– Ha a che fare con le indagini?

– Sí, potrebbe.

– Cioè?

In quel posto lavoravano tutti secondo il fottutissimo regolamento. Sebastian era troppo stanco e lento per inventarsi una bugia convincente, cosí si accontentò di bluffare un po’ sperando che bastasse.

– È una questione che sto seguendo in parallelo alle indagini, è un po’ un rischio. Non ho detto nulla agli altri, ma nel migliore dei casi potrà tornarci utile.

Billy annuí e Sebastian si rilassò leggermente. Stava per alzarsi quando Billy lo interruppe.

– Cosa ha a che fare con Roger Eriksson?

Okay, il bluff non bastava. Dov’erano finiti quelli che si limitavano a fare ciò che gli si chiedeva? Se le cose fossero andate storte Billy poteva sempre dare la colpa a Sebastian, che a sua volta avrebbe sostenuto di essere stato frainteso. Torkel si sarebbe indignato. Avrebbero discusso le procedure. Poi tutto sarebbe andato avanti come al solito. Sebastian diede a Billy una possibilità di abboccare all’amo senza rivelargli nulla di piú.

– È una lunga storia, ma sarebbe un bene, anche per te, se potessi aiutarmi. Sono sicuro che potremmo ritrovarci con qualcosa in mano.

Billy rigirò la busta, studiandola. Nel caso in cui non avesse avuto intenzione di abboccare, Sebastian iniziò velocemente a inventarsi una balla tra sé. C’era la possibilità che Anna Eriksson fosse la madre naturale di Roger. No, non era registrato in nessun archivio delle adozioni, era un’informazione riservata. No, non poteva dirgli da chi provenisse. Poteva andare. Se solo fosse stato possibile. Sebastian iniziò a contare. Quanti anni aveva Anna Eriksson quando era rimasta incinta di Roger, in base a quella storiella? Attorno ai quaranta, no? Sí, poteva andare.

– Okay.

Sebastian tornò alla realtà, chiedendosi se si fosse perso qualcosa.

– Okay?

– Certo, ma dovrai attendere un po’, ho un sacco di file delle videocamere di sorveglianza da visionare entro domani.

– Sí, certo, non c’è fretta. Grazie.

Sebastian si alzò e si diresse alla porta.

– Un’altra cosa –. Billy alzò di nuovo gli occhi dal computer. – Apprezzerei molto se potessimo tenere la cosa tra di noi. Come ho detto è un rischio, e il piacere delle disgrazie altrui è sempre vivo, come sai.

– Certo, nessun problema.

Sebastian sorrise, grato, e lasciò la stanza.

Limone ristorante italiano. Aveva prenotato lei, ma Torkel arrivò per primo e venne condotto a un tavolo in un angolo della sala, accanto a due finestre, su cui pendevano sfere di metallo della dimensione di palle da bowling appese a dei cavi sul soffitto. Un tavolo per quattro. Due divanetti al posto delle sedie. Duri, con lo schienale rigido e rivestiti di un tessuto viola scuro. Torkel sorseggiò una birra direttamente dalla bottiglia. Era stata una cattiva idea invitare a cena la Hanser? Anche se non l’aveva invitata nel vero senso della parola. Voleva soltanto approfondire la discussione avuta quel giorno in merito all’indagine, il loro breve incontro era stato superficiale e avrebbe potuto tranquillamente proseguire davanti a un boccone cosí come nel suo ufficio. Certo, la Hanser aveva fatto un passo indietro di propria iniziativa, lasciando che fossero loro a occuparsi delle indagini, ma ufficialmente la responsabile continuava a essere lei, e Torkel aveva la sensazione di essere stato un po’ troppo brusco di recente.

La Hanser arrivò, scusandosi per il ritardo, si sedette e ordinò un calice di vino bianco. Il capo della polizia regionale l’aveva convocata per ottenere degli aggiornamenti sulla situazione. Era preoccupato per il rilascio di Leonard Lundin ed era ansioso di sentire che avevano per le mani un altro sospettato. Naturalmente lei era stata costretta a deluderlo. Anche il capo della polizia regionale era sotto pressione. L’interesse dei giornali, soprattutto quelli delle edizioni serali, non si era placato. Minimo quattro pagine ogni giorno. L’intervista a Lena Eriksson era stata rimaneggiata e propinata di nuovo. Puntavano sulla solitudine di Roger, speculando sul fatto che a compiere l’omicidio fosse stato qualcuno che il ragazzo non conosceva. In tal caso sarebbe potuto accadere di nuovo. Un «esperto» sosteneva che, quando si uccide per la prima volta – com’era probabile che fosse successo –, si oltrepassa un limite senza poter piú fare marcia indietro. Presumibilmente l’assassino avrebbe ucciso ancora. E presumibilmente l’avrebbe fatto presto. Il solito giornalismo intimidatorio, che accompagnava l’ultima isteria collettiva o sbandierava titoli del tipo «Il tuo mal di testa potrebbe essere un tumore». L’«Expressen» era riuscito a fiutare il passo falso della polizia nel fine settimana successivo alla scomparsa del ragazzo, mettendo in discussione la loro efficienza. L’articolo era accompagnato da un elenco di altri omicidi irrisolti, in testa quello del primo ministro Olof Palme. La Hanser aveva spiegato al capo della polizia regionale che avrebbe incontrato Torkel, e se tutto fosse andato come doveva gli avrebbe fornito ulteriori informazioni la mattina seguente. Lui si era tranquillizzato, ma prima di congedarla aveva chiarito che: a) si augurava che rivolgersi alla Omicidi non fosse stato un’errore; e b) nell’eventualità che lo fosse stato lei e nessun altro ne avrebbe dovuto rispondere.

Quando il cameriere arrivò con il calice di vino e domandò se fossero pronti a ordinare, si immersero brevemente nel menu. Torkel sapeva già quello che voleva. Salmone alla calabrese con pomodori ciliegini, porri, capperi, olive e un tortino di patate. Non era tipo da antipasto. La Hanser optò rapidamente per l’agnello alla griglia con parmigiana di patate e salsa al vino rosso. Piú costoso. Non che avesse importanza. Era stato Torkel a chiamarla e a richiedere la sua compagnia. Era una cena di lavoro, quindi era ovvio che pagasse lui. Che pagasse la Omicidi.

Mentre attendevano analizzarono il caso. Sí, Torkel aveva letto i giornali. Vanja aveva fatto la medesima ipotesi. Assassino ignoto. Secondo Sebastian, tuttavia, l’aver scoperto che Roger era stato colpito da un’arma da fuoco confutava quella possibilità. Una persona decisa a uccidere, indipendentemente da chi fosse, non utilizzava un’arma che, in seguito, l’avrebbe costretto a estrarre la pallottola dal corpo della vittima per non essere identificato. Purtroppo non era un dato che la Hanser potesse comunicare ai media. La consapevolezza che Roger era stato colpito da un’arma da fuoco non era un’informazione da diffondere e da far arrivare all’assassino. Oltre a questo Torkel non aveva granché da raccontare. A parte Axel Johansson, non avevano fatto importanti passi avanti; molto dipendeva dall’indomani, dai rapporti della Skl. Il cellulare di Torkel vibrò nella tasca della giacca. Lo estrasse e guardò il display. Vilma.

– Devo rispondere.

La Hanser annuí e bevve un sorso di vino mentre lui rispondeva.

– Ciao tesoro –. Già prima di aver udito la sua voce, Torkel si era sciolto in un sorriso. La sua figlia minore aveva quell’effetto su di lui.

– Ciao papà, che fai?

– Sono a cena con una collega. E tu?

– Sto andando a una festa a scuola. Sei in città?

– No, sono ancora a Vasterås. Hai bisogno di qualcosa?

– Se potevi venire a prendermi stasera, dopo la festa. Non sapevamo se eri tornato, cosí mamma mi ha detto di provare a chiamarti.

– L’avrei fatto volentieri, se fossi stato a casa.

– Non ti preoccupare, verrà mamma. Era solo se eri qua.

– Che festa è?

– In maschera.

– E tu da cosa ti vestirai?

– Da grande.

Torkel aveva una vaga idea di cosa significasse. Non era del tutto soddisfatto del costume della sua figlia dodicenne, ma non essendo lí non poteva impedirglielo o proporle delle alternative. Inoltre era convinto che Yvonne sapesse come tenerla a bada. A differenza di quello con Monica, il divorzio da Yvonne era filato liscio. Per quanto potessero filare lisci i divorzi. La loro relazione era stata pessima. A detta di entrambi. Lui la tradiva. Lei anche, ne era certo. Tutti e due erano d’accordo sulla separazione, ma sempre con il pensiero rivolto a Vilma ed Elin. In realtà ora andava molto meglio rispetto a quando erano sposati.

– Okay. Saluta mamma e divertiti.

– Certo, ti saluta anche lei. Ci vediamo quando torni.

– Sí. Mi manchi.

– Anche tu. Ciao.

Torkel terminò la conversazione e tornò alla Hanser.

– Era mia figlia.

– Sí, l’avevo capito.

Torkel rimise il cellulare in tasca.

– Tu invece hai un figlio, non è cosí? Quanti anni ha adesso?

Esitazione. Nonostante le avessero posto quella domanda tante volte negli ultimi sei anni, esitava sempre a parlare di suo figlio. All’inizio aveva risposto sinceramente, ma le persone si mostravano sempre particolarmente addolorate e dopo un silenzio penoso o goffi tentativi di tener viva la conversazione trovavano presto un pretesto per allontanarsi. Cosí, alla domanda se avesse figli, ora era abituata a rispondere semplicemente di no. Era la cosa piú semplice ed era vero.

Non ne aveva.

Non piú.

Ma Torkel sapeva che era stata madre.

– È morto. Niklas è morto tre anni fa. Aveva quattordici anni.

– Oh, sono desolato. Non lo sapevo, sono terribilmente desolato.

– Come avresti potuto saperlo?

Per esperienza la Hanser intuiva a cosa stava pensando Torkel. Tutti quelli che venivano a conoscenza della scomparsa di Niklas volevano saperlo. I quattordicenni non muoiono spesso. Doveva essere successo qualcosa, no? Cosa? Tutti volevano sapere cosa fosse accaduto. Torkel non faceva eccezione, ne era certa. L’eccezione era che formulò apertamente la domanda.

– Come è morto?

– Doveva prendere una scorciatoia. Salendo sopra una locomotiva. Si è avvicinato troppo ai cavi dell’alta tensione.

– Non riesco nemmeno a immaginare come dovete esservi sentiti tu e tuo marito. Come siete riusciti ad andare avanti?

– Non ci siamo riusciti. Dicono che l’ottanta per cento delle coppie che perdono un figlio si divide. Vorrei poter dire di appartenere all’altro venti, ma purtroppo… – Bevve un altro sorso di vino. Le sembrava semplice parlarne con Torkel. Piú semplice di quanto avesse creduto.

– Ero cosí arrabbiata con lui. Con Niklas. Aveva quattordici anni. Non so quante volte avevamo letto di ragazzi fulminati sui tetti dei treni. Ogni volta dicevamo che avrebbero dovuto saperlo. Erano adolescenti. Alcuni di loro quasi adulti. E Niklas era d’accordo. Sapeva che era pericoloso. Mortale. Eppure… Sono stata cosí arrabbiata con lui.

– È comprensibile.

– Mi sono sentita la peggiore madre del mondo. Sotto ogni punto di vista.

– Anche questo è comprensibile.

Il cameriere arrivò con i piatti. Avrebbe potuto essere un motivo per smettere di parlarne, per dedicarsi alla cena in silenzio. Ma iniziarono a mangiare a discorso inoltrato e dopo alcuni minuti Torkel si rese conto che, a cena conclusa, avrebbero saputo piú cose l’uno dell’altra di quante ne sapessero quando si erano incontrati.

Sorrise tra sé. Era interessante quando accadeva.

 

 

Haraldsson era seduto nella sua Toyota verde fuori dalla casa di Axel Johansson e stava congelando. Eppure indossava sia la calzamaglia sia una maglia di pile sotto il giaccone imbottito. Strinse la tazza di caffè. Il primo caldo primaverile si faceva sentire durante il giorno, ma di sera e di notte faceva ancora freddo.

Haraldsson si sentiva particolarmente coinvolto, dato che la giornata si era conclusa con il mandato di cattura di Johansson. Piú che coinvolto. Il suo contributo era stato assolutamente decisivo. Era stato compito suo trovare il mittente dell’e-mail che aveva indirizzato la Omicidi al Palmlovska e successivamente al bidello licenziato. Torkel Hoglund aveva annuito e sorriso debolmente quando gli era passato accanto nel pomeriggio, tutto lí. Per il resto nessuno gli aveva mostrato la stima che si meritava per essere stato il latore dell’informazione, colui che aveva fatto fare un passo avanti alle indagini. Non era stupito. Deluso sí, ma non stupito. Haraldsson si rese conto che non avrebbe mai ottenuto un segnale di apprezzamento. Non da Torkel o dai suoi colleghi, comunque. Cosa sarebbe successo se un agente della polizia locale avesse risolto il caso sotto il naso della Omicidi? Prima di andare a casa aveva domandato alla Hanser se fosse prevista la sorveglianza giorno e notte dell’abitazione del sospettato. La risposta era stata negativa. Il mandato di cattura era stato diffuso a tutto il personale di polizia, in modo che si tenessero all’erta durante le ricognizioni e le uscite di routine. Avevano anche contattato i vicini, gli amici e i parenti dicendo che stavano cercando Axel. Per un colloquio. Erano stati molto attenti a sottolineare che al momento non era sospettato di niente. Sorvegliare l’abitazione era una decisione che avrebbe preso la Omicidi in un secondo momento.

Haraldsson aveva deciso immediatamente. Era chiaro che il tizio si stava nascondendo. Gli innocenti non si nascondevano, e quello che lui faceva nel tempo libero e dove trascorreva la notte erano fatti suoi.

Cosí ora era lí.

Nella sua Toyota.

A congelare.

Si trastullò un po’ con l’idea di accendere il motore e farsi un giro per riscaldare l’abitacolo, ma c’era il rischio di perdere il momento in cui Axel Johansson fosse rientrato. Lasciare acceso il motore per alcuni minuti non era nemmeno da prendere in considerazione. In parte perché il sospettato avrebbe potuto reagire alla presenza di un’auto accesa davanti a casa sua a un’ora cosí tarda, e in parte perché in città era permesso restare in folle soltanto un minuto. Meno infrazioni, certo, eppure. Leggi e regole esistevano per essere seguite. Inoltre era riprovevole dal punto di vista ambientale. Per riscaldarsi mandò giú altro caffè. Strinse la tazza. Avrebbe dovuto portarsi i guanti. Soffiò aria calda sulle mani e gli cadde l’occhio sulla garza posta sul dorso di una delle due. Jenny si era insinuata dietro di lui mentre stava versando il caffè nel termos e, quando gli aveva cinto la vita facendo scivolare le mani verso il basso, per lo spavento lui aveva fatto un salto. In bagno, aveva spalmato sulla mano della pomata alla lidocaina e l’aveva avvolta in una garza. Jenny gli aveva fatto compagnia e, quando lui aveva gettato la scatola vuota nel cestino della spazzatura, si era di nuovo avvicinata da dietro domandandogli se avesse davvero tanta fretta.

Lo avevano fatto nella doccia. In seguito aveva sostituito la garza bagnata, spalmando sulla mano dell’altra pomata. Nonostante il sesso nella doccia, quando era uscito Jenny gli era sembrata delusa. Gli aveva chiesto quando sarebbe rientrato. Sarebbe rimasto a casa qualche ora prima che lei andasse al lavoro l’indomani mattina? Se tutto andava bene, sí. Ma ne dubitava. Il piano di Haraldsson era recarsi direttamente in commissariato. Si sarebbero visti la sera successiva. Bacio e ciao.

