaghetti fumanti e con un cucchiaio e una forchetta fece salire e scendere i filamenti come una capigliatura untuosa che si andava impregnando dell'anima eburnea della salsa. Fuster aprì le bottiglie di vino, chiuse gli occhi perché le narici avessero una maggiore possibilità di aspirare l'aroma del piatto.

«Porca miseria!»

Fuster si lanciò a cantare la romanza da Così fan tutte.

«Metti un disco che s'intoni al menu.»

Carvalho scelse Veles e vents, un poema di Ausiàs March musicato da Raimon.

«Azzeccatissimo. La simbologia del mare e dei venti, il rischio del destino, non c'è niente di appropriato come questi spaghetti alla... Come hai detto che si chiamano?»

«Alla Annalisa. E' una denominazione molto più determinante che: alla brava moglie, per esempio.»

«Non ho mai mangiato un piatto alla cattiva moglie

«Le cattive mogli non cucinano.»

Fuster assaporava gli spaghetti e concentrava pensiero e palato nella ricerca della definizione più adatta.

«Nordici e mediterranei.»

Disse infine e dato che non meritò la risposta di Carvalho decise di gettarsi sui saltimbocca prima che si freddassero.

«Ha un tocco di limone poco ortodosso.»

«Nel fondo lasciato dalla frittura butto il succo di mezzo limone e poi verso questa leggera salsa bollente sulla carne.»

«Meraviglioso, arguto, sintetico. Un piatto mediterraneo e geniale.»

«Alla puttanesca, lo chiamano a Roma.»

«Perché?»

«Perché lo si fa in fretta.»

«E dell'origine degli spaghetti all'Annalisa che cosa puoi dirmi?»

Carvalho terminò la sua terza porzione di saltimbocca, bevve mezzo bicchiere di vino corposo, chiarificato nel suo aroma finale, schioccò la lingua e lanciò su Fuster uno sguardo da incantatore di serpenti.

 

«Sull'origine di questo piatto non posso dirti niente. Però porta il nome di spaghetti Annalisa e immagino che la stessa duplicità del nome traduca la duplicità di un piatto in cui l'elementarità della cucina del sud si mescola con l'invasione vichinga di salmoni affumicati e crema di latte.»

«I vichinghi erano arrivati fino alle coste italiane.»

«Ancora non ci erano arrivati gli spaghetti.»

«Ci sono arrivati prima i vichinghi degli spaghetti?»

«Senza dubbio.»

«E prima dei vichinghi erano arrivati i salmoni. La memoria dei salmoni indica che sono pesci anteriori all'esistenza umana e che risalgono i fiumi in cerca del luogo d'origine. In ogni caso quell'Annalisa ha fatto una sintesi nord-sud e ci ha lasciato un enigma storico: chi ci è arrivato per primo, il vichingo o il salmone affumicato? D'altra parte ci sono apporti italiani come il basilico e un segno nordico come la crema di latte, i piatti con la crema di latte sono di paesi piovosi e quindi con pascoli e quindi con molte vacche e quindi con la possibilità di fare molte cose con il latte, invece di berselo in modo primario, come abbiamo sempre fatto noi, spagnoli di merda, sempre a secco, sempre con sete e pochi pascoli e con poche vacche e con poco latte.»

«Da quando è morto Franco si trova più crema di latte nei supermercati.»

«Lo avevo notato.»

«Che cos'aveva Franco contro la crema di latte?»

«Non lo so. Il Caudillo era molto riservato. Ma non c'è dubbio che da quando è morto qui si è riempito di socialisti e di crema di latte.»

«Dov'erano prima i socialisti e la crema di latte?»

«Bisognerebbe controllare.»

«La verità è che non me ne importa un cavolo.»

Fuster era contento perché, disse, si tratta di una cena leggera e non di quegli scandali dietetici che ti salta in testa di preparare alle tre di mattina. Scandalo dietetico o no, tu ci vieni lo stesso. La carne è debole, ammise Fuster prima di buttarsi sulla seconda bottiglia di Chianti. I quindici saltimbocca scomparirono a poco a poco nelle pause di una conversazione che Fuster portava verso il terreno della musica e Carvalho verso quello del nulla. La sfida di Fuster: sorprendimi con un dessert adeguato, fece sorridere Carvalho il quale andò a prendere un Gorgonzola che smontò la penultima resistenza del commercialista e, mentre Fuster esponeva la sua empirica sapienza sul punto esatto di maturazione del Gorgonzola in rapporto a quello del Roquefort o del Cabrales, Carvalho viaggiava attraverso uno spazio pieno d'immagini spezzate di prosciutto, plaza del Padró, un'acacia della Tende e Piscine Daurella S.p.A., una bottiglia di champagne che si rompeva contro una testa, Charo che passeggiava impaziente in attesa della sua telefonata, Biscuter nel suo cucinino, i serpenti affumicati appesi alle bancarelle del mercato di Bangkok e quell'aroma di prezzemolo riccio che inondava la città, dal prezzemolo al basilico e dal basilico a quella situazione irrazionale che si svolgeva davanti a lui, una cena di comunicazione in cui ognuno dei due pazzi aveva portato il proprio tema e la profonda solidarietà era condizionata da un incontro separato nella comunione dei sapori.

«Si avvicinano le elezioni.»

Disse Fuster senza che Carvalho potesse rendersi conto di dove venisse quel frammento di monologo.

«E' curioso. La democrazia si riduce a votare e pagare tasse. La democrazia avanzata. Voti per scegliere una politica e paghi per garantire l'ordine o il disordine sociale, secondo i gusti. Non dimenticarti di mandarmi l'assegno con la seconda rata.»

«Pagare le tasse mi toglie quel po' di buonumore che mi resta. Pago per non avere poi sorprese. Ormai ti riescono a sorprendere solo i ristoranti nuovi e la gente che sta davanti ai ristoranti nuovi. Uno dei miei avvocati, Victor Sen, ha messo su un ristorante che si chiama Sukursaal e adesso ci sta sperimentando la cucina di Lione.»

«Prima i ristoranti li aprivano i cuochi e adesso li aprono i clienti. Non c'è un solo ristorante nuovo che non sia uscito dal sogno di un cliente, da quello che il cliente voleva mangiare.»

«Al Sukursaal fanno un carpaccio stupendo.»

«Il carpaccio dipende dal tipo di manzo e dal taglio.»

«E' la verità stessa che parla per bocca tua.»

«E non c'è manzo migliore di quello di Villores. Se vuoi ordino un manzo intero e te ne do un quarto, così te lo dividi come vuoi.»

«Faresti questo per me?»

Fuster minimizzò la sua generosità.

«Hai un posto dove mettere un quarto di bue?»

«Comprerò un congelatore.»

«Sai dove metterlo?»

«Mi compro una casa nuova.»

«Tutto si tiene.» Convenne filosoficamente Fuster e accettò l'acquavite del Bierzo gelata che Carvalho gli offrì.

«Un giorno o l'altro devi perderti nel Bierzo, Enric. E' una regione magica che a volte scompare senza che nessuno se ne accorga.»

Suonò il campanello del portone. Carvalho si affacciò alla finestra e la vide là, di sotto, piccola, fragile, illuminata appena dal lampione della strada, che guardava in su perché l'apparizione di Carvalho le confermasse la certezza delle luci accese. Carvalho premette il pulsante dell'apertura automatica e lei salì le scale di corsa come se avesse fretta. Carvalho tornò al tavolo e si lasciò cadere sulla sedia.

«Chi era?»

«Charo.»

«Che animali. Non le abbiamo lasciato niente.»

«Non è venuta per cenare.»

«Adesso me ne vado. Ho del lavoro arretrato.»

«Tranquillo. E' meglio che rimani.»

Charo irruppe nella sala da pranzo come un fiume tumultuoso ma si trattenne davanti alla compagnia di Carvalho e riuscì persino a dedicare a Fuster un sorriso sostituito dalla rabbia disperata con cui caricò Carvalho.

«Sei a corto di soldi?»

Le tremava il mento, il sorriso le sfuggiva dai fori tristi degli occhi.

«No. Perché?»

«Mia madre diceva che dove si mangia in due si mangia in tre.»

«E' stata un'idea improvvisa. E ho pensato che dovessi lavorare.»

«Le altre volte non lo avevi pensato.»

Carvalho le offrì quel che restava del Gorgonzola.

«Conservalo per farti un panino domani.»

E Charo partì in direzione del bagno, ma scoppiò in singhiozzi a metà strada e li coprì solo lo sbattere della porta che si chiudeva dietro di lei. Carvalho guardò Fuster e inarcò le sopracciglia. Fuster bevve il vino che restava nel bicchiere e fece il gesto di alzarsi.

«Se non te ne vai tiro fuori un porto di dodici anni, autentico.»

«Pepe, queste cose non si fanno a un buon vicino.»

«Se hai pazienza, la tempesta si sfogherà e poi ci berremo il porto tutti e tre.»

Carvalho portò la bottiglia di Fonseca dodici anni e Fuster la contemplò rapito.

«Il mondo deve agli inglesi l'amore per i cani, per il brandy, per il porto e per i rododendri.»

Fuster esaminò il colore del vino mettendo il bicchiere in controluce e con la coda dell'occhio vide Charo che si avvicinava, piano, come cercando di guadagnare tempo per ricomporsi dopo il pianto.

«Vieni, Charo, guarda che meraviglia di colore.»

Faccia di pianto, sorriso messo insieme sul fondotinta di tristezza.

«Passassero anche cent'anni e una sera tornassi a Vallvidrera, vi troverei qui a guardare il colore di un vino o a parlare di qualche piatto strano. E può anche arrivare la fine del mondo, se solo aveste una ricetta nuova, vi beccherei a cucinare.»

«Bebamus mea Lesbia atque amemus. Adesso bevi, Charo, e al dolore pugnalate, come dicono i classici.»

«Questo lo diceva mia madre, non i classici. Diceva: 'Al dolore coltellate.'»

«Tua madre era un classico.»

«Ma vai, va'...»

Carvalho osservava l'andare e venire della conversazione, svogliata in Charo, piena di buona volontà in Fuster. Riempì un bicchiere di porto e lo offrì a Charo. Lei lo prese senza guardarlo e lo assaggiò. Sembrava più magra di undici giorni prima, più alto il suo collo da ragazzina, più profonde le rughe intorno agli occhi, più trasparente la pelle delle tempie, delle palpebre, una pellicola umida sugli occhi arrossati, timidezza nei gesti da animale vinto da calamità interiori. Lo irritò il senso di pietà che gli cresceva dentro e si alzò da tavola per buttarsi sul divano e di lì contemplare il fuoco nel camino e il dialogo tra Fuster e Charo. Finse di non cogliere le occhiatacce che la donna gli rivolgeva di tanto in tanto, si appisolò e lo svegliò Fuster per salutarlo, senza dargli il tempo di alzarsi e accompagnarlo alla porta. Aveva voglia di andarsene e Carvalho si arrese all'irrimediabile. Rimase seduto, sentì il rumore della porta che si chiudeva alle spalle di Fuster e si preparò alla scenata. Charo, seduta, con il bicchiere tra le mani, fintamente concentrata alla ricerca della frase d'esordio, e lui rannicchiato, pronto a restituire colpo su colpo, dente per dente.

«Lui lo usi per cenare in compagnia, e me? Non ti faccio il bucato. Non ti pulisco la casa. E tantomeno mi occupo dei tuoi figli. Puoi passare delle settimane senza scopare con me. Per che cosa mi usi? O magari credi che grazie a te non sia più puttana di quella che sono, una di quelle smandrappate con il pappone e le pezze al culo. E' per questo che ti servo? Per la tua buona azione quotidiana?»

Non si meritava né una risposta rabbiosa né il disprezzo del mutismo. Carvalho scelse di lasciarsi cadere contro la spalliera del divano, contraccambiare l'angoscia di Charo con la gravità del cipiglio.

«Sono stanca.»

Disse Charo, e si mise a piangere. Anch'io, pensò Carvalho, ma non pianse. Allora ricordò la commozione emotiva del vecchio Daurella. A ognuno la sua scuola d'arte drammatica. Charo non resistette oltre e gli si avvicinò, sedette al suo fianco, cercò l'abbraccio, volle stringersi al suo petto come fosse una tana e fuori stesse piovendo. Mi dai la tua angoscia e me la prendo. Sono la tua banca dell'angoscia, della paura. Le accarezzò i capelli e la lasciò piangere.

 

Fermò la macchina vicino a un'edicola. I giornali del mattino parlavano dell'imminente visita del Papa e delle elezioni anticipate, nell'impossibilità, a quanto pareva, di anticipare un papa e visitare le elezioni. Woytila Superman sarebbe stato il primo capo supremo della cristianità ad andare in Spagna, senza contare il Papa Luna, papa tarocco, e gli apostoli Giacomo e Paolo, importanti, sì, ma senza una precisa gerarchia. Dopo la digressione suggerita dalla prima pagina, Carvalho andò a cercare il caso della bottiglia di champagne e lesse tutto l'articolo da cima a fondo prima di rimettere in moto la macchina e andare all'appuntamento con i Daurella. Notizie poche, come se il caso fosse già consumato e la notizia di una bambina dispersa a Ulldecona fosse più importante della storia della bella bionda spezzata. Però, in cambio, c'era una fotografia della vittima molto più bella di quella del giorno prima e Carvalho esaminò tratto dopo tratto quella delicata combinazione di fattezze soavi, romantiche, dotate di quel languore erotico e ingenuo posseduto dalle bionde migliori. La polizia aveva interrogato il suo ex marito. Veniva insinuata anche la possibilità di un regolamento di conti, dato che la bionda aveva in casa un vero arsenale di anfetamine. Carvalho fermò la macchina in una rientranza del marciapiede per annotare il nome di quattro protagonisti della tragedia: Pepón Dalmases, il compagno abituale, conosciuto nel mondo della musica come uno degli uomini legati alla nascita della Nova Cançó11 ; Alfonso Alfarrás, il marito, architetto senza un'occupazione precisa, affermava il giornalista; Marta Miguel, l'ultima che l'aveva vista in vita, docente universitaria, e Rosa Donato, socia di Celia Mataix in un negozio di antiquariato. Chi continua a non capire perché la mamma non torna è la piccola Muriel, figlia di Celia e di Alfonso Alfarrás, che vive estranea alla tragedia in casa dei nonni materni. Mancavano diciotto anni alla fine del secolo, e ancora esistevano bambini che vivevano estranei alla tragedia, rifugiati in casa dei nonni materni. Esistono ancora i nonni. E materni. Non voleva pavoneggiarsi davanti a se stesso, ma cercò di ricordare il tempo passato tra i primi scritti presocialisti che denunciavano la funzione perpetuatrice del sistema della famiglia e la piccola Muriel estranea alla tragedia rifugiata in casa dei nonni materni. Materni, si ripeteva in continuazione Carvalho, come se lo sorprendesse una certa ridondanza di fondo tra la condizione di nonni e di materni. Non basta avere dei nonni? Devono anche essere materni? O paterni? La bella bionda aveva smesso di avere nonni. Celia. Muriel. Spaghetti all'Annalisa. Salmone e basilico. Se la bambina si chiamava Muriel doveva essere bionda come sua madre. Quella parte di Pueblo Nuevo era un reticolo di agenzie di trasporti e solo nelle ramificazioni, già vicine al mare o a Via Meridiana, sorgeva il capriccio dei magazzini dedicati alle merci capricciose. Tende e Piscine Daurella S.p.A. era un'insegna fresca, dipinta con pazienza da un pittore d'insegne antico quando i Daurella avevano deciso di aggiungere le piscine di gomma al loro commercio tradizionale. La macchina di Carvalho passò sotto l'insegna e proseguì lungo una strada asfaltata verso l'ufficio prefabbricato in cui lo aspettava il finale del dramma, l'apoteosi a carico del vecchio, disposto ad ammortizzare l'onorario di Carvalho assumendosi il ruolo principale: il Re Lear di Pueblo Nuevo che addita il figlio ingrato che ha tradito la sua fiducia.

Il vecchio non lo deluse. Nemmeno uno degli astanti estraneo alla famiglia. Manovali, camionisti e impiegati erano stati mandati nell'oscuro retrobottega dell'azienda e tutta la famiglia Daurella era lì, con i suoi spolverini blu, a parte Pablo, predestinato con il vestito da mezza stagione comprato a Londra e la cravatta italiana. Drammatiche le facce di Daurella e di sua moglie, le femmine riunite intorno alla madre e i maschi intorno al padre. Pablo, faceto, scherzando con le parole e le mani, cercava la complicità di Carvalho strizzandogli l'occhio. Occhiate insostenibili tra gli uomini; invece non hanno bisogno di guardarsi le donne, che sanno già a memoria la funzione, e aspettano solo l'entrata del maestro di cappella. Il vecchio Daurella prende posto dietro la scrivania e alza le mani. La messa sta per cominciare. Fa un breve riepilogo dell'accaduto, elogia la tenacia di Mercè, del suo fiuto, prima la sorpresa, l'inquietudine, l'indignazione finale al momento di sapere, grazie al benemerito signor Carvalho, benemerito, benemerito, un nuovo aggettivo che gli cadeva sulle spalle.

«E insomma. Perché continuare a parlare. Mancano sei milioni di pesetas...»

Lo sguardo del vecchio scorse a una a una le facce di tutti i presenti e d'improvviso si abbatté su Pablo come una picconata.

«E ci aspettiamo che tu, Pablo, ci dia una spiegazione.»

Pablo guardò a destra e a sinistra, poi alle spalle, e alla fine guardò se stesso.

«Pablo sono io. Quindi stai parlando con me.»

«Con te, sì, Pablo, parlo con te. Dove sono quei sei milioni?»

«Bene... bene... bene...»

Pablo cominciò a perdere la pazienza e avanzò verso la scrivania patriarcale.

«Quindi sono io. Lo sapevo che doveva toccare a me.»

La moglie di Pablo fece il gesto di avvicinarsi al marito, ma la vecchia Mercè la trattenne con un'occhiata da sequestro.

«Le prove! Le prove!»

Daurella gli tese la cartelletta che gli aveva dato Carvalho il giorno prima. Pablo la aprì con tutta la sufficienza che gli riuscì di raccattare, diede un'occhiata ai documenti dapprima con indifferenza, poi con preoccupazione, alla fine chiuse la cartelletta, la gettò sulla scrivania e voltò le spalle al patriarca.

«Numeri e ancora numeri. Io non lavoro con i numeri. Lavoro con i rapporti umani.»

«Bandarra, més que bandarra!12.

Gli gridò il vecchio e gli tirò una penna. Un urlo corale si levò dall'angolo delle donne e l'olandese disse qualcosa di simile a che se si fosse passati alla violenza fisica, lei se ne sarebbe andata. La signora Mercè ritenne che fosse giunto il momento di intervenire, si avvicinò al marito, gli prese le mani e offrì il petto alla sua testa di vecchio tribolato.

«E ve lo dico io dove sono quei milioni!»

Si era rivoltato d'improvviso l'accusato, e indicava furioso la cartelletta che lo accusava.

«Sono nell'azienda! Me li sono spesi tutti cercando di dimostrare che questa non è un'azienda da quattro soldi. Come credete che si lavori adesso, eh? Andando in calesse a visitare i clienti, come il padre del vedovo Rius o come il signor Esteve? Adesso l'azienda deve fare colpo, e poveri noi se il nostro credito in Spagna dovesse dipendere da questo...»

E nel dirlo abbracciò con un moto della testa tutti i magazzini della Tende e Piscine Daurella S.p.A., compresi i Daurella.

«Quanto costa una cena a La Hacienda di Marbella, per esempio?»

Domandò all'improvviso Pablo a suo cognato Jordi.

«Non saprei. Trentamila pesetas.»

«Trentamila pesetas? Per una cena?»

Il vecchio Daurella calcolò mentalmente la quantità di anatra con le pere o di escudelles amb carn d'olla che si potevano comprare con trentamila pesetas.

«E niente di straordinario. Sei clienti. Una bottiglia di riserva Vega Sicilia. Quanto costa una bottiglia di Vega Sicilia Gran Reserva?»

Domandò di nuovo Pablo allo sconcertato cognato Jordi.

«Ventiquattro o venticinquemila pesetas.»

Lo informò Carvalho dal suo angolino.

«Lei stia zitto che ha già creato un bel casino.»

Lo rimbeccò Pablo e gli fece eco sua moglie.

«Sì, stia zitto, che ha già fatto abbastanza danni.»

Tutte le donne guardarono Carvalho come se fosse lui il responsabile dell'ammanco.

«Una cena, passi. Trentamila pesetas sprecate.»

«Non sono sprecate, Pere. Non sono sprecate. Sono per le pubbliche relazioni.»

Lo corresse sua moglie accarezzandogli la fronte.

«Tu també Mercè?»13.

«Ho ha fet amb bona intenció. Una mica alegrement, però amb bona intenció» 14.

Fu il momento scelto da Esperança per gettarsi tra le braccia del marito, ma Pablo la respinse.

«Vattene. Vai con i tuoi genitori. Mi avete calunniato perché non sono dei vostri. Mi avete sempre trattato come un estraneo.»

«Questo non è vero, Pau! Questo non è vero!»

Esclamò il vecchio Daurella.

«E io che ci mettevo la faccia per l'azienda! Voi credete che basti aprire le porte alle otto di mattina e chiuderle a una cert'ora di sera quando vengono a caricare i camion! E le ordinazioni? Ma lo sapete che cosa vuol dire vendere in Spagna, oggi, con la crisi che c'è? Sei milioni! Quanto abbiamo fatturato quest'anno? Quante centinaia di milioni? Mi sono girato la Spagna cento volte in un anno perché poi arrivi un signor nessuno, rifaccia i conti della nonna e, per farsi pagare una buona parcella, dica: lui, lui è il colpevole.»

«Andiamocene da questa casa!»

Gridò isterica Esperança. Esperanceta, come la chiamava suo padre, bruna come suo padre, una brunetta di quarant'anni.

«Non vedrete più i bambini!»

Esclamò Esperanceta prendendo suo marito per mano e trascinandolo. Le mani del vecchio tentarono di trattenere da lontano la fuga della figlia, il ratto dei nipoti, e nella sua disperazione guardava Carvalho, rinfacciandogli il guaio in cui lo aveva messo, e sua moglie, sperando in un'uscita vincente. Carvalho ne aveva abbastanza. Si avvicinò all'olandese e le porse il foglio con il suo onorario. L'olandese si chinò sul tavolo, riempì un assegno e lo passò al vecchio Daurella. Interruppe il discorso appena iniziato per firmare e consegnare l'assegno a Carvalho senza guardarlo.

«Forse ci siamo tutti innervositi troppo. Parlando ci si capisce. Tu, Pau, devi riconoscerlo, hai esagerato, troppe cene da trentamila pesetas e chiudiamo entro l'anno. Cosa gli davi da mangiare? Collons de mico amb bechamel?» 15.

Tutti ridono per la facezia del padre, soprattutto la signora Mercè, le mogli, poi i figli, a parte Ausiás, che osserva tristemente un angolo lontano del cortile, e persino Pablo viene contagiato, e ride della battuta del suocero, mentre sua moglie ha cambiato direzione, e invece di tirarlo verso l'esterno lo sta spingendo perché vada verso la scrivania e faccia la pace col patriarca. E quando Pablo va verso la scrivania incespica in Carvalho che batte in ritirata e solo quelli che stanno più vicini si accorgono che Carvalho gli pizzica una guancia e gli sussurra: i discoli sono sempre fortunati, e se ne va, lasciandosi alle spalle sguardi di sollievo, di rancore, di sconcerto e sconfitta negli occhi del patriarca.

 

 

Nel bar Egitto di plaza de la Gardunya c'erano sempre tre o quattro ottime cazuelas di prima mattina e tortillas españolas e di verdure fresche, niente a che vedere con le tortillas mummificate che vengono servite nei bar spagnoli prima di mezzogiorno. Carvalho rifuggiva le polpette di bar e di ristorante, perché le amava e conosceva bene le orribili carni che sogliono usarsi per questo iberico piatto, senza i reticoli di grasso suino che adoperano i francesi, farina e uova, una pellicola di sincerità, perché la pallina sia ciò che dev'essere: pallina, e non sia, come non è la Terra, rotonda. Quasi tutte le buone polpette sono schiacciate ai poli. Le polpette dell'Egitto erano di tessuto perfetto, perché era esatta la proporzione tra carne e mollica di pane. Se nella polpetta c'è troppa carne, somiglia a un scuro tumore animale, e se il pane è eccessivo, si ha la sensazione di masticare qualcosa di masticato in precedenza. Requisito indispensabile per la polpetta è il buon uso che del pomodoro si fa nella relativa salsa. Benché Carvalho fosse favorevole al pomodoro, dato che era favorevole alle mescolanze culturali, non poteva accettare la soluzione pomodoro applicata come espediente di colore e sapore perché in esso naufragavano i restanti sapori del corpo e dell'anima degli esseri viventi. E quando un piatto contiene del pomodoro, proprio allora, e soprattutto di mattina, il consumatore può ordinare quel latte fresco che è pane e pomodoro, compagno perfetto di una buona tortilla di patate e cipolle e anche di un piatto di polpette come quelle dell'Egitto, lievissimamente insaporite di pomodoro. Notevoli anche le cazuelas di sardine in carpione, quelle di piedino di maiale e quelle di trippa: problematica quindi la scelta, che di solito Carvalho risolveva con la polpetta e la tortilla, perché come carpioni aveva già i suoi e invece era difficile trovare l'esatta materia del microcosmo della polpetta. Bar di mercato, per consumatori di colazioni felici e abbondanti, ristorante economico per artisti, gente di teatro e giovani di precaria emancipazione, l'Egitto era vicino al bar Jerusalem in un quartiere che si stava trasformando in una Harlem barcellonese alle spalle del mercato della Boquería. I negri uscivano all'imbrunire e si riunivano nei bar monocolore dei vicoli che univano il labirinto della Boquería alle vie del Carmen e del Hospital, nati, i negri, per camminare bene e predicare la perfezione del corpo. Ma a quell'ora di mattina la plaza de la Gardunya era il culo della Boquería. Scalo per furgoni, esposizione di contenitori di spazzatura che iniziavano la putrefazione non appena usciti dal tempio, gatti randagi tollerati per la loro lotta all'ultimo sangue con i topi che aspettavano una minima distrazione per impadronirsi del mercato, del vecchio quartiere, dell'intera città. Quei gatti municipali combattevano una prima e decisiva battaglia contro i sotterranei nemici dell'uomo e sulla loro pelle restavano gli sfregi, cicatrici di sordidi incontri con l'orda roditrice, misteriosi incontri alle spalle degli uomini, come se guardaspalle e assassini fossero padroni di uno spazio, di un tempo, di una convenzione vita-morte che appartenesse a loro soli. Una strombazzamento di automobili in coda che aspettavano di entrare nel parcheggio della Gardunya e l'innocente ottimismo di uno stomaco ben pieno di prima mattina convincono Carvalho all'uso delle gambe, attraversa il passaggio centrale del mercato pieno di pesanti corpi acquirenti, aggrediti dal traffico dei carrelli a mano di coloro che dispongono le merci. Attraverso il corridoio della frutta con tutta la geografia del mondo, ma senza la storia tradizionale della frutta, senza coscienza dell'estate né dell'inverno, la pesca cilena o la ciliegia di serra, Carvalho sbocca nello splendore delle Ramblas de las Flores e sospende la sua discesa verso l'ufficio. Rilegge gli appunti che ha preso sul caso della bottiglia di champagne. Si ferma. Strappa il foglio. Ne fa una palla e cerca un cestino tra un chiosco di fiori e l'altro, però alla fine la conserva in una tasca dei pantaloni e allunga il passo per arrivare più in fretta possibile. Sorprende Biscuter a «fare i vetri», «perché sono ridotti uno schifo, capo», ti troverò una donna che te li pulisca, «quello che può pulire una donna lo pulisco io, capo», «cosa le sembra?», «Non si vede meglio la strada?» La strada si vede meglio. «Non mi costa niente.» «Un giorno i vetri, un altro giorno la polvere. Si ferma a mangiare? Ho preparato della carne in umido con le melanzane e i gli ovoli.» Carvalho finge di non sentire le spiegazioni di Biscuter su quegli stronzi dei venditori di funghi. In mezzo chilo ci sono più vermi che in quel formaggio che piace a lei, capo. Carvalho cerca nella guida telefonica partendo dai nomi che decifra dalla pallottola di carta, ricuperata dalla tasca dei pantaloni, spianata con il palmo della mano, le lettere nascoste in fondo alle pieghe. «El Periódico» non cita il secondo cognome di Dalmases e nemmeno quello di Rosa Donato o di Marta Miguel, e tantomeno quello del marito separato di Celia Mataix. Quindi decide di chiamare il cognome Mataix corrispondente alla casa del delitto, Taquígrafo Serra, 66, e al telefono risponde una voce di donna lenta e incerta. Io sono solo la donna delle pulizie, si presenta. Se è una faccenda di assicurazioni... Finalmente viene fuori il numero di telefono del marito, però diffida, non capisce a che cosa serve quello di Dalmases o quello della Donato o quello di Marta Miguel. «Sono stati testimoni oculari, capisce?» «La polizia ce li ha tutti. Qui non c'è nessuna agenda, non c'è più l'agenda dei numeri di telefono.»

