Dei giorni che seguirono ho nette piú le impressioni che i ricordi, che sono invece imprecisi, una sorta di fotografia mossa dove l’unica cosa inconfutabile è che a mio modo, se non altro per poterla confondere, in quella felicità devo esserci stata. In un momento di euforia credo di aver mandato un messaggio a Fabrizio dicendogli che stavo vivendo giorni indimenticabili, e lui fu abbastanza discreto da non farmi notare che la parola indimenticabile non indica necessariamente qualcosa di bello. In realtà quel che speravo piú che altro era la permanenza in me di ciò che stavo vivendo, perché per indole ero troppo incline a dimenticare. Se qualcosa ricordavo era privo di una vera logica, un grumo di scorie posato per caso sul piano liscio di un vetro inclinato: era solo questione di tempo perché scivolasse via. Non aveva avuto torto mia madre quando mi definiva superficiale con le zie. C’era un contrappasso spietato nel fatto che pretendessi di alimentare un’ambizione di eternità artistica mentre non ero nemmeno capace di restare memore di me stessa.

All’inizio sono certa che questo fenomeno della dimenticanza fosse meno frequente, ma solo perché tutto aveva una verginità da giocarsi, una purezza originaria che poteva essere violata un numero finito di volte e poi non piú. Da ragazzina credevo che quel diritto a deflorare la storia, la gioia feroce del dito furtivo infilato nella panna intatta della mia torta, sarebbe durato per sempre; quando mi accorsi che non era cosí qualcosa si era perso già. Se a tredici anni fossi stata cosciente del fatto che il primo bacio dato nel corridoio della palestra a quell’idiota di Paolo Pili sarebbe stato il castone su cui si sarebbe installata la possibilità di ricordo di ogni bacio a venire, non ho dubbi che non mi sarei fatta baciare. Con ogni forza avrei impedito alla mia memoria erotica di farsi incidere dall’odore acre di ginnastica che lui si portava addosso, malamente intrecciato a un sapone liquido da due soldi che a distanza di venticinque anni riconosco ancora.

Perché un bacio è solo un concetto, finché qualcuno non te ne dà uno. Poi arriverà qualcun altro e te ne darà un secondo, poi un terzo e un quarto e ognuno con le sue labbra senza saperlo costruirà l’idea di bacio che ti porterai dentro, fino a quando il bacio di uno sconosciuto ti farà pensare: ecco, qui io ci sono già stata. Potrà essere bello, potrà essere caldo e sapere di buono, ma lo stupore sarà finito. Bisognerebbe difendersi dalle prime volte, perché consumano la nostra capacità di evocare la meraviglia. Bisognerebbe dirlo ai tredicenni che ciascuna di esse si divora un pezzo del patrimonio di sguardi sorpresi, di battiti accelerati, di tremori di stomaco e stupori genuini di cui abbiamo tutti un limitato possesso. Io forse di meraviglia ne avevo avuta in dote meno di altri, ma di quando in quando il miracolo della sorpresa accadeva ancora. Allora mi ritrovavo nel cuore di un’emozione che mi appariva nuova, un raro fuoco d’artificio durante il quale, con l’arroganza di assistere da testimone a un attimo di storia mia, mi ripetevo solennemente che no, non mi sarei scordata.

Una promessa identica me la feci tra le braccia di Martin in quella coda dell’inverno svedese in cui giurai a me stessa che avrei tenuto a mente ogni cosa. La sera in cui gli raccontai di mia madre mi sembrò importante non scordare che quell’uomo quando era infelice si aggrappava alle cose come fossero appigli.

La sera successiva, ore dopo lo spettacolo, mi ritrovai nuda sul letto a fissare le travi candide cercando di richiamare alla mente l’esatta consistenza della spalla che gli avevo morso nell’orgasmo. Volli tenere per me anche l’immagine di lui che mangiava gli spaghetti girando la forchetta in senso antiorario, e la piega del suo sorriso quando voleva farmi capire che pensava il contrario di quello che stava dicendo. Serbai impressione della gentilezza suadente con cui convinse un antiquario del centro a mostrarci un’introvabile acquaforte della Stoccolma vecchia di cui aveva avuto notizia. Non volevo dimenticare niente di quell’imprevista alterità maschile dalla cui forza per la prima volta in vita mia non mi sentivo minacciata.

L’urgenza di ricordarlo era a tratti piú forte di quella di rivederlo.