Mentre beveva un altro sorso di caffè, ormai tiepido, ci rifletté sopra. Jenny era arrabbiata quando lui se n’era andato. Lo sapeva. E ora era lí, arrabbiato anche lui. Voleva davvero… no. Lui avrebbe risolto l’omicidio di Roger Eriksson, ma sembrava che lei non riuscisse a comprendere quanto questo fosse importante. Il suo desiderio di restare incinta metteva tutto il resto in secondo piano. In un certo senso poteva capirla. Anche lui voleva un figlio. Desiderava diventare padre e gli dispiaceva che fosse cosí difficile. Ma per Jenny era un’ossessione. Ultimamente la loro relazione si era ridotta al sesso. Lui le proponeva di uscire, andare al cinema, magari al ristorante, ma lei era sempre dell’idea di guardare un dvd e mangiare a casa, cosí avrebbero potuto fare anche «quello». Le poche volte che andavano a casa di amici tornavano sempre presto e nessuno di loro ormai toccava piú alcol. Invitare qualcuno non era nemmeno da prendere in considerazione. Gli ospiti non se ne sarebbero mai andati, molto meglio essere invitati. Haraldsson cercava di parlare del suo lavoro, dei problemi, prima con la Hanser e ora con la Omicidi, ma sempre piú spesso aveva l’impressione che lei non ascoltasse. Annuiva, assentiva, rispondeva – sempre piú di frequente con le sue stesse parole – e voleva di nuovo fare sesso. Per i pochi colleghi maschi che ogni tanto gli parlavano dei loro rapporti di coppia era il contrario. Il problema era che ne facevano troppo poco.

Troppo di rado.

Troppo monotono.

Haraldsson non osava nemmeno raccontare quel che succedeva a casa sua. Ma ci pensava sempre piú spesso. E se l’ossessione fosse andata avanti anche quando Jenny fosse rimasta incinta? Sarebbe diventato uno di quelli che leggono ogni singola voce allarmistica su ogni singolo alimento? Sarebbe partito alla ricerca di tavole calde aperte giorno e notte, distanti chilometri e chilometri da casa, per procurarsi cetrioli sott’aceto o gelato alla liquirizia? Haraldsson si scrollò di dosso quei pensieri. Aveva un lavoro di cui occuparsi. Ecco perché si trovava lí. Non si stava allontanando da sua moglie, no?

Decise di muoversi un po’ per scaldarsi. Poteva fare due passi, cosí da tenere sott’occhio il portone di casa di Axel Johansson.

Vanja era alla scrivania e stava guardando fuori della finestra. La maggior parte della visuale era occupata dall’edificio di fronte, un moderno mostro di vetro, tuttavia riusciva a scorgere anche il cielo serale e una fila di alberi che digradavano verso il Malaren. Davanti a lei c’erano alcuni block notes, dei fogli e diverse agende provenienti dalla scrivania di Roger, parte di ciò che Ursula aveva prelevato dalla sua stanza. Un’ora prima Vanja e Billy avevano mangiato un’insalata al ristorante greco raccomandato dalla ragazza alla reception. Il cibo era ottimo ed entrambi erano certi che ci sarebbero tornati. Era sciocco rischiare in quelle piccole cittadine svedesi. Se trovavano un bel posto, di solito diventavano clienti fissi. Rientrando, Vanja aveva fatto un salto in albergo per chiamare suo padre. Valdemar le era sembrato felice ma stanco, per lui la giornata era stata una montagna russa di emozioni e la terapia lo debilitava. Una telefonata fantastica. Per la prima volta da lungo tempo, Vanja non aveva riattaccato con la sensazione che presto l’avrebbe perso. Sprizzava gioia da tutti i pori e aveva deciso di impiegare quell’energia per fare qualcosa di utile, cosí era tornata al commissariato. In realtà quando erano in trasferta lavorava sempre il piú possibile, ma questa volta il pensiero degli straordinari la allettava particolarmente. Ursula aveva staccato alle sei. Vanja e Billy lo avevano trovato un po’ strano. Di solito lavorava fino a tardi, proprio come gli altri, e i due avevano ipotizzato che il vero motivo fosse Torkel. Per quanto discreti, Vanja e Billy sospettavano da tempo che fossero qualcosa di piú che colleghi.

Vanja iniziò a esaminare i fogli, perlopiú vecchi test scolastici, compiti e appunti. Iniziò a catalogarli: i test da una parte, gli appunti da un’altra e il resto da un’altra ancora. Si crearono cosí tre mucchi, che poi esaminò con cura e ordinò per data e contenuto. Alla fine le si pararono davanti dodici pile; cominciò ad analizzarle in maniera minuziosa. Aveva imparato da Ursula quel metodo di catalogazione. Il vantaggio principale era che ci si faceva velocemente un’idea del materiale e si guardava piú volte lo stesso documento con un grado di concentrazione crescente. Cosí, si potevano individuare con piú facilità schemi ed eventi, aumentando di conseguenza la precisione delle analisi. Ursula era brava in questo. Nel mettere a punto un sistema. D’un tratto Vanja pensò alle parole di Sebastian sulla gerarchia del gruppo. Aveva ragione: tra lei e Ursula esisteva il tacito accordo di non interferire l’una nell’ambito dell’altra. Non si trattava soltanto di rispetto, ma della consapevolezza che altrimenti si sarebbero messe in competizione, lottando per mantenere le proprie posizioni. In realtà gareggiavano entrambe.

Per il risultato.

Per essere le migliori.

Vanja si dedicò al suo materiale. Quei fogli non rivelavano nulla, al di là del fatto che Roger andava peggio in matematica che in lettere e doveva davvero impegnarsi in inglese. Vanja afferrò le agende nere. Sembravano piuttosto intatte, e andavano dal 2007 in avanti. Prese la piú recente, quella dell’anno in corso, e iniziò da gennaio. Roger non aveva scritto molto, sembrava che l’avesse ricevuta in regalo a Natale e poco dopo avesse smesso di usarla. Erano segnate le date di alcuni compleanni, compiti, test, e piú ci si allontanava da gennaio minori erano le annotazioni.

L’abbreviazione PW compariva per la prima volta all’inizio di febbraio, poi di nuovo alla fine del mese e nella prima settimana di marzo, per poi ripresentarsi ogni due mercoledí alle dieci del mattino. Sembrava l’unica annotazione ricorrente e Vanja continuò a sfogliare avvicinandosi a quel fatale venerdí di aprile. Ogni due mercoledí, la scritta PW. Sempre alle dieci. Chi o che cosa era PW? Trovandosi in orario scolastico, doveva avere a che fare con la scuola. Vanja arrivò a quel venerdí e si rese conto che dalla sua morte Roger aveva mancato un appuntamento con PW. Agguantò l’agenda dell’anno precedente per verificare anche lí la presenza di PW. C’era. La prima volta alla fine di ottobre, poi ogni due martedí alle tre del pomeriggio, regolarmente fino alla fine di novembre.

La cerchia di amici di Roger era parecchio limitata e fino a quel momento aveva fornito contributi minimi alle indagini. Lí, in ogni caso, compariva una persona che Roger incontrava sistematicamente – sempre che fosse una persona e non un’attività. Vanja guardò l’orologio: erano solo le nove meno un quarto, non troppo tardi per fare delle telefonate. Dapprima provò con la madre di Roger, Lena. Nessuna risposta. Ma non ci aveva contato: quando lei e Sebastian erano stati a casa sua, il telefono aveva squillato parecchie volte e lei non aveva nemmeno accennato a rispondere. Cosí decise di chiamare Beatrice Strand. Come coordinatrice di classe, avrebbe dovuto saperne di piú a proposito di ciò che Roger faceva ogni due mercoledí alle dieci del mattino.

– Aveva un’ora buca –. Beatrice parve un po’ stanca, ma l’avrebbe senz’altro aiutata.

– Sa cosa faceva in quell’ora?

– No, purtroppo, la lezione successiva iniziava alle undici e un quarto e di solito Roger si presentava in orario –. Vanja annuí e prese l’agenda dell’anno precedente.

– E lo scorso autunno, il martedí alle tre del pomeriggio?

Tacquero per un po’.

– Credo che a quell’ora avessimo finito. Sí, è cosí, di martedí finivamo alle tre meno un quarto.

– Sa cosa può significare l’abbreviazione PW?

– PW? No. Non cosí su due piedi –. Vanja annuí, sentiva che le cose stavano migliorando. In ogni caso Roger aveva nascosto i suoi incontri con PW a Beatrice. Sembrava importante. Non era soltanto una sua insegnante, la frequentava anche fuori dalla scuola.

– È PW che avrebbe dovuto incontrare di mercoledí? – domandò Beatrice dopo un istante in cui sembrava aver riflettuto sull’abbreviazione.

– Sí, esatto.

– Allora può essere Peter Westin.

– Chi è?

– Uno psicologo che ha una convenzione con la scuola. So che Roger era stato da lui qualche volta. In effetti sono stata io a consigliare Peter a Roger. Ma non sapevo che continuasse a vederlo.

Vanja la ringraziò per l’aiuto e prese nota dell’indirizzo di Peter Westin. Dopodiché lo chiamò. Nessuna risposta, ma dalla segreteria telefonica venne a sapere che lo studio apriva alle nove di mattina e una rapida occhiata alla mappa le mostrò che si trovava a soli dieci minuti dalla scuola. Roger sarebbe potuto andare e tornare nell’ora buca senza dare troppo nell’occhio, e se c’era qualcosa di cui si parlava con gli psicologi erano proprio i segreti. Cose che non si vogliono confidare ad altri.

Il cellulare squillò. Un sms.

«Ho trovato l’ex di Axel Johansson. Vuoi venire anche tu a parlarle? Billy».

Risposta immediata.

«YES».

Questa volta aggiunse anche uno smiley.

L’ex ragazza di Axel Johansson, Linda Beckman, era al lavoro quando Billy l’aveva contattata. Aveva ripetuto un sacco di volte che non stava piú con Axel e non sapeva dove si trovasse o cosa facesse ultimamente, e c’era voluta grandissima capacità di persuasione da parte di Billy per fissare un incontro. Quando infine aveva accettato, aveva detto di non potersi assolutamente recare in commissariato. Se volevano parlare con lei la sera stessa dovevano raggiungerla sul posto di lavoro; avrebbe potuto prendersi una piccola pausa. Ora Vanja e Billy sedevano al tavolo di una pizzeria a Stortorget. Non avevano ordinato da mangiare, solo una tazza di caffè.

Linda arrivò e si sedette di fronte a loro. Era una donna piuttosto comune, bionda, sulla trentina. I capelli le arrivavano alle spalle e la frangia terminava proprio sopra gli occhi verde acqua. Indossava una minigonna nera e una maglia fatta a mano a righe bianche e nere, che non faceva risaltare granché la sua figura. Al collo una catena sottile dalla quale pendeva un ciondolo d’oro a forma di cuore.

– Ho un quarto d’ora.

– Allora cercheremo di cavarcela in un quarto d’ora, – disse Billy afferrando lo zucchero. Metteva sempre lo zucchero nel caffè. E non poco.

– Come le ho detto al telefono, vorremmo avere alcune informazioni su Axel Johansson.

– Ma non mi avete detto perché.

Vanja la interruppe. Non era il caso di dirle che sapevano delle entrate extra di Axel, o almeno non prima che si fossero fatti un’idea di quello che pensava del suo ex. Cosí ci andò cauta.

– Sa perché è stato licenziato dal Palmlovska?

Linda sorrise. Aveva capito di cosa si trattava.

– Sí. Alcol.

– Alcol?

– Lo vendeva ai ragazzi. Che idiota… – Vanja la guardò e annuí. Sembrava che Axel non avesse in lei un’alleata.

– Proprio cosí.

Linda scosse il capo con rassegnazione, come a sottolineare un giudizio negativo sugli affari di Axel.

– Gliel’avevo detto che era stupido, ma credete che mi abbia mai ascoltato? Poi lo hanno licenziato, esattamente come avevo previsto. Idiota.

– Ha mai nominato un certo Roger Eriksson? – tentò Vanja speranzosa.

– Roger Eriksson? – Linda ci pensò un po’ su, ma dall’espressione quel nome non sembrava ricordarle alcunché.

– Un ragazzo di sedici anni – proseguí Billy allungandole la fotografia di Roger.

Linda la afferrò e la studiò. Lo riconobbe.

– Il ragazzo assassinato?

Vanja annuí. Linda la guardò.

– Sí, è venuto da noi qualche volta, mi pare.

– Sa perché si incontravano? Comprava alcolici da Axel?

– No, non credo. Veniva piú per parlare. Se ne andava sempre a mani vuote, a quanto mi ricordo.

– Quando è successo l’ultima volta?

– Due mesi fa, forse. Me ne sono andata poco tempo dopo.

– Ha visto Roger altre volte? Ci pensi bene, è importante.

Linda rimase in silenzio. Poi scosse il capo. Vanja cambiò strada.

– Axel come l’ha preso il fatto che se ne sia andata?

La donna scosse di nuovo il capo, come fosse un riflesso condizionato ogni volta che pensava a lui.

– Con un grande «ah». Non si è arrabbiato né rattristato né niente. Non ha fatto nemmeno nulla perché restassi. Ha continuato la sua vita, semplicemente. Come se non gli importasse che ci fossi o no. Era davvero incredibile.

Quando venti minuti piú tardi Vanja e Billy ringraziarono Linda Beckman e si diressero verso il commissariato, l’immagine di Axel Johansson non era soltanto abbozzata, era delineata nei minimi particolari. Dapprima era stato il perfetto gentiluomo. Premuroso, magnanimo, divertente. Dopo alcune settimane Linda era andata a vivere da lui. La storia era continuata nel migliore dei modi, almeno in un primo tempo. Poi si erano verificate cose strane. Non cosí gravi, all’inizio. Linda le notava appena. Axel aveva sempre meno soldi nel portafoglio. E quando le era scomparso un gioiello d’oro ereditato da sua nonna, Linda aveva cominciato a capire che per Axel quella relazione era piú che altro un modo per farsi entrare dei soldi. Lo aveva affrontato e lui le era parso incredibilmente pentito. Aveva dei debiti di gioco e temeva che lei l’avrebbe lasciato se glielo avesse detto; era ricorso a quell’espediente solo per riparare ai danni. Per poter ricominciare da zero. Nessuno scheletro nell’armadio. Lei gli aveva creduto. Ma presto c’erano state altre occasioni in cui erano spariti soldi. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata quando, scovata una ricevuta nascosta, aveva scoperto che fino ad allora aveva pagato l’affitto quasi per intero, quando in realtà credeva di pagarne la metà. Linda era andata avanti nella descrizione. La vita sessuale era insignificante. Ad Axel non andava quasi mai, e le volte in cui accadeva la dominava al limite della violenza; la prendeva da dietro affondandole il viso in un cuscino. Particolare che poteva risparmiarsi, pensò Vanja, ma annuí incoraggiandola a continuare. Axel se ne andava in giro a orari strani, a volte restava fuori tutta la notte e rientrava la mattina oppure il pomeriggio tardi. Il tempo in cui non lavorava al Palmlovska lo dedicava a escogitare piani per guadagnare qualche soldo. Nel mondo di Axel tutto ruotava attorno al concetto di farla franca.

Il suo motto era «Le regole sono fatte per gli idioti». L’unico motivo per cui aveva fatto domanda al Palmlovska era che gli allievi avevano genitori ricchi e un’educazione rigida, il che gli avrebbe facilitato le cose. Famiglie del genere avevano la tendenza a risolvere i problemi in silenzio. Proprio come aveva fatto il rettore, in fin dei conti.

«Bisogna vendere a quelli che possono pagare di piú e hanno molto da perdere se vengono scoperti», le aveva detto. Ma Linda non aveva mai visto niente. E nonostante gli sforzi non aveva mai capito i suoi giri. Il mistero era dove finissero quei soldi. Axel sembrava avere pochi amici, e di quelli che aveva sparlava perché non gli concedevano prestiti. Se ogni tanto capitava, ne parlava male perché gli chiedevano indietro i soldi.

Era perennemente insoddisfatto.

Di tutto e di tutti.

La questione piú importante, per Vanja e Billy, era il fatto che Roger e Axel fossero in relazione. Roger era stato a casa sua, ora lo sapevano. C’entrava qualcosa con il fatto che alcune settimane piú tardi lo avrebbe fatto licenziare? In ogni caso era un’ipotesi possibile. Quando si separarono, quella sera, Vanja e Billy erano piuttosto contenti dei risultati delle ultime ore. Axel Johansson si era fatto ancora piú interessante. E l’indomani mattina sarebbero andati a trovare uno psicologo le cui iniziali erano PW.