E' già qualcosa, disse tra sé Carvalho riattaccando e restando solo davanti al nome di Alfonso Alfarrás e al suo numero di telefono. Era ben poco, perché nessuno rispose alla sua chiamata e Carvalho giunse alla conclusione che il marito separato di tanta bellezza non poteva aver commesso l'errore di tornare a unirsi a qualcuno che rispondesse al telefono a qualsiasi ora del giorno. Parla di nuovo con la donna delle pulizie. Non risponde nessuno e devo mandare una busta urgente, sa l'indirizzo? E la risposta possiede la virtù di aprire la porta di una stanza chiusa fino a quel momento nella coscienza di Carvalho. Vive nella casa che divideva con la signora. In Mayor de Sarriá. E allora vede Celia Mataix, la vede in coda, in un supermercato, davanti a lui, l'ultimo supermercato di Barcellona prima di cominciare la salita verso Vallvidrera, e Celia Mataix avanza al passo con la coda, alta, elastica, con la chioma di miele e l'occhio orientale che si volta ed esamina Carvalho, e all'uomo arriva un profondo odore di donna e di penombra in un appartamento per due. Che cosa porta nel sacchetto di plastica del supermercato Celia Mataix? Pasta, un piccolo pacchetto della salumeria, detersivo per lavastoviglie, una scatola di scamponi surgelati, frutta scelta senza amore, persino la giacca di maglia che Celia Mataix porta sembra essere la sua pelle. Come quelle donne che nella sua adolescenza collezionava nella memoria di fugacità, donne ombra negli autobus che se ne andavano o divorate per sempre dai portoni quando Carvalho cominciava a cucire loro addosso una storia passata e futura.

«Tienimi da parte la carne, Biscuter. La mangio per cena.» «Capo, le melanzane fanno l'acqua a riscaldarle.» Ma Carvalho non fece caso a un reclamo che in un'altra circostanza lo avrebbe ricondotto alla ragione.

 

«Non so niente e non m'interessa.»

Alfarrás si era costruito una chioma allisciata che gli pendeva dal calvo cocuzzolo cetrioloide e una barba nera che gli prolungava il viso da penitente fino allo sterno. Ruga è bello, proclamava la pubblicità della nuova moda maschile, ma l'attitudine corrugata di Alfarrás aveva un'altra storia, era uno strascico del passato ascetico della razza marxista catalana, di quando i ragazzi bene mortificavano la propria classe sociale camuffandosi da raccoglitori stagionali di cotone del profondo sud degli Stati Uniti, senza che nessun sociologo si fosse mai preoccupato del perché di un modello estetico così lontano. Ai suoi quaranta e passa anni, il non più tanto giovane architetto Alfonso Alfarrás era in attesa che si decidesse in suo favore o meno per un progetto di ristrutturazione di una fabbrica di mattoni con la volontà di trasformarla in un parco giochi per un quartiere di immigranti, dubbiosa, la giovane democrazia municipale, che lo scarso spirito ludico dell'immigrazione fosse la conseguenza di tutto un programma di vita o che nel suo programma di vita mancasse un parco giochi in cui riscoprire l'albero e il gioco del nascondino. Carvalho ascoltava le spiegazioni di Alfarrás da altre persone camuffate quasi quanto lui nella cornice di un piccolo studio di architettura. Ancora non aveva finito la relazione introduttiva che già Alfarrás reclamava più lirismo da uno dei suoi assistenti.

«Meno quote altimetriche e meno infrastrutture, e più filosofia.»

Ignorava ostentatamente la presenza di Carvalho come se quel secco «non lo so e non m'interessa» fosse tutto. Ma Carvalho gli aveva regalato tempo facendo il gesto di lasciargli terminare la riunione e dalla sua sedia, premio di design millenovecentosessantanove di cui restava intatta solo la struttura in ferro, Carvalho sembrava godersi lo spettacolo di come si imposta la strategia per vincere una gara d'appalto. Alfarrás era la voce solista.

«Qui non si tratta di vendere il progetto a un industrialotto dei salumi, al nonnino di un amico o a una cooperativa di giovani coppie di intellettuali, cazzo. Bisogna vendere a un consiglio comunale governato da socialisti e comunisti ma sorvegliato dagli altri.»

«Per questo dicevo di metterci quella scultura mobile delle lumache. A quelli di Convergència16 gli piacerà.»

«E perché gli dovrebbero piacere le lumache a quelli di Convergència?»

«Fa molto catalano. Cercare lumache e funghi.»

«Come se le lumache portassero la barretina» 17.

«E noi gliela mettiamo.»

«E no, cazzo, no! Che cosa c'entra una scultura mobile con le lumache in un parco vicino a San Magin?»

La riunione terminò e Alfarrás si cavò un mozzicone di sigaro galiziano dalla tasca del giubbotto di jeans.

«Non gliene offro perché mi resta solo questo mozzicone. Ma di fatto non abbiamo più niente da dirci. La stessa cosa che ho detto alla polizia. Celia e io non ci vedevamo neanche. Qualche volta ci incontravamo al momento di scambiarci la bambina. E questo è tutto. Eravamo separati da più di quattro anni. Cos'altro posso dirle? Che mi spiace che sia morta? Certo. Soprattutto per la bambina. Io non posso tenerla. Ma più o meno non poteva tenerla neanche lei. Una catastrofe. Anche Celia era una bambina e a quarant'anni aveva scoperto che il mondo non era quello che aveva sperato. Non ho motivo di compatirla. Ha vissuto come ha saputo. Proprio come me. O come lei.»

«Vanno bene gli affari?»

Alfarrás rimase per un attimo sconcertato, poi seguì la direzione indicata dal gesto di Carvalho e andò a fermarsi sulla cartella del progetto di parco giochi.

«Sta parlando di questo? No. Sono sette mesi che non abbiamo un lavoro e l'ultimo che abbiamo avuto è stato il restauro di uno chalet. O ci arriva questo appalto comunale o chiudiamo lo studio. E' così per tutti. La città è piena di appartamenti vuoti. Non c'è un quattrino per comprarli e meno ancora per continuare a costruire. Meglio. Così non corro il rischio di diventare ricco.»

«Aiutava economicamente sua moglie?»

Una risata scivolosa e saltellante sfuggì dalle labbra che Alfonso Alfarrás tentò di chiudere.

«Aiutarla io? Lei ha voglia di scherzare. E perché? In virtù del concetto piccolo borghese di riparazione per la verginità perduta o di quello non meno piccolo borghese della sua fragilità femminile? Ridicolo. La bambina l'hanno sempre mantenuta i suoi genitori, quelli di Celia, è ovvio. I miei le mandavano un melone di tanto in tanto.»

L'espressione neutra di Carvalho viene interpretata da Alfarrás come espressione di sorpresa.

«I miei sono contadini di Lérida, ricchi, credo. Ma per quello che serve loro. E lei come ci è piovuto in questa storia?»

«Ho letto del caso sul giornale. Sono un investigatore privato. Mi piacerebbe occuparmene.»

«E cioè lei è un... un disoccupato, come me, e vuole indagare sulla morte di Celia e viene nel mio studio, lo studio di un disoccupato, come lei, a cercare lavoro. E' una situazione grottesca, se ne renda conto. A me non interessa sapere chi è l'assassino. Non ridarebbe la vita a Celia e magari poi si scopre che è un amico. E poi c'è il movente. E' sempre un movente sordido. O grottesco. Io non conosco la fauna che Celia frequentava ultimamente. Era una donna passiva. Quando viveva con me i miei amici erano i suoi amici, e quando ci siamo separati ha cambiato orbita.»

«Sa se il negozio di antichità le stava andando bene?»

«Un disastro, immagino. Glielo hanno aperto i suoi perché si tenesse occupata e non avesse attacchi di depressione. Mi spiace dirlo perché è morta, ma era un relitto, una ragazzina bene che non era preparata né a essere come sua madre né a essere una donna emancipata.»

«Né a convivere con lei.»

«Era come una subnormale.»

«Laureata in storia dell'arte.»

«Lei ha fatto l'università?»

«Troppo tempo fa. Qualche volta ho l'impressione di averlo sognato. Però ci sono stato, sì.»

«Quanti subnormali ha conosciuto all'università?»

«Non era una percentuale allarmante.»

«Ma sorprendente sì, sia sincero.»

«Sorprendente, sì.»

«La borghesia ha un gran talento nel camuffare i suoi subnormali. Una volta bastava che avessero memoria e potevano persino arrivare a essere medici o avvocati perché conoscevano tutte le ossa o tutte le leggi. Adesso si studia in un altro modo e l'alunno deve dimostrare che almeno un pochino le cose le capisce, però è sufficiente che le capisca come il professore perché possa prosperare senza smettere di essere un subnormale. Insomma, per non perdere tempo, né lei né io, era un miracolo che Celia avesse ottenuto la laurea e fosse in grado di distinguere la Venere di Willendorf dal Déjeuner sur l'herbe di Watteau. Non aveva nemmeno intuito artistico. Cioè. Non aveva sensibilità. Aveva solo sentimentalismo. Piangeva se si ammazzavano le mosche col D.D.T. Forse esagero, ma insomma, era fatta così. Incapace di acquisire esperienza. Durante il primo mese di matrimonio ha rotto quattro volte la lavatrice.»

«Ha verificato se è un record?»

Alfarrás chiuse gli occhi con il sorriso protetto dietro i baffi e la barba.

«Lei ha già preso partito. Celia le è simpatica, lo sento. A me no. Lei è un necrofilo? Ama i morti? Ama la morte?»

«Non mi fraintenda. Sono una vittima dei manuali di comportamento. Ho qualche anno più di lei, abbastanza da essere stato educato secondo assurdi principi convenzionali.»

«Per esempio?»

«Il rispetto per i morti.»

«Io rispetto i morti che hanno fatto qualcosa per meritarselo. Per esempio Franco. Io ho lottato contro il franchismo, signor...»

«Carvalho.»

«Signor Carvalho. Però lo rispetto quel morto che ci ha fottuto fino all'ultimo secondo, intubato, bucherellato, e che teneva duro per non darci la soddisfazione di morire. Capisce? Ma perché dovrei rispettare una donna che muore senza volerlo, picchiando la testa contro una bottiglia di champagne?»

«Magari un ricordo o un frammento di ricordo. La prima volta che siete andati a letto. Il primo sorriso della bambina. Un ricordo in comune.»

Alfarrás trasale e apre gli occhi per vedere meglio Carvalho o perché Carvalho veda meglio lui.

«Ci ho messo otto anni a capire che la odiavo e quattro per tornare a essere me stesso. Non ho voglia di ricordarla. Non voglio perdere neanche un secondo di più per colpa di Celia Mataix. Forse anche la più piccola pietra ha un senso nell'equilibrio dell'universo, ma ci sono delle persone che non hanno nessun senso, e Celia era una di queste.»

 

L'ultimo sole d'estate sembrava aver consumato la pelle di Pepón Dalmases, bruno brillante dalla pelle arricchita dalle migliori creme idratanti o disidratanti, a seconda dei casi. Qualcosa dell'allievo di balletto nei suoi gesti da direttore di mise en scène degli studi di registrazione Laser, con bambini nello studio e musicisti pazzi avidi di violoncello, che contemplavano il proprio strumento come se stessero per masturbarlo, e i genitori dei bambini, con la disinvoltura richiesta dalla loro condizione di genitori di piccoli cantori della fine del ventesimo secolo, cioè niente a che vedere con i genitori emozionati, competitivi o infantili dell'antica consuetudine. Attraverso il vetro Carvalho vedeva solo i suoi gesti da violoncellista quando parlava con i violoncellisti, da piccolo cantore quando parlava con i piccoli cantori e da genitore di piccolo cantore quando parlava con i genitori dei piccoli cantori. Piccoli cantori biondi e con scarpe costose, figli di periti chimici in su, e per di più di periti chimici messisi in proprio da dieci o quindici anni, quando i periti chimici erano in grado di mettersi in proprio. Madre di piccolo cantore e moglie di perito chimico, vecchie giovani e giovani vecchie con la testa bionda tinta fuori tempo, le varici sempre a metà disseccate o a metà estirpate, le creme usate solo quattro delle otto volte imprescindibili perché se ne veda il risultato e il libro raccomandato dal marito letto a metà, da quando hanno dovuto preparare l'ultima soirée con invitati ad Aiguafreda, Lloret, Salou, Llansá18. Los gozos y las sombras di Torrente Ballestrer. «Quella del libro non è carina come quella della tivù.»

«Non sempre è uguale.»

«E Cayetano alla tivù era più mascalzone.»

«Be', nel libro Déu n'hi do19

«Però non è lo stesso, eh?»

«No. Non è lo stesso. Certo che non è lo stesso.»

«Guarda, ti dirò che mi piace di più in tivù che a leggerlo.»

«E' che nel libro ci sono troppe descrizioni.»

«No, a me piacciono le descrizioni. Ma siccome l'ho vista prima alla tivù, be', è come succede sempre, no? Tu sai già come sono, e quando lo leggi non sempre corrispondono.»

«Deve scusarmi. E' una registrazione per una scuola.»

La spiegazione di Pepón Dalmases cercava la complicità di Carvalho con la morosità del procedimento o con l'intenzione, prima di tutto benefica, insistevano i genitori nel loro angolino, della registrazione di una libera versione di Mary Poppins fatta dal maestro Sureda Palols.

«E' un uomo di grande talento, ma, sa come vanno le cose, deve guadagnarsi la vita dando lezioni di musica a questi selvaggi. Io lo dico sempre a mia moglie: ammiro quegli uomini e quelle donne che devono sopportare i tuoi figli. Pensa durante le vacanze: li vedi più spesso del solito e non sai che cosa farne.»

«Di che cosa si tratta esattamente?»

«Credo che lei sia coinvolto nella faccenda del delitto della bottiglia di champagne.»

«Insomma, coinvolto, coinvolto... ero amico della vittima.»

Ma Pepón Dalmases non guarda Carvalho. E' tutto preso dai musicisti, dai bambini, dai genitori dei bambini.

«Qualche volta conviene avere informazioni per conto proprio. Non dico che lei debba cercare l'assassino, ma avere degli elementi per suo conto, questo sì. Sono un investigatore privato e mi offro di cominciare un'indagine parallela a quella della polizia.»

«Perché?»

«Sono un professionista.»

«Io credevo che gli investigatori privati restassero in ufficio ad aspettare che i clienti andassero da loro.»

«Questo succede nei romanzi e nei film.»

«E che cosa ci farei con le informazioni ottenute?»

«Questo lo vedrà lei. La polizia può anche affezionarsi all'idea che l'assassino sia lei.»

«La polizia può affezionarsi all'idea che l'assassino sia io.»

Ripeté Dalmases per ricavare un buco di spazio e di tempo che desse senso alla sua conversazione, in piedi nel corridoio degli studi di registrazione, con uno sconosciuto dall'aspetto poco simpatico e che in definitiva stava cercando lavoro.

«Io però non so chi è lei.»

«Ho più di dieci anni di esperienza in questo lavoro.»

«Ha portato un curriculum o qualche dépliant?»

«No, però ho facilità di parola. Posso spiegarle tutto in pochi minuti e intanto questi bambini potranno far pipì e i genitori potranno chiedergli qualcosa sull'affascinante esperienza che stanno vivendo.»

«Il fatto è che si tratta di uno studio in affitto e costa dei soldi. Cosa ne dice se ci vediamo più tardi? All'ora del caffè?»

«A lei piace mangiar bene?»

«Mangio per vivere, non vivo per mangiare.»

«Allora è preferibile vedersi all'ora del caffè. Qual è la sua ora per prendere il caffè?»

«Le quattro, per esempio.»

«Dove?»

«Qui a fianco. C'è un caffè all'angolo e dato che dopo devo tornare in studio mi va bene che ci vediamo lì.»

I musicisti si stavano masturbando il violoncello a un ritmo preoccupante, i bambini avevano dato inizio ad alcune offensive settoriali corpo a corpo, e due di loro stavano persino cercando di distruggersi reciprocamente mediante l'utilizzo di prese di judo che Carvalho considerò decisamente criminali. Animali stanchi, affamati e ingabbiati, i bambini non ci avrebbero messo molto a divorarsi l'un l'altro, e se non ne avessero avuto abbastanza, si sarebbero mangiati Pepón Dalmases e i loro genitori.

«Un altro telegramma, capo.»

«Di Teresa?»

«Sì, dev'essere di Teresa Marsé, perché viene da Bangkok. Glielo leggo?»

«No. E' matta. Le costeranno più i telegrammi del viaggio.»

«Ha già mangiato, capo?»

«No.»

«Be', è l'ora giusta. Sono le tre. Perché non viene qui che le scaldo la carne in umido con le melanzane e gli ovoli?»

«Sono lontano, Biscuter. Mi arrangerò da queste parti.»

Riagganciò e si avviò risalendo la strada. Non era lontano dal Cathay e il corpo non gli disse di no quando gli chiese cosa ne avrebbe detto di un pasto cinese. Per di più era sempre stimolante la conversazione con il proprietario, un docente universitario di storia che aveva girato mezzo mondo e continuava a essere un cinese così nazionalista da aver deificato Mao come autentico sommo artefice della nazione cinese.

«Ha visto come hanno fatto fuori il nano?»

Il nano era il dirigente che aveva dato inizio alla demaoizzazione della Cina.

«Ma neanche gli altri apprezzano quello che ha fatto il gigante. Sono dei pigmei. Anche loro sono dei nani.»

Il proprietario del Cathay sapeva che Carvalho avrebbe ordinato riso alla Cantonese, abalone e vitello al curry accompagnato da champagne ben freddo. Carvalho non era stato più lì da prima dei processi di Pechino e quindi erano molti gli argomenti in sospeso.

«E la vedova a piangere, ma neanche lei aveva rispettato l'opera del gigante.»

Per i dessert aveva riservato l'ultima e, in un certo senso, universale riflessione sul tema.

«Che cosa sarebbe stato della Cina senza di Lui?»

Si capiva che aveva pronunziato il pronome con la maiuscola e Carvalho assunse l'essere o il non essere della Storia in funzione dell'esistenza o non esistenza di Mao Tze-tung.

«Un giorno di questi le mando Biscuter, perché gli insegniate qualche piatto.»

«Mia moglie sarà molto onorata di insegnare a Biscuter. E' già venuto due volte.»

«Sì, ma mi ha detto che non si considera ancora abbastanza sicuro con la cucina ampurdanese20, che è quella che sta imparando. In realtà prende un piatto qui e un altro là. E' come un giapponese, un eclettico. Voglio mandarlo a Parigi perché gli insegnino a fare le minestre.»

«La minestra è un piatto magico. Può essere tutto e niente.»

«Da cosa dipende?»

«Dal fatto che le cose cuociano in essa o contro di essa.»

«Non lo avrà preso dal libro del Tao?»

«Io sono confuciano, non taoista.»

Carvalho era sul punto di arrivare in ritardo all'ora del caffè con Pepón Dalmases. Lo sorprese a consultare l'orologio in un bar pieno di ex commensali vittime di un menu del giorno piattamente tipico: insalata catalana e salsiccia con fagiolini verdi.

 

«Se preferisce risparmiarsi la conversazione, prima di tutto devo dirle che non ho intenzione di avvalermi dei suoi servizi come investigatore. Non riuscivo ad avere testa per questa faccenda perché oggi è una giornata di lavoro molto particolare, mi capisce? Ma poi, mentre mangiavo un panino, ci ho pensato e a me questa storia mi lascia indifferente. Io sono uscito da quella casa insieme a tutti gli altri, siamo andati a bere qualcosa e lei è rimasta con Marta Miguel, che io non conoscevo quasi per niente, credo di averla incontrata una volta a una festa, sulla Costa Brava. Bene. Poi, quasi subito, è arrivata Marta Miguel e ha detto che l'aveva lasciata di pessimo umore, e questo è tutto. Cioè che l'ultima a vederla è stata Marta Miguel, e guarda che casini le hanno fatto per questo, e invece niente, perché guardi, ascolti bene quello che le dico, perché glielo dico in tutta sincerità. Che cosa sapevamo tutti quanti noi di Celia? Che era stata sposata con un architetto, ecco tutto, o che aveva un negozio di antichità con la Donato e che la Donato è una lesbicona con tanto di speroni, e questo è tutto. Ma di che cosa facesse Celia del suo tempo, niente di niente. E' vero che quest'estate sono uscito con lei qualche volta, perché mi interessava quella sua aria da donna distinta, distante, e sì, devo riconoscere che mi interessava e mi attraeva e che mi ha attratto dal primo momento che l'ho vista, a Fanals, sulla costa, in mezzo a un gruppo in cui quelli che non erano checche lo sarebbero diventati da un momento all'altro, e basta che uno lavori in un ambiente così, diciamo artistico, perché si senta addosso gli occhi come tentacoli e debba andare in giro con una mano di dietro perché non glielo mettano, mi capisce? Be', Celia stava in mezzo a quel gruppo come altre, quasi tutte separate o risposate, servivano da alibi ai frocetti. Così li si vedeva in spiaggia con quelle signore e i sospetti si diluivano, oppure va' a sapere. Si fanno delle sciocchezze d'estate, durante le vacanze. Poi siamo rimasti d'accordo di vederci qualche volta anche d'inverno e questo era ciò che speravo e mi sono anche fatto delle illusioni, certo. Mi ha invitato alla festa di quella maledetta notte e io ci sono andato con tutte le illusioni del mondo, perché era proprio niente male e aveva classe, proprio come piacciono a me, che siano niente male e che abbiano classe, che abbiano qualcosa a cui ci si può attaccare e che uno le possa portare in qualunque posto e fare bella figura, e Celia, se avesse voluto, era così. Io sono membro dell'associazione Pro Musica e avevo pensato di invitarla, perché è una donna con cui vale la pena di farsi vedere brillanti, insomma, che cosa sto dicendo: valeva la pena. E io, a dire la verità, quella sera pensavo, io a questa qui le piaccio, perché mi aveva invitato dopo la faccenda di quest'estate, niente di particolare, perché per tutta l'estate aveva avuto addosso la Donato come un fucile puntato, però un pomeriggio siamo riusciti a scapparle e io mi dicevo adesso mi invita a cena e vediamo se la serata mi dice bene, e invece quella cosa fa? Non mi si fa trovare con la Miguel? E lo ha fatto in mala fede, una delle due, o per prendere in giro me o per far uscire dai gangheri la Donato, anche se, non so come dire, ma tra la Donato e la Miguel è solo una questione di misurarsi la vagina, di vedere chi delle due ce l'ha più larga, perché se la Donato sembra l'incredibile Hulk, la Miguel è tale quale a John Wayne ma con più grinta, insomma si vede quello che sono già dal modo di camminare, proprio come un finocchio si vede dalla forma delle sopracciglia, capisce? Ci ha fatto caso che ai finocchi vengono le sopracciglia a punta? E hanno una strana simmetria della faccia, come se avessero molta faccia, ma non nel senso del modo di dire: quello è un tipo che ha molta faccia21, ma nel vero senso della parola, nel senso di avere molta superficie facciale, soprattutto quelli che danno, invece tra quelli che prendono c'è qualche eccezione, e non si sorprenda che ne sappia tanto sui culi, ma il fatto è che quello di Fanals è uno scandalo. Ha cominciato a comprare casa lì un noto finocchio di Barcellona. Poi i suoi amanti, subito dopo gli amanti dei suoi amanti, e quando si sono resi conto del casino che avevano combinato, allora hanno cercato di affittare le case alle amiche, perché non si parlasse, e io sono finito da quelle parti per Susi Sisquella, la ex signora Velate, lei non ha sentito parlare di Velate il costruttore? Be', con Susi siamo molto amici e mi ha detto: vieni, che ti diverti, perché a me questa faccenda dei finocchi mi attira, attira la mia curiosità, volevo dire. E sì, sì. Tutti quanti si sono sistemati la casa molto bene e le ragazze che ci vanno, be', se lo può immaginare, una non si sposerà mai, l'altra è una separata e quella più in là è una lesbicona, donne senza senso, capisce? E non è che io sia un codino che pensa che la funzione della donna è di avere figli, sposarsi, curare la casa, eccetera, eccetera. Questo no, questo mi fa schifo. Ma quello che me le fa girare è quel tipo di gente che non è né l'uno né l'altro, capisce? Per esempio, la stessa Celia. Era separata dal marito. Benissimo. Io al suo posto avrei scopato come una matta. Lei no. Se le mettevi una mano lì, non era il momento. Se gliela mettevi là, si metteva a piangere. Quattro pomeriggi di pioggia, nella seconda metà di agosto, a Fanals, lei e io. Ho potuto scoparla una volta soltanto, quasi approfittando di un momento di distrazione, e metterlo e toglierlo, perché mi dava l'impressione di scopare una bambola gonfiabile. Non sapeva quello che voleva. Stralunava gli occhi e guardava il cielo, come se da lì le dovesse arrivare qualcosa. E non è che la Donato le tenesse la briglia corta, perché lei stessa, Celia, me ne aveva parlato, e con la Donato niente, erano socie in commercio e questo è tutto; le dirò di più, alla Donato il negozio costava un sacco di soldi e lei lo manteneva per continuare a lavorare e così vedere Celia, e Celia in parte lo sapeva e lo accettava, perché la compagnia e l'adorazione della Donato a qualcosa le serviva. Ma di andarci a letto, neanche parlarne. E non è che fosse frigida, perché delle volte quando la toccavi, per dire le cose come stanno, quando le mettevi la mano nella passera, ti bagnavi, perché le sudava la passera, e questo è il sintomo più evidente che una donna ha qualcosa in mezzo alle gambe. Mi fotterà la serata, mi sono detto. Perché io ero su di giri e lei si era messa a chiacchierare con la Miguel, che a chiacchiere va forte perché è docente di non so cosa all'Università Autonoma, e si mettono a parlare della questione femminile, del fatto che alla verità si arriva attraverso l'errore e di qual è stato con precisione l'errore dei primi movimenti femministi perché i prossimi non si sbaglino. A noi ci chiamavano i maschietti e una volta ho dovuto intervenire perché stavano andando sul pesante. Sentite, ragazze, ho detto. Io sono autosufficiente. Mi cucino quello che mangio, mi compro i vestiti e sono organizzato in modo che non sfrutto nessuna donna. Scopo con chi ci sta e chi non ci sta, tanti saluti. Insomma, che io del maschietto sfruttatore e violentatore non ho niente di niente. Gliel'ho detto così, tale e quale e la Miguel si mette a ridere, perché è scaltra e sa che non bisogna tirare le situazioni per i capelli, ma l'altra, quella bestia feroce della Donato, l'incredibile Hulk, quasi mi salta addosso e mi accusa di corresponsabilità di classe: 'Voi uomini siete una classe sociale e tu sei corresponsabile!' E io a dirle, con delicatezza, perché non è che la conosco bene, a dirle: Non essere stupida, Donato, allora un figlio della borghesia, per esempio, non può essere comunista? No, mi rispondeva lei. Non può esserlo sul serio. E Marx, allora? E Trotzki? E lo stesso Lenin? Questi erano i miei argomenti. Ma questo era prima, diceva l'incredibile Hulk. Prima di che cosa? Prima che la borghesia capisse cosa sarebbe successo e cominciasse a destinare dei figli al marxismo. Lei ha mai sentito un'idiozia così grossa? A me la politica me lo ammoscia, ma gli estremisti mi fanno andare in bestia e soprattutto questi estremisti moderni, femministe, finocchi, ecologisti. Sono più bigotti dei cattolici di una volta e hanno una volontà di fare proseliti che dà la nausea. E così la serata non è andata per il verso giusto, no, e ognuno per conto proprio, tutti quanti avevamo intenzione di muoverci di lì per andare a bere qualcosa. Così cominciamo a salutare Celia e tutt'a un tratto lei dice a Marta Miguel: vuoi rimanere? Guardi, la faccia da assatanata che ha fatto Marta Miguel non l'ho mai fatta io, neanche alla ragazza più bella che ho broccolato, e pensi che io ho cominciato come cantante della Nova Cançó e ne broccolavo a pacchi. Non se lo ricorda il mio nome? Pepón Dalmases. Io ho cominciato cantando in catalano Don Quijote e The South Pacific. Be', alla Miguel si erano aperte le porte del paradiso e noialtri siamo andati all'Ideal, con la Donato che si portava dietro un'alluvione di lacrime, e dopo un po' arriva nel locale anche la Miguel e racconta che Celia era di cattivo umore, che l'aveva usata, perché in realtà stava aspettando un'altra persona, e con la scusa di chiederle di restare aveva buttato fuori tutti. Che non era riuscita a vederla, quest'altra persona, ma che Celia glielo aveva detto, così, in faccia, e lei le aveva detto di tutto e poi l'aveva lasciata che stava preparando una bottiglia di champagne. Chi poteva essere? Insomma, niente di divertente, perché tutti quelli che non si erano accoppiati erano lì con noi all'Ideal a bere una caipirinha o un gimlet, e ti ritrovi in tutte le situazioni, e ci fai di quelle figure, perché la Donato andava consolata e la Miguel andava calmata. E' come una bambina, diceva la Donato. Be', e allora che se la sopporti sua madre,

