La donna che dorme nel cielo

Appare in nascite fugaci

Indica lampi ad ogni primavera

Dissemina colore

Tesse i ritmi d'amore

Diventa litania di melodie

E dopo si riposa sottovoce.

E noi siamo felici

Perché gli uomini non possono vederla

 

Alberto Masala, Taliban.

 

 

 

Quando nel 2006 il giudice del tribunale di Hannover comminò una condanna ridotta all'emigrato di origine sarda che aveva segregato e abusato della fidanzata lituana, adducendo come attenuante «il quadro del ruolo e della donna esistente nella sua patria», furono moltissime le voci indignate che si levarono per protestare contro il sapore fortemente razzista della sentenza.

Ma le molte personalità sarde chiamate a commentare in merito ebbero da discutere non tanto sulla pretestuosa questione etnica, visto soprattutto che l'etnia sarda non esiste, quanto sull'idea di una presunta supremazia maschile in Sardegna, che bollarono addirittura come ridicola. Il motivo è che sull'isola da che c'è memoria c'è matriarcato, in una forma di organizzazione sociale tutta imperniata sul ruolo dominante della donna, che riveste funzioni chiave nella gestione dell'economia e della cultura, senza peraltro che questa predominanza sia stata frutto di lotte sociali o sia considerata conquista di qualche valore. È così semplicemente da sempre. In una società pastorale dove l'uomo sta lontano da casa settimane per consentire la transumanza del bestiame al pascolo, o addirittura mesi per lavorare in miniera, senza fare ritorno se non per portare i soldi e ripartire, è perfettamente normale che la donna abbia assunto compiti (che altrove fanno ancora invocare le quote rosa) come la gestione completa dell'economia, dell'educazione e dell'organizzazione politica e giuridica del mondo affidatole, casa, terreno o regno che sia.

Che in Sardegna vigesse una sostanziale parità tra i sessi, quando non una dominanza pacifica della donna, se ne accorse anche Lawrence. Durante il suo viaggio negli anni Venti lo scrittore venne a contatto superficiale con il modo di fare femminile sardo, che ai suoi occhi apparve molto diverso dagli altri che aveva visto in giro per l'Italia:

Sono divertenti, queste ragazze e donne contadine, così vivaci e spavalde. Le loro schiene sono dritte come piccoli muri, e le sopracciglia decise e ben disegnate. Stanno sul chi vive in modo divertente. Non c'è nessun tipo di servilismo orientale. Come uccelli vivaci e svegli, sfrecciano per le strade, e ti rendi conto che ti darebbero un colpo di testa con la stessa facilità con cui ti guarderebbero. La tenerezza, grazie al cielo, non sembra essere una qualità sarda. [...] Qui non fanno quei grandi occhi cupidi, l'inevitabile sguardo «ai vostri ordini» dei maschi italiani. Quando gli uomini della campagna guardano queste donne, lo sguardo dice arrangiati da sola, signora mia. Direi che la strisciante adorazione della Madonna non è proprio una caratteristica sarda. Qui le donne devono badare a se stesse, tenere la schiena dritta e i pugni duri. L'uomo diventa il maschio signore se ci riesce. E nemmeno la donna è disposta a cedere terreno. [...] L'uomo sardo non vuole la «donna nobile, nobilmente pensata». Grazie, no. Vuole quella giovane signorina laggiù, un tipo come lei, della generazione giovane, con il collo eretto.

 

Al di là del quadro stereotipato di una donna sempre «con il collo eretto», almeno in una cosa Lawrence ci aveva visto giusto: la donna in Sardegna, in modo particolare nelle zone interne, si muove da tempo in una condizione culturale pari all'uomo, perché si è trovata a vivere spesso in circostanze in cui doveva badare a sé e a quel che aveva intorno con la stessa misura di autonomia e responsabilità con cui agiva il suo compagno in altro ambito.

Questa emancipazione è quindi frutto necessario della solitudine e della durezza della vita agropastorale, più che una qualche raggiunta (o eventualmente concessa) consapevolezza paritaria. Sarebbe un errore credere che l'emancipazione si sia giocata solo tra le mura domestiche, magari nell'amministrazione silenziosa delle finanze familiari: la donna in Sardegna ha da tempo accesso a ruoli pubblici dove comunemente nel resto d'Italia si fatica a trovare spazi di riconoscimento, come la politica, la ricerca scientifica o l'economia.