Invece bastarono poche settimane perché quella bellezza mi si offrisse come già sfumata. I tempi, i modi, le parole, talvolta persino il dato oggettivo del luogo in cui si erano svolti i fatti si deformavano nei loro confini e scivolavano in un’indefinitezza che non mi permetteva piú di farne cronaca fedele. Nei mesi successivi avrei perso la possibilità di dire con certezza se Martin mi baciò davanti alla finestra del bistrot nel museo Fotografiska o nel buio di un vicolo vicino al lago dove giocava da bambino, ma se l’ho dimenticato è perché in fondo non ho mai creduto che fosse cosí importante ricordarlo. Una volta Fabrizio mi aveva detto che ciascuno di noi deve scegliere se serbare la memoria oppure la coscienza. Io per istinto sin dall’infanzia ho creduto di scegliere la seconda, la sola che non avesse bisogno dei particolari. Il resto me lo sono raccontato, e quel narrare impreciso era l’unica resistenza che potevo opporre. Nei giorni di Stoccolma la consapevolezza di stare andando incontro a un cambiamento mise in me la prima radice e modificò il punto della vita in cui mi trovavo.

Sentivo Chirú una volta al giorno in telefonate brevi ed elettriche dove per un moto istintivo di prudenza entravo solo nelle cose minime. Lui mi disse che la sua ragazza non si era piú fatta vedere. Io gli dissi che le repliche erano un successo, per l’ultima sera avevano già esaurito i biglietti. Gli raccontai che non era vero quello che gli avevo scritto nei primi giorni, che alla fine bastava uscire anche con la luce e a Stoccolma il mare si vedeva benissimo. E che si mangiava deliziosamente. E che faceva freddo. Nella sequenza delle banalità di una tra quelle telefonate intromisi l’informazione dell’incontro con Martin.

– Ti ricordi il direttore dell’Opera di Stoccolma, quello che hai ignorato alla festa di Rampini? L’ho rivisto qui per caso, è venuto in teatro.

– Figurati se mi dimentico della peggior figura di merda degli ultimi sei mesi. Si ricordava? E com’è, simpatico?

– Parecchio. È un tipo insolito, sorprendente. Ti piacerebbe.

Dall’altra parte ci fu un silenzio abbastanza lungo da farmi dubitare che la linea fosse caduta.

– Chirú?

– Sono qui. Lo hai anche rivisto?

– … Sí. Mi ha invitata a cena un paio di sere.

– Oh.

Di nuovo quel silenzio. Stavolta però feci come se non lo avessi sentito.

– Lí va tutto bene?

– Bene come può andare bene il niente. Studio tutto il giorno e desidero andarmene al piú presto. In quale punto della tournée hai pensato che ti potrei raggiungere? Cosí mi organizzo.

Percepii la variazione di temperatura nella sua voce e non ne fui stupita: dopotutto il ragazzo con cui stavo parlando al telefono aveva imparato da me a riconoscere le sfumature. Mantenni un tono naturale e presi tempo.

– In Svezia è escluso, ormai siamo alla fine. Per Praga però devo verificare la situazione. Ti mando un’email col biglietto appena so con certezza dove mi mettono e come posso ospitarti.

– Avevi detto che sarei venuto a Stoccolma.

– Lo so cosa avevo detto, ma le condizioni non ci sono. Ti avviso io non appena ho certezze.

Il rituale frivolo della doccia e della scelta del vestito per cena non bastò a cancellare la sensazione di omissione che mi era rimasta addosso. Mi irritai con me stessa per aver agito come una che ha qualcosa da nascondere e al contempo mi sorse un fastidio incongruente verso il ragazzo, come se mi avesse rivolto un’accusa di qualche tipo. Quel pensiero irragionevole mi faceva vergognare. Potevo dire che la mia vita privata non aveva pesato in alcun modo nel rapporto con Chirú, ma questo era vero solo perché non avevo una vita privata. Gli uomini con cui ero uscita da quando lo avevo preso come allievo erano passati piú che altro dal letto e non c’era stata ragione alcuna perché sapessero di lui, né lui di loro. Per questo la mia solitudine – infelicità con classe, cosí l’aveva definita – era per lui un dato esistenziale, non un giudizio estetico. Non era strano che la prospettiva di vederla mutare alterasse la sua percezione di me, sempre ammesso che il tremito che gli avevo udito nella voce implicasse un sospetto di quella natura.