rispondeva la Miguel, e avanti così fino alle quattro. E poi ognuno a casa sua, e il giorno dopo il giornale e la polizia, quasi contemporaneamente. Perché sono venuti a cercare me, me e la Miguel, e lei se l'è vista più brutta, perché era rimasta lì, ma è come le ho detto, quasi non si conoscevano, era la prima sera che entravano in contatto e la Miguel era rimasta lì con tutti quanti che lo sapevano, un quarto d'ora ed era già con noi, e se fosse stata lei avrebbe dovuto ammazzarla, come ha detto non so chi, quando noi eravamo ancora per le scale. Non c'è altra spiegazione che la più semplice. Aspettava qualcuno. Un chissà-chi. E doveva essere una storia lunga, perché tutti quei tira-e-molla di quest'estate, con me, ci ho pensato dopo, erano un tentativo di dimenticare qualcosa, di compensare qualcosa. E lei si è impuntata. E ha perso. Perché qualsiasi uomo può avere una reazione violenta e lei era una donna difficile. Io perché sono così, tranquillo, non mi altero. Vogliono scopare? Scopo. Non vogliono scopare? E allora non scopo. Ma non tutti sono così. E sopravvivo per la mia pazienza, perché altri, al mio posto, con la registrazione che ho impantanata nello studio, non sarebbero qui a farsi attaccare bottone da uno sconosciuto. Investigatore privato, ha detto. Va bene. E' il primo investigatore privato che conosco. Le dispiacerebbe farmi vedere il tesserino? Non è che non mi fidi, è che di questi tempi non c'è sicurezza che tenga.»

 

Come una signora di opaline anni Venti, gonna pieghettata, cappello a cloche di pergamena stretto intorno alla testa, fiocco, collana di perle fino alla cintola, bocchino lungo, boccuccia dipinta, con mezzo secolo di vita, Rosa Donato, fra anticaglie inglesi, con la pelle del viso abbronzato più rugosa di quella di Toro Seduto preoccupato per le conseguenze della sconfitta di Custer, Rosa Donato, millecinquecento metri ogni mattina nella piscina di un club sportivo, ginnastica acquatica contro la cellulite, aria pura, sole, movenze giovanili da ex ragazza della sezione femminile, un-due, un-due, op-dui, op-dui.

«Che delizia! E' la cosa più deliziosa che sento da anni!»

E la deliziava, perché tutte le salubri rughe sportive del viso si mossero in direzione del sorriso e la parola delizioso per lei significava la possibilità di dimostrare come pronunciava bene le vocali aperte castigliane e apriva e chiudeva la bocca con suicida volontà di dizione, con quella complessata volontà di dizione che hanno alcuni catalani quando si sforzano di parlare castigliano come i bambini di Avila.

«Che delizia!»

La deliziava il fatto che Carvalho fosse un investigatore privato.

«Avanti. Me lo dica di nuovo. Investigatore privato. Dopo quella storia di Tejero non avevo più sentito niente di così delizioso.»

Però la parola delizioso, sulle labbra della Donato, non voleva nemmeno dire esattamente squisito o estremamente piacevole. Poteva essere uno pseudonimo di curioso, scioccante o eccitante.

«Questa proprio non me la faccio scappare. E dice che mi offre i suoi servigi.»

«Le confesso che è la prima volta che mi trovano delizioso. Mi sconcerta. Le mie tariffe non sono basate sul fatto che mi considero piacevole, comunque, se lei mi convince del contrario, posso considerare la possibilità di aumentarle.»

«Cerchi di capire, non è che una s'imbatta tutti giorni in un investigatore privato. Di che tipo è, lei? Philip Marlowe? Sam Spade?»

«Sono un investigatore privato non troppo colto. Mi sono iscritto a un corso per corrispondenza di Fenomenologia dello Spirito. Ma è stato molti anni fa. Non ho imparato niente.»

«Che delizia. E che esprit possiede quest'uomo. E quindi secondo lei io potrei aver bisogno di un investigatore privato.»

«Qui in Spagna siamo ancora parecchio arretrati, ma negli Stati Uniti, per esempio, è obbligatorio. Lei ha interesse a dominare il caso in cui si trova coinvolta, e non viceversa.»

«Il fatto è che io non ci sono coinvolta. Ho un alibi grosso come una cattedrale. Sono uscita da casa di Celia in mezzo a un sacco di gente e sono rimasta con quella gente fino alle cinque o alle sei di mattina.»

«Magari le interessa sapere chi è stato a uccidere Celia.»

«Questo sì, mi piacerebbe saperlo per farlo a pezzettini, grandi così.»

«Così» era un pezzettino piccolissimo, e le feroci rughe sportive della Donato si erano aggrumate per fare posto a dei denti lunghi, implacabili nella loro bianchezza e nella potenzialità del morso.

«Lei è uscita piangendo da casa di Celia?»

«E a lei chi glielo ha detto? Quel culatone di Pepón? Lui sì che se n'è andato verde, perché era stato a flirtare con Celia per tutto agosto e invece nisba. Era la sua ultima occasione per credersi un uomo.»

«E così Pepón è...»

«Lui dice di essere bisessuale, ma quando va a letto con delle donne è solo per fargli il solletico. Si è aggrappato alla povera Celia perché è una cretina. Era sempre pronta a mettersi con il primo venuto.»

«Lui dice che lei è, insomma, lesbica, e che proteggeva Celia in un modo non molto normale.»

«E cosa ne sanno gli uomini dei rapporti tra donne? Cosa può capire un essere schifoso che passa la vita con un affare così davanti?»

E con la mano Rosa Donato indicò il punto esatto in cui tra uomini e donne sussiste la più radicale differenza anatomica.

«Lei è schedata come lesbica dalla polizia?»

«E a lei cosa importa?»

Aveva fatto due passi avanti e il suo naso, più appiattito da un pugno che camuso, si fermò a dieci centimetri dalla faccia di Carvalho.

«Assolutamente niente. Ma se la cosa è nei dossier della polizia e gli altri testimoni hanno detto quello che pensavano dei suoi rapporti con Celia, in questo momento i poliziotti devono avere il suo nome nel loro carnet di ballo.»

«E lei mi può togliere dal carnet?»

«No. Io posso cominciare un'indagine parallela di cui la terrò al corrente, e lei potrà agire come vuole, ma a ragion veduta.»

«Quando avrò bisogno di un autista ci penserò. E adesso se ne vada da dove è venuto.»

«Se è una questione economica, posso farle uno sconto.»

«Quando ho bisogno di qualcosa, lo pago in contanti.»

«Non tutti possono dire la stessa cosa. Ancora per molti anni.»

«E perché me lo dice così, con questa spocchia? Vuole che glielo dica io? Perché lei è un maschietto schifoso abituato ad andare in giro a zittire le donne, e quando si trova davanti a una lesbica si sente insicuro, perché noi non abbiamo bisogno di voi proprio per un cazzo.»

«Ero venuto qui con l'intenzione di diventare suo amico, glielo garantisco. Ma non è la mia giornata.»

«Se ne vada. Via. Fuori. E correndo, che è un gerundio.»

Correndo che è un gerundio. Disinvoltura anni Quaranta o Cinquanta. Vecchia giovane Donato. Tra un paio di giorni ti beccheranno a toccare il culo a una commessa del Corte Inglés. Ben ti sta, Pepe, che hai cambiato la regola professionale, che ti sei andato a offrire per farti assumere per un caso necrofilo, per aver risalito il fiume di morte che va da quella fotografia da giornale a un essere reale, in carne e ossa, senza senso, secondo il marito, rincretinita, secondo Pepón Dalmases, una cretina, a detta della Donato, e forse solo per Carvalho era un viso provocante, una presenza sentita e non sentita in coda in un supermercato. Guardone di merda, si disse, e fece un giro completo su se stesso per guadagnare la porta del negozio di antichità Nefer, e sulla porta la voce in falsetto della Donato.

«Aspetti. Non le ho ancora detto tutto quello che ho da dire.»

«Lasci perdere. Sono già depresso. Il mio analista mi ha proibito due contrarietà nella stessa giornata.»

«Scommetto che lei lavora per Pepón.»

«Le giuro che sono disoccupato.»

«E io le do un consiglio. Lasci perdere questa storia, perché a me la polizia non mi dirà un bah, e a lei invece sì. Da quando un investigatore privato in Spagna può indagare su un delitto di sangue?»

«Lei non fa distinzione tra la Spagna reale e la Spagna ufficiale.»

«Ho qualche buon amico. Ho delle buone relazioni e le giuro che alla minima seccatura lei se la vedrà brutta, e quel culatone di Pepón Dalmases altrettanto.»

«Non si metta a dare addosso a lui. Le giuro che non è mio cliente.»

Aveva bisogno di trovare se stesso, nel suo ufficio, ricuperare l'ambito e la coscienza del proprio lavoro dopo una giornata di rifiuti che si era andato a cercare da solo. L'indignazione nei confronti del proprio comportamento avrebbe avuto bisogno di uno specchio in cui riflettersi, da poter rompere con un pugno. Si accontentò di lasciarsi cadere nella poltrona girevole e di restarci, senza accendere la luce, nella penombra che emergeva dalla lotta tra l'oscurità dell'ufficio e il rettangolo di luce che arrivava dall'appartamentino in cui abitava Biscuter.

«E' lei, capo?»

«Sì, Biscuter.»

«Le serve qualcosa?»

«No.»

Adesso Biscuter era in piedi, spalleggiato dal rettangolo di luce e con un sacchetto di plastica in mano.

«Stai uscendo?»

«Sì, capo.»

«A fare la spesa? Cosa si può comprare a quest'ora?»

«No, capo.»

Biscuter aveva la voce nasale.

«Ti senti male?»

«No, capo. Ma devo uscire. Non dormo qui.»

«Che cos'è successo?»

«E' morta mia madre, capo. All'ospedale di San Pablo. Vado alla veglia.»

Biscuter aveva una madre e lui non se n'era mai interessato. Represse il gesto istintivo di accendere la lampada che stava sulla scrivania. Non voleva rendere palese la tristezza di Biscuter, i suoi occhi umidi, il gonfiore di quei lineamenti di uomo che non era cresciuto o di bambino invecchiato.

«Non sapevo che fosse malata.»

«Neanch'io, capo. L'ho saputo due giorni fa. Sono andato a trovarla e me l'hanno detto oggi. Le ho messo il telegramma da Bangkok sopra la cartella. Se vuole le scaldo la carne. Ci metto un attimo.»

«Vai a casa, Biscuter. A che ora è il funerale?»

«Non lo so, capo. Ma lei non ci venga. Non l'ho detto a nessuno. Volevo andarci da solo. Lei non si è comportata bene con me, capo, ma neanch'io mi sono comportato bene con lei. Adesso faremo la pace.»

Aspettò che Biscuter se ne andasse prima di accendere la luce e ricordare all'improvviso una vecchia storia che fra le tante aveva dimenticato, o forse l'aveva dimenticata perché era una storia di Biscuter, un uomo che non aveva sufficiente importanza per imporre le sue storie. La madre aveva abbandonato Biscuter quando aveva otto anni. Lo aveva lasciato ai nonni come si lascia un mobile che non trova posto in un appartamento, un bambino che non trova posto in una vita.

«E un giorno, capo, ho rubato una Gordini, una delle prime Gordini che arrivavano, e me la vedo lì, davanti a me, in mezzo alla strada, le ho frenato a mezza spanna e quando lei ha cominciato a insultarmi, ho messo la testa fuori del finestrino e le ho detto: sono tuo figlio. E invece di abbracciarmi ha cercato di prendermi a borsettate.»

Biscuter, ladro d'auto. Carvalho si passò una mano sugli occhi per disperdere una leggera nebbia e aprì il telegramma di Teresa.

«Ti telefono mercoledì 29 sera Vallvidrera stop Non mancare stop Sono in pericolo stop Teresa.»

 

Un giorno intero. Mercoledì, ore 13, oggi. Carvalho lasciò l'ufficio e andò a cercare la macchina nel parcheggio accanto alla Panam. La pioviggine aveva vuotato le Ramblas dai passanti, aveva lasciato un alone autunnale intorno alle luci dei lampioni, un poco di freddo che Carvalho sentì come il segno che l'estate era cosa lontana, anche se tutte le forze dell'universo si sarebbero poi messe d'accordo per renderla possibile in capo a sette mesi. Gli fece piacere sentire freddo, sentirsi protetto nella macchina e pensare alla legna accesa, un po' di musica, un panino con pomodoro, pesce freddo spinato, melanzane e peperoni fritti, una birra Carlsberg bella fredda e poi un armagnac bevuto lentamente, seguendo il ritmo segreto delle fiamme nel caminetto, e aspettare la chiamata da Bangkok, l'ultima frivolezza di Teresa Marsé, quello che i catalani chiamano un sopar de duro, una cena da cinque pesetas, una fantasia. E Charo? Da comodino a mobile che non trova collocazione, anche se forse era una disposizione affettiva transitoria, il fatto era che Carvalho non sentiva il bisogno di lei, e nemmeno sentiva la necessità di sentirsi necessario. Ma come in un libretto di risparmio degli affetti, Carvalho non voleva cancellare i suoi rapporti con lei. C'era di mezzo un investimento affettivo che considerava stupido annullare. Come una vecchia coppia stanca di esistere, ma senza l'obbligo della convivenza, di timbrare il cartellino delle convenzioni morali, di tenere la scena perché i figli crescano nell'erronea convinzione che le coppie sono possibili e ad accoppiarsi con una capacità di autoingannarsi che non servirà, una volta adulti, a evitare una tardiva ma assoluta sensazione di truffa.

«Se la lascio si renderà conto di essere una puttana e lo sarà davvero. Chissà. Può cadere nelle mani di un pappa.»

Ma forse in quel momento un pappa a Charo sarebbe stato più utile di Carvalho. Ci avrebbe fatto l'amore. L'avrebbe obbligata a produrre. Le avrebbe creato dei rapporti di dipendenza che Carvalho non può stabilire perché si dedica all'inseguimento di una vita che una donna bionda assassinata con una bottiglia di champagne non possiede più, o ad aspettare accanto al telefono la chiamata da Bangkok di una nevrotica, senza nemmeno poter fare compagnia a Biscuter nel vegliare una madre inadeguata. Meno male che il sapore dell'adeguato panino era quello sperato e la magica combinazione di tessuti e sapori tornò a sorprendere un Carvalho disposto a sorprendersi, e che la Teoria estetica di Theodor W. Adorno era un eccellente conduttore di calore che alimentò la fiamma nel caminetto dal punto d'inizio della combustione situato alla pagina duecentoquarantuno, quella che cominciava con l'epigrafe La storia come costitutiva; comprensibilità e proseguiva in questa guisa: «Il momento storico è costitutivo delle opere d'arte. Le opere autentiche sono quelle che si affidano senza riserve al contenuto materiale del loro tempo e senza la presunzione di essere al di sopra del tempo.» Cominciava a ricuperare il cinismo necessario per essere assonnato quando squillò il telefono.

«Teresa?»

«No. Non sono Teresa.»

Però era una donna e non era Charo. Carvalho scosse la testa per togliersi di dosso la sonnolenza.

«Dica lei, allora.»

«Mi chiamo Marta Miguel. Le dice qualcosa?»

Carvalho ci mise più tempo del dovuto ad associare il nome di Marta Miguel con qualcosa che lo riguardasse.

«Non mi dirà che il mio nome non le dice niente!»

«Lei ha due emme come iniziali, è sempre curioso.»

«Me lo avevano detto che lei è veramente delizioso.»

Aveva pronunciato la parola delizioso con la stessa stupida intonazione che aveva usato Rosa Donato.

«Adesso ho capito. Lei è la principale indiziata del caso della bottiglia di champagne.»

«E a lei chi glielo ha detto che io sono la principale indiziata?»

«E' l'A.B.C. della criminologia. L'indiziato principale è quello che trae benefici dal testamento. E poi l'ultimo che ha visto la vittima viva.»

«Io non traggo benefici dal testamento e nemmeno sono stata 'l'ultimo che ha visto la vittima viva', per la semplice ragione che l'ultimo a vedere la vittima viva è stato il suo assassino, suppongo.»

«In effetti. Non mi ero ancora reso conto di questo particolare.»

«Suppongo che vorrà vedermi.»

«Suppone male. Ho deciso di abbandonare il caso.»

Un silenzio, un sospiro profondo, ma non di sollievo, come se Marta Miguel stesse inviando un messaggio tranquillizzante dai polmoni al cervello.

«E cioè lei solleva un polverone della madonna. Rompe le scatole a tutti e poi va a finire che tutto si risolve in niente.»

«Mi spiace, ma io non sono un investigatore dilettante e nessuno mi ha assunto per occuparmi di questo caso. Né il marito, né l'amante, né l'anticaglia.»

La donna rise per l'appellativo che Carvalho aveva riservato a Rosa Donato.

«Lei è forse disposta ad assumermi per questo caso?»

«Anche se volessi non potrei. Io sono un'umile precaria. Sa che cosa vuol dire?»

«Non ho intenzione di discutere stasera dei problemi dell'insegnamento.»

«Però mi sorprende che lei non voglia parlare con me.»

«Lo vede come va il mondo? I suoi amici mi hanno trattato male e magari uno è sensibile.»

La donna non aveva intenzione di riappendere la cornetta.

«L'ho chiamata perché non ho nessun problema a parlare con lei ed è difficile trovarmi perché passo tutta la giornata in facoltà.»

«Peccato. Magari se avessi cominciato da lei. Ma i suoi compagni di delitto mi hanno scoraggiato, mi hanno trattato come uno straccio.»

«Io ho una teoria personale dei fatti. Non le interessa conoscerla?»

«Avevo intenzione di dimenticare tutta la faccenda.»

«Il fatto è che il caso è molto interessante.»

«E' vero.»

«E che la defunta era un personaggio singolare.»

«Così mi è sembrato. Anche se lei e io non la conoscevamo troppo bene.»

«Perché parla per me? Lei non la conosceva. Io sì.»

«I giornali e il signor Dalmases dicono che lei l'ha conosciuta praticamente quella sera.»

«Erano anni che la conoscevo, anche se da lontano. Era una donna singolare. Davvero non le interessa parlare con me?»

«Mi sembra inevitabile. A che ora, domani?»

«Ho il pomeriggio libero, fino alle sette. Dopo devo tornare in facoltà per una lezione con quelli maggiori di venticinque anni. Lei conosce il giardino del vecchio ospedale della Santa Cruz, quello dove c'è la biblioteca di Catalogna?»

«Sono a pochi passi.»

«Alle cinque?»

«Le spiacerebbe percorrere quei quattrocento metri che separano quel giardino dal mio ufficio?»

«Le spiacerebbe farlo lei, invece? Non mi piacciono gli spazi chiusi.»

«Come faremo a riconoscerci?»

«Io sono grassottella, o meglio, di costituzione robusta, ho i capelli corti e avrò in mano un libro, Gli strumenti delle tenebre di Anthony Burgess. E' un libro molto grosso.»

«Io non avrò nessun libro e non mi piace descrivermi perché magari mi sbaglio.»

«A domani.»

Il caso del testimone volontario, un titolo degno di Stanley Gardner. Tornò a sprofondarsi nel divano e a concludere che era necessario ridipingere la casa, praticarle la chirurgia estetica di una nuova pelle, bianca, no, bianca no, avorio, bianco sporco. La contemplazione del soffitto ebbe su di lui effetti ipnotici dato che si addormentò e si svegliò agitando le braccia per non annegare in un mare di scampanellate o per difendersi dai morsi del telefono trasformato in animale furioso, irritato dal suo torpore di animale addormentato e stanco.

«Chiamata da Bangkok a carico del destinatario. Accetta?»

«A carico di chi?»

«Del destinatario.»

«Questo vuol dire che devo pagarla io.»

«Esatto.»

«E' sicura?»

«Sicura di cosa?»

«Che l'hanno richiesta a carico del destinatario.»

«Sicurissima.»

«D'accordo, allora.»

E una pausa o un rumore, brevissimo a confronto con la distanza da cui arrivava.

«Pepe?»

«In persona, Teresa.»

«E' un miracolo che sono riuscita a chiamarti. Sono in un guaio. Vogliono ammazzarci, Pepe.»

«Ammazzarvi? E chi vogliono ammazzare? Tutta la spedizione? La razza bianca? I catalani?»

«Archit e me.»

«Chi è Archit?»

«E' molto lunga da raccontare e qui non sono al sicuro. E' il mio accompagnatore. Ci inseguono, Pepe. Dico sul serio. Fa' qualcosa.»

«Cosa posso fare?»

«Parla con qualcuno. Oppure vieni, Pepe.»

Era la voce dell'angoscia, di un'angoscia radicale, primitiva, l'angoscia di vivere o non vivere.

«Il metrò è chiuso. E fino alle sette di domani la funicolare non funziona.»

«Non scherzare, perdio. Non mi resta molto tempo.»

«Rivolgiti all'ambasciata.»

«Impossibile.»

«Che cosa vuoi che faccia? Sono a Vallvidrera! Non te ne rendi conto?»

«Pepe, per quello che hai di più caro. Smuovi gente. Fai qualcosa da lì. E' una cosa lunga da spiegare, ma...»

Il clic è uguale in ogni luogo del mondo e il clic tagliò la voce di Teresa Marsé e lasciò Carvalho attaccato al telefono, come in attesa del miracolo della voce o di una voce.

«Barcellona. Avete finito?»

«Si è interrotta.»

«Non è stato qui. E' stato là.»

Carvalho posò il ricevitore sulla forcella, con cautela, come fosse un animale dalle reazioni imprevedibili. Tornò a sdraiarsi, ma questa volta gli occhi non si accontentavano del soffitto, gli occhi avevano bisogno di vagare nello spazio del pensiero o del fumo di un buon sigaro. Accese un Condal numero sei, difficile da trovare in tempi di disastri ecologici multiformi e onnipresenti, che aveva conservato per le situazioni critiche e camminò prima per il soggiorno, quindi per tutta la casa, per poi uscire in giardino e godersi lo spettacolo della città ai suoi piedi, la solitudine dell'osservatore unico di una città addormentata. Una città piena di testimoni dell'assassinio di Celia Mataix e piena di persone vincolate da legami familiari a Teresa Marsé, e invece era lui, lui quello chiamato a essere l'onnipotente creatore o distruttore di una morte e di una vita, lui e Biscuter, gli unici due esseri in possesso della chiave della vita e della morte, lui dalla cima della montagna e il povero Biscuter nell'angolo più gelido di un ospedale, accanto a una donna colpevole del fatto che lui fosse Biscuter e non il generale Galtieri o Maradona o Giovanni Paolo Secondo. E senza pensarci due volte Carvalho scese in strada, montò in macchina e si diresse verso l'ospedale, dove attraversò una preliminare e lunga condizione da U.F.O. prima che gli addetti alla portineria indovinassero che voleva fare compagnia a un amico durante la veglia della madre. Albeggiava quando trovò Biscuter acciambellato su una panca di piastrelle, separato dalla camera ardente da un tramezzo, in una stanza che sembrava un gabinetto pubblico senza le tazze con l'unico scopo di ospitare un tavolo sul quale riposava una vecchia secca come un baccalà, con le calze rammendate e un dente d'oro che si affacciava dalla bocca semiaperta da cui sfuggiva un filo di liquido giallo. Tornò accanto a Biscuter. Sedette al suo fianco senza svegliarlo. Gli si erano spettinati i diciotto capelli biondicci della regione parietale destra. Aveva chiuso le palpebre eccessivamente rotonde come i suoi occhi e la testa ovale riposava sul sacchetto di plastica che si era portato da casa. Biscuter dormiva e sorrideva.

 

La boutique di Teresa Marsé era «Chiusa per ferie», l'ex marito si trovava presso un indirizzo sconosciuto, il figlio doveva starsene nascosto in qualche tana in compagnia dell'adolescente che aveva messo incinta ed era impossibile telefonare a tutti i Marsé dell'elenco finché non si fosse trovato un parente di Teresa. Eppure era urgente mettersi in contatto con l'agenzia che aveva organizzato il viaggio, sapere quanto avrebbe dovuto durare e che notizie recenti potevano dargli di Teresa Marsé. Le prime informazioni non furono molto stimolanti. Dalle compagnie aeree alle agenzie, passando per le più disparate associazioni, tutti erano disposti a noleggiare un volo charter con destinazione Bangkok o qualunque altra parte del mondo. La cosa più probabile era che si trattasse di una società privata che aveva subappaltato a un'agenzia di viaggi un determinato itinerario. All'improvviso Carvalho ricordò che il viaggio era stato organizzato da una discoteca, e il nome dell'agenzia che di solito lavorava con quella discoteca non tardò ad emergere dalla sua agenda e dal suo cervello, in cui lo ripeté come se volesse ribatterlo perché non gli sfuggisse. Verso mezzogiorno Carvalho era seduto davanti al secondo o terzo vicepresidente dell'agenzia, ad ascoltare una memoria di malefatte della poco raccomandabile viaggiatrice Teresa Marsé.