Torkel fece un cenno alla donna della reception e si diresse verso l’ascensore. Una volta dentro esitò mentre faceva scorrere il badge sotto il lettore, ma poi premette il 4. La sua camera era la 302. Ursula stava al quarto piano. Gli altoparlanti nascosti diffondevano i Rolling Stones. Torkel li ricordava come la cosa piú eccentrica che avesse mai ascoltato da giovane. Adesso erano musica da ascensore. Le porte si aprirono e lui restò fermo. Avrebbe dovuto fregarsene? Non sapeva se lei ce l’avesse ancora con lui. Lo immaginava, certo. Nella stessa posizione lui sarebbe stato ancora furioso. Ma era meglio appurarlo. Avanzò nel corridoio fino alla stanza 410 e bussò. Ci vollero alcuni secondi prima che Ursula aprisse. L’espressione totalmente neutrale del suo viso diede a Torkel un chiaro indizio su cosa pensava di quella visita.

– Mi dispiace disturbarti –. Torkel fece del suo meglio affinché la voce non tradisse nervosismo. Una volta in piedi davanti a lei, si rese conto di non provare alcuna ostilità.

– Volevo sapere come va.

– Come credi che vada?

Come temeva. Ancora furiosa. Comprensibilmente. Ma Torkel non aveva mai avuto difficoltà a chiedere scusa se aveva torto.

– Perdonami, avrei dovuto dirtelo prima che avevo intenzione di coinvolgere Sebastian.

– No, non avresti dovuto coinvolgerlo e basta –. Per un istante Torkel avvertí una punta di irritazione. Ora stava esagerando. Le aveva chiesto scusa. Ammetteva di aver gestito male la situazione, ma il capo era lui. A chi spettava se no prendere simili decisioni, coinvolgere le persone che riteneva fossero utili alle indagini? Anche se non godevano della stima generale. Era una questione di ruoli. Tuttavia decise di non tradurre in parole nessuno dei suoi pensieri. Non voleva alimentare la rabbia, pure perché, a essere onesti, non era ancora convinto che la presenza di Sebastian facesse davvero bene all’indagine. Si era trovato a dover giustificare il suo operato anche a se stesso, non solo a Ursula. E adesso si chiedeva perché non aveva semplicemente detto no, grazie e arrivederci a Sebastian nella sala da pranzo dell’albergo, quella mattina. La guardò quasi supplice.

– Senti, avrei davvero bisogno di parlare con te. Posso entrare?

– No –. Ursula non si spostò di un millimetro. Anzi. Accostò ulteriormente la porta come se si aspettasse una spallata. Dalla stanza si udirono tre suoni brevi, tre lunghi, tre brevi. L’sos. La suoneria del suo cellulare.

– È Mikael. Aspettavo la sua telefonata.

– Okay –. Torkel si rese conto che la conversazione era finita. – Salutamelo.

– Lo farai tu stesso, domani è qui –. Ursula chiuse la porta e Torkel non si mosse, come per assimilare l’informazione. Mikael non l’andava a trovare nel corso di un’indagine da… Da sempre, a quanto ricordava. Non riusciva a capire cosa potesse significare. A passi pesanti raggiunse le scale che lo avrebbero portato alla sua stanza. La sua vita era molto piú complicata di quanto non fosse fino al giorno prima.

Ma cosa si poteva aspettare?

Aveva coinvolto ancora una volta Sebastian Bergman.

Sebastian si svegliò sul divano. Doveva essersi assopito. La tv era accesa. Volume basso. Telegiornale. La mano destra cosí stretta in un pugno che gli doleva persino l’avambraccio. Iniziò a distendere piano le dita e nel contempo richiuse gli occhi. Si era alzato il vento. Le raffiche sferzavano e rimbombavano nella cappa del camino, ma nel suo stato di dormiveglia il rumore si fondeva con il sogno da cui si era appena svegliato.

Il tuono.

La forza.

La forza sovrumana della parete d’acqua.

La teneva. La teneva stretta. In mezzo alle urla, tutti che urlavano. L’acqua. La sabbia vorticosa. La forza. L’unica cosa che riconosceva in quella follia era che la teneva stretta. Poteva persino vedere le loro mani. Naturalmente era impossibile, ma no, vedeva davvero le loro mani. Poteva vederle ancora. La sua, piccola. L’anello. Contenuta dalla propria. Stretta come non aveva mai tenuto nient’altro in passato. Non c’era tempo per pensare, non c’era tempo per niente, e tuttavia sapeva di averci pensato. Un pensiero piú importante di tutti gli altri. Non doveva lasciarla, non doveva lasciarla mai.

Ecco cosa aveva pensato.

L’unica cosa che aveva pensato.

Non doveva lasciarla, non doveva lasciarla mai.

Ma lo aveva fatto.

Ed era scivolata via.

D’un tratto non c’era piú. Qualcosa nella massa d’acqua doveva averla colpita. O aveva colpito lui? Oppure il suo corpicino si era impigliato in qualcosa? Si era impigliato lui? Non lo sapeva. Sapeva soltanto che quando aveva ripreso i sensi, livido, ammaccato e sotto shock, a parecchie centinaia di metri da quella che era stata la spiaggia, lei non c’era.

Non era lí.

Non era da nessuna parte.

La sua mano destra era vuota.

Sabine era scomparsa.

Non l’aveva mai ritrovata.

Lily li aveva lasciati quella mattina per andare a correre lungo la spiaggia. Lo faceva ogni mattina. Avrebbe voluto convertire anche lui. Predicava gli effetti positivi dell’esercizio fisico. Lui le aveva promesso che qualche volta avrebbero corso insieme, durante la vacanza. Aveva promesso di farlo, ma non aveva detto quando. Non quel giorno, il giorno di Santo Stefano. Pensava di trascorrerlo con sua figlia. Lily era uscita piú tardi del solito. Spesso andava a correre prima che facesse troppo caldo, ma quel giorno aveva fatto colazione in camera, sull’ampio letto matrimoniale, ed era stata lí a giocare con loro. Infine si era alzata, aveva baciato lui e Sabine un’ultima volta e con un cenno allegro della mano aveva lasciato la stanza. Non si sarebbe spinta lontano quel giorno.

Faceva già troppo caldo.

Sarebbe rientrata dopo mezz’ora.

Non aveva piú ritrovato nemmeno lei.

Sebastian si alzò dal divano. Rabbrividí. Quella stanza asfittica era gelida. Che ore erano? Le dieci passate da poco. Sparecchiò il tavolino e si spostò in cucina. Quando era tornato a casa, aveva riscaldato nel microonde un piatto pronto preso dal freezer e si era seduto davanti alla tv con la cena e una birra. Aveva pensato che il ristorante che propinava quel genere di cibo probabilmente avrebbe chiuso di lí a poco. Anche il nome era deprimente. E la cena era pari all’offerta in tv. Annacquata, priva di fantasia e stracotta. In ogni canale c’era un giovane presentatore che guardando dritto in camera ti spingeva a telefonare e a votare. Aveva lasciato la cena a metà, si era sdraiato ed evidentemente si era addormentato.

Aveva dormito e sognato.

Adesso era di nuovo in cucina e non sapeva cosa fare. Posò il piatto e la bottiglia sul ripiano del lavabo. Restò in piedi. Era stato colto alla sprovvista. Di solito non si permetteva di assopirsi cosí. Mai sonnellini dopo cena né durante viaggi in treno o in aereo. Rovinavano il resto della serata. Per qualche motivo si era lasciato andare. Era stato un giorno diverso.

Aveva lavorato.

Si era sentito parte di una squadra, cosa che non accadeva dal 2004. Non voleva spingersi tanto in là da dire che era stata un bella giornata, ma era stata diversa. Forse aveva creduto che avrebbe continuato a esserlo, che il sogno non si sarebbe ripresentato. Si era sbagliato, e di grosso. Cosí adesso era lí. Nella cucina dei suoi genitori.

Irrequieto.

Irascibile.

Apriva e chiudeva la mano destra senza neanche rendersene conto. Se non voleva passare la notte in bianco c’era solo una cosa da fare.

Prima si sarebbe fatto una rapida doccia.

Poi avrebbe scopato.

La casa era davvero un disastro. Ovunque panni da stirare, vestiti sporchi, polvere, stoviglie. Le lenzuola dovevano essere cambiate, i guardaroba arieggiati, e durante il giorno il sole primaverile mostrava in un modo dolorosamente chiaro che le finestre andavano lavate. Beatrice non sapeva nemmeno da dove cominciare, cosí non faceva nulla, come ogni sera e ogni fine settimana negli ultimi tempi. Non osava nemmeno provare a quantificare quell’espressione, «ultimi tempi». Un anno? Due? Non lo sapeva. Sapeva soltanto che non ci riusciva. Non riusciva a fare niente. Tutte le sue energie erano destinate a preservare l’immagine di insegnante e collega ammirata e in gamba. Per mantenere intatta quella facciata, cosí che nessuno notasse quanto era stanca.

Quanto era sola.

Quanto era infelice.

Spostò un mucchio di mutande pulite che nessuno aveva mai riposto e si sedette sul divano con il secondo bicchiere di vino della serata. Se qualcuno avesse guardato dalla finestra – tralasciando il disordine della stanza –, avrebbe avuto davanti agli occhi l’immagine di una gran lavoratrice, una moglie e una madre che si riposava sul divano dopo una dura giornata. I piedi tirati sotto di sé, un bicchiere di vino sul tavolo, un buon libro che aspettava e in sottofondo una musica rilassante che proveniva da casse nascoste. L’unica cosa che mancava era un fuoco scoppiettante nel camino. Una donna di mezz’età che si godeva la solitudine. Il tempo per se stessa. Nulla di piú sbagliato. Beatrice era sola. Era quello il suo problema. Era sola anche quando Ulf e Johan erano in casa. Johan, sedici anni, nel pieno dell’adolescenza, il ragazzo di papà. Lo era sempre stato. E lo era diventato ancora di piú quando aveva iniziato a frequentare il Palmlovska. In un certo senso Beatrice riusciva a capirlo, non era certo divertente avere una madre come coordinatrice di classe, ma lei si sentiva esclusa piú di quanto pensasse di meritare. Ne aveva parlato, o cercato di parlarne, con Ulf. Senza risultato, ovviamente.

Ulf.

Suo marito, che usciva la mattina e rientrava la sera. Con cui mangiava, guardava la tv e dormiva. L’uomo insieme al quale era sola. In casa, non stava mai con lei. Non da quando era tornato. E nemmeno prima.

Suonarono alla porta. Beatrice diede un’occhiata all’orologio. Chi poteva essere a quell’ora? Andò all’ingresso, spostò automaticamente un paio di scarpe da ginnastica e aprí. Passarono alcuni secondi prima che riconoscesse quel viso noto. Il poliziotto che era stato a scuola. Sebastian qualcosa.

– Salve, mi scusi se la disturbo cosí tardi, ma passavo di qui –. Beatrice annuí e d’istinto gettò un’occhiata alle spalle dell’ospite. Nessun’auto parcheggiata sul vialetto né in strada. Sebastian se ne accorse nello stesso istante in cui Beatrice alzò lo sguardo verso di lui.

– Facevo una passeggiata e ho pensato che forse le sarebbe piaciuto parlare con qualcuno.

– Perché?

Ecco il momento decisivo. Mentre si dirigeva lí, Sebastian aveva architettato una strategia in base a ciò che credeva di sapere di lei e di suo marito. Entrambi si erano presentati come genitori del figlio e non l’uno come il coniuge dell’altra, cosa che la diceva lunga sul loro rapporto. L’aveva visto e sentito in passato. In una coppia, era un modo inconsapevole di punire l’altro. «Non mi ritengo tuo coniuge in primo luogo». Che poi padre e figlio fossero andati via da soli per superare gli eventi degli ultimi giorni, invece di farlo tutti insieme come una vera famiglia, per Sebastian era un segnale evidente che mamma e papà non se la stavano passando poi cosí bene. Cosí aveva deciso di assumere il ruolo del buon ascoltatore. Non importava cosa avrebbe sentito. La morte di Roger, il pessimo matrimonio di Beatrice o una conferenza di fisica quantistica. Era convinto che ciò di cui lei aveva piú bisogno in quel momento era un ascoltatore, oltre a una donna delle pulizie.

– Quando ci siamo incontrati, a scuola, ho avuto la sensazione che in questo momento lei dovesse mostrarsi forte e presente davanti ai suoi studenti. E anche qui a casa, suppongo, con suo figlio che era il migliore amico di Roger. Che dovesse tenere a freno le sue emozioni –. Beatrice annuí, confermando inconsapevolmente. Sebastian continuò.

– Anche Roger era un suo studente. Un ragazzo. Un’esperienza terribile. Si sente il bisogno di essere ascoltati –. Sebastian terminò inclinando leggermente il capo e sfoderando il suo sorriso piú comprensivo. Una combinazione che lo faceva sembrare uno che avesse a cuore soltanto il bene degli altri, senza secondi fini. Vide che Beatrice lo seguiva continuando a non capire.

– Ma non capisco, lei è uno dei poliziotti che si occupano dell’indagine.

– Sono psicologo. A volte lavoro con la polizia per delineare i profili e cose del genere, ma non è la ragione per cui sono qui. Sapevo che era sola stasera, e ho pensato che è in casi come questo che si presentano i pensieri bui.

Sebastian valutò l’idea di sottolineare le sue parole con un lieve contatto fisico. Una mano sull’avambraccio. Ma si trattenne. Beatrice annuí. Non vedeva come i suoi occhi erano diventati lucidi? Aveva colpito nel segno. Dannazione, quanto era bravo! Dovette lottare per trattenere un sorriso quando Beatrice si fece da parte lasciandolo entrare.

L’uomo che non era un assassino sistemò il cuscino. Era stanco. Era stata una giornata lunga e per diversi aspetti estenuante. Si ritrovò a pensare alla fatica di apparire naturale, uno sforzo eccessivo che al contrario lo faceva apparire innaturale. Cercava di non pensarci, cosa che dopo un po’ gli dava una sensazione di artificio, cosí ricominciava. Era sfibrante. E poi la polizia aveva rilasciato Leonard Lundin. Ciò significava che si erano messi di nuovo a cercare.

Qualcun altro.

Lui.

L’uomo che non era un assassino si mise comodo sulla schiena e incrociò le mani. Una breve preghiera serale. Poi il sonno. Un ringraziamento per aver avuto la forza di affrontare un altro giorno. Una preghiera che la vita tornasse il piú presto possibile alla normalità. Alla quotidianità. Da qualche parte aveva letto che le prime ventiquattr’ore dopo un delitto erano le piú importanti per trovare l’assassino. Nel suo caso avevano iniziato a cercare il ragazzo solo tre giorni dopo la scomparsa, e quel ritardo poteva significare soltanto che la sua azione era giustificata. Infine, la preghiera di riuscire a dormire tutta la notte intera e di non sognare. Come la notte precedente.

Era stato un sogno cosí curioso. Si trovava ai margini del campo da calcio, illuminato dai fari delle automobili. Il ragazzo giaceva a terra davanti a lui. Sangue ovunque. L’uomo che non era un assassino teneva il suo cuore lacerato in mano. Ancora caldo. Aveva colpito? Sí, nel sogno lo aveva fatto. Colpi lenti.

Per sradicare.

Per uccidere.

Nel sogno, comunque, si era voltato a destra, consapevole d’un tratto che ad alcuni metri di distanza c’era qualcuno. Completamente immobile. Era abbastanza certo di chi fosse. Di chi avrebbe dovuto essere. Ma si sbagliava. Con sorpresa vide suo padre che lo stava osservando in silenzio. Benché fosse un sogno, era subentrata una sensazione di irrealtà. Suo padre era morto da molti anni. L’uomo che non era un assassino aveva fatto un gesto con le mani verso la scena insanguinata.

– Non startene lí impalato. Non mi aiuti?

Quando aveva aperto bocca la sua voce era chiara, sembrava quella di un bambino piccolo e triste. Il padre non si era mosso di un centimetro, osservava la scena con occhi velati.

– A volte, se hai delle preoccupazioni, la cosa migliore è parlarne.

– Parlare di cosa? Che cosa c’è da dire? – aveva urlato l’uomo che non era un assassino con la sua voce infantile. – Il ragazzo è morto! Ho in mano il suo cuore. Aiutami!

– A volte quando si parla si dice troppo.