Mentre mi infilavo i pendenti alle orecchie mi ripetei che se avessi iniziato una relazione stabile Chirú non avrebbe avuto alcun motivo di preoccuparsene, a maggior ragione se lo avessi fatto con un uomo come quello. Misi i dubbi da parte, infilai in borsetta il cellulare e quando entrai nell’auto di Martin avevo recuperato abbastanza buon umore da non dovergli mostrare altro che il mio sorriso.

Immaginavo che per uno svedese invitare qualcuno in casa propria non avesse la stessa valenza di normalità che poteva avere in Italia, ma Martin era svedese solo per metà e fui grata di poterlo vedere dentro gli spazi della sua quotidianità. Se però avevo sperato che questo mi facesse capire qualcosa in piú, rimasi delusa.

L’abitazione era poco connotata, arredata con gusto ma senza eccentricità, e l’elemento dominante era il consueto bianco panna che imperversava da quelle parti, organizzato intorno a un bisogno di luce che assumeva i contorni dell’ossessione. L’unica cosa che sembrava rispondere a un tocco personale, a parte il tavolo già apparecchiato per due, era uno Steinway a coda che a lato di tutto quel candore brillava di nero con la solennità della Ka‘ba alla Mecca. Nonostante avesse scelto il terreno d’incontro piú familiare per sé, quando Martin mi prese il cappotto dalle mani era impacciato.

– Accomodati, io metto un po’ di musica e finisco di preparare la cena. Niente di impegnativo, ti avviso: non sono un fenomeno ai fornelli.

– Lo dici perché vedi in me un fenomeno alla forchetta?

– Lo dico perché sei esigente.

Sparí per qualche istante e quando le prime note del Köln Concert si diffusero per la casa lo vidi riapparire sorridente senza la giacca e con un grembiule da cucina. Spinse di lato l’ampia porta scorrevole che avevo scambiato per una parete divisoria e vidi che dietro c’era un piano cottura ampio e ben accessoriato sul quale alcune pentole coperte promettevano bene. Lasciai perdere il divano e lo seguii, osservandolo mentre spadellava disinvolto.

– Ti piacciono le penne alla Norma? Non è deformazione professionale, è che vado matto per le melanzane.

Mi piacevano, le penne alla Norma.

Fu a metà della cena che il mio telefono cominciò a trillare ritmicamente da dentro la borsetta, segnalandomi l’arrivo sequenziale di una serie di messaggi ravvicinati. Il primo trillo lo ignorai, il secondo mi rubò uno sguardo e il terzo mi costrinse a un sorriso imbarazzato. Feci per alzarmi.

– Scusami, l’ho dimenticato acceso.

Presi il cellulare, ma prima di abbassare la suoneria lessi l’ultimo sms di sfuggita, e fu già troppo: Ti ho sentita strana. Non resisto piú. Domani prendo e ti raggiungo. Digitai un convulso Non ci pensare neanche e riposi il telefono con la suoneria a zero, ma la mia espressione a Martin non era sfuggita.

– Qualche problema?

– Niente che non possa essere risolto domani.

Stirai un sorriso e mi risedetti, distendendo le pieghe del tovagliolo con meticolosità rivelatoria.

– Ti vedo turbata…

– Ma no, figurati. È solo… è solo il mio figlioccio. Ha qualche problema di cuore.

– Il ragazzo della festa? A quell’età sarebbe strano che non li avesse.

Era la seconda volta che mentivo in meno di tre ore e questo mi diede un disagio che a stento riuscii a nascondere dietro una banalità degna della piú acida delle madri.

– Infatti non è grave che s’innamori, purché non si distragga dallo studio.

– Suvvia Eleonora, abbiamo avuto entrambi vent’anni! Se hai un amore che non ti distrae dallo studio che razza di amore è?

Annuii mio malgrado e afferrai il bicchiere per superare il discorso.

– Hai perfettamente ragione, è una preoccupazione sciocca la mia.

Credevo chiuso l’argomento, ma la domanda successiva giunse a bruciapelo.

– Sei molto affezionata a questo ragazzo?

– Siamo legati, sí. In un certo senso mi occupo io della sua educazione.

– Scusami, non avevo capito che avesse perso i genitori.

Lo guardai incerta se prenderla come una provocazione, poi mi resi conto che semplicemente non aveva la minima idea di quello di cui stava parlando.

– Sono vivi, in realtà. Per trovare me non era indispensabile che perdesse loro. Tu non hai avuto maestri?

– Piú di uno invero, anche se non avevo con loro un rapporto tale da confidargli le questioni di cuore alle dieci di sera. Se l’avessi fatto magari avrei ricevuto consigli utili a evitare qualche casino nella vita. Un matrimonio sbagliato, per esempio.