«Dopo dieci giorni di viaggio abbiamo ricevuto un telex che la dava per scomparsa. Poi ricompare, però va per conto suo e non segue l'itinerario. Le irregolarità cominciano a Bangkok e l'ultima volta che la guida responsabile del viaggio si è trovata in contatto con lei è stato a Chiang Mai, nel nord della Tailandia. E' un'escursione facoltativa, ma che quasi tutti i turisti scelgono. A Chiang Mai questa signora, o signorina, scompare, e ieri ricevo un telegramma angosciato della guida che dice di averlo comunicato all'ambasciata e che tutti i controlli compiuti non hanno dato nessun risultato. E' scomparsa. E tutto fa pensare che sia scomparsa volontariamente.»

«Io ho ricevuto una telefonata da lei ieri sera e sembrava molto spaventata, come se la stessero inseguendo.»

«Cerchi di capire, io non avrò altri elementi finché il gruppo non tornerà. Ma per il momento so solo che si è assentata volontariamente, che si è mossa fuori degli itinerari prestabiliti, che all'ambasciata hanno preso le loro misure per trovarla e che la polizia non ha saputo o non ha voluto trovarla. Lei sa benissimo che la polizia da quelle parti non è la stessa che in Europa.»

«Ma l'ambasciata non è riuscita a sapere qualcosa?»

«A noi non hanno detto niente. Forse se è un parente a rivolgersi all'ambasciata, può essere che le cose cambino. Lei è un parente?»

«No.»

«Il gruppo torna dopodomani. C'è ancora tempo perché la signora si riunisca al gruppo e tutto finisca bene. Intanto, se può rintracciare i familiari ci può essere molto utile.»

Da dove aveva chiamato Teresa? Non da un posto in cui poteva risiedere stabilmente, perché altrimenti gli avrebbe dato un indirizzo, un numero di telefono. E se fosse stato tutto uno scherzo di cattivo gusto? Ma perché adesso, proprio adesso, il primo scherzo in un rapporto di amicizia che era stato sul punto di cominciare male?22 Le vicine della boutique sapevano quasi tutto. Il dispiacere che Ernest, suo figlio, aveva dato alla madre, che da due mesi non si era fatto vivo e che doveva essere là, dicevano, dalle parti di La Floresta, a vivere in una comune, in una di quelle vecchie ville semiabbandonate. Il marito? Va' a sapere dove sarà il marito. Magari a fare l'hippy a Ibiza. I genitori di Teresa? Ormai sono molto anziani e non capiscono quello che succede in quella casa. Le vicine sapevano che i genitori di Teresa non capivano quello che succedeva in quella casa. Da dove poteva cominciare? Andare di villa in villa, da nuvoletta di hashish a nuvoletta di hashish chiedendo del figlio di Teresa era come giocare alla lotteria, e intanto Teresa potevano farla a pezzi, proprio in quello stesso momento.

«I signori Marsé non abitano più qui. Da quando il signor Marsé è andato in pensione si sono trasferiti nella villa di Masnou. Vengono qui solo ogni quindici giorni, perché il signor Marsé ha ancora delle cose da fare, per i suoi affari. A Masnou? E' facile trovarli. Abitano nel 'Mas Maymó'. Non può sbagliare. Arriva in uno di quei posti che vendono macchine usate, che si chiama Eurocasión, e subito a fianco il cartello indica 'Mas Maymó'».

Andare a trovare i vecchi Marsé era un ottimo pretesto per pranzare all'osteria del Binu, ad Argentona, e affacciarsi a un panorama che gli stava sempre di spalle. Animale urbano, Carvalho aveva la sua foresta personale alle falde del Tibidabo e lasciava che il mare gli schizzasse i piedi sulle rampe del porto, un mare sporco, paludoso. Per i mari puliti e infiniti gli bastava contemplare il Mediterraneo da Vallvidrera, un orizzonte più nitido nelle giornate ventose, la città purificata dall'inquinamento, e d'improvviso la sorpresa del mare e anche delle barche possenti con le scie rivolte alle Baleari o al golfo del Leone. Paesaggio bianco e beige con le cicatrici regolari dei vigneti, il Maresme aveva una luce bianca e spiagge senza carattere, forse in contrasto con la bellezza acquarellistica delle viscere vecchie dei suoi paesi traboccanti di barbarie immobiliare. Ogni paese era cresciuto ai piedi di un torrente che col tempo si era trasformato in frondoso letto dalle umidità profonde, frondoso e traditore quando all'improvviso le pioggie gli restituivano la sua voglia di essere un fiume e trascinavano fino al mare persone dai riflessi lenti e macchine parcheggiate. Carvalho risalì il letto del torrente di Maisnou fino al salone di auto usate Eurocasión e all'insegna «Mas Maymó». Tra vigneti, storici muri a secco, agavi e fichi d'india, eucalipti e pini, lungo un sentiero di terra chiara, Carvalho arrivò davanti al cancello di ferro che gli sbarrava la strada verso «Can Maymó». Il citofono gli consentì un imbarazzante dialogo di identificazione che alla fine si ridusse a un: Vengo da parte di Teresa. Si udì uno schiocco e le due parti della porta ferrea si separarono in modo che Carvalho spingendole ricavasse spazio sufficiente per la macchina. Carvalho avanzò in un sentiero coperto di ghiaia che sboccava in una rotonda con vasca e quattro palme ai punti cardinali. Una casa colonica tradizionale quanto immensa, dipinta in color crema e con una meridiana sulla parte superiore della facciata, un trattorino tagliaerba guidato da un vecchio col cappello di paglia e una cameriera filippina che scendeva lo scalone che separava la porta d'ingresso dalla macchina di Carvalho. La filippina lo fece passare in un vestibolo dominato da un enorme vaso di Manises, dal quale scendevano piante da interno, e più oltre una scalinata di granito sullo sfondo di una vetrata policroma contro la quale si infrangeva inutilmente un sole condannato all'addomesticamento e, come se avesse scelto il rosone policromo quale sfondo adeguato, un uomo vecchio e imponente, con un bastone in una mano e il resto coperto da una giacca da camera di seta eccessivamente grande per il suo corpo enorme. L'uomo agitò il bastone verso Carvalho e tuonò dalle altitudini.

«Il nostro colloquio sarebbe inutile! Avevo una figlia che si chiamava Teresa, ma per me è morta!»

Una vecchia statuina di porcellana cominciò a scendere le scale a saltelli implorando pazienza dal gigante.

«Higinio, non agitarti. Calmati. Per il tuo bene.»

«O lei o io!»

Continuava a tuonare il signor Marsé mentre iniziava una discesa degna di Emil Jannings arrivando fino a Carvalho per poi voltargli le spalle e incedere come un carro trionfale verso un salotto con pianoforte e arredo isabellino. Il gigante chiuse le palpebre piene di piccole cisti sebacee e sedette mentre la moglie chiedeva a Carvalho, a gesti, di non fargli troppo caso.

«Che cos'ha fatto adesso quella sciagurata?»

«Non fare così, Higinio. Per il tuo bene.»

«Sta' zitta tu, che hai un'anima da ruffiana. Se non fosse per te i tuoi figli sarebbero venuti su in un altro modo. Si accomodi. Dica quel che ha da dire. Ormai sono preparato a tutto.»

Carvalho cominciò dal principio, la telefonata di Teresa, il problema di suo figlio, il bisogno di andarsene. Poi i telegrammi. Il telegramma allarmante. La telefonata. I suoi dubbi e i suoi timori. Il vecchio assentiva, come se quello che Carvalho gli stava raccontando confermasse tutto ciò che pensava di sua figlia.

«Non mi stupisce per niente. Ma proprio per niente. Hai capito? E' così che doveva finire. Prima il matrimonio con quel disgraziato, più disgraziato di lei. Poi il divorzio e quelle amicizie che si è andata a cercare. Si è persino messa a fare politica, per un po', dopo la morte di Franco. Si è messa a fare la socialista. Per fare dispetto a suo padre, immagino. Sapendo che i rossi mi hanno portato via tutto nel trentasei e ho dovuto cominciare daccapo. Poi le storie con gli uomini. Perché cambiava ogni settimana e ogni tanto usciva con uno che poteva essere suo figlio, quando non usciva con qualcuno che poteva essere suo padre. Perché, come se non bastasse, tale madre tale figlio, mio nipote è un altro disgraziato che si fa accalappiare e, ah!, le mette anche incinte! E invece di affrontare la disgrazia salta su un aereo e se ne va... Dov'è che ha detto? A Bali, con i cammelli e le scimmie, e poi a Bangkok, e neanche il tempo di arrivare e già ne ha combinata una.»

Il gigante si passò entrambe le mani sulla spettacolare chioma bianca e se la spettinò in modo da aumentare le dimensioni della testa. Guardò Carvalho con rabbia e disperazione.

«Ci ha mai pensato, quella, a questo povero vecchio che sta morendo? Sa quanto ho di pressione?»

«Higinio, calmati, che è per il tuo bene.»

«Ci pensa a sua madre, a questa stupida che le ha dato tutto e che anche adesso la difende? Aveva tutto per essere felice, per ridere in faccia al mondo, e come mi va a finire? Non ci voglio neanche pensare.»

«Ci pensi in fretta, perché un interessamento della famiglia sarebbe importante per spingere il Ministero degli Esteri a mettere il naso nella faccenda.»

«Io? E che influenza ho, ormai? Avevo degli ottimi amici nel Governo, ma li hanno epurati o li hanno fatti saltare tutti quanti, come il povero Viola, l'ex sindaco di Barcellona, un mio compagno di scuola, un galantuomo. Non conosco più nessuno.»

«Basta che lo faccia a nome della famiglia.»

«Che lo faccia suo marito, o suo figlio.»

«Non c'è modo di trovarli.»

«Di sicuro è una trovata per succhiare soldi. Non caccerò neanche un centesimo.»

Il vecchio si irrigidì e si aggrappò con le mani ai braccioli della poltrona, chiudendo gli occhi e stringendo i denti. La vecchia statuina di porcellana cacciò un gridolino e si precipitò su di lui, ma fu più pronto il vecchio, che alzò un braccio e trattenne lo slancio della moglie con tale rudezza che la fece barcollare e quasi cadere per terra.

«Vattene. Sto bene. Finirete per ammazzarmi, tra tutti quanti. Perché non ha telefonato a suo padre? O a sua madre? Perché ha chiamato lei? Be', è molto semplice. Perché a me basta il tono della sua voce per capire se parla sul serio o no. Mi ha fatto cacciare un sacco di soldi, quella disgraziata, ma non me ne farà più cacciare neanche uno.»

«Non si tratta di metterci dei soldi, ma bisogna che lei si dia da fare.»

Aveva chiuso gli occhi e scuoteva caparbiamente la testa in senso di diniego. La vecchia si portò un dito alle labbra e ammiccando con gli occhi disse a Carvalho di andarsene. Uscì dietro di lui e quando arrivarono sulla porta gli mise in mano un foglietto e gli disse sottovoce: «E' l'indirizzo del ragazzo. Faccia quello che può. Intanto io cercherò di convincerlo.»

«Maria!»

Gridò il gigante dal suo seggio.

«Vada via, adesso. Ma mi tenga informata. Crede che sia in pericolo?»

Carvalho si strinse nelle spalle e uscì nel giardino, andando incontro al profumo della terra e delle piante bagnate. Pioveva e l'orologio gli disse che non aveva tempo per fermarsi all'osteria del Binu se voleva arrivare puntuale all'appuntamento con Marta Miguel.

 

Biscuter si era comprato un metro di fettuccia nera e si era fatto due bracciali da lutto, uno per la sola giacca che possedeva e l'altro per la camicia che sfoggiava, regalo di Charo come il pullover giallo senza maniche.

«Riscaldami quella roba che è in ballo da due giorni.»

«Impossibile, capo, le melanzane sono difficili da riscaldare, e quello che non ho mangiato l'ho buttato via.»

«Allora non c'è niente?»

«E' fortunato, capo. Stamattina, dopo il funerale, sono passato dalla Boquería e ho visto degli ovoli. Glieli faccio con la trippa di maiale e il battuto. Questione di un attimo. Ho già il soffritto pronto.»

A Carvalho non interessava la degustazione di un vino corposo quanto accogliere sul palato l'anima fresca di un vinello brioso, liberamente sciolto grazie alla complicità del boccale di terracotta. Riempì il boccale con un rosato di Cigales ben freddo e bevve, cacciandosi in bocca un gusto fresco e argilloso. Mangiò con appetito due piatti di trippa di maiale con i funghi, nel balsamo perfetto delle due gelatine profonde, quella dello stomaco di un maiale e quella dell'humus dei boschi affidati all'autunno. Due tazze di caffè. Un bicchiere di acquavite del Bierzo gelata e un sigaro Sancho Panza miracolosamente rinvenuto in una drogheria di via Puertaferrisa. Chiamò Charo.

«Vuoi venire al cinema, oggi pomeriggio? Ho un impegno alle quattro e alle cinque ci vediamo all'entrata del Catalunya.»

«Che cosa danno al Catalunya?»

«Non lo so, ma le poltrone sono comode.»

«Ma guarda che modo di andare al cinema. Prima guardo che cosa danno. Per quanto un cinema sia comodo io una porcheria non me la voglio sorbire.»

Carvalho era in pace con se stesso. Aveva fatto quello che poteva per Teresa Marsé, per Charo, per Celia Mataix, per Biscuter, e l'assegno dei Daurella gli permetteva di elevare il suo conto corrente a interesse fisso a un milione e mezzo di pesetas. Era tutto il suo capitale e lo aveva depositato alla Cassa di Risparmio al sei per cento d'interesse al cospetto della disperazione di Fuster.

«Qualsiasi banca ti darebbe il dodici o il tredici.»

«Le Casse di Risparmio non falliscono.»

«Al ritmo in cui va la svalutazione che cosa ti rappresenta il sei per cento? Comprati qualcosa. Comprati un appartamento e quando sarai vecchio te lo rivendi.»

«Chi lo sa che cosa può succedere in dieci o quindici anni. Magari non esiste più la proprietà privata. Vinceranno i socialisti.»

«Illuso.»

«O ci sarà tanta offerta di alloggi che dovrò tenermi l'appartamento per passarci i fine settimana.»

«Lo affitti.»

«Questo proprio no. Beghe con gli inquilini dopo i sessant'anni. Dopo i sessanta voglio piazzarmi nella casa di Vallvidrera, ritirare la pensione che mi spetta come lavoratore autonomo, la piccola rendita che mi daranno i pochi spiccioli che riesco a metter via e sperimentare qualche cucina esotica. Per esempio, che cosa ne sappiamo della cucina africana?»

«Quanto basta per preferire quella francese.»

Decisamente era un pomeriggio propizio e solo il timore represso che Teresa se la stesse veramente vedendo brutta lo privava di una totale soddisfazione. Ma in fin dei conti lui non era responsabile della sorte di Teresa Marsé. Dopo i quarant'anni ognuno è responsabile della propria faccia, aveva detto non so chi, e aveva detto benissimo. Dopo i quarant'anni nessuno merita pietà finché non compie i sessanta o i settanta. Credo. Risalendo le Ramblas, Carvalho si trovò di fronte ai primi manifesti per la visita del Papa mescolati alla propaganda per le elezioni anticipate. L'atleta cristiano e bianco appariva nei manifesti con quel sorriso sbieco da slavo astuto e le spalle possenti da Superman volante per i cieli del mondo. Svoltò nella calle del Hospital, lungo il marciapiede delle puttane decrepite e dei paesanotti rossi per la vergogna che dissimulavano la loro ricerca fingendosi interessati alle vetrine. Passò davanti alle diramazioni della Boquería e arrivò al portale che dà accesso ai giardini dell'antico ospedale della Santa Cruz, romanticismo di luci e ombre prefabbricato dal gotico e dal neogotico, vecchi sulle panchine e giovani madri con bambini ancora vegetali dalla cintola in giù, studenti di passaggio tra una strada e l'altra o tra uno scuola e l'altra o tra la biblioteca di Catalogna e la scuola di Arti e Mestieri Massana. Luce da chiostro, brusio da chiostro, un paradiso prefabbricato sotto la volta di uno splendido cielo d'autunno. Bisogna scegliere tra tutti quei corpi con libro uno che abbia quarant'anni compiuti e un libro che s'intitola Gli strumenti delle tenebre di Anthony Burgess, un libro che dev'essere abbastanza voluminoso da servire come segnale in un ambiente che attutisce i segnali. Ed eccola lì, bassa ma con la vita segnata, quadrata ma con la vita segnata, capelli corti neri, lineamenti pallidi e grassi, occhi... che hanno il potere di una convocazione e una bocca triste, molli e insalivate le labbra, come contagiate dalla stessa sensazione di umidità che impregna i capelli di Marta Miguel. C'è un rapido inarcarsi di sopracciglia nella donna quando Carvalho si ferma davanti a lei e le guarda il libro.

«Lei è...?»

«Sono io.»

Marta Miguel soffia sulla frangetta che non ha. «Io gli investigatori me li immaginavo in un altro modo.»

«Con l'impermeabile, suppongo.»

«Be', sì.»

«Io non porto mai l'impermeabile. Sarebbe come dare per scontato che le donne di servizio portino la cuffia.»

«Bel paragone.»

Carvalho abbracciò con un gesto la prospettiva totale del giardino.

«Parliamo qui o andiamo da qualche parte?»

«Se le va camminiamo e poi ci sediamo su una panchina. Io vengo qui spesso. Sto facendo un lavoro nella biblioteca di Catalogna.»

«Lei è insegnante.»

«Sì. Insegnante universitaria.»

Aveva detto insegnante universitaria con particolare energia, come se avesse voluto lasciare una prova del grado superlativo della sua docenza, della qualità suprema dell'insegnamento che impartiva. Cominciarono a camminare e Carvalho attese che lei dicesse qualcosa, ma la donna si limitava a procedere guardandosi la punta delle scarpe vecchie e sporche o passandosi il libro da una mano all'altra, mentre con la mano libera si lisciava sul ventre gonfio una polo di lanetta scadente. L'unica cosa che risaltava del suo abbigliamento era una collana di palle rosa, persino bella nella sua evidente povertà.

«E allora?»

Disse lei finalmente.

«Io sono qui ad ascoltare. E' lei che ha voluto questo incontro.»

«Mi scusi, ma l'incontro lo ha voluto lei frugando e annusando dappertutto. Mi ha telefonato Rosa Donato e mi ha messo al corrente di quello che lei ha intenzione di fare. Non crede che sarebbe più sensato lasciar perdere? Ormai il male è fatto e nessuno di noi vuole rimestare nella spazzatura. E poi c'è Muriel, la figlia di Celia. Crede che valga la pena di costringerla a fare da pubblico a uno spettacolo sgradevole?»

«E' sempre così di malumore Rosa Donato?»

«Ha un carattere molto mutevole.»

«Sembra un camionista che ha sonno e che ha appena forato l'ultima ruota di scorta che aveva.»

«Perché la paragona a un camionista?»

«Non lo so.»

«Non è che sia il mio idolo, ma è una donna di grande valore e di grande cultura.»

«Non ne dubito. Il mondo è pieno di esseri umani che hanno un gran valore, che hanno molta cultura e sono insopportabili.»

«E' una bambina viziata, ecco tutto. Come lo era Celia.»

La lasciò andare un po' avanti e constatò il ritmo volitivo della sua andatura su due gambe forti, corte, improsciuttite, in contrasto con una vita sottile e un torace forte ma meglio proporzionato delle gambe.

«A loro è stato tutto facile nella vita e reagiscono con il malumore davanti a tutto quello che le contraddice o crea loro problemi. Mi sarebbe piaciuto vederle al mio posto, a diciotto anni, appena arrivata in questa città con una mano davanti e l'altra dietro e senza neanche i soldi per comprarmi la carta da bollo per la richiesta di borsa di studio.»

«Quindi lei si è fatta da sola?»

«E chi altro mi avrebbe fatto, sennò?»

«Ed è arrivata a essere docente universitaria.»

Carvalho fischiò come in apprezzamento di tutti gli sforzi compiuti da quella donna piccola e forte che lo fissava sconcertata.

«Non le permetto assolutamente di scherzare su quello che sono, perché quello che sono lo devo a me stessa e so io quello che mi è costato.»

Le era uscito uno strano accento, un accento da zona di confine, non importa di quale regione. Un accento da immigrante non qualificata, cioè non era un accento immigrante convenzionale: andaluso, galiziano, aragonese, e neanche mursiano. Il suo era un castigliano da marca di confine e le veniva fuori quando voleva dire qualcosa che sentiva al di sopra delle crinoline culturali.

«Quasi tutti quello che hanno lo devono a se stessi. Alcuni sono in debito con se stessi più di altri. Ma il rapporto di dipendenza che uno ha con se stesso non cambia. Lei che cosa insegna?»

«Pedagogia. Storia della pedagogia, per essere più precisi.»

Carvalho apprezzò l'importanza della materia con una smorfia sollecita che restituì una certa tranquillità all'umore di Marta. Adesso camminava muovendo le gambe corte in senso circolare, come se pensando e parlando stesse prendendo possesso di un ambito reale quanto invisibile e allo stesso tempo lo porgesse a Carvalho.

«Lei non può neanche immaginare che cos'ero io quando sono arrivata in questa città appena finita la maturità in un liceo della mia città. Due professori per quattrocento alunni e in una sola classe tutti quelli che volevano dare la maturità classica o tecnica o professionale, di qualunque corso fossero. E giù a secchiare e secchiare. Tutto a memoria. Mi ricordo ancora la definizione di Storia che ho studiato al liceo. 'La Storia è la scienza che si occupa dei fatti che formano la vita dell'umanità nel corso del suo sviluppo, spiegando anche le cause che li hanno originati.' E giù a sfondare gomiti di maglioni a furia di studiare e giù mia madre a rammendarli.»

Carvalho le guardò di sottecchi i gomiti della polo. Impeccabili. Marta camminava sbandando e di tanto in tanto si scontrava con Carvalho per lasciargli un messaggio di profumo intenso. Avrà le ascelle pelose e con tendenza al sudore, pensò Carvalho, e se la immaginò nuda come un cavallino normanno o che ballava, con quella volontà di fingere elasticità che hanno le muscolature cubiche.

«E quando sono arrivata a Barcellona, ah Dio!»

E di nuovo soffiò sulla frangetta che non portava. «E quando sono entrata all'università, ah Dio! Le dico solo che è stato l'anno della storia del Paraninfo. Non si ricorda? L'anno dei primi disordini studenteschi, dei primi disordini importanti. L'anno scolastico 1956-1957. Quando vedevo quei borghesucci ricchi e tranquilli che si giocavano l'anno facendosi correre dietro dalla polizia mi indignavo. Io ogni anno dovevo presentarmi con una media da 'notevole' in su per poter continuare ad avere la borsa di studio. E lo sa che non capivo niente di niente?»

Aveva fermato Carvalho con una mano corta e forte sul braccio.

«Ma proprio niente.»

«Così all'improvviso?»

«No. Del linguaggio. Delle materie teoriche, per esempio di filosofia. Io avevo studiato a memoria e sapevo dire che cos'è una monade secondo Leibniz, però non capivo Leibniz. Capisce? In classe mi facevo piccola piccola quando si parlava di filosofia, e a casa piangevo perché non capivo niente. E di letteratura. Quell'anno avevano dato il Nobel a Juan Ramón Jiménez. Il professore di letteratura ci diede una poesia di Juan Ramón da commentare. Io conoscevo la vita di Juan Ramón e i titoli di tutti i suoi libri e interi brani di Platero e io. Però non sapevo commentare una poesia. Ho dovuto prendere appunti sul testo, studiarmeli. Lavoravo venti ore al giorno e comunque tra gli sberleffi di quelli che passavano per essere i più svegli della classe, i più brillanti, che andavano a fare la rivoluzione gridando assassini! ai poliziotti. Al mattino la polizia e al pomeriggio le feste, e io con gli occhi che mi bruciavano da tanto studiare con poca luce in una stanzetta, la meno cara di una pensione di calle Aribau. E l'arte. Non avevo mai visto un quadro in vita mia, se non quelli dei calendari. Sapevo a memoria l'Archeologia Classica del Melida e la Storia dell'Arte dell'Angulo, questo sì. Ma i professori insistevano nel farmi commentare le riproduzioni e lo stile. Mi è costato tanto entrare nella cultura astratta della borghesia, tanto.»

«La cultura borghese è astratta e quella proletaria è concreta, secondo lei.»

«La mia cultura era un miscuglio di morale religiosa tradizionale, esperienza collettiva della mia gente e quello che la mia memoria prodigiosa aveva avuto il tempo di registrare. E io vedevo gli altri, dilettantes, che scherzavano sull'umano e sul divino, facendosi beffe di Ortega y Gasset, per esempio, con totale impunità, perché erano i padroni della terra e questo gli permetteva di essere ironici, compiacenti con se stessi. E io, Marta Miguel, a sgobbare fino a tardi e mal vista da tutti tranne che dalle monache. Come una monaca. Così ero io all'università.»

«Ha conosciuto lì Rosa Donato?»

«Lei stava finendo quando io sono arrivata. Era della Sección Femenina ed era molto attiva nel S.E.U.23. Adesso no. Adesso è così di estrema sinistra che non trova un partito che la soddisfi. Anch'io ho bazzicato un po' il S.E.U. Le mense erano le meno care di tutte. Mi gonfiavo di pane con olio, sale e aceto. Quando arrivava il primo piatto io avevo già lo stomaco mezzo pieno di pane con olio, sale e aceto.»

«E Celia?»

«La vedevo nel cortile. Allora lei non era a Lettere, o forse sì. Però stava sempre con la gente di Legge o di Architettura. C'erano più ragazzi in quelle facoltà. Quando lei entrava nel chiostro dalla parte di Lettere aveva tutti gli occhi addosso. Era alta, bionda, magra ma con un corpo splendido, sano, e portava sempre un libro e un fiore. Una rosa, di solito.»

«Eravate amiche?»

«No. In realtà abbiamo parlato un paio di volte in tutti questi anni, e molto recentemente. Quando ho cominciato a specializzarmi era più difficile fare vita di chiostro e la vedevo solo di tanto in tanto, sempre in mezzo alla sua corte, sempre circondata da ragazzi e ragazze che pendevano dalle sue labbra. La Donato sì la frequentava e qualche volta mi invitava a delle riunioni o a delle feste, e lì ci siamo incontrate. Ma io non avevo mai niente da mettermi. Non ero padrona del linguaggio, così banale. Col tempo ho trovato un nome per quello che mi succedeva: avevo il meccanismo di comunicazione distorto. Sono stata un anno e mezzo o due senza vederla. All'improvviso, un giorno, io avevo finito gli studi e stavo preparando il concorso per l'incarico in Istituto. Fernando Fernán Gómez tenne un recital semiclandestino in occasione dell'anniversario della morte di Machado, lo fece in una facoltà che allora era nuova, Ingegneria, mi pare. Io ci andai e Celia era lì, come sempre circondata da gente, affascinante. La Donato mi disse che viveva con un tipo, un pittore, ed è stata sempre lei a dirmi che si era sposata con un architetto. Non l'ho più vista fino al giorno della prima del Vangelo secondo Matteo di Pasolini.»

«Continuava a non avvicinarla?»

«Sì. A che scopo? Io andavo piluccando cultura qua e là. Allora mi sentivo un po' più sicura economicamente. Mi ero comprata a rate l'appartamento dove sto adesso. Mia madre era rimasta vedova e me l'ero portata via dal paese. Leggevo tutto quello che non avevo avuto tempo di leggere. La rividi in un cinema, una sera. Era incinta. Della bambina, Muriel, credo. Ma continuava a essere affascinante come sempre. Con quell'aria di assenza sorridente, ma sempre con la testa e i capelli inclinati dalla parte giusta.»