L'archetipo della femminilità sarda, dai tratti quasi leggendari, è costituito in questo senso dalla figura storica di Eleonora, che alla fine del 1300 resse il Regno d'Arborea in qualità di giudice ad interim per conto prima del marito Brancaleone, incarcerato, e poi del figlio minorenne, negli anni in cui la parte considerevole di Sardegna che rientrava sotto il controllo degli Arborea viveva il suo personalissimo rinascimento. Dalle sue mani uscì la Carta de Logu, un documento giuridico totalmente in lingua sarda di grande importanza per il diritto europeo, perché per molti giuristi si configura come il primo esempio di costituzione scritta di uno stato libero, con norme legate al territorio e ai diritti di chi lo abita. Le norme della Carta rimasero in vigore per 350 anni, fino a quando nel 1827 venne sostituita dal codice feliciano di matrice sabauda. Non è un caso se i sardi fondano a quel periodo la consapevolezza di essere stati veramente una nazione, e di esserlo stati in mano a un giudice donna lungimirante e forte, della quale oggi resta saldo il ricordo soprattutto nella città di Oristano, antica sede del giudicato; qui, nella piazza principale, la figura in marmo del giudice legislatore Eleonora domina l'edificio municipale con un dito curiosamente sollevato. Niente di strano quindi, con un tale esempio, se in tutta la Sardegna, soprattutto in quella più rurale e apparentemente arretrata delle zone interne, già da tempo le donne assumano normalmente ruoli di rilievo anche nella gestione della cosa pubblica.

Nel 2002 molti ricorderanno il clamore fatto intorno all'avvocato Maddalena Calia, eletta sindaco a Lula, un paese barbaricino tra i più interessati dal fenomeno delle faide e dal rifiuto delle istituzioni in qualunque forma si presentassero. L'elezione della Calia avvenne dopo dieci anni di vuoto istituzionale completo, dove la municipalità era retta da commissari prefettizi e nessuno osava presentarsi alle elezioni per timore di rappresaglie della criminalità locale. Il rumore mediatico nazionale, che in Sardegna era guardato con sincero stupore, metteva molto in risalto il fatto che per il resto d'Italia invece doveva costituire una notizia rilevante, ovvero che il candidato eletto fosse una donna, dimenticando che anche l'ultimo sindaco di Lula che dieci anni prima aveva rimesso il mandato era stato a sua volta una donna.

Mentre a livello nazionale le donne assumono ancora compiti politici che sono considerati vicini alla presunta sensibilità femminile (Istruzione, Sanità, Pari opportunità e simili), in Sardegna, dopo le elezioni per il consiglio regionale del 2004, furono affidati a donne, tra gli altri, anche l'assessorato all'Industria, quello al Lavoro e quello al Turismo, Artigianato e Commercio.

Nella formazione della concezione paritaria del ruolo della donna in Sardegna deve aver giocato la sua parte anche la matrice religiosa, che fino all'avvento del cristianesimo aveva mantenuto una forte connotazione femminile sia nell'adorazione di specifiche divinità legate alla terra e al concetto di fertilità, sia nell'esercizio del potere religioso vero e proprio, attraverso forme di sciamanesimo o di sacerdozio rituale affidate principalmente o esclusivamente a donne.

Il culto del principio femminile in quanto latore di vita è attestato archeologicamente in tutta la Sardegna e in molte forme, che vanno dal culto miceneo delle acque e della bipenne a quello nuragico e poi fenicio della Dea Mater.

Le teorie assai più spericolate del giornalista e scrittore Sergio Frau fanno risalire la fede nella Dea alla stimabile origine anatolica dei primi abitanti della Sardegna, i mitici Shardana, che si sarebbero portati appresso sulle rotte verso l'isola la loro religione fatta di grandi donne morbide:

[...] grandi sbarchi dall'Anatolia, terra di pastorizia e di miniere e di kilim geometrici come quelli sardi della tradizione. E di occhi all'ingiù come li aveva Berlinguer e li hanno in mille paesi nel centro dell'isola, e di formaggi acidi, e di dee madri, quelle potentissime che in parte sopravvivono ancor oggi nel matriarcato barbaricino. Proprio la Dea Madre benedì quei loro viaggi. Arrivati qui, la ringraziarono continuando ad adorare lo strano mistero del suo ventre che di tanto in tanto, a sorpresa, chissà come mai, si gonfiava a dismisura per dare la vita. Dee madri grasse e poppute, dalle anche tondeggianti e le cosce smisurate proteggono - incise nelle tombe, scolpite in statuette, deportate nei musei - le prime morti dei nuovi sardi, il loro nuovo viaggio stavolta nell'aldilà.