Poi il padre era svanito. L’uomo che non era un assassino si era guardato attorno. Confuso.

Impaurito.

Tradito.

Suo padre non poteva svanire a quel modo. Non ora. Doveva dargli una mano. Come aveva sempre fatto. Doveva. Era il suo maledettissimo compito. Ma il padre era rimasto invisibile e l’uomo che non era un assassino si era accorto che il cuore che teneva ancora in mano era diventato freddo. Freddo e immobile.

Poi si era svegliato. Si era svegliato e non era piú riuscito a riaddormentarsi. Aveva pensato al sogno per un bel pezzo durante la giornata, a cosa potesse significare, o se magari non significasse nulla, ma a mano a mano che passavano le ore e la sua quotidianità prendeva il sopravvento anche il ricordo si era affievolito.

Ma ora, ora avrebbe dormito. Ne aveva bisogno. Doveva fare un passo avanti. La soffiata che aveva inviato dalla scuola non aveva dato il risultato sperato. In qualche modo la polizia doveva aver scoperto che Leonard non aveva nascosto la giacca nel garage. Che vi era stata portata in un secondo momento. Cosa doveva fare ora? Leggeva tutto quello che trovava a proposito del ragazzo assassinato, ma non gli veniva in mente nulla di nuovo. Si era chiesto se per caso non conoscesse qualcuno che lavorava in commissariato, qualcuno che avrebbe potuto confidargli un’informazione riservata, ma dalla sua memoria non era emerso nessuno. Evidentemente la squadra che indagava sull’assassinio si era ampliata. L’«Expressen» scriveva che la polizia aveva chiamato i rinforzi. Sebastian Bergman. Pareva fosse conosciuto nel suo campo. Aveva giocato un ruolo decisivo quando avevano arrestato un serial killer, Edward Hinde, nel ’96. Psicologo. L’uomo che non era un assassino sentí i pensieri farsi sempre piú confusi e stava per addormentarsi quando all’improvviso si risvegliò. Si mise a sedere. Capí.

«Se hai delle preoccupazioni, parlane».

Suo padre aveva cercato di aiutarlo.

Come al solito.

Come sempre.

Era stato troppo stupido per capirlo. Con chi si parlava se si avevano dei problemi? Con uno psicologo. Uno psicoterapeuta.

«Ma a volte si dice troppo».

Ora sapeva. Lo aveva sempre saputo, ma non aveva mai trovato il nesso. Non aveva mai creduto di doverlo trovare. In città c’era un uomo che avrebbe potuto distruggere tutto ciò che finora era riuscito a realizzare, tutto ciò per cui aveva lottato. Che poteva essere una minaccia.

Un ascoltatore di professione.

Peter Westin.

 

 

Erano le due e venti e faceva un freddo maledetto. Forse non sottozero, ma quasi. Il fiato di Haraldsson usciva bianco dalla bocca, mentre lui teneva lo sguardo fisso sull’edificio dall’altra parte della strada. Aveva sentito dire che morire assiderati non provocava dolore, che era una morte quasi dolce. Si produceva calore e ci si rilassava l’istante prima del trapasso. La sua vita, quindi, non era in pericolo. Stava congelando come un cane, lí al posto del guidatore con le braccia incrociate sul petto. Ogni volta che si muoveva di un millimetro tremava in modo incontrollato e gli sembrava che la sua temperatura corporea si abbassasse ulteriormente di qualche decimo di grado. Nell’edificio qualche luce era ancora accesa, ma la maggior parte delle finestre era spenta. Dormivano tutti. Sotto le coperte. Al caldo. Non poteva negare di invidiarli. Un paio di volte era stato sul punto di tornare a casa, ma non appena stava per mettere mettere in moto era stato colto dalla visione del momento in cui sarebbe tornato al lavoro, la mattina seguente, presentandosi come colui che aveva risolto il caso di Roger Eriksson. Colui che aveva catturato l’assassino. Che aveva risolto il mistero. Vedeva le facce.

Gli elogi.

L’invidia.

Gli parve di udire la voce del capo della polizia regionale mentre lo ringraziava e lo lodava per il suo spirito d’iniziativa e la sua dedizione al lavoro, che lo avevano portato a fare un passo in piú rispetto al suo dovere, il passo in piú che solo un vero poliziotto poteva fare. Il capo della polizia regionale avrebbe proferito quest’ultima affermazione lanciando un’occhiata significativa alla Hanser che, piena di vergogna, avrebbe abbassato lo sguardo. Forse con la sua azione straordinaria Haraldsson aveva impedito la perdita di altre vite.

Nella Toyota gelida, a questo pensiero Haraldsson si sentí pervadere dal calore. Chissà come si sarebbe sentito se fosse accaduto davvero! Sarebbe cambiato tutto. La spirale discendente in cui era finita la sua vita si sarebbe interrotta e lui avrebbe ripreso il comando. Sotto ogni aspetto.

Haraldsson si destò da quell’intirizzita visione a occhi aperti: qualcuno si stava avvicinando al portone dell’edificio. Una figura allampanata. Un uomo. Avanzava rapido, le mani affondate nelle tasche del giubbotto, le spalle curve. Evidentemente non era l’unico a gelare, quella notte. L’uomo passò accanto a una luce a muro e per un breve istante Haraldsson vide chiaramente quel volto illuminato. Lanciò un’occhiata alla foto sul cruscotto. Nessun dubbio. Quello che si stava avvicinando all’edificio era Axel Johansson.

Bentornato a casa, pensò Haraldsson, e sentí il gelo e la stanchezza svanire di colpo. Axel Johansson giunse al portone e digitò il codice d’ingresso a quattro cifre. La serratura scattò e lui aprí. Stava per entrare nell’oscurità, al caldo, quando udí un altro scatto e un suono metallico che non poteva essere altro che il rumore di una portiera. Axel si bloccò tenendo aperto il portone d’ingresso e si guardò attorno. Haraldsson restò seduto immobile. Era stato troppo precipitoso. Il sospettato sarebbe dovuto entrare nell’edificio prima che lui aprisse la portiera. Che cosa stava facendo ora? Lo vide fermo, con il portone aperto e lo sguardo puntato sulla Toyota. Restare seduto con la portiera socchiusa sembrava se possibile ancor piú sospetto, cosí Haraldsson l’aprí del tutto e uscí. Venti metri piú in là vide Axel Johansson lasciare la maniglia del portone e fare un passo indietro. Haraldsson attraversò la strada a passo deciso.

– Axel Johansson… – Haraldsson fece del proprio meglio per fingere di aver riconosciuto per puro caso un vecchio amico. Felicemente sorpreso, per niente minaccioso. Per niente poliziotto. Evidentemente non ci riuscí.

Axel Johansson si voltò e si mise a correre.

Haraldsson si fiondò dietro di lui e si maledisse per essere rimasto seduto a congelarsi per tutto quel tempo. Era lento. Quando svoltò l’angolo dell’edificio vide che la distanza dal fuggiasco era aumentata. Corse piú veloce, nonostante le gambe irrigidite e per niente desiderose di collaborare. Avanzava grazie alla forza di volontà. Johansson correva agilmente tra le case. Con un balzo superò la bassa staccionata di legno con il cartello «Posto auto» nel parcheggio, volò sulla strada, sul prato successivo e oltre. Ma Haraldsson gli stava dietro. Sentiva i propri passi farsi sempre piú lunghi e il corpo rispondere allo sforzo. Aumentava costantemente di velocità. La distanza non cresceva piú. Né restava invariata. Haraldsson guadagnava terreno. Non molto, ma era in forma e non aveva intenzione di arrendersi. Se solo un attimo dopo non avesse perso di vista il sospettato scivolando sull’erba umida di rugiada lo avrebbe raggiunto, ne era certo.

Non male per uno che ha il piede destro seriamente compromesso.

Come gli era saltato in mente quel pensiero?

Istintivamente Haraldsson rallentò, imprecò tra sé e aumentò di nuovo la velocità. Tornò a correre. Si sentiva martellare le tempie. Riprese fiato. Le gambe si muovevano ritmicamente. Con forza. Johansson non aveva la minima intenzione di fermarsi. Attraversò Skultunavagen in direzione del ponte sullo Svartån. Haraldsson gli stava dietro, ma era ossessionato da quel pensiero. Agli occhi di tutti era menomato. Aveva una piede gravemente slogato. Era stato bravo a non tradirsi. Ancora adesso riusciva a malapena ad andare al distributore automatico e a tornare alla propria scrivania senza esibire smorfie di dolore. A volte era costretto a fare una sosta a metà strada, da qualche collega, solo perché il piede gli doleva terribilmente. Stava scoppiando. Se avesse catturato il sospetto dopo un inseguimento notturno di qualche chilometro, tutti avrebbero scoperto l’inganno. Aveva mentito. Avrebbero avuto la prova che aveva abbandonato le ricerche. Che si era allontanato senza motivo. Sarebbe importato a qualcuno? Se avesse catturato l’assassino, nessuno – forse – avrebbe fatto storie perché si era preso qualche libertà alcuni giorni prima. Sí, la Hanser sí. Ne era certo. Per causa sua, non ci sarebbero stati né bei discorsi né elogi. Sarebbe stato oggetto di un’indagine? Forse no, ma cosa avrebbero detto i colleghi? Quella promozione di cui aveva un disperato bisogno non si sarebbe verificata. I pensieri gli vorticavano in testa. Vide Axel Johansson superare il corso d’acqua e svoltare a sinistra, sulla pista ciclabile lungo Vallbyleden. Era in vantaggio. Ben presto avrebbe raggiunto il parco di Djakneberget, e allora sarebbe stato impossibile trovarlo al buio. Haraldsson rallentò. Si fermò. Johansson era scomparso. Ansimò. Bestemmiò ad alta voce. Perché diavolo si era inventato la storia del piede slogato? Perché non aveva detto che Jenny era stata male, o aveva avuto un’intossicazione alimentare, o qualsiasi altro cazzo di cosa che sarebbe passata in fretta? Fece dietrofront e si incamminò verso l’auto.

Sarebbe tornato a casa da Jenny.

L’avrebbe svegliata e avrebbe fatto sesso con lei.

Per recuperare il tempo perduto.

Una delle finestre della camera da letto era socchiusa e la fredda aria notturna aveva rinfrescato la stanza in disordine. Sebastian si stiracchiò e aprí piano la mano destra stretta in un pugno. Il profumo di Sabine era ancora sulla sua pelle e lui si accarezzò il palmo della mano per restarle vicino un altro po’. Le coperte erano calde e Sebastian sentí che sarebbe stato bello restare lí e rinviare l’appuntamento con il freddo. Si voltò verso Beatrice. Era immobile accanto a lui e lo stava osservando.

– Hai avuto un incubo?

Le odiava quando erano sveglie. Il commiato si faceva sempre piú difficile.

– No.

Gli si avvicinò, il calore del suo corpo nudo lo avvolse. Lui la lasciò fare, anche se sentiva che avrebbe dovuto scegliere il freddo. Lei gli accarezzò il collo e il torace.

– Ti sembra sciocco?

– No, ma ora devo proprio andare.

– Lo so –. Lo baciò. Non troppo. Non disperatamente. Fece in modo che lui ricambiasse. I suoi capelli rossi gli ricaddero sulle guance. Poi si voltò, sistemò il cuscino e si sdraiò comodamente.

– Adoro le mattine presto. Sembra di essere gli unici esseri viventi al mondo –. Sebastian si mise a sedere sul letto. I suoi piedi si posarono sul freddo pavimento di legno. La guardò. Doveva ammettere che lo sorprendeva. Non aveva capito. Era una potenziale «edera». Era quello il termine che Sebastian usava per le donne davvero pericolose. Quelle che ti si avvolgevano attorno. Quelle che davano molto. Oltre al sesso. Quelle che ti catturavano e ti costringevano a tornare. Soprattutto quando eri un po’ fuori forma. Si alzò in piedi per stabilire una distanza. Gli sembrò di stare già meglio. Sebastian trovava le donne piú belle al momento di andarci a letto che al risveglio. Con alcune non era cosí. Le edere rivelavano la propria bellezza l’istante prima di essere lasciate. Erano quelle che si mostravano tenere alla fine, non all’inizio. Lei sorrise.

– Vuoi un passaggio per tornare a casa?

– No, grazie, faccio una passeggiata.

– Ti accompagno.

Annuí. Dopotutto era un’edera.

Si avviarono nella mattina placida. Il sole riposava sotto l’orizzonte e aspettava soltanto che la notte svanisse. La radio trasmetteva Heroes di David Bowie. Non parlarono molto. Bowie prese il posto della conversazione. Sebastian si sentiva piú forte. Era piú semplice con i vestiti addosso. Gli ronzavano in testa molte cose accadute negli ultimi giorni. Molte sensazioni, e poi questa. Un’emozione, piú che una sbandata. Diede la colpa alla situazione, era semplicemente piú debole, non il solito Sebastian.

 

Beatrice accostò davanti alla casa dei suoi genitori e spense il motore. Lo guardò un po’ stupita.

– Abiti qui?

– Per ora.

– Devo ammettere che non sembra il tuo stile.

– Non sai quanto hai ragione –. Le sorrise e aprí la portiera. La luce dell’abitacolo si accese rendendo le sue lentiggini ancora piú belle. Si chinò verso di lei. Aveva un buon profumo. Che cosa stava facendo? Nessun bacio della buonanotte o del buongiorno. Merda, aveva deciso di tenere le distanze. Lei lo abbracciò e lo baciò sulla bocca, come per complicare ancora di piú le cose. Lo spazio era angusto, ma tra loro c’era del calore. Le mani di lei accarezzarono i suoi capelli e scesero sul collo. Lui si liberò. Con cautela, ma si liberò. Era già qualcosa.

– Devo andare.

Richiuse in fretta la portiera, spegnendo quella luce traditrice che la rendeva sempre piú bella. Beatrice mise in moto e inserí la retromarcia. Le luci lo accecarono ma riuscí comunque a scorgere il suo ultimo saluto, prima che l’auto girasse proiettando i fari prima sulla casa dei suoi genitori e poi su quella di Clara Lundin. Davanti alla casa brillarono due occhi e una giacca a vento azzurra. Clara era seduta sui gradini con una sigaretta fra le dita e lo stava fissando con uno sguardo carico di rabbia e dolore. Sebastian le fece un cenno con la testa e cercò di sondare il terreno.

– Salve!

Nessuna risposta. L’aveva previsto. Clara spense la sigaretta, e rivolgendogli un’ultima, lunga occhiata rientrò in casa. Probabilmente non c’era niente di cui rallegrarsi, ma era troppo stanco per preoccuparsene. Avanzò verso la casa dei suoi genitori. In meno di quarantotto ore aveva trovato una casa, un possibile erede, un lavoro, un’edera e una probabile vendicatrice. Si era sbagliato. Accadevano parecchie cose a Vasterås, eccome.

 

 

Lo studio si trovava a seicento metri dal liceo Palmlovska, dentro un edificio a tre piani con uffici al pianterreno e appartamenti privati negli altri due. Vanja aveva aspettato Sebastian in commissariato fino alle 8:25, poi si era stancata e aveva deciso di recarsi da Westin da sola. Era sollevata. Di norma pensava fosse meglio essere in due durante gli interrogatori – per quanto semplici –, in parte perché era preferibile che emergessero opinioni diverse su ogni vicenda, in parte perché le informazioni venivano condivise. In questo modo si evitavano riunioni troppo lunghe che, col passare del tempo, Vanja trovava sempre piú noiose. Ma con Sebastian era un’altra cosa. Non erano noiose, no davvero, solo che lui aveva la capacità di trasformare tutto in una lotta. Cosí non l’aveva aspettato troppo a lungo.

Sulla porta a vetri c’era scritto «Westin & Lemmel Associati». Sotto, a caratteri piú piccoli, «Psicologi». Vanja varcò la soglia. Atmosfera confortevole, tipica di quel genere di studi, mobili chiari e illuminazione migliore di quella degli ambulatori tradizionali, e piccole lampade bianche di design sul tavolino davanti al divano. Un bel divano su cui attendere. Un’altra porta a vetri conduceva dalla sala d’attesa in quello che Vanja immaginava fosse lo studio vero e proprio. Fece un tentativo. Chiuso a chiave. Dopo un attimo ne uscí un uomo sulla quarantina. Si presentò come Rolf Lemmel. Vanja mostrò il distintivo e gli comunicò il motivo della sua visita.