La brutta foto da giornale era davanti alle segrete retine mentali di Carvalho ed era migliorata dopo il ritratto di Marta Miguel.

«Si faceva amare.»

Bisbigliò Marta Miguel, ed entrambi si resero conto che avevano attraversato tutto il parco ed erano davanti alla porta che dava sulla calle del Hospital, tra l'andare e venire di centinaia di persone intontite o stanche o sovrappensiero, al di là delle porte dell'oasi gotica.

«Peccato.»

«Peccato che cosa?»

«Che nessuno mi affidi questo caso. Io sono un professionista. Vivo di questo e non faccio di sicuro delle indagini per amore dell'arte.»

«Non c'è niente da indagare. Io me ne sono andata e lei aspettava qualcuno. In realtà mi ha usata come esca perché gli altri abboccassero e se ne andassero. Soprattutto la Donato e quel cretino di Dalmases.»

«Di cosa avete parlato?»

«Di niente, praticamente. Non ce n'è quasi stato il tempo. Mi ha detto che aveva mal di testa e che gli altri erano una noia e che... Insomma, mi ha invitata ad andarmene.»

«Che peccato.»

«Ancora che peccato?»

«Era la sua prima occasione per parlare con lei. Dopo averlo desiderato per tanti anni.»

«Averlo desiderato? E lei come lo sa che io desideravo parlare con lei? Era come un quadro, o meglio, come la possibile modella di un quadro mai dipinto. Qualche anno fa ho visto un film di Milos Forman, non mi ricordo come si chiamava, anzi, sì, Taking off, si chiamava. A un tratto si vede una donna nuda che suona il violoncello. La bionda di Milos Forman era rubensiana, molto carnosa, molto olandese o molto walkiria. Quella era la scena giusta per Celia. Nuda. A suonare il violoncello.»

Marta Miguel aveva chiuso gli occhi e sorrideva. Quando tornò dalla sua estasi scoprì che Carvalho stava guardando l'orologio. Charo doveva essere sulla porta del cinema, furiosa per quello che considerava già un bidone.

«Ha fretta?»

«Sì.»

«Non continuerà a occuparsi del caso?»

«No.»

«Meglio. Sarebbe stata una sciocchezza.»

Gli tese la mano, gliela strinse vigorosamente e gli diede le spalle per tornare sui suoi passi attraverso il giardino. Carvalho la guardò allontanarsi con il suo corpo da borsista figlia di terre e genitori di frontiera. Carne da viaggi organizzati ad Amsterdam o a Kyoto. Con una macchina fotografica e qualche amica. Intima.

 

Il film descriveva la stanchezza di due coppie sposate e i giochi sostitutivi cui si dedicavano per superare la noia. Charo sembrava succhiarsi il film più che guardarlo, e circondò con le braccia un braccio di Carvalho. Di tanto in tanto il viso della donna sfuggiva all'ipnosi dello schermo e si voltava verso quello di Carvalho, come per studiare l'effetto che gli faceva l'argomento del film. A Carvalho piaceva Sally Kellerman, ecco tutto, e le situazioni più retoriche gli servivano per costruirsi il proprio film e ricordare con un lento movimento di macchina la situazione del suo incontro con Celia Mataix al supermercato. Lei portava un soprabito morbido, come fosse di pelle ma senza essere di pelle, e sprigionava un calore profumato, un calore circoscritto che sprigionano solo i corpi meritevoli d'amore. Gli piaceva il volo della chioma, la mellifluità della chioma, la musicalità dei lineamenti del volto, la profondità adolescente degli occhi e il sorriso nato da un segreto personale e incomunicabile. E all'allontanarsi di quel corpo in direzione della cassiera, al di sotto dell'orlo della gonna si affacciavano due gambe snelle, con la caviglia magra di una ragazza leggera, e all'allontanarsi, al definitivo allontanarsi da Carvalho che deve ancora mostrare il contenuto del suo carrello, aspettare il conto, pagare, uscire, una sensazione di urgenza adolescenziale gli aveva messo un globo di angoscia nel petto e un furore impossibile da esprimere davanti al passaggio logico di dover pagare quello che hai comprato al supermercato. Poi la strada vuotamente piena, pienamente vuota, neanche il sospetto di una testa bionda che si sta allontanando fra il traffico e la gente, una volta di più alito nostalgico di quel che avrebbe potuto essere e non è stato.

«Ti è piaciuto?»

«E' piacevole.»

«Be', io credo che volesse dire qualcosa, no? A molta gente capita lo stesso, no?»

«Negli Stati Uniti. Qui da noi le cose sono su un'altra scala.»

«In queste cose la gente è uguale dappertutto.»

Charo guardò l'orologio.

«Me ne devo andare.»

E lo disse come uno che va al patibolo. Voleva ricordare a Carvalho che lei era una call girl che cominciava a lavorare dalle otto in poi, a cominciare dall'ora in cui chiudono gli uffici e i dirigenti tirano fuori gli istinti dai calzoni.

«Le cose vanno male. Da quando sono saltate fuori tante case di piacere. Meno male che ho conservato dei clienti. Ma di nuovi, neanche uno. Quanto credi che costi un massaggio e poi tutto il resto?»

«Non ho idea.»

«Be', basta un bicchiere di whisky e arrivi subito a diecimila pesetas. E poi è uguale, che sia francese o che sia greco.»

«Il prezzo cambia per i francesi e per i greci?»

«Sono i nomi dei massaggi, cioè, dei servizi. Il francese è il francese, e il greco è Ultimo tango a Parigi, per capirci. E poi il tailandese.»

«Lo so che cos'è il tailandese.»

«Ecco, questo.»

Charo si alzò sulla punta delle scarpe e baciò una guancia di Carvalho. Gli strinse il braccio e corse giù per le Ramblas. Carvalho represse il desiderio di chiamarla, di reclamarla, di tenerla con sé. Non voleva esserne il proprietario e niente lo teneva lontano quanto il mestiere di lei, una guaina sanitaria contro l'istinto di proprietà. Ricuperò la macchina nel parcheggio di La Garduna e percorse la solita strada per arrivare a Vallvidrera, ma una volta arrivato all'incrocio delle strade che portavano verso il Tibidabo o verso Las Planas, imboccò quest'ultima e uscì alle spalle della sierra, con la macchina che puntava verso il Vallés, in una imponente discesa lungo la montagna ombrosa, quasi selvaggia, con liane e fruscii da giungla nei letti dei torrenti che precipitano fra i boschi assediati dalle erbacce. Alla fine della discesa la strada s'infilava in una piccola valle che di tanto in tanto si apriva in generose spianate dove le classi popolari si godevano i pranzi domenicali, con tortillas di patate o paella e salto della corda o mini partite di calcio familiare e fascinazione attonita davanti al miracolo del tramonto sulle montagne, uno spettacolo gratuito e de qualité, quasi sempre in technicolor. Cambiato l'orario estivo, la luce del giorno autunneggiava. Deviò arrivando al cartello che indicava La Floresta ed entrò nel regno del piccolo chalet ammuffito dalla generosa umidità della valle, chalet dall'architettura alluvionale, riduzione in scala del cattivo gusto della borghesia borsanerista del dopoguerra, condiviso dal cattivo gusto della piccola borghesia piccolamente borsanerista o risparmiatrice che aveva realizzato il sogno della casetta con l'orticello sulle diramazioni dei lombi ombrosi della sierra che circonda Barcellona e si lascia alle spalle l'apertura apparentemente senza limiti del Vallés occidentale. Chalet minimodernisti, minifunzionalisti o modernisti dalla cintola in su e razionalisti dalla cintola in giù, oppure né l'uno né l'altro ma tutto il contrario, vecchiezza, abbandono e soprattutto obsolescenza della vacanza estiva a buon mercato. Vecchi ex burocrati che zappano i loro ultimi pomodori o nipoti rockettari che nell'incredibile vecchia casetta del nonno hanno trovato rifugio per la loro smania di fuggire, ma non del tutto, e per farsi una canna senza che il padre li picchi con «La Vanguardia»24 o per fare l'amore con la compagna di corso con l'illusione di avere già un focolare, anche qualche comune di traduttori con poco da tradurre e solisti di flauto di giovani orchestre che sanno appena suonare, coppie di omosessuali quarantenni ormai disperati di avere figli e rassegnati a invecchiare con una dignità e una fedeltà senza rimedio e ancora qualche autentica vecchia casa rurale dove vecchi abbronzati si piegano sulla terra in cerca di lumache mangerecce o costretti dai reumatismi. Queste costruzioni hanno perso la loro occasione di essere un'alternativa residenziale ai quartieri barcellonesi, dove il piccone ha decimato villini unifamiliari con la loro acacia e la loro palma, persino la loro vasca con pesce rosso, uno di più in famiglia. Avvolte nelle nebbie dell'umidità e condannate dall'irresolutezza del proprio stile, hanno visto come i nuovi liberi professionisti se ne andavano più in là, a vivere a Sant Cugat, dove ci sono l'università e un campo da golf, riscaldamenti centralizzati e farmacie, e anche un ristorante argentino e una fromagerie, elementi indispensabili per considerare abitabile qualsiasi piccola città catalana di fine millennio. A Carvalho però piace il carattere obsoleto di queste costruzioni, in altri tempi sogni di un ritorno alla natura di persone che ancora ignoravano che la città sarebbe diventata più mostruosa di quello che avrebbero potuto immaginare con la loro fantasia, piccola quanto i loro desideri. Queste villette gli permisero di ricuperare la lumaca e il cardellino, il lombrico e l'airone, il girino e il temporale.

Nell'indirizzo che gli aveva scritto la madre di Teresa Marsé figurava anche il disegno del sentiero verso «Can Torneila», la residenza di Ernest, Ernesto per la Storia, perché il ragazzo era nato nel pieno orgasmo della rivoluzione permanente incarnata dal Che. Vicino al rovere gigante, dicevano le indicazioni, e il rovere, non troppo gigante, era lì come se avesse voluto adattare il proprio gigantismo alla scala di siffatta casa voglio-ma-non-posso. Un cancello di ferro battuto arabescato, un piccolo giardino d'ingresso con gli oleandri consumati dai parassiti, una facciata da casermetta della Guardia Civil su cui spiccava solo una scalinata che tentava di imitare il mosaico impazzito gaudinesco e alla fine della scalinata una porta aperta su un orizzonte di mosaico ben conservato e al di là dell'orizzonte una sala con caminetto neoclassico, enormi cuscini di stampati indostani, sopra un cuscino una ragazza minuta, con i capelli raccolti in una crocchia, con la bocca aderente al flauto e gli occhi che combattevano contro la testa voltata per vedere chi era l'intruso. Però non smette di suonare un modulo che a Carvalho pare di Mozart e che contrasta con il poster sul muro dedicato a Eric Burdon e con un'enorme foto di Mick Jagger che si tira fuori la chitarra dalla patta dei pantaloni. Da una porta laterale sbuca una coppia dalla chioma unisex, magri come gatti senza padrone, giovani come alberi novelli. La coppia non vuole rompere l'incanto della musica per chiedere l'identità di Carvalho e la flautista paralizza Carvalho con gli occhi aperti, l'unica cosa veramente bella in un viso da anodina figlia minore, mentre le sue labbra continuano a suggere la musica dal flauto. La musica annuncia la propria morte e quando si estingue le figure ricuperano lentamente il movimento e la capacità di sorprendersi davanti al quarantenne vestito da genitore che si è introdotto nella mansarda del paradiso. Dalla rotondità della pancia che esplode sotto la tunica terzomondista, Carvalho deduce che la flautista è la presunta nuora di Teresa Marsé. La coppia unisex si scompone e la voce maschile fa un passo avanti.

«Che cosa desidera?»

«Era aperto. Sto cercando Ernesto.»

I tre giovani si guardano e non rispondono.

«E' per una faccenda che riguarda sua madre, Teresa.»

«E' in viaggio.»

Ha detto la nuora.

«Lo so. Si tratta proprio di questo. Volevo parlare con Ernesto.»

«Lavora.»

«Torna presto?»

«Fa il cameriere e fa il turno di notte. E' appena uscito.»

Quel ragazzino con le occhiaie, nato per essere il Che o l'erede di «Can Marsé» fa il cameriere.

«Potete dirmi dove lavora?»

Forse glielo possono dire, però non glielo vogliono dire.

«Non lo so. E' a Barcellona, ma dove non lo so. Come ha fatto a trovare questa casa?»

«Mi ha dato l'indirizzo la nonna di Ernesto.»

«Ah, la iaia25».

La ragazza sembrava sollevata e dicendo la iaia aveva guardato verso una porta che comunicava con il fronte di piastrelle scheggiate della cucina. Sicuramente la nonna stava contribuendo a far sì che quella cucina funzionasse.

«Mi scusi, ma il fatto è che mio padre mi sta cercando e non vogliamo seccature. Viviamo in casa di questi amici.»

La coppia unisex agitò la testa affermativamente.

«Ernest lavora al Capablanca, un locale di travestiti, in fondo alle Ramblas. Lavora come cameriere»

Si affrettò ad aggiungere perché nemmeno per un istante Carvalho potesse pensare che Ernesto lavorasse come travestito. Diciassette anni di flautista incinta fissavano Carvalho senza diffidenza, ma in attesa di spiegazioni.

«E' successo qualcosa a Teresa?»

«E' quello che sto cercando di sapere.»

 

Perché si veste di seta

il giglio viola in fiore,

perché si veste di seta,

amica mia, chissà...

 

Come un fiore di sangue, la chioma bionda stopposa e tutto il resto rosso acceso, il rossetto, il vestito con strascico a pois, bianchi i pois, di un bianco arrossito, la Pipa, un metro e ottanta senza tacchi e coi tacchi una statura da pivot, un torace da peso welter accresciuto da due tette siliconate che sono l'invidia della concorrenza, polpacci da lezione di anatomia e, allo svolazzare della gonna, cosce marmoree per nascondere il mistero di ciò che ha o non ha rispettato un bisturi a Casablanca. E nel viso da ragazzo bruno camuffato da ragazza bionda, fattezze da culattone spudorato, la malizia del por qué se viste de sea la flo de lirio morà e un tacchettio che solleva miasmi di polvere che si assommano alla nebbiolina eccitata dai fasci di luce con cui i riflettori cercano di afferrare quanto di ginnico, sottolineato dall'espressione corporea, la Pipa mette nella tragedia de La campanera, tragedia profonda tra le mani di un pianista corto, vecchissimo, con occhialini da studente morto in una carica della polizia zarista. In controluce gente da bar, e nelle profondità della sala non entra più un'anima, tutti i tavoli occupati da coniugi appena usciti da una cena da seimila pesetas gomito a gomito con la borghesia progressista richiamata dal tam-tam orale di un ambiente irripetibile, la Pelucas, Rosalinda, la Adefesio, la Toro, specializzate in imitazioni di Rocio Jurado, Amanda Lear, Astrud Gilberto, Raffaella Carrà, ex camionista Rosalinda e padre di due figli, figlio minore di madre vedova la Pelucas, meccanico tornitore la Adefesio, puttano ambidestro la Toro, successo assicurato con Luigi el Amoroso.

«Rispettabile pubblico, tra breve il grande successo di Raffaella Carrà nella versione di Juana la Toro

Sostituisce la Toro a la Pelucas andando a cozzare contro l'attacco del pianista

«... accompagnata al piano dal maestro Rosell

Rosell, il pianista vecchio, un Buster Keaton bianco di notti che corregge tempestivo i disastri di tempo e d'intonazione delle allegre e forti ragazze.

«Ho certe mestruazioni!»

Dice la Pelucas con il sudore dell'arte in fronte. «Quando ho il marchese mi viene un'emorragia!»

Insiste la Pelucas circondata da un gruppo di habitué che sorridono o ridono a seconda del controllo nervoso al cospetto della gigantessa dallo scoscio inquietante.

«Una volta stavo recitando a Maiorca e mi è venuto uno di quei marchesi, guarda, carino, appena ho messo piede sul palco.»

E corre la voce che in sala c'è un sindaco in carica e Luis Doria, il vecchio genio della poesia e della pittura, conservato in formalina e amido. Luis Doria, dall'osservatorio di un tavolo che domina gli schiamazzi, punto di riferimento per gli intenditori, c'è Luis Doria, è ancora vivo? Hai visto la sua esposizione alla Maeght? Una sana sensazione di buon investimento tra le coppie accasate che consumano la loro settimanale notte di follia con una coppia di amici, soci in affari e in vacanze al mare. Per il resto precari, mini-editori d'avanguardia, ex editori, post-editori, scrittori, pittori, ex cantanti di protesta, specialisti in fantascienza, numeri dodici e persino undici delle liste elettorali comuniste o socialiste, prestigiosi tappabuchi che guardano le spalle cariche dei politici davvero da premiare con un seggio al parlamento e Juanito de Lucena, appena arrivato da una tournée in America del Sud, solidale con il sottofondo della festa, con addosso gli occhi aracnoidali della Pelucas.

«Com'è bello!»

Juanito de Lucena, un neo posticcio vicino alla bocca sensuale e un disegno di ciglia da fanciulla in fiore. Su Juanito de Lucena si china Ernesto con i quattro gesti che gli ha insegnato il maître, il corpo inclinato in segno di offerta, una mano ripiegata dietro la schiena e l'altra che maneggia il vassoio mentre dalle labbra esce un che cosa le posso servire sufficientemente alto perché il cliente lo possa sentire e non si spezzi l'ispirazione della Toro, una Raffaella Carrà di brunezza tunisina e complessione da zappaterra.

«Ernesto, quel signore ti vuole.»

Il figlio di Teresa Marsé porta sul vassoio due gintonic e un Alexander. Dalle labbra di Carvalho non esce il tono di voce adeguato ed Ernesto non capisce. Carvalho gli fa segno di allontanarsi dal baccano e il ragazzo gli dice che non può. Gli chiede di aspettare. Porta l'ordinazione a un tavolo e durante il suo viaggio qualcuno dà un colpo su una spalla di Carvalho. Quando si volta riceve la sorpresa del sorriso rugoso della Donato.

«Ma bene, lei è instancabile!»

«Le assicuro che è solo un caso.»

«Come dice?»

«Che è un caso.»

«Sono seduta là con delle amiche. C'è un bicchiere che la aspetta.»

«Là» è un tavolo posto ai piedi di Luis Doria dove parlottano tre signore separate dal marito e dalla festa. Adesso la Toro si è messa a recitare la sua nostalgia per Luigi el Amoroso, latin lover da esportazione che se n'è andato a Hollywood a far fortuna con la nerchia, mentre il maestro Rosell crea una decisa sensazione di paesaggio musicale intimo, triste a prescindere dalla parodia. Torna Ernesto con il vassoio vuoto e fa segno a Carvalho di andare verso i gabinetti. Anche lì arrivano gli eccessi canori de la Toro ma non il fervore delle conversazioni e le sghignazzate represse.

«Che cosa c'è? Non posso trattenermi. Sono in prova e mi è costato parecchio trovare questo lavoro.»

«Si tratta di sua madre. E' nei guai e in Tailandia.»

«Mia madre è sempre nei guai.»

«Sembra una cosa seria. Suo nonno non vuole saperne niente. C'è modo di trovare suo padre?»

«Mio padre? Lui meno ancora. Il difficile sarà trovarlo, e che lo trovi o no non fa differenza. E' tornato bambino. E' come mio figlio. Passa metà dell'anno a Ibiza e l'altra metà a piantar debiti per Barcellona.»

«Qualcuno deve fare qualcosa per Teresa. Bisogna mettersi in contatto con il Ministero degli Esteri, per esempio.»

«Non sarà una delle solite balle di mia madre?»

Il maître si affaccia da dietro un angolo.

«Non posso trattenermi. Qui ti giochi il posto per qualunque idiozia. Cercherò di trovare mio padre. Mia dia il suo telefono.»

Carvalho gli porge un biglietto da visita ed Ernesto se lo ficca in una tasca della giacchetta da smoking come se fosse una mancia. Ha i capelli lunghi raccolti in una treccia e l'ombra dei baffi adolescenti ingrandita dalla disperata volontà di non raderseli.

«Allora, viene o non viene?»

E' la Donato. Prende Carvalho per un braccio e lo aiuta ad aprirsi una strada tra la moltitudine che si sbraccia negli applausi. Attraverso il tunnel di clienti scostati aperto dalla Donato, Carvalho arriva al tavolo delle signore. Una concertista di pianoforte, una traduttrice di romanzi femministi e la vincitrice del maggiore premio di letteratura per romanzi brevi della regione della Murcia, informa la Donato e presenta Carvalho come un investigatore privato disoccupato.

«Approfittate dell'occasione, ragazze, questo signore cerca lavoro.»

«Se lo avessi conosciuto prima! A che cosa serve un investigatore privato?»

«A seguire suo marito, per esempio.»

«Non ho più un marito.»

«Nemmeno io.»

«Queste belle signore sono tutte separate e sono a sua disposizione.»

La concertista conserva l'abbronzatura estiva e guarda Carvalho da sopra la spalla. E' una bionda ben tinta, ben vestita, ben fatta, ben maturata, con i seni stretti sotto un corpetto di seta scollato.

«Vero che è carino? E' l'investigatore privato più carino che conosca. Oggi mi sono arrabbiata con lui perché è un maschilista.»

La Donato stringe con le mani un braccio di Carvalho e strizza gli occhi.

«Che bella serata! Cómo está esto! Ha visto Luis Doria?»

«Non ho il piacere.»

«Il pittore, il poeta; ma insomma, lei non li legge i giornali? Guardi. Eccolo lì. E' un habitué del locale e non ci viene per le ragazze, viene per il pianista. Ogni volta che ci viene se ne va per ultimo e prima di uscire saluta cerimoniosamente il pianista e poi se ne va.»

«Il pianista.»

Bisbiglia Carvalho e volge lo sguardo verso il vecchietto che è al culmine del sottofondo musicale del ritorno di Luigi el Amoroso al suo paese natale, alle sue amanti abituali, fallita l'impresa di diventare un gigolò a Hollywood. Il pianista è una figurina agitata dalla musica, con i pantaloni troppo corti che lasciano vedere un mezzo polpaccio anziano e bianco, i calzini marroni vecchi e rugosi, le scarpe imbalsamate dal lucido, nervose come le sue mani.

«Lei conosceva già questo posto, suppongo.»

«Suppone male.»

«Era stato aperto ancora sotto la dittatura, però lo avevano chiuso per una denuncia. Adesso lo hanno riaperto. Quasi tutte le ragazze sono le stesse di allora. Con quasi dieci anni di più sulle spalle. L'ha vista bene la Toro? Fa paura.»

E la risata della Donato si contiene quando avverte che la concertista e Carvalho si stanno guardando negli occhi, che la concertista la ignora e sorride a se stessa. La Donato poggia le labbra all'orecchio di Carvalho.

«Le faccia compagnia, è molto sola. Le piace la musica?»

«Dipende.»

«Le parli di musica.»

Carvalho scola il suo doppio whisky senza acqua né ghiaccio e si piega verso la pianista.

«Come va Beethoven?»

«Che cos'è successo a Beethoven?»

«Mi hanno detto che lei è musicista.»

«Il mio repertorio è Bela Bartok.»

Carvalho si finge contrariato e scuote la testa negativamente.

«Questo da lei non me lo aspettavo.»

La concertista ride e mostra una dentatura costosissima.

 

«La serata non può finire così.»

Proclamò la Donato quando fu ormai evidente che li stavano cacciando dal locale. Doria si era alzato, levigato, angoloso, con la chioma bianca che risplendeva nella penombra del locale e la sua andatura anziana ma decisa era assecondata da due accompagnatori che non perdevano d'occhio i suoi passi scendendo i gradini che lo separavano dalla pista centrale. Fu abbordato dalla concertista e il vecchio la accolse con affabilità, le baciò la mano, gliela trattenne, scambiò con lei qualche battuta e la congedò con il medesimo cerimoniale con cui l'aveva ricevuta. La ritirata era generale e Doria avanzò con facilità verso la pedana su cui il pianista stava raccogliendo meticolosamente gli spartiti. Carvalho seguì le sue compagne nel movimento di ricupero della concertista e insieme si trovarono a seguire la stella di Luis Doria, tra gli sguardi accorti degli ultimi clienti. Doria si fermò ai piedi della pedana e disse:

«Molto bene, Alberto, molto bene.»

Però il pianista si voltò appena. Annuì con la testa e continuò a dare le spalle all'onnipossente Luis Doria.

«Sempre tutto bene?»

Il pianista tornò a muovere ambiguamente la testa senza voltarsi verso Doria.

«E Teresa?»

Il pianista si agitò, e di spalle si poteva dedurre indifferentemente che stesse piangendo o ridendo. Aveva finito di raccogliere gli spartiti e s'incamminò verso i gradini della pedana senza fare il minimo caso a Doria, che aveva già scelto la strada dell'uscita seguito dai suoi accompagnatori. La Donato prese Carvalho per un braccio.

«Ogni sera è lo stesso. Tutte le volte che ho trovato qui Doria, la festa finisce allo stesso modo.»

Il pianista consegnò gli spartiti alla guardarobiera. La donna, come compiendo un rituale, li mise via e ricomparve con una spazzola che il vecchio utilizzò parsimoniosamente per spolverarsi da capo a piedi. Si trovarono a uscire insieme le accompagnatrici di Carvalho, il pianista ed Ernesto ormai senza lo smoking, adesso nell'uniforme da giovane millenovecentottantadue e la chioma sciolta sulle spalle. Ernesto gli fece un gesto d'intesa e montò su una piccola motocicletta con cui si lanciò su per le Ramblas verso la tana dove lo aspettava la flautista incinta. Carvalho pensò che il ragazzo avrebbe avuto freddo quando ottobre avesse cominciato a estinguersi e che non era una moto adatta per salire le rampe del Tibidabo e poi scendere per le strade umide che portavano al Vallés. Ma Ernesto era già una lucina rossa e lontana e invece Alberto Rosell, il pianista, camminava al centro della Rambla con agilità da escursionista, forse favorita da quei pantaloni troppo corti che lasciavano vedere dei calzini marroni da dopoguerra.

«Rosa, tesoro, non mi hai detto niente.»

La Donato baciava ed era baciata da Rosalinda, così coperta di pelliccia da sembrare un esploratore artico effeminato.

«Ma non mi ami più, mi odii proprio. Ti sei già dimenticata che siamo state tanto amiche.»

«E come potrei dimenticarti, amorino? Ma è che sei troppo maschio per me.»

«Maschio io? Ah, che cosa mi dici. Andrés, dai, vieni a sentire che cosacce mi dicono.»

Si avvicinò al gruppo un ragazzo con le basette e un mozzicone di sigaro tra le labbra.

«Questo è il mio Andrés, il mio fidanzato. Ci sposiamo. E questa è Rosa. Senti cosa dice, tu, che sono troppo maschio per lei. A te sembro un maschio, Andreuccio?»

Andrés disse di no, si cacciò le mani in tasca e si mise a cercare la luna in cielo Rosalinda pizzicò un braccio alla Donato.

«Però come sei cattiva, che cattiva che è questa donna. Presentami questo bel ragazzo. Dov'è che ve lo portate in tante?»

«E' un investigatore privato.»

«Un pulotto.»

Tutto lo schifo di questo mondo provocò un terremoto di settimo grado della scala Richter nella crosta di maquillage di Rosalinda.

«No. Un investigatore privato, come quelli dei film. Come Humphrey Bogart, per esempio.»

«Ah, be' non gli somiglia. Mi ricorda di più... non so... Un altro. Ma non quello lì che hai detto. Ciao, bellissima, e ricordati di me qualche volta. Ti sono piaciuta?»