 

Da dovunque venisse il culto, quello era comunque lo scenario con cui si trovò ancora a competere, decine di secoli dopo, il giovane cristianesimo, che inizialmente dovette fare una gran fatica a cercare di ridimensionare la sacralità della figura femminile, così ampiamente radicata specie nelle regioni più interne dell'isola. Non riuscendovi completamente, optò con tutta probabilità per una fase iniziale di convivenza e sincretismo: molte sono infatti le fonti antropologiche e archeologiche concordi nel sostenere che la gran parte dei luoghi attualmente deputati all'esercizio della spiritualità mariana, o di altre sante cristiane, fossero in realtà centri di culto dove venivano venerati principi divini o naturali con caratteristiche femminili, prevalentemente nei pressi di pozzi sacri o fonti spontanee considerate oggi curative, ma fino a ieri taumaturgiche.

I simboli e i protagonisti delle religioni più antiche vennero demonizzati o ridicolizzati con l'intento di indebolire quei culti che però non si lasciarono sradicare in tempi brevi: capitò a Dioniso, ma capitò soprattutto alle espressioni femminili della divinità, che assunsero caratteristiche via via meno amichevoli, fino a mutarsi in veri e propri esseri malefici, e i loro luoghi in posti maledetti.

Ancora oggi sopravvive intorno all'acqua dei pozzi sacri la diceria, del tutto infondata, che chi la beve divenga pazzo; interi paesi si portano appresso questa fama, per aver avuto la ventura di essere stati centinaia di anni fa interessati al culto di una fonte di acqua sacra: per esempio capita ai comuni di Seneghe, Paulilatino e Bonarcado relativamente al pozzo di Santa Cristina nelle loro vicinanze.

Anche gran parte delle leggende sarde rivelano questo meccanismo di sovrapposizione ogni volta che le protagoniste sono creature femminili; tutte le storie che rivelano la presenza di un controluce di natura sciamanica finiscono per parlare di donne con caratteristiche demoniache.

Così andare a cercare le janas, bellissime piccole fate tessitrici d'oro che abitano gli anfratti delle rocce, può farti trovare tesori incommensurabili, ma anche sottrarti per sempre al tuo mondo, facendoti perdere il senso del tempo come nella mitica Avalon dei celti: al tuo ritorno nessuno dei tuoi cari sarà più vivo da decenni.

Alla riva del fiume lo spirito delle acque può mostrarsi in forma di pana, apparentemente una donna come un'altra intenta a lavare i suoi panni, ma in realtà spirito maligno di qualche madre uccisa dal parto del suo stesso figlio, che tornerà a casa con te per soffocare il tuo e prendersene l'anima.

La suocera contraddetta o maltrattata può celare una coga surbile, eco dell'antichissima fede in Diana-Erodiade, che di notte si unge di oli magici e si trasforma in insetto volante (evidenti gesti di retaggio sciamanico), entrando in casa dalle serrature per succhiare il sangue del nipotino che malauguratamente non fosse ancora stato battezzato.

Se queste leggende riportano indietro l'orologio di migliaia di anni e nessuno oggi, nella Sardegna cristianizzata, ha più consapevolezza di cosa celino, altre figure femminili hanno continuato a conservare fino a pochi decenni fa un ruolo che potremmo definire persino parasacerdotale, o comunque rituale. Si tratta di ruoli legati alla nascita e alla morte come momenti chiave dell'esistenza, ma presenti anche nei punti nodali del suo sviluppo, quando la salute della mente, del corpo o dell'anima sono minacciate ed è necessario rinforzarle. Alcuni di questi ruoli sono stati esplicitamente condannati e combattuti dalla Chiesa Cattolica nei secoli scorsi, anche con pronunciamenti espliciti dei sinodi locali che dettavano regole severissime per chi esercitasse le pratiche che ne costituivano l'oggetto.