– Peter non è ancora arrivato, ma dovrebbe essere qui da un momento all’altro, – disse Rolf, pregandola di accomodarsi nel frattempo. Lei si sedette sul divano e iniziò a sfogliare il «Dagens Nyheter» del giorno precedente che giaceva sul tavolino. L’atmosfera era calma e la stanza silenziosa. Dopo qualche minuto entrò una ragazza sui quindici anni. Era paffuta e aveva i capelli ancora umidi per la doccia. Vanja le sorrise amichevolmente.

– Hai appuntamento con Peter Westin?

La ragazza annuí.

Bene, allora sarebbe arrivato di lí a poco.

– Ho bisogno di parlarti –. Sebastian capí immediatamente che era accaduto qualcosa. Conosceva bene Torkel e il suo tono di voce. Per una volta, quando era suonata la sveglia, Sebastian non si era svegliato ed era arrivato in commissariato solo dopo le nove. Non un ritardo eccessivo. Doveva essere qualcosa di piú grave.

– Certo, – rispose Sebastian seguendolo. Entrando nella prima delle tre sale per gli interrogatori al primo piano, Torkel gli fece cenno di allungare il passo. Situazione grave. Doveva sbrigarsi. Conversazione in privato. Dentro una stanza insonorizzata, per giunta. Non prometteva nulla di buono. Sebastian rallentò un po’, come sempre si preparò al peggio mostrando indifferenza. Torkel non ci fece caso.

– Vieni, non ho tempo.

Torkel richiuse la porta dietro di sé e lo fissò dritto negli occhi.

– Il giorno prima che venissi a chiedermi di lavorare con noi hai fatto sesso con la madre di Leonard Lundin. È cosí? – Sebastian scosse il capo.

– No, è stato la sera prima.

– Finiscila! Hai perso la testa? Era la madre del nostro sospettato numero uno.

– Che importanza ha? Leo era innocente.

– Ma allora tu non lo sapevi!

Sebastian gli sorrise. Sicuro di sé. Con arroganza, avrebbero detto alcuni.

– Sí, lo sapevo. Ne ero certo, lo sai.

Torkel scosse il capo e, piuttosto irritato, fece un giro nella stanza angusta.

– Una mossa sbagliata su tutti i fronti, e tu lo sai. Mi ha chiamato e ha voluto farmelo sapere. Ha minacciato anche di contattare la stampa, se non prenderò provvedimenti. Devi riuscire a tenere a bada il tuo cazzo, maledizione.

D’un tratto Sebastian provò pena per lui. Contro il volere di tutti, aveva coinvolto nell’indagine un emerito bastardo. Ovviamente aveva difeso la propria decisione con i denti, non foss’altro che per salvarsi la reputazione. Forse una delle giustificazioni era stata la classica «non vi preoccupate, ora è diverso, è cambiato». Ma la verità è che nessuno cambia, Sebastian lo sapeva bene. Cambiano i lati del nostro carattere che mostriamo agli altri, ma la sostanza rimane la stessa.

– Giusto. Ma quando io e Clara ci siamo trovati in quella situazione non lavoravo con voi, non è cosí? – Torkel lo guardò. Non aveva la forza di rispondere.

– Non accadrà piú nulla di simile, – disse Sebastian il piú sinceramente possibile, e aggiunse: – te lo prometto –. Come se quell’ulteriore promessa potesse scacciare l’immagine del corpo nudo di Beatrice, la notte precedente. Beatrice Strand, coordinatrice di classe della vittima. Suo figlio era persino il migliore amico di Roger. Sbagliato sotto ogni punto di vista. Dio santo, era un vero idiota, doveva ammetterlo.

Devo sempre, sempre tirare troppo la corda.

Torkel lo guardò, e per un istante Sebastian credette che lo avrebbe cacciato. Sarebbe stata la decisione giusta. Ma passò un po’ troppo prima che Torkel riprendesse a parlare, per un motivo che Sebastian ignorava. Sembrava esitare.

– Sei sicuro? – giunse a dire infine. Sebastian annuí di nuovo, assumendo l’aria piú onesta possibile.

– Assolutamente.

– Non devi fare sesso con ogni donna che incontri, – aggiunse Torkel piú indulgente. Sebastian si rese conto di cosa gli era sfuggito poco prima. In realtà era piuttosto semplice. Lui piaceva a Torkel. Ci avrebbe provato, sentiva che Torkel se lo meritava.

– Ho difficoltà a restare solo e la notte è il momento peggiore –. Torkel incrociò il suo sguardo.

– Devi sapere una cosa: non ci sarà un’altra possibilità. Ora vattene, almeno eviterò di vederti per un po’ –. Sebastian annuí e se ne andò. Normalmente si sarebbe sentito felice, avrebbe avvertito la propria superiorità. Se l’era cavata anche quella volta.

– Mi metteresti nella merda, – disse Torkel. – Ed è l’ultima cosa che voglio –. Se Sebastian avesse avuto anche una leggerissima predisposizione al rimorso o al senso di colpa, probabilmente in quel momento ne sarebbe stato assalito. Comunque, una sensazione simile lo accompagnò alla porta. Beatrice era e sarebbe rimasta l’affare di una notte. Se lo ripromise.

La ragazza che sembrava appena uscita dalla doccia dopo venti minuti si era arresa. Peter Westin non era ancora comparso. Poco dopo Vanja uscí a fare un giro per prendere un po’ d’aria. La sua indole le rendeva difficile restare seduta a lungo e ne approfittò per chiamare i genitori. Stavano uscendo, tuttavia si fermarono a parlare per qualche minuto. Era come ai bei vecchi tempi. Prima parlò con la madre e poi, brevemente, col padre. Strano a dirsi, ma loro due non avevano bisogno di tante parole, come invece sua madre. Nelle telefonate si era ristabilita una sorta di consuetudine, dopo gli ultimi tempi in cui tutto era ruotato attorno alla vita e alla morte. Vanja si accorse di quanto le fosse mancata e scoppiò a ridere udendo la madre soffermarsi su uno dei suoi argomenti preferiti. La vita amorosa di Vanja, o meglio la sua assenza. Protestò come sempre, ma non con la solita enfasi.

Non aveva conosciuto nessuno a Örebro?

A Vasterås, no, non aveva tempo.

E quel Billy con cui lavorava? Era simpatico e le piaceva, no?

Sí, ma era come un fratello.

E poi arrivarono a Jonathan, la consueta ultima tappa di sua madre.

Davvero non avrebbe ripreso i contatti con lui? Era cosí gentile.

Fino a un paio di mesi prima, ogni volta che Jonathan veniva nominato Vanja difendeva la propria posizione a spada tratta. Che la madre cercasse perennemente di farla tornare insieme al suo storico ex, senza capire quanto ciò la umiliasse, la faceva andare su tutte le furie. Ora le parve soltanto una chiacchiera normale. Le permise addirittura di andare avanti per un po’. La madre parve stupita di non udire il contrattacco; perse lo slancio e tacque dopo un istante di silenzio in cui di solito era Vanja a chiudere il discorso.

– Be’, ormai sei grande e puoi decidere da sola.

– Grazie, mamma –. Il padre intervenne poco dopo. Aveva deciso di andarla a trovare la sera stessa e non aveva intenzione di accettare nessuna scusa. Vanja non ne cercò nemmeno. Lei, che teneva sempre divisi i suoi due mondi, sentí che questa volta potevano incrociarsi. Avrebbe preso il treno delle 18:20. Vanja promise di andargli incontro alla stazione. Riattaccò e tornò allo studio. Ottenne l’indirizzo di casa di Peter Westin dal suo collega, che sembrava essersi stancato di lei; le assicurò che, non appena fosse arrivato, avrebbe riferito a Peter che la polizia lo aveva cercato. Vanja salí in auto. Rotevagen 12. Lo digitò sul navigatore. Ci sarebbe voluta quasi mezz’ora per arrivarci. Ma aveva promesso di essere in ufficio entro le dieci per una riunione con il resto della squadra. Westin doveva aspettare.

Torkel entrò nella sala riunioni. Gli altri erano già lí. Ursula guardò perplessa alle sue spalle.

– Dove hai messo Sebastian?

Quella mattina Torkel era particolarmente irritabile, o c’era una bella differenza tra domandare «dov’è Sebastian» e «dove hai messo Sebastian»? Come se fossero inseparabili. Cip e Ciop. Pinco Panco e Panco Pinco. Torkel e Sebastian. «Dove hai messo Sebastian?» Un modo insieme aggressivo e passivo di chiarire il proprio punto di vista: secondo Ursula, per Torkel Sebastian era piú importante di lei. Come se Torkel avesse bisogno che gli fosse ribadito. Come se non gli fosse stato detto abbastanza. Invece in quel momento avrebbe dato volentieri Sebastian in pasto ai leoni, ma la mattina si era già rivelata disastrosa, e a quel punto una discussione con Ursula non era esattamente quello che serviva.

Cosí rispose soltanto: – Sta arrivando, – afferrò una sedia e si sedette. Si appoggiò al tavolo, prese il termos e versò del caffè in una tazza. – È già arrivato Mikael?

Tono neutrale. Chiacchiere di routine.

– Arriva nel pomeriggio.

– Ottimo.

– Già.

Vanja alzò gli occhi. C’era qualcosa di strano tra Usula e Torkel. Qualcosa che non riusciva a ricordare di aver mai avvertito prima. Oppure sí, un po’ come quando, da piccola, i suoi genitori non volevano che lei scoprisse che avevano litigato. Quando si sforzavano di mantenere un tono educato e neutrale affinché lei si convincesse che andava tutto bene. Non aveva funzionato allora e non funzionava adesso. Vanja lanciò un’occhiata a Billy: se n’era accorto anche lui? Evidentemente no. Era completamente immerso nel suo computer.

Sebastian entrò, fece un saluto generico e si sedette. Vanja guardò di nascosto Ursula, che rivolse un’occhiata torva prima a Sebastian, poi a Torkel, e infine abbassò lo sguardo. Cosa stava succedendo? Torkel bevve un sorso di caffè e si schiarí la voce.

 

– Billy, puoi cominciare.

Billy si raddrizzò sulla schiena, afferrò un mazzetto di fogli in formato A4 e si alzò in piedi.

– Ieri sera ho ricevuto la lista delle chiamate dalla compagnia telefonica, e stamattina quella con la ricostruzione degli sms, dopodiché ho riunito tutto in un unico documento.

Quindi girando attorno al tavolo distribuí i fogli. Vanja si domandò come mai non li avesse spinti al centro, lasciando che ciascuno prendesse i suoi. Ma non disse niente, concentrandosi invece sulla prima pagina.

– Il primo foglio contiene le chiamate effettuate. L’ultima telefonata di Roger risale alle 20:17 di venerdí, a casa della sua coordinatrice di classe –. Billy annotò la chiamata sulla lavagna. Sebastian alzò gli occhi dai fogli.

– È possibile sapere se ha cercato di chiamare qualcuno senza ottenere risposta?

– Sí, è l’ultimo numero che ha fatto.

– A cosa stai pensando? – domandò Vanja a Sebastian.

– Voleva parlare con Johan quando ha chiamato gli Strand, no? Non ha provato a chiamare Johan anche sul cellulare?

Dalla lavagna, Billy si voltò scuotendo il capo.

– Sí. O meglio no, non l’ha fatto.

– Forse nel frattempo si è intromesso qualcuno, – propose Torkel.

– Per esempio un assassino, – aggiunse Ursula.

– Pagina successiva, – proseguí Billy. – Chiamate ricevute. L’ultima è di Lisa, poco prima delle sei e mezzo. Be’, lo vedete anche voi.

Billy annotò sulla lavagna anche quella telefonata. Si voltò di nuovo verso il tavolo e girò pagina.

– La prossima. Sms. Nella prima pagina compaiono quelli rimasti nel cellulare danneggiato dall’acqua, per cosí dire. Sono pochi, la maggior parte scritti a Johan, Erik e Lisa, oppure da loro a Roger. Il ragazzo, come sappiamo, non era popolare. Niente di sorprendente, quindi. Se passate alla pagina seguente, vedrete gli sms in entrata che erano stati cancellati, evidentemente i piú interessanti.

Sebastian diede una scorsa al foglio davanti a sé. Si rizzò sulla sedia. «Interessanti» a dire poco.

– Due provengono da una scheda prepagata, – continuò Billy. – Uno giovedí e l’altro venerdí, alcune ore prima della sua scomparsa.

Sebastian lesse.

«ORA DEVE FINIRE! PER IL BENE DI TUTTI!!»

Il secondo.

«TI PREGO, FATTI SENTIRE! È TUTTA COLPA MIA! NESSUNO TI STA ACCUSANDO!»

Sebastian posò i fogli sul tavolo e si rivolse a Billy.

– La parte tecnica non è mai stata il mio forte, ma il fatto che abbiano utilizzato una scheda prepagata significa quello che penso?

– Se pensi che abbiamo un numero ma non abbiamo il nome dell’abbonato, allora sí, – rispose Billy mentre scriveva il numero di cellulare sulla lavagna. – Ho richiesto le liste di tutte le chiamate e dei messaggi partiti da quel numero, potrebbero tornarci utili.

Sebastian vide Vanja che, probabilmente senza accorgersene, aveva sollevato la mano puntando l’indice in aria, come per chiedere il permesso di parlare, mentre studiava la pagina che aveva davanti. Per un istante la immaginò con l’uniforme scolastica, ma abbandonò immediatamente l’idea. In quell’indagine aveva superato il limite parecchie volte, e se c’era qualcosa che aveva imparato dalle relazioni occasionali di quegli anni era la capacità di capire subito quando aveva una possibilità e quando non ce l’aveva.

– I messaggi erano scritti in stampatello, quindi a caratteri grandi, anche sul cellulare o è soltanto la stampa?

Billy la guardò con una certa stanchezza negli occhi.

– So cosa significa stampatello.

– Sorry.

– Erano scritti proprio come sono scritti qui. In maiuscolo.

– È come gridare.

– Oppure la persona che ha scritto quei messaggi non è granché esperta.

– La maggior parte di quelli che non hanno familiarità con i cellulari sono adulti.

Sebastian rilesse i brevi messaggi, d’accordo con Vanja. Non sapeva se l’ultilizzo del maiuscolo indicasse o meno la volontà di urlare; in compenso la scelta delle parole indicava chiaramente che il mittente era un adulto, una persona matura.

– Dunque non abbiamo la possibilità di scoprire chi li ha inviati? – domandò Torkel con una certa rassegnazione nella voce. Billy scosse il capo.

– Qualcuno ha provato a chiamare questo numero?

Nella stanza calò il silenzio. Tutti guardarono Vanja, che aveva posto quella domanda, dopodiché si guardarono l’un l’altro soffermandosi infine su Billy. Che si avvicinò rapidamente al telefono situato al centro del tavolo, azionò il vivavoce e compose il numero. Il silenzio si caricò di tensione e aspettative. Nessun segnale, solo: «Il cliente chiamato non è al momento raggiungibile, la preghiamo di richiamare piú tardi».

Billy spense il vivavoce e Torkel lo osservò con un’aria grave.

– Fai in modo che qualcuno continui a chiamare questo numero.

Billy annuí.

– Che cos’è tutto il resto? – Ursula indicò i fogli che teneva in mano.

Sebastian li studiò.

Un sms: «12 birre + vodka».

Quello dopo: «20 birre & gin». E poi uno smiley.

Quello dopo: «1 bott rosso + birra».

E cosí via.

– Sono ordinazioni.

Gli altri alzarono gli occhi.

– Di cosa?

– Di quello che c’è scritto.

Sebastian si voltò verso Billy.

– Quando ha ricevuto l’ultimo messaggio di questo tipo?

– Poco meno di un mese fa.

Sebastian incrociò lo sguardo di Vanja attraverso il tavolo. Si accorse che aveva già capito dove stava andando a parare, ma continuò ugualmente.

– È stato allora che Axel Johansson è stato licenziato per traffico illecito.

Vanja si alzò in piedi e lo vide tornare ai propri fogli. Sebastian sapeva dove aveva intenzione di andare. Dove lui non avrebbe voluto.