«Hai cantato benissimo.»

«Vado a lezione di canto, pensa te, dallo stesso che ha insegnato alla Caballé a respirare con le ovaie. Insegnamelo anche a me, gli ho detto. E me lo sta insegnando.»

«A respirare con le ovaie?»

«Ma sì, guarda, è proprio vero, si può. Guarda.»

Si slacciò la pelliccia scoprendo un vestito lilla che si adattava come una fodera alla voluminosa orografia di Rosalinda.

«Guarda, adesso respiro con il ventre,» e lo stomaco di Rosalinda saliva e scendeva a seconda del flusso d'aria in entrata o in uscita che aspirava con la boccuccia serrata e le narici dilatate come quelle di un rospo.

«E adesso faccio andare l'aria nelle ovaie.» E così fece, perché nessun volume esteriore diede segno di vita, al che tutti convennero che l'aria era andata a finire in un pozzo profondo nelle interiora di Rosalinda.

«E certo, quando l'aria è qui giù ci mette più tempo a uscire e ti dà più tempo per sostenere la voce. Per questo la Caballé, o che ti posso dire, la Callas o Raphael, o un cantante di quelli, trattengono l'aria e poi con la voce fanno quello che vogliono. Ti possono cantare, non so, per ore e ore e con la faccia di uno che si sta pettinando.»

Chiuse gli occhi per riordinare le idee destinate a una dissertazione che si augurava prolungata e la Donato la baciò sulle guance dando per terminata l'udienza.

«Senti, dolce, siamo stanchi e ce ne andiamo a casa. Congratulazioni per lo spettacolo e ti auguro tanto successo.»

Rosalinda tentò di dire che viveva per l'arte, ma la Donato le aveva già voltato la schiena e Carvalho si ritrovò a camminare guardandosi la punta delle scarpe, sentendo al suo fianco la presenza della concertista. Rosa approfittò della luce di un lampione per radunarli sotto la sua luce e impartire le istruzioni per la serata.

«Io devo alzarmi presto e non posso accompagnarti, Joana. Il nostro investigatore privato sarà così gentile da accompagnare a casa Joana, vero?»

Joana sollevò Carvalho dalla proposta della Donato e disse che la notte era piena di taxi.

«Ma non di investigatori privati.»

Era cosa fatta, perché la Donato sbaciucchiò le gote della concertista, diede la mano a Carvalho e si appese alle braccia delle altre due intraprendendo l'inevitabile risalita delle Ramblas. Qualche metro più in su si voltò per dire ad alta voce a Carvalho.

«Ha visto Marta Miguel? Sì, vero? Come le è sembrata? Un piombo, no? Io la conosco appena.»

Aveva parlato senza aspettarsi una risposta da Carvalho e gli voltò le spalle proseguendo per la sua strada. Joana stava guardando in tutte le direzioni per vedere se compariva un taxi.

«Non si preoccupi. La accompagno con molto piacere.»

«Il fatto è che mi fa rabbia.» E c'era rabbia nel tono della sua voce e nello sguardo che indirizzò alle tre donne che si allontanavano. «Mi fa sempre lo stesso numero.»

«E in che cosa consiste, se posso saperlo?»

«Be', appena si avvicina un uomo me lo scarica.»

«E' una buona amica, e generosa.»

«Lo fa per umiliarmi. Per dirmi, toh, prenditi lo stallone, tu che non sei come noi.»

«Ho capito. E perché continua a uscire con loro?»

«In Rosa c'è qualcosa che mi attrae. Non so cosa sia. La forza del suo carattere, forse.»

Appena entrati nella macchina di Carvalho si guardarono negli occhi e all'improvviso quelli della donna scesero a verificare se Carvalho aveva una bocca, e quando la trovarono fu tutta la testa che avanzò verso quella di Carvalho e delle labbra piccole, semiaperte, succose, s'impadronirono di quelle di Carvalho. Carvalho ricambiò il bacio e poi spinse il corpo contro lo schienale del sedile.

«Meno male che non dovrò fare la solita domanda stupida.»

«Che domanda?»

«Mi invita a bere qualcosa a casa sua?»

 

«Mio marito mi ha lasciata.»

Si lasciò cadere con il bicchiere in mano e l'altro braccio che equilibrava la caduta del corpo, per finire seduta con le gambe accavallate e il bicchiere in mano, senza aver neppure versato una goccia. Carvalho apprezzò l'abilità del gesto e dalla sua posizione di uomo affondato nelle sabbie mobili di diecimila cuscini, senza mani sufficienti per reggere il bicchiere, evitare di essere ingoiato e mantenere una posizione che gli permettesse future avances verso Joana, maledisse il supposto orientalismo che si stava impadronendo dell'arredamento di interni. Alle pareti invece pittura astratta, nomi boriosi, e in fondo all'immenso salone, dove c'era un terzo soggiorno, il piano a coda, un trono.

«Così, su due piedi. Me lo aveva preannunciato fin dal primo giorno di matrimonio. Quando compirai quarantacinque anni io ne avrò già cinquanta. Allora ti lascerò. E io l'avevo preso per uno scherzo.»

Bevve dal bicchiere con la delicatezza di un uccellino. «E' successo a luglio. Io compio gli anni a luglio. Il ventidue. Eduardo mi ha consegnato un astuccio e una busta. Nell'astuccio una collana di smeraldi che mi aveva promesso da... insomma... E nella busta un appuntamento da un avvocato e un assegno da dieci milioni di pesetas... Hai capito? Che cosa ne dici?»

«Che tuo marito ha molti soldi.»

«Qualche volta. Però sì, ha soldi. Non molti. Tu cosa intendi per molti soldi?»

«Cinquanta milioni di pesetas.»

«Quelli sono spiccioli. Comunque sì, li ha.»

«Perché ti ha lasciato?»

«Credo che sia perché mi considerava usurata. Mi ha detto che mi meritavo una seconda vita, accanto a un altro uomo, lontana dalla vita domestica. E anche lui, ovviamente. Ha avuto due figli da un'infermiera della sua clinica.»

Affacciò gli occhi da sopra il bicchiere per vedere che effetto facevano le sue rivelazioni.

«Più giovane di me.»

«Ma non più bella, sicuramente.»

Le mani di Carvalho si mossero rapide. Le disfecero l'acconciatura e una chioma corta e dolce incorniciò un viso da copertina di «Hola»26 sottomessa a un regime ipocalorico e a massaggi facciali che combattevano un inizio di flaccidità delle guance e le rughe ad anello sul collo. E le mani dell'uomo ripresero a muoversi per far passare le bretelline del corpetto oltre le spalle e consentire la libertà delle tette forti, precise, brune dal sole, che culminavano in due capezzoli fragola. Lei contemplava le proprie tette e allo stesso tempo voleva continuare la confessione.

«Non abbiamo avuto figli.»

«Meglio così. Chi li avrebbe tenuti?»

«E' vero.»

Adesso le mani andavano verso la gonna e la donna dovette voltare la schiena a Carvalho perché le abbassasse la cerniera, senza abbandonare il bicchiere, senza rovesciare nemmeno una goccia, permettendosi anche il lusso di bere un sorso mentre Carvalho le sfilava la gonna. Con delle mutandine che sarebbero state comodamente nel pugno di un bambino e un bicchiere di porto in mano, il corpo di Joana pareva un montaggio visivo. Il corpo traduceva un'angosciosa volontà di lotta contro il tempo, neanche un grammo di grasso, non una piega che non fosse curata né un angolino che non fosse smaltato dai soli più caldi del mondo e, tuttavia, tanto sforzo non era riuscito ad annullare una certa macerazione delle forme che attraeva Carvalho e gli faceva scorrere i polpastrelli con delicatezza lungo tutte le frontiere di quel corpo in lotta mortale con i calendari.

«Rosa vorrebbe che fossi come lei. Che fossimo tutte come lei.»

«Sarebbe terribile.»

Disse Carvalho e cercò di reggersi su un gomito mentre baciava un capezzolo dopo l'altro con una scioltezza impedita dalla posizione. Quando le labbra di Carvalho si posarono sul capezzolo sinistro, Joana gettò indietro la testa e chiuse gli occhi lasciandosi cadere sul mare di cuscini. Preso alla sprovvista, Carvalho rimase orbato del capezzolo e in un equilibrio impossibile che si spezzò. Cadde incontrollatamente su Joana, azione che la donna interpretò come un assalto precipitoso e sgusciò tra i cuscini farfugliando varie volte un fastidioso: non ancora. Joana era lì, a mezzo miglio di cuscini, con le sue mutandine, volgendo le spalle a Carvalho e al mondo, meditabonda. Carvalho rimase in dubbio se andarsene o ricostruire un'atmosfera adeguata. Si arrese alla legge dei cuscini e si lasciò inghiottire fino a toccare il fondo. Di lì chiese con voce serena:

«Mi piacerebbe che suonassi il piano.»

«Adesso?»

«Adesso.»

«Così?»

«Così.»

La donna si drizzò, si sistemò i capelli con una mano e andò verso il pianoforte. Aveva un bel culo a forma di pera che si adattò allo sgabello girevole e dei gomiti aguzzi che si libravano sui tasti come uccellini da preda. Il piano pareva attendere le mani della sua padrona, perché le consegnò le note con la sollecitudine di un maggiordomo. A Carvalho sembrò che stesse suonando Albéniz, poco dopo avrebbe giurato di stare ascoltando Torre Bermeja, ma lei smise di suonare e senza voltare la testa si scusò.

«Scusa, ma sto provando un recital di Albéniz e ormai mi viene automatico.»

Di nuovo i gomiti si disposero all'assalto dei tasti, e questa volta con una melodia triste, romantica ed epica insieme, con lo spessore della notte o dei sensi, ma senza dubbio fatta per rimuovere i sedimenti del sentimento.

«Che cos'è?»

«O Perigal. Una canzone di Theodorakis su una poesia di Elitis. Cantata è bellissima. Soprattutto se la canta Maria Faradouri.»

«Anche così non è male.»

«No, non è male.»

Carvalho si alzò e si spogliò. Avanzò verso il pianoforte e abbracciò la pianista impadronendosi dei suoi seni. La melodia andò a pezzi e Carvalho obbligò la donna a mettere le mani sul coperchio del piano e mentre le baciava la nuca la penetrò da dietro.

«Perché?»

Ebbe il tempo di dire lei prima della penetrazione. Ma Carvalho non voleva o non aveva una risposta. Le gambe di lei cedevano a misura dell'avvicinarsi dell'orgasmo e Carvalho dovette sostenerla con il braccio incrociato sull'inguine. Quando finì la lasciò a formare un angolo tra il pianoforte e il suolo. Joana si alzò con vacillamenti da Margot Fontaine e senza mostrare la faccia a Carvalho andò verso i cuscini e ci si rintanò. Carvalho trattenne l'impulso di andare a cercare il bagno e si gettò accanto alla donna fingendo con un dito percorsi immaginari sulla sua schiena. Lei voltò la testa e finalmente lui le vide la faccia, accaldata, come dilatata da un'intima soddisfazione.

«Perché?»

«Perché cosa?»

«Perché lo abbiamo fatto?»

«Mi vengono in mente due buone ragioni. Perché ci siamo divertiti e perché sono le cinque del mattino e non hanno ancora aperto il Corte Inglés.»

«Perché lo hai fatto così, come se fossimo cani?»

«Hai una bellissima schiena.»

«Lo hai fatto per umiliarmi.»

Aveva aggrottato la fronte per stimolare il proprio broncio. Carvalho si alzò e cominciò a vestirsi.

«E domani?»

«Domani sarà un altro giorno.»

«Ci vedremo.»

«Domani no. Un altro giorno.»

«Tra poco vado in tournée, se non avrò problemi con la polizia e il magistrato.»

«Cosa ti è successo?»

«Sono testimone per l'omicidio di quella donna, Celia Mataix.»

«Eri lì la sera del delitto?»

«Sì. Mi ci ha portato Rosa. E me ne sono andata con lei.»

«Conoscevi Celia già da prima?»

«Molto bene. Troppo bene.»

Non cercò di camuffare il tono.

«Problemi?»

«Era stata l'amante di mio marito. Per la precisione ho voluto andarci per vedere com'era da vicino.»

«E com'era?»

«Una puttanella che si dava delle arie.»

Le mani della donna frugavano alla ricerca dei vestiti.

Si vestì quanto bastava per accompagnare Carvalho fin sulla porta di casa.

«Ho la sensazione di essere stata una stupida.»

«Perché?»

«E' stato così... animalesco...»

Carvalho chiuse gli occhi spiritualmente e le tese una mano. Lei guardò la mano come se non capisse il gesto e poi si alzò sulle punte dei piedi per baciare la guancia di Carvalho.

«Lo fai sempre così?»

«Come?»

«Come se non t'importasse che faccia fa la tua compagna.»

Aveva voglia di dire quello che stava per dire e voleva dirlo esattamente nel momento in cui chiudeva la porta dietro Carvalho.

«Voi uomini siete tutti uguali.»

 

Tardò a rendersi conto che la scampanellata era reale, che nonostante fossero le dieci del mattino e non avesse dormito neanche quattro ore, qualcuno stava suonando il campanello con la volontà di farsi sentire. Salto giù dal letto nudo e si affacciò alla finestra. Di sotto c'era Ernesto, deciso a non andarsene gratis dopo aver dormito poco come Carvalho. Il detective aprì la finestra e lanciò un «ho capito» indignato che fece volare via le rondini posate sugli alberi del giardino. Si mise a cercare una vestaglia e si trovò pochi secondi dopo ad aprire il frigorifero per ingollare mezza caraffa di acqua fredda. La vestaglia. Tra la vestaglia e lui s'interpose un disorientamento strano, come se all'improvviso avesse dimenticato la strada che portava alla vestaglia e alla porta d'ingresso. O forse non possedeva una vestaglia. Si ricordò che in bagno c'era qualcosa di simile a un accappatoio e andò a prenderlo. Se lo mise addosso e nel metterselo ritrovò il senso di quello che stava succedendo. Qualcuno aveva suonato il campanello senza rispettare la nube di stordimento che aveva nella testa e quella sensazione di sonno incompiuto. Uscì a piedi nudi in giardino, aprì la porta a Ernesto senza dire niente, forse aspettandosi delle scuse, ma il ragazzo passò muto davanti a lui e a grandi passi s'impossessò del giardino, della porta di casa, della casa. Carvalho gli andò dietro e non ricuperò il controllo della situazione finché Ernesto non si lasciò cadere sul divano sospirando rassegnato.

«Ho un sonno che non ci vedo.»

«Be' io ne ho uno che non vedo te. Credevo che i giovani d'oggi non si alzassero all'alba.»

«Se non le dispiace vorrei sbrigarmi più in fretta possibile. Questa faccenda di Teresa, mia madre, non mi ha fatto dormire. Che cos'è successo?»

Carvalho gli fece un riassunto della situazione ed Ernesto annuì come se gli stessero raccontando le vicende di un'incorreggibile recidiva.

«La mamma è una di quelle che si cacciano in qualsiasi cosa senza sapere come uscirne. Sono andato a trovarla e le ho detto: la mia compagna è incinta. E lei ha cominciato a parlarmi di controllo delle nascite. Una cosa pazzesca. E poi un'altra storia sul fatto che lei è una madre comprensiva e che non se lo meritava. E che non aveva voglia di essere nonna. Come se io le avessi chiesto di fare la nonna. O come se essere o non essere nonno si veda fisicamente. Essere nonni non si vede. Essere genitori sì, le ho detto. E lei si è inferocita. Ha ripetuto che se ne andava e che ne avremmo parlato al suo ritorno. E io? Io dovevo pensarci prima. E così sono qui.»

«Sei stato fortunato a trovare un lavoro.»

«Mi sfruttano, però faccio finta di niente. Né contratto, né assicurazione, niente. Ma se non altro sono tranquillo e non devo chiedere soldi a nessuno. Che cosa posso fare per Teresa?»

«Non credo che tu possa fare gran che. In realtà quelli che dovrebbero muoversi sono i tuoi nonni o tuo padre. Trovami tuo padre, se puoi.»

«L'ho già trovato. Lavora come istruttore in una pensione per cani sulla costa. A sud, dalle parti di Calafell. Per il momento. Se ne intende, perché a casa sua hanno sempre avuto dei cani. Non si stupisca.»

«Non mi stupisco.»

«Il fatto è che mio padre era stato consulente finanziario della Bankinter perché era cugino di non so chi o perché era il genero di mio nonno, non ricordo bene. Adesso è appena tornato da Ibiza e quella che lo manteneva si è stufata di lui. E' ingrassato e sta perdendo i capelli.»

«Quanti anni ha tuo padre?»

«Troppi. Quaranta e passa. Uno o due anni più di Teresa, però è più vecchio. E' uno sballato, quello. Da quando se n'è andato da casa ha fatto di tutto. Meno male che non dà consigli.»

Si mise a ridere.

«E' matto. Quando gli ho detto che aspettavo un figlio mi ha detto: benissimo, Ernesto, sei un sigala 27 come tuo padre. Tornando alla faccenda di Teresa. Vuole che faccia qualche passo? Non faranno molto caso a un ragazzo di diciotto anni. Mio nonno conosce della gente, e anche mio padre, anche se gli amici che aveva li ha persi a forza di debiti. Il padre di Mercè, la mia compagna, ha delle influenze incredibili ed è deputato al Parlamento catalano, però non vuol vedermi neanche dipinto. E' uno di quelli che sono democratici dalla cintola in su.»

«Dobbiamo andare all'agenzia di viaggi per vedere se hanno saputo qualcos'altro, e poi da tuo padre a vedere se vuole darci una mano. Vuoi fare colazione?»

Disse di no e si alzò con agile esibizionismo mentre agitava la chioma per riportarla al suo posto. Si mise a esaminare la discoteca di Carvalho e a scuotere la testa rivolgendogli un sorriso da bravo ragazzo.

«Le si è fermato l'orologio. Nemmeno uno dei Rolling. Quello più nuovo è Penny Lane dei Beatles.»

«Devo averlo vinto a una tombola. In realtà sono fermo ad Aznavour.»

«Lei non è male come vuole sembrare. Qui c'è un elle-pi dei Pink Floyd. Però si deve aggiornare, sa, tra un po' diventa sordo. Si può essere sordi se non si è capaci di ascoltare la musica dei nostri tempi.»

«Un pensiero profondo.»

«Quando mi alzo presto mi vengono così, a vagoni.»

Carvalho andò in cucina. Preparò il caffè e, mentre si compiva la distillazione della sua trasfusione di sangue mattutina, si mangiò due etti e mezzo di fragole raccomandate da Bromuro come rimedio principe contro l'acido urico.

«E se riuscissi a mangiare solo fragole per una settimana, Pepe, butteresti fuori l'acido urico per un bel po' di tempo.»

Due etti e mezzo di fragole al mattino un pochino doveva aiutare. E con la soddisfazione di aver compiuto un gesto di rispetto per il suo corpo maltrattato entrò nella doccia e si sottomise all'alternarsi dell'acqua fredda e dell'acqua calda, perché Bromuro, che non si era fatto una doccia da quando aveva attraversato l'Oder o il Neisse con la División Azul, sosteneva che facesse bene alla circolazione.

«Alla tua età, Pepino, devi cominciare a preoccuparti della circolazione. La condizione del sangue è la condizione del corpo. Per questo io sto come sto. Ho il sangue così denso che sembra fritto, con la cipolla.»

Uscì dalla doccia e trovò la casa occupata dal Romance de valentía di Conchita Piquer. Ernesto gli sorrideva dal divano.

«Roba da museo. Troppo giusto. Sembra una di quelle che cantano al Capablanca. A lei piace?»

«Mi ricorda il dopoguerra.»

«Le piacciono i ricordi.»

«Ognuno ricorda quello che può.»

«Io mi ricordo una canzone di Karina che si chiamava No somos ni Romeo ni Julieta. La si cantava quando avevo più o meno sei anni. Però allora si cantavano anche i Beatles e io mi sono messo dalla parte dei Beatles.»

«Vedo che continui a pensare. Andiamo.»

Uscendo in giardino lo spettacolo delle edere onnipotenti e delle siepi sgraziate meritò la disapprovazione di Ernesto.

«Sembra un giardino abbandonato.»

«Non ti piace neanche il mio giardino?»

«Le piante bisogna amarle. Bisogna parlarci e voler loro bene, far anche sentire loro della musica. Se vuole un giorno vengo qui e glielo sistemo. Le faccio pagare poco.»

«Hai l'anima di un Rockefeller. Cameriere, giardiniere: uno di questi giorni ti troverò a vendere giornali per la strada.»

«Se si potesse fare lo strillone mi piacerebbe. La seguo con la mia moto.»

La sua moto era un vespino scartellato che si lanciò dietro la macchina di Carvalho e da quel momento si trasformò in un motivo di preoccupazione per il detective, che vigilò dal retrovisore il costante inseguimento del ragazzo. Gli sembrava impossibile che quell'insetto a due ruote potesse reggere Ernesto e sostenere l'andatura della macchina. Il desiderio di sorvegliare il comportamento della moto fece sì che Carvalho scendesse a bassa velocità e che dietro di lui si formasse un'irritata carovana di conducenti che poi, mentre superavano la moto e Carvalho, lanciavano al detective occhiate irritate e sprezzanti che di solito si attirano solamente donne al volante o guidatori anziani. Insofferente con se stesso, Carvalho accelerò l'andatura quanto glielo permettevano le carovane di madri che avevano appena affidato i figli alla scuola dell'obbligo nella trama di istituti privati disseminati nella parte alta della città. Lasciò la macchina nel parcheggio sotterraneo del Paseo de Gracia e camminò rapido verso l'agenzia di viaggi. Sulla porta lo aspettava Ernesto.

«Diventerà molto vecchio. Guida come se non avessero ancora inventato la fretta.»

L'entrata nell'agenzia di Carvalho seguito dal ragazzo capelluto e sgraziato fece inarcare qualche sopracciglio. Ci fu chi pensò all'avvicinarsi di una rapina e anche chi vide in Carvalho il maturo finocchio che va a prenotare una crociera nel Caribe con il suo giovane protetto. Le facce restanti erano di lavoro e d'indifferenza, da cui Carvalho dedusse che a nessuno era passato per la mente il normale pensiero che si trattasse di un padre e di un figlio in cerca di informazioni per un viaggio di studio, per esempio. Il direttore dell'agenzia aveva pronta per loro la faccia delle preoccupazioni e, anche se Ernesto gli fu presentato come il figlio di Teresa, rivolse il suo rapporto a Carvalho, al quale era unito da un legame di età e di giacca-e-cravatta. La comitiva era arrivata quella stessa mattina e Teresa non era tornata con loro. Aveva una relazione estremamente precisa del capocomitiva perché il viaggio era stato molto duro, con incredibili turbolenze sull'India e uno scalo tecnico di otto ore a Bombay, ma non aveva niente di nuovo da dire. Teresa Marsé era scomparsa a Chiang Mai, dopo aver seguito irregolarmente il gruppo, come risultava dal rapporto che gli metteva a disposizione. Era stato tutto normale fino a Bangkok. Da allora in poi si era separata dal gruppo e aveva intrattenuto rapporti con un tailandese dalla pessima reputazione, secondo la polizia, e nel dire pessima reputazione il direttore dell'agenzia guardava negli occhi Carvalho, come volendo dire e non dire qualcosa che il ragazzo presente non doveva sapere. Ma fu proprio Ernesto ad affrontare l'eufemismo.

«Che cosa vuol dire pessima reputazione?»

«Esattamente questo.»

«Esattamente questo non vuol dire niente.»

«Parli chiaro. E' un ragazzo scafato, uno che si è fatto da solo.»

Il direttore respirò a fondo.

«Per essere chiaro, e scusate se uso queste parole, ma è esattamente quello che mi ha detto la guida: era un professionista del sesso.»

«Un amante a pagamento?»

«Sì. Cioè; a Bangkok e dappertutto ci sono prostitute e prostituti, ma più le donne si emancipano e più spuntano prostituti. Gli atelier di massaggi, per esempio, prima erano solo per uomini, e adesso hanno cominciato a esistere atelier di massaggi per donne, in cui i massaggiatori sono uomini. Per le straniere, ovviamente. A Bangkok il vizio è per gli stranieri.»

«E cioè mia madre è scappata con un gigolò.»

«Stando al rapporto la storia non è chiara, e la polizia di Bangkok non vuole chiarirla. La mia guida ha detto: la faccenda mi puzza. L'ambasciata spagnola è intervenuta, ma il capo della polizia tailandese in persona ha detto che la faccenda non era di sua competenza, che '... la coppia si è interessata di cose che non la riguardavano.' Bangkok, non so se ci siete stati, è una città fasulla. Apparentemente è una città festosa e turistica in cui tutto è concepito per i turisti. Ma se si gratta un po' appare una città terribile, in cui chi non traffica con la droga che viene dal nord traffica con i rubini birmani o con le ragazze, e ognuno ha il suo territorio. La guida mi ha detto: la faccenda mi puzza. Ed è una guida esperta, con più di venti viaggi in oriente.»

«Possiamo parlare con lui?»

«Lasciatelo dormire per qualche ora, e a partire da questa sera sarà a vostra disposizione.»

 

«Residence canino Pluto.» «Un'altra casa per cani di casa.» E in primo piano un recinto verde dietro il quale si esibiva un domatore di cani che sembrava domare dei leoni. Stivali alti, pantaloni da equitazione, ampia camicia azzurra, un bastone in una mano e l'altro braccio guantato fino al gomito, tutto il corpo in una postura fatta per provocare il cane, aspettarlo e assecondare i suoi movimenti di cattura con l'eleganza con cui può essere catturato solamente un signore.

«Mio padre.»

Sussurra Ernest rassegnato precedendo Carvalho nell'entrare. Il ragazzo si avvicina al recinto e grida il nome di suo padre superando l'incaponirsi dei latrati.

«Signor Planas Riutort!»

Il domatore si volta e il gesto è accompagnato da una frangetta compatta che gli copre la fronte. Sorride come se il sorriso gli venisse ripreso da una telecamera e corre atleticamente incontro al figlio. Apre il portello metallico che rinchiude lo spazio destinato all'addestramento, si toglie il guanto di protezione e utilizza la mano libera per dare un affettuoso buffetto al ragazzo.

«Come va, Tito?»

«Benissimo, papa. Lasciami parlare prima di sorprenderci con una delle tue. Questo signore si chiama Carvalho, ha ricevuto una telefonata della mamma da Bangkok, in cui gli ha detto che è in pericolo e che ha bisogno di aiuto. Insomma, cioè, se è necessario andrà a Bangkok per darle una mano.»

«Tua madre. Non mi sorprende per niente. Appena mette il naso fuori di casa ne combina una.»

Porge la mano a Carvalho e sostituisce il sorriso da tenero padre con quello da anfitrione condiscendente. «Mi fanno impazzire gli investigatori privati. Non leggo altro che romanzi gialli. La faccenda di Tere è una seccatura.»

Poi si fa serio per ripetere a suo figlio:

«E' una seccatura.»

«Non siamo venuti qui per sentire delle recriminazioni, papà. Si tratta di smuovere della gente perché si interessi di quello che è successo alla mamma e bisogna andare a Bangkok a cercarla.»