La più osteggiata nei documenti ufficiali fu indubbiamente sa pranghidora o attittadora, colei che praticava il pianto rituale al capezzale del morto sul modello greco delle prefiche dell'età classica. È credibile che il termine attittadora possa derivare etimologicamente da titta, cioè seno, e una delle interpretazioni più suggestive di questo ruolo sarebbe quindi quella di una figura che fa da balia al morto, cantando per lui l'anninnia, la ninnananna, mentre gli somministra l'ultimo latte. Il peso scenico di questa figura era tale che i parroci stimarono necessario vietare alle attittadoras, quasi sempre parenti o amiche della famiglia del defunto, di partecipare ai funerali religiosi, pena la sospensione delle esequie; il divieto ha generato l'usanza, ancora diffusa al centro dell'isola tra le donne più anziane, di fare la veglia funebre in casa del congiunto senza partecipare al funerale, dando luogo a una sorta di parallela liturgia del dolore. Il motivo del divieto è da ricercarsi non solo nell'impatto emotivo di quel pianto rituale, che poteva avere l'effetto di straziare i presenti al punto da rendere vano qualunque richiamo alla speranza cristiana, ma soprattutto nel risultato di esasperare gli eventuali sentimenti di vendetta che potevano esserci nel parentado in caso di morte violenta del defunto, benché il nome del presunto colpevole non venisse mai pronunciato da colei che celebrava il rito del pianto.

L'altra figura, che in molti paesi è ancora presente, è quella de sa pratica, la donna «pratica» di misteri di varia natura, con conoscenze che spaziano dal compito della levatrice a quello della sciamana che caccia il malocchio, guarisce una irritazione cutanea o cura con erbe psicotrope le turbe dell'animo dovute a un forte spavento. Questa figura, talvolta erroneamente accostata alla comune fattucchiera, è in realtà spesso depositaria di efficaci medicine popolari di cui va perdendosi memoria, oltre che di suggestivi rituali, del tutto inutili ma indubbiamente molto antichi e rivelatori di interessanti stratificazioni religiose. Queste anziane donne, in via di scomparsa, sono probabilmente tutto quello che resta di una schiatta di figure sacerdotali femminili preposte a ben altro scopo che guarire i porri o l'insonnia, anche se poi facevano anche quello. Una delle operazioni più suggestive e meno note affidate alla pratica apparteneva alla categoria della medicina popolare, e riguarda il caso di una particolare forma di tarantismo praticata in Sardegna fino almeno alla metà del secolo scorso, quando non era infrequente che si verificasse il caso di qualcuno morso dall'unico ragno mortale presente sull'isola: la malmignatta, detta in sardo argia. Popolarmente è diffusa la credenza che il morso appartenga solo al ragno femmina, e che sia indispensabile individuare lo «stato civile» dell'aracnide per affrontarne il veleno. La vittima, in preda al tremore derivante dal morso, veniva dunque fatta distendere su un mucchio di letame, che doveva poi anche ricoprirla (presumibilmente per indurre la sudorazione); a quel punto prendevano alternativamente a danzargli intorno, secondo un preciso passo di ballo, nell'ordine: sette nubili, sette vedove e sette donne coniugate. Quando il tremore della vittima cessava, significava che lo stato del ragno che aveva morso corrispondeva a quello delle donne che eseguivano la danza in quel momento. Le praticas erano dunque donne-medico secondo quella che era la medicina, e donne-sacerdote secondo quella che era la religione, aspetti che nella Sardegna antica il più delle volte erano perfettamente coincidenti.