Vanja si incamminò verso la villa. Sebastian restò qualche passo indietro. In un primo momento aveva pensato di aspettarla in auto, ma poi si era reso conto che sarebbe parso strano. Non che gli importasse cosa pensava Vanja. No, era puro istinto di sopravvivenza. Aveva deciso, doveva continuare a far parte di quell’indagine ancora per un po’, almeno finché Billy non avesse trovato quell’indirizzo. Beatrice Strand che lo ringraziava per la fantastica notte passata insieme poteva davvero mettergli i bastoni tra le ruote. Vanja non fece in tempo a suonare che la porta si aprí. Era Beatrice, con i capelli raccolti e indosso una camicia e un paio di jeans. Sembrava sorpresa.

– Salve, è successo qualcosa?

– Avremmo bisogno di parlare con Johan, – attaccò Vanja.

– Non è a casa, lui e Ulf sono in campeggio –. Beatrice guardò Sebastian senza rivelare in alcun modo che erano passate soltanto poche ore dall’ultima volta in cui si erano visti.

– Lo sappiamo, – continuò Vanja. – Ma sa dove?

Puntarono verso ovest sulla E18. Le istruzioni di Beatrice li guidarono oltre la piccola cittadina di Dingtuna, poi a sud, lungo stradine secondarie, verso il Malaren e la baia di Lilla Blacken, dove Beatrice pensava si fossero fermati. Vanja e Sebastian restarono in silenzio. Vanja tentò di chiamare Peter Westin, ma di nuovo non ebbe risposta. Cominciava a irritarsi per l’abitudine degli psicologi a non richiamare. Aveva lasciato quattro messaggi. Sebastian cercava di dormire e chiuse gli occhi.

– Fatto tardi, ieri?

Sebastian scosse il capo.

– No, ho dormito male –. Poi chiuse di nuovo gli occhi, per sottolineare che non era interessato alla conversazione. Ben presto fu costretto ad aprirli di nuovo per via della brusca frenata di Vanja.

– Che c’è ora?

– Dobbiamo girare a destra o a sinistra? Sei tu il navigatore.

– Piantala.

– Ti piace comandare, no? Ora hai un’occasione per farlo.

Sebastian sospirò, sollevò la mappa e cominciò a orientarsi. Non aveva la forza di protestare. Questa volta poteva averla vinta lei.

Odiava Vasterås.

Dio, se la odiava.

Aveva conosciuto ogni singolo metro quadrato di quella città attraverso le immagini piú o meno sgranate delle videocamere di sorveglianza. Invece sarebbe stato piacevole vedere qualche zona dal vivo, ma l’unica volta che aveva avuto la possibilità di schiodarsi dalle registrazioni era stato per occuparsi dei tabulati delle telefonate o…

Billy trasalí. Premette rapido sulla tastiera del computer. Stop. Indietro. Play. Sí, finalmente. Signore e signori, ecco alla vostra destra Roger Eriksson. Stop di nuovo. Guardò il registro a corredo dei filmati. Quale videocamera era? La 1.22. Drottninggatan. Dove si trovava? Agguantò la cartina di Vasterås, cercò, trovò e cerchiò il punto. Nell’angolo dell’inquadratura, l’ora: 21:29.

Play.

Billy vide Roger camminare verso la videocamera a testa bassa, strascicando i piedi. Dopo una decina di metri aveva sollevato lo sguardo, si era spostato sulla destra ed era sparito dietro un’auto parcheggiata in una strada secondaria fuori dall’inquadratura.

Billy sospirò. Ogni bel gioco dura poco. Il ragazzo era vivo e continuava a camminare. Il che significava che gli toccava andare avanti. Avrebbe continuato a sorvegliare Vasterås, che lo volesse o meno. Roger proseguí verso nord. Billy guardò di nuovo il registro e controllò sulla cartina. Escluse una serie di videocamere che si trovavano in zone distanti e riprese nuovamente le ricerche.

Odiava Vasterås.

Lilla Blacken era una famosa località di vacanza situata in una baia del Malaren. Perlomeno d’estate. Ora sembrava completamente abbandonata. Avevano percorso alcune strette stradine secondarie prima di trovare quella giusta. Una Renault Mégane era parcheggiata davanti a una bacheca traballante. Sebastian scese e si diresse verso l’auto vuota. Credette di riconoscere quella vista il giorno precedente, a casa di Beatrice, quando si era presentato Ulf. Su un cartello malandato affisso alla bacheca c’era scritto «Benvenuti nell’area ricreativa all’aperto di Lilla Blacken». Sotto, affrancati, alcuni annunci per la vendita o il baratto di oggetti vari, che l’umidità dell’inverno aveva scolorito. Un’offerta di licenza di pesca. Si voltò verso Vanja.

– Devono essere qui.

Si guardarono attorno. Davanti a loro, sul terreno che digradava verso l’acqua, alcuni gruppi di alberi. In lontananza, vicino all’argine, una tenda azzurra. Soffiava un vento leggero.

Attraversarono l’umido manto erboso in direzione della tenda. Il cielo era nuvoloso, ma il gelo della notte era passato. Come sempre, Vanja era in testa. Sebastian sorrise pensando a lei. Sempre in prima fila, sempre l’ultima parola. Quella era Vanja. Esattamente come lui quand’era giovane. Negli ultimi tempi, invece, soleva accontentarsi. Avvicinandosi, videro due persone sedute su un pontile malconcio poco distante dalla tenda. Sembravano intente a pescare. Una accanto all’altra. Quando si fecero piú vicini, riconobbero Ulf e Johan. Una perfetta immagine di padre-e-figlio, una situazione che Sebastian non aveva mai vissuto.

Ulf e Johan erano ben coperti, con indosso cappelli e stivali di gomma verde; accanto a loro alcuni secchi, un coltello e una cassetta con ami e piombini. Ognuno reggeva la propria canna da pesca. Johan restò seduto, Ulf si alzò e andò incontro ai poliziotti con lo sguardo inquieto.

– È successo qualcosa?

L’acqua del Malaren si era alzata in seguito allo scioglimento dei ghiacci primaverili e lambiva pericolosamente la parte inferiore del pontile; fluí attraverso alcune fessure bagnando il legno sotto i piedi di Ulf. Sebastian fece alcuni passi indietro.

– Avremmo bisogno di parlare un po’ piú a fondo con Johan. Siamo venuti a conoscenza di nuovi elementi.

– Ah, certo. E noi che pensavamo di starcene un po’ in pace… di allontanarci da tutto. È stata davvero dura, per lui.

– Sí, ce l’ha detto, ma dobbiamo parlargli di nuovo.

– Papà, è okay.

Ulf annuí rassegnato e si scansò per farli salire sul pontile. Johan depose la canna e si alzò lentamente. Vanja non riuscí a trattenersi oltre.

– Johan, Roger vendeva alcolici insieme ad Axel Johansson?

Johan si bloccò e la fissò. Sembrava un bambino caduto dentro vestiti troppo grandi. Annuí, pallido. Ulf reagí. Evidentemente per lui era una novità.

– Che cosa? – I tre adulti si voltarono verso il sedicenne, che sbiancò ancora di piú.

– È stata un’idea di Roger, fin dall’inizio. Lui prendeva le ordinazioni. Axel faceva gli acquisti. Poi vendevano a un prezzo maggiorato e si dividevano i guadagni.

Ulf guardò il figlio con espressione grave.

– C’eri di mezzo anche tu? – Il ragazzo scosse in fretta il capo.

– No, non ho mai voluto –. Guardò il padre con aria supplice, incrociando il suo sguardo di rimprovero.

– Johan, capisco che vuoi proteggere Roger, ma devi dire tutto quello che sai a me e a questi poliziotti –. Johan si mise di fianco al padre. – Lo capisci?

Johan fece un calmo cenno d’assenso. Vanja sentí che era il momento di continuare.

– Quando hanno iniziato?

– In autunno. Roger ne aveva parlato con Axel e si erano subito messi all’opera. Guadagnavano bene.

– Che cosa è andato storto? Perché Roger ha denunciato Axel?

– Non voleva piú dividere i guadagni, aveva iniziato a fare da solo. Non aveva piú bisogno di Roger. Prendeva le ordinazioni direttamente.

– Allora Roger si è rivolto al rettore?

– Sí.

– Che ha licenziato Axel Johansson.

– Sí, il giorno stesso.

– Axel non ha detto che Roger era suo complice fin dall’inizio?

– Non lo so. Credo che sia stato Roger ad ammetterlo. A dire che aveva partecipato anche lui, ma si era pentito. Che non voleva farlo piú.

Fu Sebastian a porre le ultime domande. Riusciva quasi a vedere Roger in piedi davanti a quel rettore pedante, mentre recitava la parte dell’allievo disciplinato e pentito, denunciando l’uomo che lo aveva tradito. Roger era piú calcolatore di quanto avesse immaginato. Continuava a svelare nuovi aspetti di sé. Intrigante.

– E perché Roger si era messo a vendere alcolici?

– Aveva bisogno di soldi.

Ulf si sentí in dovere di intervenire. Probabilmente per prendere le distanze dal problema.

– A cosa gli servivano?

– Papà, non hai visto come si conciava appena arrivato? Non voleva piú essere preso in giro.

Restarono in silenzio un istante. Johan continuò.

– Non lo capite? Cercava di essere accettato. Avrebbe fatto qualsiasi cosa.

Roger, dai contorni in un primo momento cosí vaghi, cominciava a prendere forma. I suoi lati nascosti iniziavano a venire alla luce, e con essi le sue motivazioni. Una vicenda triste ma comprensibile. Un ragazzo che voleva essere qualcun altro. Qualcos’altro. A ogni costo. Vanja l’aveva capito, rammentando i tempi in cui anche lei indossava l’uniforme scolastica. La violenza, e persino l’omicidio a cui quella lotta aveva infine condotto. Vanja estrasse i fogli con l’elenco degli sms di Roger, e li allungò a Johan.

– Abbiamo trovato questi messaggi sul suo cellulare –. Johan li lesse con attenzione.

– Sai chi può averglieli inviati?

Johan scosse il capo.

– Non sai a chi appartiene questo numero?

– No.

– Sicuro? Potrebbe essere molto importante.

Johan accennò di aver capito, ma no, non lo sapeva. Ulf lo cinse con un braccio.

– Tu e Roger avevate iniziato a perdervi di vista nell’ultimo quadrimestre, non è cosí?

Johan annuí.

– Per quale motivo? – domandò Vanja.

– Si sa, i ragazzi cambiano a quell’età –. Ulf alzò le spalle come a dimostrare che la riteneva quasi una legge della natura, qualcosa per cui non si poteva fare nulla. Vanja non si arrese. Questa volta si rivolse ancora piú direttamente a Johan.

– Qual era la ragione per cui non andavate piú tanto d’accordo?

Johan esitò, rifletté e alzò le spalle anche lui.

– Era diventato strano.

– In che senso?

– Non lo so… Alla fine parlava soltanto di soldi e di sesso.

– Sesso?

Johan annuí.

– Ne parlava tutto il tempo. Era diventato pesante.

Ulf si chinò in avanti e abbracciò il figlio. Classico, pensò Sebastian. Quale genitore non sentiva l’impulso di proteggere il proprio figlio non appena si parlava di sesso? Lo si faceva soprattutto per gli altri. Per dimostrare a tutti che in quella famiglia si proteggevano i figli dalle sconcezze, dalle scurrilità. Ulf avrebbe meritato di sapere cosa avevano fatto lui e sua moglie la sera prima, mentre lui se ne stava al freddo sotto una tenda. Ma la cosa avrebbe messo a repentaglio l’interrogatorio.

Parlarono con Johan ancora per qualche minuto. Cercarono ostinatamente di scovare nuovi indizi su Roger, ma Johan non sembrava avere altro da aggiungere. Era stanco e affaticato ed entrambi capirono di aver ottenuto piú di quanto avessero sperato. Infine li ringraziarono e tornarono all’auto. Sebastian studiò padre e figlio che li guardavano dalla riva.

Un padre protettivo e amorevole.

Suo figlio.

Non c’era posto per altri.

Forse non era stato Sebastian ad aver sedotto Beatrice.

Forse era stato il contrario.

Di ritorno da Lilla Blacken, Vanja decise di passare da casa di Peter Westin in Rotevagen. Non esattamente una deviazione. L’irritazione per il suo silenzio era stata sostituita da una certa inquietudine. Era passata un’intera mattinata. La sua preoccupazione ebbe presto una conferma; raggiungendo l’indirizzo, d’un tratto sentirono un pungente odore di bruciato riempire l’aria. Dal finestrino laterale scorsero una debole colonna di fumo grigio scuro innalzarsi sugli alberi e le villette a due piani. Vanja rallentò e svoltò a sinistra in una strada laterale, poi di nuovo a sinistra in Rotevagen. Una via di case indipendenti affiancata da alberi di castagno, la cui tranquillità era interrotta dal gran numero di veicoli dei pompieri che bloccavano la strada verso il fondo. Le sirene accese. Pompieri che, senza fretta, andavano avanti e indietro con la loro attrezzatura. Capannelli di curiosi in piedi dietro ai nastri. Persino Sebastian trasalí.

– Era lí che dovevamo andare?

– Credo di sí.

Scesero dall’auto e avanzarono rapidamente verso la casa di Westin. A mano a mano che si avvicinavano, la situazione appariva piú disastrosa. A un lato del piano superiore mancavano ampie porzioni del muro esterno, e all’interno erano visibili mobili e oggetti bruciati. Acqua nera e maleodorante scorreva sulla strada e nei tombini. Il tanfo si faceva sempre piú acre. Alcuni pompieri stavano cercando di spegnere le ultime fiamme. Sulla recinzione grigia, che probabilmente prima dell’incendio aveva lo stesso colore della casa, c’era un cartello col numero 12. Era la casa di Peter Westin.

 

 

Vanja si presentò e dopo alcuni minuti poté parlare con il caposquadra, Sundstedt. Un uomo sulla cinquantina, con i baffi e una giacca a vento con la scritta «caposquadra». Sembrava tranquillo e aveva un accento del Norrland. Era meravigliato che la polizia fosse già sul posto. Aveva appena telefonato dicendo di aver trovato un cadavere al primo piano. Vanja trasalí.

– Può essere l’uomo che abitava in questa casa, Peter Westin?

– Non lo sappiamo, ma è probabile; è stato ritrovato in quello che è rimasto della camera da letto, – disse Sundstedt, e aggiunse che era stato uno dei pompieri a scorgere un piede carbonizzato che spuntava da sotto il tetto franato. Avrebbero cercato di estrarre il corpo non appena possibile, ma stavano ancora spegnendo le ultime fiamme e il rischio di crolli era molto elevato; avrebbero potuto metterci alcune ore.

L’incendio era scoppiato quella mattina presto e la chiamata alla centrale era arrivata alle 04:17. Era stato il vicino di casa ad avvertirli. Una volta giunti lí, gran parte del piano superiore era già avvolto dalle fiamme; bisognava impedire che il fuoco si propagasse nel quartiere.

– Forse un incendio doloso?

– È troppo presto per dirlo, ma l’origine circoscritta e la rapida diffusione non lasciano molti dubbi.

Vanja si guardò attorno. Poco piú in là, Sebastian aveva raggiunto alcuni vicini incuriositi. Sembrava conversare con loro. Vanja estrasse il cellulare e chiamò Ursula, le spiegò la situazione e la pregò di arrivare il prima possibile. Poi chiamò Torkel, ma invano. Lasciò un messaggio in segreteria.

Sebastian tornò da lei, accennando ai vicini con cui aveva appena parlato.

– Alcuni dicono di aver visto Peter Westin ieri sera sul tardi e sono convinti che fosse a casa questa notte. Di solito rincasava sempre.

Si guardarono.

– Un po’ troppo per essere una coincidenza, – continuò. – Sei certa che Roger fosse uno dei suoi pazienti?

– Niente affatto. So che era andato da lui qualche volta appena arrivato al Palmlovska, me l’ha detto Beatrice, ma non so se ci fosse tornato di recente. Tutto quello che ho sono le sue iniziali annotate un mercoledí sí e uno no.

Sebastian annuí e la prese per un braccio.

– Dobbiamo scoprirlo, – le disse dirigendosi verso l’auto. – Quella scuola è troppo piccola per poter conservare simili segreti. Credimi, l’ho frequentata.