«Non contare su di me. Io posso chiamare degli amici perché si muovano... Per esempio l'attuale ministro degli Esteri... come si chiama... quello che era tanto amico di Fernando... Ah, sì! Pérez Llorca... Sarà ministro ancora per poco, ma qualcosa può fare. Credo che si ricordi di me. Ecco! Com'è che non ci ho pensato prima. Il Seni. Io e il Seni eravamo nei circoli monarchici da... insomma... dai tempi di Carlo Cotica. Telefonerò al Senillosa... E quanto ad andare a Bangkok, ragazzo mio, che rottura, e quanto costa! Io nella mia situazione non vi posso aiutare. Nemmeno te, Tito, e non è che non voglio. Questo è un lavoro provvisorio e il padrone, che è un mio caro amico, mi dà uno stipendio particolare perché sono io e perché di cani me ne intendo davvero. In casa abbiamo sempre avuto cani di razza e cavalli. Lo sai, Tito. Però non sono in grado di aiutare nessuno all'infuori di me stesso. Tu lo sai, Tito, che ho scelto la libertà.»

«Ma almeno fai qualcosa. Telefona a quei signori.»

«Qui? Adesso?»

«Qui e adesso.»

«Ma non sta bene, Tito. Non è il momento né il luogo.»

«La mamma è in pericolo.»

Ernesto ha preso suo padre per un braccio e il domatore china la testa vinto dall'insistenza del figlio. Inizia l'avanzata verso uno chalet sopra il quale campeggia di nuovo l'insegna «Residence canino Pluto». La fiacca avanzata dell'uomo si converte in agili falcate non appena varcano la porta d'ingresso e s'infila in un ufficio in cui un omaccione bruno, con la faccia inmarocchita dal sole, scruta dei documenti.

«Senti Alfonso, questo è mio figlio Tito con un amico. Mia moglie è nei guai e devo telefonare a degli amici.»

L'omaccione ha alzato la testona e rivolge una faccia fosca e piena di rughe ai nuovi arrivati.

«Ti ho detto cento volte che non voglio telefonate nelle ore di lavoro.»

«Sì, ma senti, è un'emergenza. Mi ero dimenticato di presentarvi Alfonso, l'anima di questa impresa.»

Alfonso non migliora i suoi modi per il fatto di essere presentato come l'anima di tutto ciò.

«Quanti cani hai fatto stamattina?»

«Tre.»

«E quello della signora Carola?»

«Anche quello.»

«Dove devi telefonare?»

«Prima a Madrid, per parlare con Perez Llorca.»

«Con Perez chi?»

«Perez Llorca, il ministro degli Esteri.»

Alfonso continua a sprofondarsi nella tempesta che gli è scoppiata nel cervello e apre gli occhi meravigliato quando Ernesto prende il telefono e lo mette in mano a suo padre.

«Le pagheremo la telefonata e il tempo di lavoro che perde mio padre.»

Gli occhi e la bocca di Alfonso sono aperti per assorbire la quantità d'immagini necessaria per giustificare la dura condanna che stanno per emettere le labbra. Mentre il domatore chiede il numero del ministero degli Esteri, Alfonso si alza in piedi e punta il dito accusatore sul ragazzo.

«In questo ufficio le decisioni le prendo ancora io e non sopporto che due caccole ficchino il naso nei miei affari. Se non ti guadagni i soldi che ti do, non ti guadagni neanche il diritto di telefonare in orario di lavoro!»

E una manaccia s'impadronisce del telefono nel momento in cui il domatore ha ottenuto il numero del ministero degli Esteri. Il domatore chiude gli occhi e s'irrigidisce.

«Senti, Alfonso, ficcati il telefono dove ti ci sta e trovati qualcun altro per addestrare i tuoi cani.»

Alfonso ci mette un po' a rendersi conto che il suo protetto ha abbandonato la sua protezione.

«Insomma te ne vai. E dove vai a sbattere?»

«Le occasioni non mi mancheranno.»

«A te? Ma se sei più sputtanato di...»

Carvalho spinge Ernesto per evitare che si appiccichi con l'omaccione, che li insegue a passi corti, compensati dalla lunghezza degli strilli.

«E con tutto che ti ho dato questo lavoro per compassione! Che cosa sei buono di fare, eh?»

Come se la porta del recinto fosse il limite della sua autorità, l'uomo si ferma lì, contemplando l'andare dei tre.

«E quello sarebbe amico tuo?»

«Eravamo compagni di scuola, di università... insomma. Ma gli vanno male le cose ed è incazzato nero. E poi è un maleducato.»

«Non ti devi cambiare?»

«Vengo così ogni giorno.»

«E come ci vieni?»

«O in treno o, quando mi gira, in autostop. Accompagnatemi a Barcellona che telefono da casa della nonna. Povera, sono più di sei mesi che non la vedo.»

«Non hai il telefono a casa tua?»

«Abito con degli amici in un vecchio appartamento, in centro. No, il telefono non c'è. Si sta meglio senza telefono, vero? E tu, Tito, ce l'hai il telefono?»

«No.»

«Vedi?»

Un sorriso svela la trama di rughe sottili, come intagliata dalla punta di uno stiletto acuminato e c'è una certa richiesta di scuse nei suoi occhi allegri e un rimasuglio di ricomposizione dell'immagine nella mano che mette a posto la frangetta incanutita. Ernesto rimane assorto sul sedile posteriore, Carvalho guida la macchina, l'ex domatore di cani monologa ad alta voce, fingendo di indirizzare una comunicazione a suo figlio.

«La verità è che ne avevo abbastanza. In realtà ho accettato questo lavoro, Tito, perché era all'aria aperta e lo sai che in questi ultimi anni non sopporto più gli spazi chiusi. Telefono a questa gente e poi ho idea di ritornare a Ibiza. Non è alta stagione, ma per me c'è sempre un posto da cameriere o da autista di macchine a nolo. Lì se sai un paio di lingue ti salvi sempre, e non sai come ringrazio i miei che mi hanno fatto studiare il tedesco da piccolo, Tito, i tedeschi sono gli americani d'Europa. Tito, ragazzo mio, mi spiace perché è tua madre, ma per lei non c'è niente da fare. E' una brava ragazza, eh, non dico di no. Però qui dentro non ha proprio niente.»

Disse indicandosi la frangetta.

«Adesso aspettate, che salgo da solo a casa della nonna.»

«Vengo con te.»

Sorride condiscendente, l'ex domatore di cani, e mette una mano affettuosa sul braccio di Carvalho.

«Ah, i figli, amico mio! Lei ha dei figli? No. Beato lei. Lo vede. Lo vede le complicazioni che creano.»

 

A gesti Ernesto gli chiede di abbassare il vetro della portiera e si affaccia dal finestrino.

«Non c'è da sperare troppo Con Peréz Llorca non è riuscito a parlare, però ha lasciato un messaggio a una segretaria. Con Senillosa ha parlato, e gli ha promesso che farà quello che potrà, però lo ha avvertito che non è il primo caso di spagnoli implicati in storie di droga in Asia, e che la faccenda è complicata.»

Carvalho non vuole affrontare l'espressione triste del ragazzo.

«Se avessi i soldi prenderei il primo aereo. Vediamo se mio nonno ha fatto qualcosa. Ci vediamo nel pomeriggio, per vedere se quello dell'agenzia ha concluso qualcosa? Io adesso ho da fare.»

Si danno appuntamento, poi Carvalho trattiene il ragazzo.

«Senti, a tuo padre hai detto che stavo per andare a Bangkok a cercare tua madre...»

«Sì.»

«Non mi è mai nemmeno passato per la testa.»

«Capisco.»

Però non lo capiva, e nemmeno lo capiva Carvalho, pochi secondi dopo, mentre decideva di andare a mangiare all'hostal d'en Binu, il miglior ristorante vicino alla casa del vecchio Marsé. Anche se il suo orizzonte immediato era occupato totalmente da un branzino al cartoccio di eccellente fattura che aveva assaggiato al Binu qualche tempo prima, fu al momento di fare benzina che si rese conto che stava mettendo in conto a Teresa Marsé senza che nessuno lo avesse assunto per indagare sul caso. Aveva passato gli ultimi giorni a cercare il fantasma di una donna morta e a inseguire i passi di Teresa, la fuggitiva pazza, gratuitamente, come se lui, Pepe Carvalho, vivesse di amore per l'arte e non avesse già quarant'anni pesantemente aggettivati dai nove che lo avvicinavano alla cinquantina e a quella che i patiti degli eufemismi chiamavano la terza età, e senza riserve sufficienti per attendere con tranquillità una vecchiaia pessimista ma decente. Questa angoscia condizionò colui che si sarebbe dimostrato moderato al Binu e che, senza rinunciare al branzino al cartoccio, ordinò un primo piatto eccellente ma che non era all'altezza delle suggestioni del menu: zuppa Maresme. Eliminò anche il dessert e uscì dal locale con la sensazione di essersi assicurato di che alimentarsi per una settimana nella sua imminente vecchiaia. Con la mente pronta per la vecchiaia, si trovò nella condizione migliore per affrontare il vecchio Marsé senza condiscendenza, per parlargli a tu per tu, da condannato a morte a condannato a morte, e il resto sono fesserie, gridò Carvalho al panorama che gli apriva il parabrezza della sua macchina, ingrigita la luce bianca del Maresme da un cielo plumbeo sul quale scarabocchiavano false fughe stormi di uccelli col presentimento dell'inverno. Il misterioso vociare degli uccelli di Bangkok. Quei cavi trasformati in un appiglio disperato e insufficiente per migliaia e migliaia di uccelli. Forse si trattava di un periodo eccezionale o di uccelli eccezionali oppure l'eccezione era il loro stato d'animo. Ma gli stati d'animo non si ricordano mai esattamente, vengono sempre modificati dallo stato d'animo del momento del ricordo, e lui si trovava a Bangkok per preparare la retroguardia della battaglia presumibilmente perduta del sudest asiatico, perplesso dinanzi alla mancanza di sentimento di migliaia di esseri umani perfettamente uguali a Fu-Manchú e di fronte allo spettacolo di una città per lui muta, con le insegne in una lingua a ideogrammi. Dall'ambasciata americana al Dusit Thani e qualche uscita notturna con gli altri agenti in grado di schioccare la lingua nel momento in cui un'indigena si toglieva dalla figa una pallina da ping-pong aiutandosi solo con i muscoli vaginali. Nell'animo di Carvalho un'intuizione di congedo, di ultima corvée, che non voleva spiegarsi. La casa dei Marsé si sovrappose a una doppia immagine di uccelli tailandesi e di strada catalana che lo aveva accompagnato fin dall'uscita del ristorante. La cameriera filippina cominciò con un «non so se il signore è in casa» cui Carvalho rispose facendosi strada verso la hall. La filippina cercò di precederlo ma il cammino fu sbarrato dalla comparsa della signora da una porta laterale. Accettò la presenza di Carvalho senza alterarsi, limitandosi a guardare su per lo scalone, come se quel gesto anticipasse o presumesse la presenza del marito. Si avvicinò a Carvalho e gli mise una mano sul braccio.

«Novità?»

«Qualcuna.»

«Cattive?»

«Le cose si sono complicate. Ho parlato con suo nipote e con suo genero. Suo genero ha detto che avrebbe telefonato a ministri e deputati.»

«E' un millantatore. Che cosa vuole da lui?»

E quel Lui meritava una maiuscola. Che cosa vuoi da Lui, Pepe Carvalho? Che cosa vuoi da quel vecchio tuonante che da un momento all'altro può apparire in cima alle scale e buttarci fuori dalla sua Shan-gri-la?

«Voglio che faccia tutto quello che non farà suo genero e che non può fare suo nipote.»

«Ernest è un bravo ragazzo, però ha tanti problemi, tanti, sa, le disgrazie non vengono mai sole. Gli vado a dire che lei è qui. Non so come la prenderà.»

Salì le scale in punta di piedi e subito arrivò il vociferare tonante del vecchio Marsé.

«Ancora Arsenio Lupin? Dove si è cacciato Arsenio Lupin?»

Il vecchio avanzò aggrappato alla ringhiera e tornò a occupare il posto che gli spettava allo zenit dello scalone.

«Lei è cocciuto come un mulo!»

Carvalho non gli rispose. Non lo guardò neppure. Sembrava che stesse aspettando l'autobus.

«Ha sentito? Lei è cocciuto come un mulo! Che cosa possono fare due vecchi come noi in un caso come questo?»

«Sarebbe il caso che lei venisse a Barcellona. Ci sarà una riunione all'agenzia di viaggi e bisognerà prendere delle decisioni.»

«Io sono in pensione.»

«Però, Higinio...» intercesse la moglie.

«Tu sta' zitta. Sei in pensione anche tu. Ha un marito e un figlio. Che si svezzino come ho dovuto svezzarmi io. Che non stiamo parlando di bambini. Tua figlia ne ha quaranta suonati e tuo genero va per i cinquanta.»

«Sì, ma lo sai che su di lui non si può contare, e la bambina... poverina...»

«Bambina, poverina, un corno»

«Pensi che potrebbe essersi messa nei guai e che le conseguenze potrebbe pagarle Lei...»

Il vecchio Marsé aumentò le sue dimensioni, come se le parole di Carvalho gli avessero provocato un'esplosione interiore.

«Pagare io? E pagare cosa? Per me che se la tengano i cinesi, se vogliono.»

«Tra un'ora ci sarà una riunione all'agenzia di viaggi, e sarebbe meglio che lei venisse con me.»

Il vecchio si rigirò nella cella della sua indignazione.

«E va bene, allora! Ci vengo e mi sentiranno! Così sapranno con chi hanno a che fare!»

La moglie corse su per la scalinata e tornò dopo pochi secondi con una borsa in mano.

«Che cosa fai?»

«Vengo anch'io.»

«Tu resti qui.»

«Resta qui tu, se vuoi. Io ci vado.»

La donna scende gli scalini senza quasi toccarli, seguita dallo sguardo più perplesso che adirato del marito.

«E poi non sai neanche guidare.»

Dice sulla porta, poi esce nel giardino, dove prende possesso del posto di guida di una Seat 132. Carvalho raggiunge la sua macchina mentre il vecchio Marsé si avvicina arrancando a quella con sua moglie al volante.

«Crieu fills, pares porcs!»28.

Gridò alle siepi, alle montagne, al mare, con i pugni chiusi e il corpo tremante di collera. Dentro la macchina la sua sagoma si era rimpicciolita, e anche se Carvalho lo vedeva gesticolare, l'impassibilità della guidatrice toglieva importanza a quel gesticolare. Carvalho si fece superare e li seguì. Il vecchio adesso sembrava assorbito dal viaggio, dato che informava la moglie delle macchine che li precedevano e degli accadimenti del traffico. Non esitò ad abbassare il finestrino per impegolarsi in una lite con un camionista.

«E' fortunato che ha i capelli bianchi!»

Disse il camionista dall'alto all'uomo che sporgeva la testa e un braccio con la mano stretta a pugno dal finestrino.

«Ma che capelli e capelli! Tu guidi come un somaro! Dove hai imparato a guidare, in galera?»

Il camionista chiamò a testimoni il suo compagno di cabina e gli automobilisti che aspettavano che il semaforo diventasse verde.

«Se gli do due sberle finisco anche nei casini perché è un vecchio.»

«Un vecchio, ma con due palle così!»

Gridò il signor Marsé sporgendo due pugni dal finestrino, mentre la moglie approfittò della comparsa del verde per ingranare la marcia e mettere della strada tra la macchina e il camion.

 

Carvalho si sforzò di arrivare prima dei Marsé per poter avvertire quelli dell'agenzia di quanto stava per piombare loro addosso. Nell'ufficio c'erano già Ernesto, il proprietario dell'agenzia e quello che sembrava essere l'accompagnatore del gruppo. L'accompagnatore era un'accompagnatrice. Una donna di una bellezza matura che parlava con la neutralità fonetica dei poliglotti.

«Stanno arrivando i genitori della signora Marsé. La avverto che il signor Marsé ha un carattere difficile.»

Ernesto sbuffò e assentì per confermare quello che aveva detto Carvalho. La porta si spalancò e i due vecchi entrarono nella stanza. Sorprendentemente il signor Marsé salutò il proprietario dell'agenzia con la cortesia che avrebbe potuto meritare un banchiere e l'accompagnatrice con sessuale malizia. Invece inarcò un sopracciglio per salutare suo nipote mentre gli diceva:

«Sei qui, tu? Pensavo che fossi a dare il biberon a tuo figlio.»

«Quando arriverà il momento.»

«Qualche volta arriva anche quello che non dovrebbe arrivare.»

La moglie lo tirò per la manica della giacca e il vecchio scelse di lasciarsi cadere su un divano e di appoggiare il peso delle braccia sul bastone puntato tra le gambe divaricate. Il proprietario dell'agenzia gli fece un riassunto di quello che aveva detto a Carvalho e a Ernesto e diede la parola all'accompagnatrice.

«Ho ben poco da aggiungere se non qualche dettaglio, forse, anche se, a dire la verità, in una comitiva di più di cento persone non ci si può occupare di quello che succede a ognuno in ogni momento. E poi la signora Marsé si è aggregata al nostro gruppo a Bangkok, perché aveva fatto prima un altro itinerario: Singapore, Penang, Sumatra, Giava, Bali...»

«Cioè l'itinerario olandese.»

Interruppe il proprietario dell'agenzia.

«Esattamente, l'itinerario olandese. E' un itinerario che fa scalo a Bangkok tornando in Europa, e la signora Marsé aveva concordato con l'agenzia di aggregarsi lì al nostro gruppo, di visitare la Tailandia secondo il nostro programma e di ritornare con noi. E così è stato a Bangkok. Tutto regolare, nei termini della normalità.»

«E cos'è che non rientra nei termini della normalità?»

Tagliò corto il vecchio Marsé. L'accompagnatrice guardò il suo capo come se temesse di essere imprudente per quello che stava per dire.

«Parli con assoluta sincerità. E' un caso grave e lo si deve affrontare da persone mature quali siamo.»

Disse il proprietario.

«Va bene. La signora Marsé ha subito stretto amicizia con un nativo. Un ragazzo molto giovane che la accompagnava sempre. In una comitiva qualche volta nascono storie sentimentali tra persone di sesso diverso, storie che di solito terminano con il viaggio, e qualche volta degli uomini cercano una compagnia femminile nel paese che visitiamo e la cosa dura quanto dura il viaggio. Questo è normale. Però la storia della signora Marsé non era normale, anche se in quel momento non sapevamo di che cosa si occupasse quel ragazzo.»

«Dove c'è un pappone, lì vanno le puttane.»

Interruppe il vecchio Marsé, e le sue parole furono calpestate dal rimbrotto della moglie.

«Sta' zitto, Higini.»

«Be', non era proprio così, però... più o meno. Insomma. Durante le escursioni programmate a Bangkok la signora Marsé seguiva gli itinerari solo a metà. Aveva già la sua guida personale, pensavo, e non avevo niente da eccepire. Poi è venuta a chiedermi di trovare un posto per quel ragazzo sul volo e per il soggiorno che avevamo in programma a Chiang Mai. Io le ho detto che per il volo non c'erano problemi, ma che per riguardo al resto della comitiva le chiedevo di accettare che le trovassi una stanza in un altro albergo.»

Il proprietario assentì, spalleggiando la prudente decisione della sua accompagnatrice.

«Sono venuti con noi a Chiang Mai. Alla sera hanno assistito al tradizionale spettacolo folcloristico mheo e il giorno dopo avevamo in programma un'escursione in un villaggio mheo per vedere il costume locale, ai confini della zona dell'oppio. Loro non si sono presentati all'ora della partenza del bus e io non mi sono preoccupata. Ma il giorno dopo non si sono presentati nemmeno all'aeroporto, alla partenza per Bangkok, e allora sì mi sono preoccupata. In quel momento non potevo abbandonare la comitiva, però ho lasciato lì uno degli interpreti indigeni perché andasse a vedere che cosa era successo.»

Altro gesto di approvazione del principale.

«Il giorno dopo l'interprete è arrivato a Bangkok e mi ha detto che nel loro albergo non c'erano, che se n'erano andati precipitosamente, che non avevano pagato il conto degli extra e che per di più si erano presentati tre o quattro tipi a chiedere di loro con un'aria poco raccomandabile. Ho lasciato passare qualche ora, più o meno il tempo che arrivasse il successivo volo regolare da Chiang Mai. Ero tra l'incudine e il martello, perché dovevo accompagnare la comitiva nell'escursione a Pattaya e nello stesso tempo volevo risolvere la faccenda. Quindi mi sono messa in contatto con l'ambasciata spagnola e ho raccontato quello che era successo. Mi hanno tranquillizzata e mi hanno detto che avrebbero certamente saputo della probabile ricomparsa della coppia e che dovevo andare tranquillamente a Pattaya. Quando sono tornata la faccia del segretario d'ambasciata era un poema. Non solo non erano ricomparsi, ma quando, allarmato, si era messo in contatto con la polizia, gli avevano detto di che cosa si occupava il ragazzo e che nei bassifondi avevano raccolto una voce a proposito di una coppia che era ricercata da una gang di Bangkok. Lui lavorava in uno di quei locali dove le ragazze fanno... quel numero con la pallina da ping pong e con la sigaretta... insomma, mi capite...»

«Io non capisco proprio niente.»

Sbottò il vecchio Marsé portando avanti la testa fino a sbatterla contro il pomo del suo stesso bastone.

«Insomma. E' un po' come i live show europei, però alla maniera locale. Il ragazzo lavora in quelle sale nel caso che si verificasse un'emergenza. Lì accanto c'è un grosso casamento dove si possono trovare ragazze del nord, quasi bianche, per i turisti. Sono di una razza particolare, molto quotata: i genitori le vendono giovanissime, oppure provengono da una vera tratta delle schiave. Però qualche volta c'è richiesta di un uomo invece che di una donna, e Archit era lì per questo. Il ragazzo si chiama Archit.»

«Come dire che mia figlia se l'è comprato per scoparselo.»

«Non necessariamente. La cosa più probabile è che si siano conosciuti durante una delle serate del gruppo per vedere lo spettacolo del ping pong e che si siano messi insieme, ma io non direi in termini economici. Non so se mi spiego. Sembravano innamorati.»

«Innamorati!»

Sbottò il vecchio Marsé tamburellando i pugni sulle ginocchia.

«Vada avanti, per favore.»

«Sì. Allora sono andata di persona, con il segretario di ambasciata, al Ministero dell'Interno per vedere che cosa sapevano della faccenda, e lì abbiamo sbattuto il muso contro l'Asia: sorrisi, insinuazioni, indignazioni improvvise, vaghezze, e alla fine niente di niente. C'era di mezzo un traffico di non so che, e allora è come un tunnel che non sai dove comincia e dove finisce, perché lì, sotto il disordine apparente, è tutto controllato, e si sa in che cosa si può e non si può trafficare, quando, dove e chi, e si sa quale personaggio del potere beneficia concretamente di ogni traffico, che sia prostituzione, droga o pietre preziose. I giorni passavano e non cavavamo un ragno dal buco. E' stato più o meno allora che la signora Marsé le ha mandato il telegramma di cui mi ha parlato il signor Tobias, e subito dopo la telefonata... Dovevamo tornare, e io ho lasciato tutte le raccomandazioni possibili all'ambasciata. Faranno tutto quello che potranno. Soprattutto per impedire che vada a finire in prigione, perché in Tailandia le prigioni sono tremende, come possono essere solo in un paese del terzo mondo. Non voglio allarmarvi, ma diversi spagnoli implicati in questioni di droga si sono suicidati in una prigione tailandese.»

Si guardarono tutti l'un l'altro per pendere alla fine dalle labbra del vecchio Marsé. Il pomo d'adamo di Ernesto saliva e scendeva nello sforzo disperato di trattenere l'emozione e l'angoscia che stavano per esplodergli dentro. Finalmente gli sguardi si concentrano sul vecchio Marsé, impressionato dalle ultime parole della guida. All'improvviso il vecchio si rende conto che tutti pendono dalle sue labbra e si compiace di ricevere quegli sguardi, uno per uno. La voce gli esce stranamente soave, quasi dolce, quando si rivolge all'accompagnatrice per domandare:

«Lei che conosce la situazione, che cosa ne pensa? Non può essere un falso allarme?»

«Non credo. E poi c'è la telefonata.»

«Lasci perdere questo. Mia figlia ha il cervello di un passero.»

«Per essere sincera, signor Marsé, e non lo dico per aumentare la sua preoccupazione, la cosa si presenta male, ma proprio molto male.»

«E quindi?»

«Bisognerebbe che qualcuno andasse là a smuovere le acque. Il nostro agente è già stato informato, ma dovrebbe esserci qualcuno della famiglia, o un avvocato o qualcosa di simile.»

Adesso è il vecchio Marsé che guarda fisso tutti quanti.

«A mie spese, ovviamente.»

Carvalho trattiene la rabbia di Ernesto quasi abbracciandolo e inchiodandolo sulla sedia.

«Bene. Prima di tutto, quanto costa un volo per la Tailandia e che sconto mi farebbe l'agenzia per la responsabilità che le compete?»

La proposta era diretta e la perplessità si trasformò nella balbuzie con cui il direttore dell'agenzia cominciò a elaborare una risposta.

«Prima di tutto, comprendo il suo dolore per ciò che è accaduto a sua figlia...»

«Io non provo nessun dolore. Mi preoccupa, solo questo.»

«Però devo aggiungere, e mi lasci finire, che nell'accaduto non c'è alcuna responsabilità dell'agenzia. Sua figlia è maggiorenne e nelle circostanze della sua scomparsa l'agenzia non ha avuto parte alcuna. Decliniamo qualsiasi responsabilità, e quindi non dobbiamo farci carico di alcun costo.»

«Quando durante una gita un maestro smarrisce un bambino, il responsabile è il maestro, non i genitori del bambino.»

Il direttore aprì le braccia e guardò tutti i presenti cercando comprensione.

«La prego, signor Marsé... La prego... siamo seri... siamo seri... la prego, signor Marsé... siamo seri...»

«Non mi stia a dire di essere serio! Io sono serissimo. Vada a chiederlo ai miei fornitori e ai miei clienti. Nel ramo non c'era nessuno più serio di Higini Marsé.»

«Non ne dubito, signor Marsé. Non ne dubito.»

«Mi state dicendo che bisogna andare a cercare mia figlia. Andare a Bangkok non è come andare a Las Planas.»

«Non è nemmeno come andare sulla luna, signor Marsé.»

«E quanto può costare?»

«Un viaggio così, veloce, un duecentomila pesetas.»

«Andiamo via.»

Il signor Marsè si alzò in piedi e fece segno alla moglie di seguirlo. Ritto a metà agitò il bastone verso quelli dell'agenzia.

«Duecentomila ... tra viaggio, pasti, spese...! Almeno quattrocentomila.»

«Ma che cosa stai contrattando, la vita di una persona?»

L'esclamazione di Ernesto non mutò le intenzioni del vecchio, che seguitò a raddrizzarsi reclamando la solidarietà della moglie.

«Si sieda, signor Marsé, per favore, se ne può parlare...»

«Certo che se ne può parlare, perché a lei non interessa nemmeno che la cosa sia resa pubblica e si sappia che durante i viaggi della sua agenzia sparisce della gente...»

«Ma che cosa dice questo qui.»

A parte Carvalho, tutti cercavano di tradurre in un idioma razionale ciò che il vecchio stava dicendo.

«Se non ci calmiamo non possiamo andare avanti.»

Il direttore dell'agenzia aveva messo le mani avanti e con le palme cercava di stringere l'aria o di abbassare il suono dell'orchestra.

«Signor Marsé, si sieda e parliamo con calma. E' possibile ridurre sostanzialmente quella cifra.»

«Sostanzialmente?»

«Sostanzialmente.»

«Va bene. Se lo dice lei.»

Il direttore aveva ricuperato il suo aplomb e si era persino concesso di appoggiarsi allo schienale della sua poltrona e di portarsi un dito alla tempia.

«Facendo coincidere il giorno della partenza e la durata del viaggio, si potrebbe volare con un viaggio organizzato, e in questo caso la tariffa si riduce notevolmente. Un soggiorno di circa dieci giorni potrebbe venirle a costare tra novantamila e qualcosa e centodiecimila.»