La terza e più suggestiva figura ha i tratti della leggenda, e sebbene la sua esistenza sia stata più volte attestata specialmente in Barbagia, Barigadu e Gallura, vi sono tuttavia diversi antropologi che ne contestano la funzione e il riconoscimento del ruolo sociale all'interno delle comunità in cui ne è stata ritrovata traccia. Si tratta de sa femina accabadora, una donna (ma in rarissimi casi qualcuno sostiene potesse anche trattarsi di un uomo) preposta ad intervenire sui malati terminali per porre fine alla loro agonia, su richiesta dei familiari o, se cosciente, dello stesso morente. Questa eutanasista ante litteram, attorno alla cui figura è sorta negli ultimi anni una ricca produzione soprattutto saggistica, suscita ancora molti interrogativi, sia perché aveva un ruolo veramente poco evidente, e dunque malamente attestabile, sia perché le testimonianze sul suo operato giungono certe almeno fino al 1952, quando nel paese di Orgosolo fu arrestata una donna accusata di aver praticato questa funzione su uno specifico moribondo. Il caso fu poi archiviato, non in quanto il fatto non fosse realmente avvenuto, ma piuttosto perché fu riconosciuto l'intento pietoso dell'operato della donna, grazie anche alla testimonianza dei familiari del defunto. Lo strumento che si crede usasse sa femina accabadora per praticare il suo compito è possibile osservarlo nel museo del paese di Luras, in provincia di Olbia-Tempio nel cuore della Gallura: si tratta di un pezzo di legno rozzamente acconciato in foggia di martello, anche se le testimonianze in merito al suo reale uso sono vaghe, controverse e in alcuni casi lo smentiscono, indicando altri strumenti o sistemi. In ogni caso anche il ricordo di questa figura prettamente femminile rimanda all'assegnazione di compiti e ruoli che nel passato della Sardegna primitiva probabilmente avevano una valenza rituale, in quanto legati ai momenti spontaneamente mistici della vita e della morte.

Tutti questi retaggi proiettano luci e ombre sulla percezione della figura femminile attuale in Sardegna, che oscilla tra il rispetto e le contaminazioni di un conflitto tra i sessi che, pur non appartenendo tradizionalmente alla cultura dell'isola, l'ha comunque raggiunta e la permea, mutandola lentamente come tutte le invasioni hanno fatto in passato. Qualcosa è sicuramente cambiato, e la portata della perdita del senso di sacralità ancestrale legata alla figura femminile si è rivelata appieno ai sardi stessi per la prima volta con il rapimento di Silvia Melis, donna, madre e sarda al contempo, che nel 1997 scosse le coscienze degli abitanti dell'isola come nemmeno il sequestro del piccolo Kassam aveva saputo fare. Silvia Melis divenne imprevedibilmente icona della Sardegna rapita da se stessa e autovulnerata nel suo simbolo più antico e radicato: la Mater. Attorno a quel sequestro non fiorì quel silenzio omertoso che in passato era stato letto anche come tacito sostegno, perché in quella occasione l'intera Sardegna fece quello che non era mai riuscita a fare in precedenza: si dissociò visibilmente e fortemente dai rapitori, sia con gesti altamente simbolici come quello del lenzuolo bianco alle finestre di interi paesi, anche in Barbagia e in Ogliastra, sia con segni tangibili di solidarietà, come l'invio delle mille lire sul conto corrente aperto appositamente da un comitato spontaneo per sostituire in via simbolica quello congelato dalla magistratura alla famiglia Melis, affinché non potesse corrispondere il riscatto chiesto dai rapitori. Quest'ultimo in particolare fu un gesto senza precedenti, con il quale i sardi tutti si facevano garanti di quello specifico riscatto, come se in ostaggio ci fosse la figlia, la madre e la sorella di tutti. In un certo senso lo era davvero, tanto che il gesto non fu ripetuto mai più per i fortunatamente pochi sequestri successivi, e che per questo resta significativamente legato alla persona della giovane Melis, simbolo suo malgrado di una femminilità nata come espressione del divino e finita ostaggio, oggetto senza altro valore che il prezzo del riscatto. Con una certa amara ironia, risultò essere imputata del rapimento, insieme ad altri due uomini, l'anziana madre di uno dei due che proprio secondo la testimonianza lucida di Silvia Melis le avrebbe fatto da carceriera per tutto il tempo in cui fu trattenuta di nascosto nell'abitato di Nuoro.