Fecero dietrofront e si avviarono di nuovo al Palmlovska. Le indagini li portavano continuamente lí.

A quella scuola all’apparenza perfetta.

Sulla cui facciata, però, si aprivano crepe sempre piú profonde.

Vanja chiamò Billy e lo pregò di scoprire tutto quello che poteva su un certo Peter Westin, psicologo, domiciliato in Rotevagen 12. Lui promise di farlo non appena possibile. Nel frattempo Sebastian chiamò a casa di Lena Eriksson, per verificare se fosse a conoscenza di ciò che suo figlio faceva ogni due mercoledí alle dieci di mattina. Come aveva sospettato Vanja, Lena non ne sapeva nulla. Sebastian la ringraziò e riattaccò. Vanja lo fissò. Nelle ultime ore aveva completamente dimenticato di essersi ripromessa di tenerlo a distanza. In realtà si era rivelato un compagno di lavoro piuttosto utile nei momenti critici. Non riuscí a trattenere un sorriso. E naturalmente Sebastian non perse l’occasione per fraintenderla.

– Mi stai facendo la corte?

– Eh? No!

– Cos’è allora quello sguardo da ragazzina adorante.

– Va’ all’inferno.

– Non c’è niente di cui vergognarsi, è questo l’effetto che faccio alle donne –. Sebastian sorrise, sicuro del fatto suo. Lei distolse lo sguardo e accelerò.

Questa volta l’ultima parola l’aveva avuta lui.

– Hai un momento? – Dal tono di voce della Hanser, Haraldsson capí immediatamente quello che intendeva dire: «Devo parlare con te. Adesso!» Proprio cosí. Alzò lo sguardo e se la vide lí, in piedi, le braccia incrociate sul petto, che accennava col capo alla porta del suo ufficio con un’aria decisamente determinata. Ma non l’avrebbe passata liscia. Qualunque fosse il motivo, Haraldsson non aveva intenzione di farla giocare in casa.

– Possiamo parlarne qui? Sto cercando di sforzare il piede il meno possibile.

La Hanser diede un’occhiata all’open space, come per stabilire quanto i colleghi piú vicini avrebbero sentito della loro conversazione; poi, con un sospiro e un movimento irritato ma controllato, afferrò una sedia da una scrivania libera. Si sedette di fronte a lui, si sporse in avanti e abbassò la voce.

– Eri fuori dalla casa di Axel Johansson, stanotte?

– No.

Un riflesso istintivo.

Negare.

Ignorando le conseguenze.

Conosceva già la risposta? Probabile. In quel caso un sí sarebbe stato la cosa migliore; poi, se la cosa era un problema, avrebbe potuto abbozzare una spiegazione il piú possibile convincente. Doveva essere cosí, altrimenti non gli avrebbe rivolto quella domanda, no? Oppure aveva solo dei sospetti? In questo caso un no avrebbe funzionato. Voleva forse elogiare la sua iniziativa? Improbabile. I pensieri di Haraldsson si fecero confusi. Sentí di dover correre al riparo; meglio rispondere sí. Ma era troppo tardi.

– Sei certo di non essere stato tu?

Troppo tardi per cambiare idea, ma non doveva né confermare né negare la sua prima risposta.

– Perché me lo chiedi?

– Ho ricevuto una telefonata da una certa Desiré Holmin. Abita nello stesso edificio di Axel Johansson. Ha detto di averlo visto, stanotte. Qualcuno lo aspettava in un’automobile, e quando è rincasato ha cominciato a rincorrerlo.

– E tu credi che sia stato io?

– Sei stato tu?

Haraldsson pensò febbrilmente. Holmin, Holmin… Non era quella vecchietta grigia, la dirimpettaia di Johansson? Sí, era lei. Aveva dimostrato una gran buona volontà quando aveva bussato alla sua porta per parlarle. Quasi non era riuscito a liberarsene. Facile immaginarla sveglia tutta la notte, a guardare fuori dalla finestra. Per dare una mano alla polizia. Per aggiungere un po’ di eccitazione alla sua grigia e monotona vita da pensionata. Ma immaginò anche che, essendo notte, l’anziana fosse un po’ stanca e ci vedesse poco. Forse era anche un po’ fuori di zucca. Se la sarebbe cavata.

– No, non ero io.

La Hanser lo studiò in silenzio, non senza una certa soddisfazione. Haraldsson non lo sapeva, ma aveva appena dato una prima vangata alla sua fossa. Lei continuò a tacere, convinta che sarebbe andato avanti a mentire.

Haraldsson si sentí a disagio. Odiava il suo sguardo. Odiava il silenzio che diceva chiaramente che non gli credeva. Non stava anche ridacchiando? Decise di giocare immediatamente il proprio asso nella manica.

– Come potrei rincorrere qualcuno? Riesco a malapena a trascinarmi in bagno.

– Per via del piede?

– Già.

La Hanser annuí. Lui le sorrise. Bene, se la sarebbe cavata. Si sarebbe resa conto dell’impossibilità di quella ipotesi e se ne sarebbe andata. Ma con sua grande sorpresa restò seduta, sempre protesa in avanti.

– Che macchina hai?

– Perché?

– La Holmin sostiene che l’uomo che ha rincorso Johansson è sceso da una Toyota verde.

Okay, pensò Haraldsson, era giunto il momento di estrarre un’altra carta, un po’ meno vincente: notte, stanchezza, cecità e demenza. A quanti metri di distanza dall’edificio si era fermato? Venti o trenta. Minimo. Si abbandonò a un largo sorriso disarmante.

– Non che io voglia screditare la signora Holmin, ma se è successo stanotte doveva essere buio. Come ha fatto a vedere di che colore era l’auto? E, onestamente, quanti anni ha? Quasi ottanta? Le ho parlato e non mi sembrava del tutto affidabile. Mi sorprenderebbe sapere che riesce a distinguere le marche delle automobili.

– L’auto era parcheggiata sotto un lampione e lei aveva un binocolo.

La Hanser si chinò all’indietro e lo studiò. Le sembrava di vedere il suo cervello lavorare, come in un cartone animato dove le ruote dentate giravano sempre piú velocemente. Era meravigliata, ormai avrebbe dovuto capire dove stava andando a parare.

– Non sarò mica l’unico ad avere una Toyota verde. Se era una Toyota verde.

Evidentemente no, pensò la Hanser sempre piú stupita. Non solo Haraldsson continuava a scavare, era saltato dentro la fossa e iniziava a sprofondare.

– Ha preso il numero di targa. Sei l’unico ad averla.

Haraldsson ammutolí. Non gli veniva in mente niente. Vuoto assoluto. La Hanser si sporse attraverso la scrivania.

– Ora Axel Johansson sa che lo stiamo cercando e sicuramente farà di tutto per non farsi trovare.

Haraldsson cercò di rispondere, ma non gli uscí una sola parola, niente. Le corde vocali si rifiutavano di ubbidirgli.

– Devo informare la Omicidi di quanto è successo. Questa è la loro indagine. Te lo ripeto chiaramente, perché sembra che tu non l’abbia capito.

Poi si alzò e fissò Haraldsson, il cui sguardo continuava a vagare nel vuoto. Se non fosse stata una violazione cosí grave e, in tutta onestà, se non fosse stato Haraldsson, avrebbe provato un po’di dispiacere.

– Comunicheremo a chi di dovere dove ti trovavi esattamente mentre avresti dovuto essere a Listakarr. Desiré Holmin ha detto che l’inseguitore di Johansson non zoppicava. Anzi, era una scheggia.

Si voltò e se ne andò. Haraldsson aveva lo sguardo perso nel vuoto. Com’era arrivato a tutto questo? C’era un modo di cavarsela? Cercare di ridimensionare il danno era stata la scelta piú infelice. Le cose non stavano andando come previsto. Il discorso di ringraziamento del capo della polizia regionale era molto, molto lontano. Haraldsson sentí la spirale discendente della propria esistenza vorticare sempre piú veloce, farsi piú ripida, e insieme a lui, precipitare. A capofitto.

Ursula conosceva Sundstedt da anni. Aveva fatto parte della Commissione sinistri qualche tempo prima di tornare a far domanda per il posto di pompiere. Si erano conosciuti quando lei lavorava alla Skl, durante una complicata indagine su un aeroplano privato precipitato nel Sormland, in cui si sospettava che il pilota fosse stato avvelenato dalla moglie. Si erano piaciuti subito. Sundstedt era come lei, non aveva paura di sporcarsi le mani. E andava al sodo. L’aveva riconosciuta non appena era scesa dall’auto ed era corso a salutarla.

– Oh, abbiamo ospiti?

– Già, ci sei tu.

Un abbraccio amichevole e un rapido scambio di battute su quanto tempo era passato dall’ultima volta che si erano visti. Dopodiché lui le porse un casco protettivo, la fece passare sotto i sigilli e si diressero verso la casa incendiata.

– Sei ancora alla Omicidi?

– Sí.

– Siete qui per l’assassinio di quel ragazzo?

Ursula annuí. Sundstedt accennò alla casa fumante.

– Credi che c’entri qualcosa?

– Non lo sappiamo. Avete già tirato fuori il corpo?

Lui scosse il capo e le fece fare il giro della casa. Poi raggiunsero la sua auto parcheggiata, lui aprí la portiera, afferrò un camice ignifugo e glielo porse.

– Mettiti questo. È meglio che ti mostri dove si trova, o non farai altro che lamentarti per non aver assistito all’operazione sin dall’inizio.

– Io non mi lamento mai. Protesto. A ragione. C’è una bella differenza.

Si scambiarono un sorriso e tornarono alla casa. Attraversarono un varco, dove una volta si trovava la porta d’ingresso, ora a terra nel vestibolo. I mobili della cucina erano intatti, sembrava che stessero soltanto aspettando che qualcuno si sedesse a mangiare. In compenso il pavimento era ricoperto di acqua sudicia di cenere, che continuava a gocciolare dal soffitto e scorreva lungo le pareti. Proseguirono sulla scala bagnata e scivolosa. L’odore acre si faceva sempre piú intenso, irritando il naso di Ursula e facendola lacrimare. Benché avesse assistito a un buon numero di incendi, Ursula ne rimaneva sempre affascinata. Il fuoco trasformava gli oggetti familiari in un modo terribile, quasi seducente. Tra le macerie c’era una poltrona integra. Dietro di essa, dove una volta c’era una parete, si intravedevano il giardino e la casa dei vicini. La transitorietà della vita si incrociava con i resti della quotidianità. Sundstedt rallentò e iniziò a prestare piú attenzione. Fece cenno a Ursula di restare dov’era. Il pavimento scricchiolava sotto il suo peso. Indicò un telo bianco che giaceva accanto a ciò che rimaneva del letto. Parte del soffitto era crollata e sopra di loro si scorgeva il cielo.

– Ecco il corpo. Dovremo puntellare il pavimento prima di spostarlo.

Lei annuí, si accovacciò e prese la macchina fotografica. Sundstedt sapeva cosa stava per fare, e senza dire una parola si chinò sul telo, afferrò il lembo piú vicino e lo spostò. Sotto c’erano assi di legno carbonizzate e tegole rotte o integre del tetto crollato. Ma quello che sporgeva era chiaramente un piede. Benché annerito, la carne non era del tutto devastata dal fuoco. Ursula scattò parecchie fotografie, iniziando con le immagini intere. Quando si spostò con cautela verso il piede, per fotografarlo nel dettaglio, oltre all’odore di bruciato sentí un odore piú dolce, come una combinazione di obitorio e bosco incendiato. Ci si poteva abituare a molte cose, nel suo lavoro, ma abituarsi agli odori era la cosa piú difficile.

Deglutí.

– A giudicare dalla grandezza del piede è probabile che si tratti di un uomo adulto, – iniziò Sundstedt. – Ti aiuto a prendere qualche campione dei tessuti? Ci sono alcune parti molli attorno alla caviglia.

– Lo potrò fare in seguito, se ce ne sarà bisogno. Ora vorrei che mi dessi una mano per il confronto con la radiografia ai denti.

– Ci vorranno alcune ore prima di poterlo spostare.

Ursula annuí.

– Okay, se non sarò qui chiamami subito, – estrasse un biglietto da visita da una tasca e glielo porse. Lui lo afferrò, se lo infilò in tasca, stese di nuovo il telo e si alzò in piedi. Ursula fece lo stesso.

Cominciarono ad analizzare la causa del disastro. Ursula non era un’esperta nell’individuare i punti di propagazione di un incendio, ma persino lei fu in grado di riconoscere i particolari che indicavano uno sviluppo delle fiamme estremamente rapido. Troppo rapido per essere naturale.

Rolf Lemmel era sconvolto. Era stato chiamato da un amico che lo aveva informato dell’incendio a casa di Peter, ma non sapeva ancora che avevano trovato un corpo nella stanza da letto, e quando Vanja glielo disse impallidí ulteriormente. Si sedette sul divano della sala d’aspetto coprendosi il viso con le mani.

– È Peter?

– Non lo sappiamo ancora, ma ci sono alte probabilità che sia lui –. Lemmel si contorse, come se il suo corpo non sapesse da che parte girarsi. Respirava a fatica, pesantemente. Sebastian andò a prendergli un bicchiere d’acqua. Rolf bevve qualche sorso e parve calmarsi. Guardò i poliziotti, ricordandosi che una di loro aveva cercato Peter, quella mattina, quando ancora pensava che il collega fosse soltanto in ritardo. Aveva anche pensato che la tizia fosse una scocciatrice. Ora sapeva di non aver capito l’importanza della sua visita.

– La sua visita di stamattina aveva a che fare con tutto ciò? – domandò guardando Vanja dritto negli occhi.

– Non lo sappiamo. È a proposito di un paziente, avrei bisogno di sapere se veniva qui.

– Chi?

– Roger Eriksson, un ragazzo di sedici anni del Palmlovska –. Vanja allungò la fotografia, ma non fu necessario.

– Quello che hanno assassinato?

– Esatto.

Per sicurezza gli porse l’immagine. Lui la fissò e rifletté a lungo, voleva esserne sicuro.

– Non lo so. Peter aveva un accordo con la scuola, quindi venivano molti studenti. È possibile.

– Ogni mercoledí alle dieci, questo quadrimestre. Era lui?

Lemmel scosse il capo.

– Lavoro qui soltanto tre giorni alla settimana, il mercoledí e il giovedí sono in ospedale. Quindi non lo so. Ma possiamo controllare nel suo studio. Tiene lí la sua agenda.

– Non avete una segretaria? – domandò Sebastian mentre attraversavano una porta a vetri entrando in uno stretto corridoio.

– No, riusciamo a organizzarci da soli, sarebbe una spesa inutile –. Lemmel si fermò alla seconda porta sulla destra ed estrasse le chiavi. Parve stupito quando, cercando di girare la chiave, d’un tratto la porta si aprí.

– Strano…

Sebastian la socchiuse. All’interno trovarono un immenso caos. Fascicoli stracciati e fogli sparsi ovunque, cassetti aperti, raccoglitori svuotati, vetri rotti. Rolf era sotto shock. Vanja si infilò rapidamente un paio di guanti di lattice bianchi.

– Restate fuori. Sebastian, chiama Ursula e dille di venire qui il piú presto possibile.

– Credo sia meglio se la chiami tu –. Sebastian abbozzò un sorriso.

– Dille di che si tratta. Forse ti odia, ma è una professionista.

Vanja si rivolse a Lemmel.

– Quindi lei non è entrato qui oggi?

Lui scosse il capo. Iniziò a guardarsi attorno.

– Vede l’agenda di Peter da qualche parte?

Lemmel era sconvolto e ci mise un po’ a rispondere.

– No, è un quaderno verde, grande, quasi in formato A4.

Vanja annuí e iniziò a cercare con calma tra i fascicoli sparpagliati; non era semplice, ma non voleva calpestare troppe cose, finendo magari per distruggere qualche prova. Allo stesso tempo sapeva che era della massima importanza trovare un legame tra Peter Westin e Roger. In tal caso le indagini avrebbero preso una piega inaspettata.