La repentinità di quella rivelazione mi lasciò interdetta quanto il cambio di discorso, ma lui serafico s’impossessò dei piatti sporchi e li portò in cucina, da dove li udii tintinnare nell’acquaio.

Quando tornò sorrideva di nuovo e riconobbi nella sua maschera la stessa mia. Proseguí come se non si fosse mai alzato e lo ascoltai senza piú alcuna distrazione. Chirú in quell’istante era un telefonino silenziato.

– Tre anni fa ho lasciato la donna che ho sposato ed è stato un divorzio difficile, diciamo…

Posò uno strano dolce a forma di budino che tremolò al contatto col tavolo, poi aggiunse con una risata bassa e nervosa:

– … a essere sincero se non è stato un completo disastro è solo perché non avevamo figli su cui farci a pezzi. Tutto il resto non ce lo siamo risparmiati.

D’improvviso compresi. La casa, la cena, la pasta alla Norma, il pesce con l’aneto, Keith Jarrett. Tutto quell’armamentario era stato predisposto perché Martin von Lothringen voleva dirmi che aveva avuto moglie e voleva dirmi anche che aveva divorziato. Le ragioni per cui un uomo con cui ero andata a letto per dieci giorni consecutivi voleva farmi quella doppia confidenza potevano essere solo due: o temeva che mi facessi delle idee o voleva che mi facessi delle idee, e io non mi azzardai a presumere che una cosa escludesse l’altra. Evitai in ogni caso di dire che mi dispiaceva, dato che non era vero.

– Insomma siamo entrambi dei sopravvissuti: tu alla compagnia e io alla solitudine. Credo che questo significhi che ci meritiamo una fetta di dolce senza sensi di colpa. Che cos’è questa meraviglia?

Puntai il dito verso l’enorme panna cotta che aveva posato sul tavolo e lui sembrò di colpo leggero, sollevato sia dalla propria rivelazione che dallo slittamento di registro con cui avevo deciso di accoglierla.

– Oh, è äggost, niente di che, è tipico di Bohuslän, la regione dove è nato mio padre. Non so se ti può piacere, sembra una specie di formaggio fresco ma è fatto soprattutto di uova. Da bambino me lo preparavano per le occasioni speciali.

Era buono e lo mangiammo seduti sul divano, io senza i tacchi accoccolata in un angolo e lui piú composto all’altro capo, mentre con un ginocchio mi sfiorava il piede e con lo sguardo il resto. All’ultima cucchiaiata di äggost tornò al principio del discorso.

– Senti, per il tuo figlioccio pensavo che… potrei fargli un’audizione quando scendo a Roma. Sarà tra breve, peraltro.

– Sei molto gentile, ma è solo al compimento inferiore.

– Ma non importa. I talenti rimarchevoli cominciano la carriera solistica molto prima del compimento superiore. Siamo sommersi da fenomeni cinesi che non hanno neanche finito le medie.

Era un’occasione d’oro per Chirú. L’offerta di Martin era preziosissima e difficilmente ne avrebbe avuta una uguale per anni, ammesso che mai quella fortuna gli si ripresentasse. Il tumulto che sentivo nel cuore batteva un crescendo di colpi esasperati. In un istante mi passarono davanti tutte le cose che ci eravamo detti nei mesi precedenti e piú ancora quelle che non ci eravamo detti, la cui energia sentivo scorrere anche nella piú banale delle telefonate. Ripensai alla sua ansia di andare via dalla Sardegna. Rivissi gli istanti nel chiostro in penombra mentre parlava di Luca agli insegnanti. Rilessi con la mente il messaggio che mi aveva mandato quella sera. Poi guardai l’uomo seduto con me sul divano e lo vidi sorridermi generoso e forte.

Gli risposi guardandolo negli occhi.

– Non credo che abbia un talento di questa proporzione.

Lui mi fissò incuriosito.

– Sei molto severa nei suoi confronti.

Quanto fosse infondata quell’affermazione non lo sapevo ancora per intero neppure io, ma in quel momento la misi da parte e gli accarezzai il ginocchio col piede, sorridendogli senza replicare.

– Possiamo cambiare argomento? Sono sicura che ne hai di migliori…

Tre giorni dopo sarei partita per Praga, e se Chirú fosse stato alle mie spalle mentre andavo ai controlli di sicurezza dell’aeroporto di Arlanda non ho dubbi che si sarebbe accorto che muovevo il culo proprio come una ragazza che torna da un appuntamento che conta.