C'è un'altra figura femminile che viene associata immediatamente alla Sardegna nell'immaginario comune estraneo all'isola, ed è Grazia Deledda. Ma a differenza di quanto si potrebbe pensare guardando dall'esterno, pur essendo la Deledda la donna sarda maggiormente conosciuta nel mondo, non ha mai incarnato nella percezione dei sardi la femminilità dell'isola, e ancora meno la sardità. La scrittrice, già prima di ricevere il premio Nobel, non era infatti popolare in nessuno dei sensi possibili in Sardegna; proprio la sua Nuoro amava ricambiare le accuse di barbarie fatte all'isola - e alla Barbagia in modo particolare - di cui la Deledda era sempre prodiga a mezzo stampa e nei suoi scritti, apostrofando quella sua illustre figlia con il poco onorevole titolo di «bagassa». Oggi monumenti, scuole, biblioteche comunali e molti dei circoli dei seicentomila emigrati sardi sparsi per il mondo portano volentieri il nome del Premio Nobel, ma nel momento in cui il fenomeno deleddiano esplodeva in tutta la sua forza, la Sardegna percepì la figura della scrittrice con lo stesso valore che si attribuisce a un'apostata, a una serpe allevata in seno. Il motivo non era, al di là di ogni possibile equivoco, perché la Deledda dandosi alle lettere si fosse emancipata dal ruolo che nella sua cultura veniva assegnato alla donna. Al contrario, la liturgia del racconto in Sardegna, con i suoi tempi, i suoi luoghi e le sue forme letterarie specifiche, è atto molto più femminile che maschile. Non c'era nulla di strano per nessuno che una donna divenisse narratore, anche di enorme fama, in un mondo in cui praticamente ogni focolare era a suo modo un circolo letterario. Le si attribuì invece l'errore imperdonabile di aver spostato l'asse della narrazione dal terreno sicuro, condiviso e soprattutto impersonale delle storie tradizionali a quello del realismo, con tematiche se non proprio orientate al vero, quantomeno al verosimile; la Deledda, alla ricerca di una cifra stilistica che l'avvicinasse al nascente romanzo italiano, scriveva per rivelare la realtà come l'aveva percepita, denudata dalle categorie consuete dell'immaginario tradizionale sardo, che avrebbero probabilmente collocato la sua opera nella tutt'al più pittoresca categoria del racconto folk. I sardi le imputarono quindi il peccato che per tutti, maschi e femmine indistintamente, sull'isola è considerato imperdonabile: la perdita della riservatezza su se stessi, come singolo o come corpo collettivo.

Per la cultura sarda custode naturale di ogni mistero e segreto, una donna che raccontava «le cose di casa» sulle pagine dei giornali nazionali compiva già un atto socialmente imperdonabile. Ma Grazia Deledda vi aggiungeva l'aggravante di averlo fatto usando spesso parole durissime per la sua terra, nel tentativo tutto personale - che certo doveva apparire anche un po' ingrato - di prenderne le distanze, come farebbe una rosa casualmente sbocciata da un fico d'India. La Deledda, trasferitasi sul continente, amava sconsigliare amici e confidenti dal recarsi in viaggio in Sardegna, come testimonia anche la studiosa svedese Amelie Posse, che la conobbe prima di rifugiarsi sull'isola all'inizio della Seconda guerra mondiale. La scrittrice infatti indirizzò l'amica verso Alghero, cittadella di matrice culturale catalana, perché il resto dei sardi erano a suo dire una compagnia improponibile, incolti e barbari. Ma la volontà della Deledda di voler testimoniare la propria personale visione dell'esistente era un atto in un certo senso anche «letterariamente» inaccettabile per un mondo che proprio per celebrare il racconto di quello che non esiste si riuniva da secoli intorno ai suoi fuochi a compiere il rito comunitario di esorcizzare la fatica dell'esistente. Negli avamposti poverissimi di quella economia di sussistenza che era la Sardegna dei primi del Novecento, dove famiglie numerose dividevano insieme più tempo che pane, quali altre storie potevano fiorire se non quelle di janas tessitrici di fili d'oro zecchino e di orchi dentro i nuraghi che custodivano granai sotterranei pieni di cereali?

Il racconto del focolare, a cui la Deledda stessa dedicò la raccolta Per il folklore sardo, ha rappresentato per secoli il diversivo alla quotidianità di cui la televisione ancora da venire avrebbe poi preso il posto, con i suoi quiz, le sue fiction e le sue scosciate veline, il nuovo emblema della femminilità isolana, in ordine di tempo le ultime janas su cui fantasticare.