«Così è un altro paio di maniche.»

Disse il vecchio alla moglie.

«E da che cosa dipende la differenza?»

«Be', per esempio dal fatto che il viaggiatore voglia una stanza singola o si accontenti di condividerla.»

«E perché dovrebbe volere una stanza singola?»

«Magari russa.»

Intervenne Carvalho.

«Chi?»

«Quello che ci va oppure il suo compagno di stanza.»

Il vecchio fece schioccare la lingua contro il palato.

«Si deve fare così, così si sveglia e smette di russare. Queste sono già delle cifre ragionevoli e su queste basi se ne può parlare. E poi ci farà uno sconto per il pagamento in contanti.»

«Un che cosa?»

«Uno sconto per pagamento in contanti. Perché io non voglio né cambiali né dilazioni, ho già pagato abbastanza cambiali prima di ritirarmi dagli affari. Io pago in moneta sonante e voglio uno sconto.»

«Ma senta, crede di comprare un mulo o cosa?»

«Va bene. Se partiamo da queste novantamila io credo che con centocinquantamila facciamo entrare anche le spese. Così mi va bene. Diciamo centocinquantamila pesetas e non se ne parla più. D'accordo?»

La domanda si trasformò in una lampadina zenitale che d'improvviso illuminò la riunione e lasciò i presenti in sospeso. Ernesto guardava Carvalho di sottecchi ma non si azzardava a esprimere le sue intenzioni. Carvalho si contemplava la punta di una scarpa. Il direttore insinuò:

«Forse l'avvocato di famiglia...»

«La mia famiglia non ha avvocati. Non ho più rapporti con quei ladroni. L'ultima volta che ci ho avuto a che fare è stato per il testamento, e c'è qualcuno che ci resterà secco quando lo leggeranno. Adesso ho solo un notaio.»

«Il marito di sua figlia.»

«Quello si arraffa i soldi e se li spende tutti in vizi.»

Il direttore si rifugiò da Ernesto. Disse, quasi senza voce:

«Suo figlio.»

«Se nessuno ci va, ci vado io. Ho diciotto anni. Aspetto un figlio. Ho un lavoro che ho acchiappato per i capelli. Ma se nessuno ci va, ci vado io.»

«E lei?»

Il lei pronunciato dal direttore suonò come un colpo di pistola diretto contro Carvalho. Declinò l'invito con un gesto, però aggiunse:

«Nessuno mi ha autorizzato a intervenire. Conosco la signora Marsé meno di suo padre, di suo marito e di suo figlio. Io sono un professionista. Non vado in giro per il mondo a cercare la gente che conosco.»

Il vecchio Marsé si strinse nelle spalle. «Tutti quanti l'ammazzarono, ma lei sola morì.»

«Lei è l'unico che ci può andare.»

Disse alla fine Ernesto. C'era qualcosa di implorante nella sua voce e nel suo sguardo.

«Qualcuno mi affidi il caso e io ci vado. Cinquemila pesetas al giorno più le spese, e duecentomila se tutto finisce bene. Se il pagamento è in contanti le faccio il dieci per cento di sconto, signor Marsé.»

«Non mi scucirà neanche un centesimo, Arsenio Lupin. Sono capace di andare in giro per il mondo, e a tutti i mendicanti che ho conosciuto mi mancava di aggiungere solo un investigatore privato.»

Il vecchio strizzò l'occhio e si lasciò andare nella poltrona. Gli sguardi non avevano abbandonato Carvalho. Si chiese se fosse il caso di ribattere o di andarsene e scelse la seconda opzione. Uscì dall'ufficio dirigenziale dell'agenzia e fu raggiunto da Ernesto sulla porta di strada.

«La questione economica si potrebbe risolvere.»

«E chi la risolve, tu?»

«Se mi dà il tempo.»

Si voltò e lo guardò fisso negli occhi.

«Senti, ragazzino. Io non ho nessun obbligo sentimentale nei confronti di tua madre. Ha avuto quarantacinque anni per maturare e sapere in che cosa si andava a cacciare. E se non lo ha imparato è perché fa parte della categoria sociale che più detesto, i voglio-ma-non-posso. I poveri ci lasciano le penne nelle alluvioni e muoiono sui treni deragliati, però non si vanno a cercare le alluvioni e neanche giocano coi treni. Qualche volta si sparano, se sono matti o disperati...»

«Non è il momento di giudicarla. E' il momento di andarla a cercare.»

Carvalho inghiottì le parole che aveva in bocca, voltò le spalle al ragazzo e uscì dall'agenzia. Aveva la sensazione di aver investito un uccellino o magari un coniglio. Quel coniglietto bianco e grigio, abbacinato, che una sera si era alzato sulle zampe posteriori e gli aveva fatto un cenno con quelle anteriori che però non gli aveva salvato la vita. Il rumore attutito del corpo contro il paraurti gli aveva fatto male dentro per chilometri e chilometri, a lui, a un uomo che sapeva che cos'era uccidere e morire. Chi era il coniglio? No, non era Teresa. Erano Ernesto e sua nonna, nei quali aveva visto la capacità di amare una donna di vetro, fragile e trasparente.

«Che vadano a farsi fottere!»

Attraversò la strada. Entrò in un negozio di confezioni e si comprò una giacca di tweed.

 

La stampa annunciava lo sventamento di un colpo di stato preparato per la vigilia delle elezioni del ventotto ottobre. Per il momento erano stati arrestati tre ufficiali superiori, due colonnelli e un tenente colonnello, e si era a conoscenza del piano generale del golpe. A giudicare dal piano, i due colonnelli e il tenente colonnello dovevano essere quelli che avevano il compito di portare i panini ai golpisti, ma il governo manteneva il prudente riserbo che lo aveva caratterizzato fin dalla nascita e che, senza dubbio, lo avrebbe accompagnato fino a che fosse morto vittima di un colpo di stato. Il miracolo di essere sopravvissuti all'esplosione primigenia dell'universo era relativizzato nel Ciad dalla mancanza di acqua e in Spagna dalla germinazione spontanea di salvatori della patria. Carvalho considerò che, in caso di colpo di stato, i suoi affari sarebbero andati meglio. La democrazia liberalizza la gente e sempre più rari erano i mariti che cercavano o pedinavano le mogli, e i genitori che lo mettevano sulle tracce dei figli adolescenti in fuga dalle oligarchie familiari. Indubbiamente le dittature procurano una clientela più estesa ai confessori, agli investigatori privati e agli avvocati che si occupano di conflitti di lavoro. Le controindicazioni etiche ed estetiche non lo riguardavano. E nemmeno lo avrebbero raggiunto gli schizzi di sangue e i gemiti provocati dalla repressione. Era fuori dal gioco, come un bottegaio, esattamente come un bottegaio. Arrivò fino al portone della casa in cui aveva l'ufficio, alzò la testa per vedere attraverso le finestre la luce accesa da Biscuter e fece un mezzo giro su se stesso. Domani sarebbe stato un altro giorno. Ma fu un cambio di direzione tardivo o insufficiente, perché a tagliargli la strada trovò Marta Miguel, con un'espressione di sorpresa distribuita asimmetricamente sul viso. La bocca diceva oh, ma gli occhi studiavano Carvalho come se fosse da un po' che lo stava osservando.

«Ohilà, che combinazione!»

Carvalho annuì e restò in attesa delle decisioni della donna. Non si giustificò né si congedò.

«Continua a curiosare sulla storia di Celia?»

«No.»

«Bene. Così mi piace. A quanto pare ha riacquistato la ragione. Sa che la polizia mi ha convocata di nuovo? No, non può saperlo, ovviamente. Era per interrogarmi sulle eventuali amicizie di Celia. A quanto pare hanno dei sospetti a proposito di una specie di relazione che aveva da qualche mese. Che cosa potevo dire? Io la conoscevo appena.»

Carvalho confermò con un cenno quanto poco Marta conoscesse Celia.

«Ma quelli si sa come sono. Hanno delle idee fisse.»

«Se avessero delle idee mobili si occuperebbero di altre cose.»

«Le è già passato il capriccio?»

«Io sono un professionista, e accetto i casi solo se mi assumono.»

«Le offro un caffè.»

Era una proposta a effetto per la quale la donna aveva raccolto oscure forze interiori.

«Un caffè a quest'ora? Possiamo prendere un gimlet o un mojito al Boadas. Basta risalire un po' la Rambla. E dato che è stata un'idea mia sono io che offro.»

«Non se ne parla nemmeno. Le offro quello che vuole.»

Marta Miguel camminava accanto a lui come se fosse stata la prima volta che si trovava costretta a condividere una passeggiata con un uomo. Non si adeguava al passo di Carvalho e nemmeno imponeva il proprio ritmo podistico, e nelle sue sbandate ogni tanto urtava con la spalla Carvalho o si ritrovava troppo avanti ostacolando il passo al suo accompagnatore.

«Per chi voterà?»

Chiese la donna dopo avere scorso i titoli dei quotidiani e delle riviste appesi nelle edicole delle Ramblas.

«In effetti la temperatura è eccellente, persino strana per la stagione. Peccato che sia umido.»

La risposta di Carvalho sconcertò Marta e la fece fermare. Prese Carvalho per un braccio perché non andasse avanti.

«Le ho chiesto per chi voterà.»

«A me sembrava che dicesse: il tempo è bellissimo.»

«Ma non ci assomiglia nemmeno.»

«Dal tono della sua voce ci assomigliava moltissimo.»

«Sta insinuando che posso parlare solo del tempo?»

Carvalho riuscì a riprendere la marcia senza preoccuparsi se Marta si fosse liberata dal suo volontario ostacolo. Udì il suo tacchettare pesante e sentì il vuoto d'aria provocato dalla sua massa che si collocava di nuovo al suo fianco.

«Ne ho fin qui di questo paese.»

Disse lei.

«Passi tutta la gioventù a sfondarti i gomiti per farti una carriera, e poi niente va come speravi e in più c'è della gente che può fare un colpo di stato quando vuole e poi sbatterti in galera o bruciare i libri. Sa quanti libri ho?»

«Tutti.»

«Questo sarebbe impossibile. Però ho quasi settemila volumi. A casa mia c'è posto appena appena per mia madre e per me. Tutto il resto è occupato dai libri.»

«Perché dovrebbero bruciarle i libri i golpisti? Ha fatto politica attiva?»

«No, per fortuna. Non ne ho avuto il tempo. Però sono docente universitaria, e questo è molto sospetto.»

«Si tranquillizzi. Conti che ci sono almeno trentamila cadaveri prima del suo.»

Marta masticò nel cervello le parole di Carvalho e reagì con indignazione venticinque metri dopo.

«Senta! Il fatto che non mi sia occupata di politica non mi impedisce di avere le mie idee e i miei sentimenti. Io non potrei tollerare il massacro di trentamila persone o di quante siano.»

«Uccidere è solo un problema qualitativo. Se si viola il tabù una volta, l'azione può essere ripetuta ogni volta che è necessario.»

«Si può uccidere per un impulso o per rabbia, ma liquidare freddamente delle persone e per delle idee politiche...»

«Uccidere è facile.»

«E lei che ne sa?»

Carvalho giocherellò con le mani davanti agli occhi di Marta.

«Queste mani sono mani assassine. Sono stato un agente della CIA e ho ucciso tutto quello che ho potuto. La smetta di pensare ai libri. Faccia come me: li bruci. E' arrivato il momento del mojito

Però non ordinò un mojito. Appena ebbe appoggiato il gomito al bancone del Boadas ordinò un Singapur Sling alla dama bianca e lunare con un sorriso da cocktail che stava dietro il bar. Marta Miguel gettò una smorfietta di disgusto come si getta un'occhiata.

«E quello cos'è?»

«Un cocktail asiatico inventato sicuramente da un inglese.»

«E cioè di asiatico non ha niente.»

«Il nome. Singapore è in Asia, credo.»

«E' vero. E' uno stato indipendente situato all'estremità della penisola della Malesia.»

«Nei libri di geografia della mia infanzia si chiamava penisola di Malacca. Non so perché.»

Marta voleva qualcosa di dolce e Carvalho ordinò un Alexander. Lui chiese un altro Singapur.

«Beve sempre così tanto? Finirà col fegato spappolato.»

«Ce l'ho già.»

«E le piace averlo spappolato?»

«Non provo il minimo affetto per il mio fegato. Non lo conosco nemmeno. Non ci hanno presentati.»

«Il fegato non è come il rene, ma ne abbiamo uno solo.»

«E' sicura?»

Il terzo Singapur accese luci portuali negli occhi di Carvalho, cosa che non gli impedì di accorgersi che Marta guardava l'orologio.

«Ha fretta.»

«E' che mia madre è sola e a quest'ora la signora che si occupa di lei se ne va. Non può quasi muoversi. La invito a cena. Ho delle cose buone. So cucinare. Non molto, ma quello che so fare lo faccio bene. E poi ho dei salumi del mio paese. Salsicce.»

«Di che paese?»

«Salamanca.»

«Salsicce di Salamanca. Ottime.»

«E del vino del Bierzo che mi ha portato uno zio che fa la Guardia Civil ad Astorga.»

«Che altre meraviglie gastronomiche mi promette?»

«Ho una tortilla di patate già pronta in un carpione avanzato.»

Carvalho non ebbe bisogno di sapere altro. Alzò il braccio armato di un biglietto da cinquemila pesetas e praticamente spinse Marta Miguel verso l'uscita.

«Stiamo per vivere una grande avventura.»

La donna gli camminava a fianco e di tanto in tanto gli passava avanti per cercargli in faccia la verità o la falsità di una così rapida decisione. Il luccichio negli occhi continuava, ma la tensione interiore aveva messo una sottile calza di nylon sul viso di Carvalho, come se fosse un rapinatore di banche nervoso.

«Mamma, sono io.»

Marta Miguel sfilò la chiave dalla serratura e lasciò spazio a Carvalho perché entrasse in casa. Un'anticamera di stile nordico e luci indirette, con uno specchio attraverso il quale Carvalho passò furtivo diretto verso la sala da pranzo-soggiorno. Lì stava la vecchia. Ventinove chili di vecchia incastonati in una gigantesca sedia a rotelle, una testina livida in cui si muovevano due occhi enormi infissi su Carvalho e poi rivolti alla figlia in cerca di spiegazioni.

«Un amico. Un collega dell'università.»

Poi Marta giustificò la sua menzogna quando Carvalho la seguì in cucina per evitare la compagnia di quella vecchia che non smetteva di guardarlo e di scuotere la testa, come se avesse voluto spendere le ultime forze per separare la testina dal corpo incrostato in quel trono funebre.

«Spiegarle tutto era troppo lungo. Ma non creda, capisce tutto. Si rende conto di tutto. Poverina. E' così da otto anni. Al pomeriggio viene una ragazza a tenerle compagnia, ma se ne va alle otto. Poi la pulisco, le do da mangiare, la metto davanti alla televisione per un po' e poi la metto a letto.»

Marta unse con l'olio un foglio di carta e ci avvolse le salsicce per poi metterle in forno. Tolse dal frigorifero un piatto in cui una tortilla di patate stava a mollo in un carpione rappreso.

«Se vuole qualcos'altro ho del sottofiletto in salsa piccante.»

Carvalho sedette al tavolo della cucina. Si servì dalla bottiglia che la donna aveva aperto. Annusò il vino, lo fece schioccare contro il palato e non poté reprimere un «cazzo!» che fece sorridere Marta Miguel, che stava trasformando in purè la cena di sua madre.

«Io non me ne intendo ma mi sembra buono.»

«E' un Palacio de Arganza invecchiato in botte. Un giorno o l'altro si dovrà rendere giustizia ai vini del Bierzo e quello che gliela renderà comincerà a storpiarli.»

«Io non vivo per mangiare, mangio per vivere.»

«Lo immaginavo.»

Carvalho fece onore alla bottiglia e anche Marta bevve di tanto in tanto, sorsi brevi, un attimo di meditazione per decidere se il sorso le piaceva o non le piaceva e poi gesti di approvazione con la testa.

«Sissignore. Vino buono. Di questo non se ne trova da queste parti.»

«Ce n'è molto poco.»

«E quelli del posto non lo sanno apprezzare. Credono di non avere niente di buono. E' così che va nei paesi.»

Marta Miguel aveva preso possesso della sua funzione di relatore sulla mancanza di coscienza dei contadini riguardo le proprie ricchezze ed esigeva che Carvalho le desse ragione.

«Ne ha delle altre bottiglie?»

«Altre tre.»

«La notte è lunga.»

«Beva tutto quello che vuole. Noi due, s'immagini. Mia madre non può neanche assaggiarlo e io di sicuro non m'inciucco da sola. Vado a darle da mangiare. Non venga, per favore. Non è un bello spettacolo. Fa fatica a inghiottire. Si sbrodola. Insomma...»

Carvalho studiò l'etichetta di quel vino di Palacio invecchiato, finì la bottiglia, ne cominciò un'altra. Dalla sala da pranzo gli arrivavano gli strozzamenti e affogamenti della vecchia e la voce suadente della figlia.

«Mangia, mamma, poco alla volta, pianino, non ingozzarti, golosona, golosona che non sei altro.»

Il televisore fu acceso e Marta Miguel tornò in cucina tra i sospiri. Ossignore, bisogna avere una di quelle pazienze. Le lacrimavano gli occhi e si rese conto che Carvalho se n'era accorto.

«No, non sto piangendo. Ho già pianto tutto quello che avevo da piangere. Poveretta. Le sembra giusto?»

Era una domanda dostojevskiana e Carvalho preferì bere un altro bicchiere di vino e lanciare un'occhiata speranzosa al forno. Marta tirò fuori le salsicce. La carta era quasi bruciata e dalle sue interiora uscirono sei salsicce perfette, turgide, esaltate dal proprio calore, con il loro rosso vigore. Carvalho si servì della tortilla e versò cucchiaiate di carpione sulla mattonella di patate, uova e cipolla.

«Questo carpione andava bene col pesce.»

«Con lo sgombro. La carne dello sgombro mi piace. Quella della sardina no, è troppo forte.»

Carvalho si lasciò andare a tanta iberica cena assecondato a spizzichi dalla donna, duramente combattuta tra gli occhi affamati e la sindrome del pendolo.

«La mamma mi chiama.»

Si era alzata in piedi di botto.

«Io non ho sentito niente.»

«E' che la si sente appena.»

Uscì di corsa e dalla porta entrò un frammento della serie Ramón y Cajal. Marta tornò e si lasciò cadere su una sedia, dove rimase seduta con le gambe corte aperte. Si passò una mano sugli occhi.

«Mamma mia, quanto ho bevuto.»

Carvalho stava mangiando una salsiccia tenendola tra le dita.

«Chi glielo avrebbe detto che questa sera sarebbe stato a cena a casa di Marta Miguel, eh?»

«Già.»

«Vuole sapere la verità?»

«Dipende dalla quantità. Tutta la verità è troppo per una sera.»

«La verità è che ho fatto finta di incontrarla per caso. Avevo voglia di parlare con lei.»

Carvalho terminò la salsiccia e ne cominciò un'altra, con le stesse dita, con gli stessi occhi possessivi, con lo stesso olfatto pronto a godersi quella mummia di maiale e peperoni, probabilmente dell'Estremadura.

«Ho detto che avevo voglia di parlare con lei.»

«Ho sentito.»

«Sto passando dei momenti molto brutti. Quella storia di Celia mi ha colpito parecchio. Anche se sembro una donna forte, non lo sono. Si è forti per forza. E poi c'è mia madre. Ogni giorno che passa sono sempre più stanca, ma non voglio separarmi da lei. Lo so che è una sciocchezza, ma se un giorno la portassi via, se non vivesse con me non durerebbe neanche una settimana. E' molto sensibile, mi osserva, ha paura, dipende da me. Se un giorno dovesse succedermi qualcosa, chissà lei... Lei cosa ne pensa?»

«Di che cosa?»

«Di tutto questo, del fatto di Celia.»

Carvalho cercò un angolino di universo e rimase lì, in un angolo di cucina, accanto a una casseruola, precisamente tra una casseruola e un portapane di metallo dipinto di bianco, e ci piantò lo sguardo, la coscienza, come se avesse paura di toglierlo di lì e di affrontare Marta Miguel. Non voleva togliere gli occhi da quel pozzo. Non voleva ascoltarla. Non voleva provocare le sue confidenze.

«Lei la conosceva, vero?»

«Chi?»

«Celia.»

«Credo di averla vista una volta. In un supermarket.»

«Era difficile dimenticarla. Era come una ragazza dorata.»

«Pat Savage.»

«Chi è Pat Savage?»

«La cugina di Doc Savage, uno dei protagonisti della collana di romanzi d'avventura che si chiama Hombres Audaces. Doc Savage, Pete Rice, Bill Barnes.»

«Celia era una donna dorata. Dentro e fuori. Si nasce così.»

«Ha dell'altro vino?»

Carvalho aveva tolto gli occhi dal pozzo dell'assenza e adesso stava contemplando una Marta Miguel che pendeva dalle sue labbra, con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati su Carvalho, occhi che adesso ricordavano quelli di sua madre. Senza dire niente, la donna si alzò per rovistare in un armadio e tornò con un'altra bottiglia di vino. Un orecchio di Carvalho ascoltava i frammenti di telenovela che penetravano nella cucina attraverso la porta socchiusa, ma insieme al dialogo drammatico arrivava un leggero ronzio che poteva appartenere alla televisione come ai polmoni da uccellino della vecchia. Gli occhi di Carvalho videro avvicinarsi Marta Miguel come una montagna scura, dolente, oscena nel suo dolore e nella sua angoscia, e aveva paura della bocca della donna, aveva paura di quello che poco a poco volevano dirgli quelle labbra, aveva paura del peso della confessione che la donna voleva vomitargli addosso, e una mano di Carvalho si alzò per andarle incontro, oltrepassò l'orlo della gonna e salì tra le cosce improsciuttite e si trasformò in pugno serrato su un sesso peloso e caldo. Marta Miguel fece un salto indietro e assunse un'espressione di sconcerto e di disgusto per rinforzare la contundenza delle labbra nello scolpire la parola:

«Schifoso!»

Carvalho si alzò, lasciò la cucina, salutò con la testa la vecchia che lo inseguiva con i suoi occhi assoluti, passò furtivo davanti allo specchio dell'anticamera e uscì sul pianerottolo chiudendosi la porta alle spalle, certo che Marta Miguel fosse rimasta in cucina, a piangere.

 

Biscuter aveva il risveglio malinconico tipico degli orfani. Non offrì neppure il suo ultimo intingolo a Carvalho, e il detective non trovò altro rimedio che pensare, immaginare, ricordare, rivisitare, tutte attività che lo mettevano di cattivo umore. Alle undici squillò il telefono e dal tono di voce e dalla cautela nell'uso delle parole Carvalho scoprì l'identità del suo antagonista telefonico. Il vecchio Daurella.

«Il signor Carvalho?»

«Sì.»

«Senta, parlo con un'agenzia investigativa, un signore che si chiama Carvalho?»

«Sì.»

«C'è il signor Carvalho?»

«Sono io.»

«Ah, ecco. Mi era sembrato. Sono Daurella. Daurella. Si ricorda? Quello delle piscine. Come sta, signor Carvalho?»

«Bene. E lei?»

«Insomma. Si tira avanti.»

«Mi dica.»

«Senta, lei dirà che sono noioso o uno stupido, ma l'altro giorno mi è rimasta qui una cosa che non so, se non la chiamavo scoppiavo, signor Carvalho.»

Parlava con un tono di voce basso, come se avesse paura che lo sentissero.

«Loro credono che io sia stupido, ma io non sono stupido per niente, le assicuro.»

«Non ne dubito.»

«Però ci sono di mezzo i nipoti, mia figlia, mia moglie, ha capito? Vero che ha capito, signor Carvalho?»

«Ho capito.»

«Ha incassato l'assegno?»

«Sì, l'ho incassato.»

«Senza problemi, no?»

«Nessun problema.»

«Io le sono molto grato, signor Carvalho, perché lei mi ha aperto gli occhi. Ma che cosa posso farci? Li chiudo e faccio lo scemo. Mia figlia, i nipoti, mia moglie... non lo faccio per lui, perché è un pocavergonya, un degenerato, ma i nipoti, mia figlia, mia moglie. Non la trattengo, signor Carvalho. E' che dovevo telefonarle, non so se mi capisce.»

«A sua disposizione. Sa dove trovarmi quando troverà il prossimo ammanco.»

«Non lo farà più, no. Adesso lo controllo.»

Ma dal tono di voce sembrava lui quello controllato.

«Be', niente, stia bene, signor Carvalho. Grazie e buona fortuna, che sono momenti brutti.»

Merda, pensò Carvalho e regolò il suo pilota automatico mentale davanti allo spettacolo immaginario del povero Daurella, reso incapace dalla vecchiaia di dare un calcio in culo a quel ruffiano del genero.

«Quando compirò cinquantacinque anni, Biscuter, mi metterai del cianuro nel baccalà in umido.»

«Si sentirebbe troppo, capo. Il sapore del baccalà in umido è inconfondibile.»

E continuò a rimproverarsi in silenzio per il pessimo figlio che era stato. Squillò il telefono, e quando riconobbe la voce di Charo dall'altro capo dell'apparecchio, strinse i denti e si preparò alla sfuriata. Dopo il 'ciao Pepe,' silenzio, e dopo la traversata di un deserto sonoro, un'esplosione di lacrime e di singhiozzi disperati.

«E' finita, vero Pepe?»

«E' solo che ho molto da fare. Ma appena ho finito facciamo le valigie e andiamo a Meranges, a sciare e a farci una mangiata a Can Borrell.»

«Dici sul serio?»

«Sul serio.»

La porta dell'ufficio si era aperta e poco alla volta, come una lumaca, la signora Marsé si insinuò nella stanza.

«Adesso devo lasciarti perché sono con un cliente.»

La rotondità del bacio telefonico prolungò la sua eco finché il ricevitore non si trovò in posizione di riposo. La signora Marsé si fece avanti timidamente e si decise ad accomodarsi dopo l'invito di Carvalho.

«E' qui che lavora. E' un posto molto carino. Pittoresco. Le Ramblas sono la parte più bella di Barcellona.»

La donna si sedette e lasciò le mani sulla borsa e la borsa sul grembo e lo sguardo sulla faccia inespressiva di Carvalho.

«Sono venuta per quello che è successo ieri. Dobbiamo parlare, io e lei. Ma, per favore, non dica niente a mio marito. Quanti soldi vuole per andare a cercare mia figlia?»

«Glie l'ho già detto ieri. Ho una tariffa fissa.»

«Ho fatto i miei conti e non posso arrivare alla cifra che chiede. Ho qualche risparmio che Higinio non sa, ma come massimo posso arrivare a cento, centoventimila pesetas, più le spese di viaggio, naturalmente, che avrebbe pagato mio marito. Potrei impegnare dei gioielli, sì, però ne ho pochi e mio marito se ne accorgerebbe. Se ha pazienza col tempo posso darle qualcos'altro.»

Carvalho sbuffò forte.

«Non c'è niente di più deprimente dei ricchi senza soldi.»

«Le sto offrendo quello che ho. E lo faccio tanto per Teresa quanto per Ernesto. E' disperato, poverino, vuole tanto bene a sua madre. E' uno che soffre, come me. Invece sua madre è come mio marito: non soffrono per niente e per nessuno.»

«Lei mi chiede di lavorare a un prezzo da beneficenza, e io non ho nessun motivo per farlo.»

La vecchia rimase in silenzio e con l'aria di chi ha pietà di se stesso. Biscuter aveva assistito in silenzio alla conversazione, ma Carvalho si rese conto che stava dalla parte della donna. Biscuter era nella disposizione d'animo di adottare e di essere adottato.