Dieci minuti dopo Vanja si arrese. A quanto pareva non c’era nessuna agenda nella stanza. Ma non poteva rivoltare tutto e cercare ovunque. Ursula aveva richiamato comunicandole che sarebbe rimasta in Rotevagen per qualche altra ora, ma aveva parlato con la Hanser che aveva promesso di inviarle il miglior perito della polizia di Vasterås. A Ursula la cosa non andava, ma analizzare una stanza non era poi cosí difficile, no? Vanja chiuse la porta con la chiave di Lemmel e uscí per parlargli di nuovo. L’uomo si era seduto sul divano e stava parlando al telefono con qualcuno. I suoi occhi erano colmi di lacrime, la voce controllata ma afflitta. Vide Vanja e cercò di riprendersi.

– Tesoro, devo riattaccare. La polizia vuole di nuovo parlare con me.

– Sta arrivando un perito. Nello studio non deve entrare nessuno. Posso tenere le sue chiavi?

Lui annuí. Vanja si guardò attorno.

– Dov’è andato il mio collega?

– Doveva controllare qualcosa –. Vanja sospirò e prese il cellulare, accorgendosi tuttavia di non avere il numero di Sebastian. Non aveva mai pensato di averne bisogno.

Sebastian varcò la soglia della caffetteria del liceo Palmlovska. Ai suoi tempi non c’era nessuna caffetteria, al pianoterra. Allora quel locale era una sala studio. Le pareti non erano bianche, erano prive di faretti, e non ricordava nemmeno che ci fossero poltrone di pelle nera, tavolini di legno chiaro e altoparlanti a muro, da cui ora proveniva musica lounge. A quell’epoca le pareti erano ricoperte di librerie, e al centro della stanza stavano lunghi tavoli e sedie rigide. Tutto lí.

Sebastian si era stancato di recitare la parte del secondo violino, come nello studio di Westin. Si era dato da fare tutto il giorno per stare nei ranghi, non strafare, supportare la squadra e tutte quelle stronzate. Non era stato particolarmente difficile, aveva dovuto soltanto filare dritto e tenere chiuso il becco. Ma era noioso, maledettamente, terribilmente e mortalmente noioso. Anche se in auto era riuscito a dare a Vanja qualche scossone, ora non gli bastava piú. Si muoveva al di sotto delle sue capacità e Sebastian non era in grado di limitarsi.

Quando poco prima aveva visto Vanja maneggiare le carte dello studio a soqquadro, tanto delicatamente da non rovinare il lavoro a Ursula, aveva deciso di alzare i tacchi e agire di testa propria. Le informazioni si potevano trovare ovunque. Tutti sapevano qualcosa. Bisognava soltanto sapere a chi rivolgersi.

Per questo ora si stava guardando attorno nella caffetteria. Intravide Lisa Hansson che, poco lontano, stava chiacchierando con alcune compagne di classe davanti a un po’ di tazze vuote. Si avvicinò. Lisa non fu felice di vederlo, lo capí dal suo sguardo. Ma era rassegnata. E sarebbe bastato.

– Ciao Lisa. Hai due minuti?

Le altre ragazze lo guardarono meravigliate, ma lui non aspettò che rispondesse.

– Avrei bisogno del tuo aiuto.

Quando ventidue minuti piú tardi Sebastian entrò nello studio di Lemmel e Westin, aveva avuto conferma da due fonti indipendenti che Roger Eriksson si recava da Peter Westin ogni due mercoledí alle dieci di mattina. A scuola faceva parte di un gruppo, ed era impossibile sgattaiolare via di tanto in tanto senza essere scoperti. Benché non si sapesse dove andava; Lisa stessa lo ignorava ma grazie alle sue conoscenze scovò chi invece era in grado di aiutare Sebastian. Una ragazza di seconda lo aveva incontrato e un’altra, di una classe parallela a quella di Roger, aveva confermato. Si erano incrociati nella sala d’aspetto due volte.

Vanja stava parlando al telefono. Guardò infastidita Sebastian che vagava con aria di nonchalance nella sala d’attesa. Lui le sorrise. Vide un tecnico intento a rilevare le impronte digitali sullo stipite della porta dell’ufficio di Westin. Era arrivato al momento giusto. Aspettò finché Vanja non ebbe concluso la telefonata.

– Come va? Trovato qualche prova?

– Non ancora. Dove sei stato?

– Ho lavorato un po’. Volevi la conferma che Roger venisse qui ogni due mercoledí alle dieci. Veniva.

– Chi te l’ha detto?

Sebastian le diede il nome delle due alunne, aveva addirittura annotato i loro dati su un foglietto che le porse. Sapeva che questo l’avrebbe irritata ancor di piú.

– Chiamale e verifica tu stessa se vuoi.

Lei guardò il biglietto.

– Lo farò. Dopo. Ora andiamo in ufficio. Billy vuole vederci.

Torkel sperava in qualche buona notizia. Aveva bisogno di un successo, di uno sviluppo per cui rallegrarsi. Era pronto ad accontentarsi anche solo di qualcosa che non fosse un totale buco nell’acqua. Aveva visto la Hanser. Dopo un gentile «grazie per ieri» ed «è stato un piacere», gli aveva raccontato di Thomas Haraldsson. Le sue buone intenzioni non cambiavano nulla. Quella testa di cazzo probabilmente era riuscito a far sparire l’unico vero sospettato che avevano fino a quel momento. Ciò significava che quanto era venuto fuori dalle telefonate e dagli sms recuperati non sarebbe servito fondamentalmente a niente. In aggiunta a tutto ciò, sembrava che lo psicologo di Roger fosse stato assassinato. Comunque sia, era morto. Torkel lavorava da troppo tempo per credere che si trattasse di una sfortunata coincidenza. Cosí, ora avevano a che fare con un pluriomicida. Il fatto che Sebastian considerasse il primo omicidio un semplice imprevisto non era che una magra consolazione. Il secondo era stato voluto eccome. Presumibilmente Westin era morto per qualcosa che sapeva. Qualcosa che riguardava Roger Eriksson. Torkel imprecò tra sé, erano stati troppo lenti. Perché non erano andati subito da lui? In quella maledetta indagine niente stava andando per il verso giusto. Non ci sarebbe voluto molto prima che la stampa stabilisse un collegamento tra le due morti, era proprio quello di cui avevano bisogno per mantenere viva l’attenzione.

Oltretutto Ursula era arrabbiata con lui.

E Mikael stava per arrivare.

Aprí la porta della sala riunioni. Ursula era rimasta sul luogo del crimine, ma gli altri erano già lí. Billy li aveva chiamati a raccolta. Torkel si sedette e fece cenno a Billy di cominciare. Il proiettore sul soffitto ronzava e Torkel capí che avrebbero visto altre immagini registrate dalla videosorveglianza. Proprio cosí. Roger stava entrando da destra.

– Alle 21:29 Roger Eriksson era qui –. Billy indicò una strada sulla cartina appesa alla parete. – A diversi chilometri di distanza da Gustavsborgsgatan. Come vedete, attraversa la strada e scompare. Dico sul serio, scompare –. Billy mandò indietro il filmato con il telecomando, e lo fermò un attimo prima che Roger svanisse dietro un’auto parcheggiata.

– Prende per Spranggrand, un vicolo cieco che termina in un’isola pedonale che porta in tre direzioni –. Billy indicò la cartina con la penna. – Ho controllato tutte le videocamere situate a nord e a ovest di Spranggrand, non sono molte. Roger non ricompare in nessuna, cosí ho verificato se per caso fosse tornato indietro. Nulla. Ho visto e rivisto un’infinità di stupide strade, molte piú di quelle che uno percorre in una vita intera. Questa è l’ultima immagine che abbiamo di Roger Eriksson.

Guardarono tutti il fermo immagine sulla parete. Torkel sentí il suo già pessimo umore calare di diversi gradi. A precipizio.

– Mettiamo che continui ad andare avanti, verso nord. Cosa troviamo? – Era Vanja. Torkel provò gratitudine: nella squadra c’era ancora qualcuno che cercava di trarre profitto dal nulla.

– Dall’altra parte della E18 c’è Vallby, un’ampia area di caseggiati.

– Qualche nesso col ragazzo? Qualche compagno di classe o amico che ci abita?

Billy scosse il capo. Sebastian si alzò e si diresse alla cartina.

– Che cos’è questo? – domandò indicando un edificio piuttosto grande a una ventina di metri da dove terminava Spranggrand.

– Un motel.

Sebastian iniziò a vagare nella stanza parlando in tono pacato, come rivolto a se stesso.

– Roger e Lisa per qualche tempo hanno finto di avere una storia. E Lisa ha detto che Roger vedeva qualcun altro, ma non sapeva chi. Era molto riservato in proposito –. Tornò alla cartina e posò un dito sul motel.

– A quanto dice Johan, Roger parlava continuamente di sesso. Un motel è perfetto per quel tipo di incontri.

Lasciò scivolare lo sguardo sugli altri tre.

– Sí, parlo per esperienza personale, – aggiunse guardando Vanja eloquentemente. – Al di là di quel motel, tu e io non abbiamo ancora finito qui –. Vanja gli rivolse un’occhiata stanca. Seconda allusione sessuale della giornata. Un’altra soltanto e avrebbe fatto in modo di estrometterlo dall’indagine, tanto in fretta che non avrebbe nemmeno avuto il tempo di rendersene conto. Tuttavia non disse niente, perché metterlo sull’avviso? Torkel incrociò le braccia sul petto e lo guardò con scetticismo.

– Non sembra un po’… troppo incontrare qualcuno in un motel a sedici anni? Non si sta a casa di solito?

– Forse, per qualche motivo, non era possibile.

Restarono tutti in silenzio, Billy e Vanja con lo stesso sguardo scettico di Torkel. Sebastian aprí le braccia.

– Andiamo! Abbiamo un sedicenne arrapato e un motel. Varrebbe almeno la pena controllare, no?

Vanja si alzò.

– Billy.

Billy annuí e insieme lasciarono la stanza.

Il motel Edin, costruito negli anni Sessanta, aveva un aspetto trascurato e sciatto. Nel parcheggio, enorme, c’erano tre sole automobili. L’edificio, molto simile ai motel americani, consisteva di due lunghi piani con scale esterne, grazie alle quali ogni stanza aveva un accesso indipendente affacciato sul parcheggio. Al centro si trovava una piccola reception e all’esterno lampeggiava un’insegna al neon: «Stanze libere». Billy e Vanja ebbero la sensazione che fosse passato un bel pezzo da quando quell’insegna si era spenta l’ultima volta. Se si doveva incontrare qualcuno di nascosto, quello era il luogo perfetto.

Entrarono attraverso una porta a vetri con su un cartello scritto a mano: «Non si accettano American Express». La reception era piuttosto buia: un alto bancone in legno scuro dagli angoli arrotondati, una sudicia moquette blu notte e un tavolino rotondo con due poltrone. L’aria era viziata e c’era una puzza di fumo che il piccolo ventilatore posto a un angolo del bancone non riusciva a mitigare. Dietro era seduta una donna sui cinquantacinque anni dai capelli lunghi e biondi, probabilmente tinti. Stava leggendo uno di quei giornali scandalistici a poco prezzo con un sacco di fotografie e poco testo. Accanto a lei si trovava l’«Aftonbladet» di quel giorno, aperto sulle pagine dedicate all’omicidio di Roger. Vanja l’aveva letto sommariamente qualche ora prima. Nulla di nuovo, a parte un’intervista al rettore del Palmlovska che si dilungava su quanto la scuola lavorasse attivamente nella lotta contro il bullismo e l’emarginazione, e su quanto Roger avesse trovato lí una casa, secondo le sue parole. Vanja si era quasi sentita male per la sfilza di menzogne che il rettore aveva spiattellato. La donna guardò i nuovi arrivati.

– Salve, posso aiutarvi?

Billy le sorrise.

– Lei lavorava qui venerdí scorso?

– Perché?

– Siamo della polizia.

Billy e Vanja estrassero il distintivo e glielo mostrarono. Lei annuí, quasi scusandosi. Vanja afferrò una foto di Roger e la depose sotto la lampada affinché la donna la vedesse bene.

– Lo riconosce?

– Sí, dal giornale, – la donna abbassò la mano sul quotidiano aperto, – parlano di lui ogni giorno.

– Ma non l’ha mai visto qui?

– No. Dovrei?

– Crediamo che sia stato qui lo scorso venerdí. Poco prima delle dieci.

La donna dietro il bancone scosse il capo.

– Ma noi non vediamo tutti i nostri ospiti, spesso solo quelli che saldano il conto. Può essere stato in una delle stanze insieme a qualcuno.

– È stato in una delle stanze?

– Non a quanto sappia. Dico solo che può esserci stato.

– Avremmo bisogno di sapere qualcosa di piú sugli ospiti di quella sera.

Dapprima la donna li guardò con scetticismo, ma dopo qualche istante fece due passi verso un computer decisamente obsoleto. Minimo otto anni, pensò Billy. Probabilmente piú vecchio. Un reperto archeologico. La donna iniziò a digitare qualcosa sulla tastiera ingiallita.

– Nella notte tra venerdí e sabato le stanze occupate in totale erano nove.

– Erano tutte occupate verso le nove e mezzo?

– Vuole dire di sera?

Billy annuí. La donna continuò a verificare sul computer. Dopo un istante trovò quello che stava cercando.

– No, a quell’ora soltanto sette erano occupate.

– Avremmo bisogno dei dati di tutti gli ospiti.

La fronte della donna fu solcata da una ruga di preoccupazione.

– Sono piuttosto certa che dovreste avere qualche autorizzazione per questo. Qualche documento.

Vanja si chinò in avanti.

– Io credo di no.

Ma la donna era decisa. Non che sapesse molto della legge sulle intercettazioni e sulla tutela della privacy, ma in tv aveva visto che i poliziotti avevano bisogno di un’autorizzazione per qualsiasi cosa. Non doveva rivelare i nomi dei suoi clienti solo perché glielo chiedevano. Avrebbe tenuto duro.

– Invece sí. Dovete avere un permesso.

Vanja rivolse uno sguardo stizzito prima a lei, poi a Billy.

– Okay, torneremo con l’autorizzazione.

La donna annuí soddisfatta. Ecco fatto. Aveva protetto la privacy dei suoi clienti e la libertà di espressione. La poliziotta continuò.

– Porteremo con noi un fiscalista. E forse degli ispettori sanitari. Perché siete responsabili anche del ristorante, non è cosí?

La donna dietro il bancone la osservò incerta. Potevano farlo davvero? Billy si guardò attorno, e annuendo aggiunse serio:

– E non dimentichiamoci dell’impianto antincendio. Ci sono parecchie uscite di sicurezza, a quanto vedo. E lei sembra tenere molto all’incolumità dei suoi ospiti.

Si diressero verso la porta. La donna dietro il bancone esitò.

– Aspettate. Non voglio che vi disturbiate. Posso procurarvi una lista adesso.

Sorrise scioccamente ai poliziotti. Il suo sguardo cadde sul giornale aperto. Improvvisamente lo riconobbe. Fu una strana sensazione. Eccitazione e trionfo. Un’occasione per guadagnare dei punti. Forse sarebbe riuscita a far dimenticare ai poliziotti quella storia degli ispettori sanitari. Si rivolse a Vanja, che stava tornando indietro.

– Lui è stato qui venerdí scorso.

Vanja si avvicinò con sguardo incuriosito.

– Come ha detto?

– Ho detto, – indicò il quotidiano aperto, – che lui è stato qui venerdí scorso.

Nel vedere l’immagine che la donna dietro il bancone stava indicando Vanja trasalí.

 

 

Nella sala riunioni la tensione si tagliava a fette. Le questioni aperte erano molte, il caso aveva dato vita a scenari inaspettati e all’improvviso fu necessario stabilire delle priorità. L’ultima novità era che l’addetta alla reception del motel aveva sostenuto con convinzione di aver visto il rettore del liceo Palmlovska Ragnar Groth quel venerdí sera. E non era nemmeno la prima volta. Si presentava ogni tanto ma regolarmente. Pagava sempre in contanti e si faceva chiamare Robert qualcosa. Quel venerdí se l’era visto passare davanti, mentre si dirigeva verso una delle camere sul lato sinistro senza effettuare il check-in. La donna aveva sempre creduto che si recasse lí per incontrare la sua amante. Una parte dei clienti frequentava il motel per scopi simili; forse non quanto si pensava, tuttavia era un dato di fatto. Sebastian esultò dentro di sé: le cose non facevano che migliorare, e quel pedante rettore Groth nascondeva molta piú merda di quanto non lasciasse intendere. Torkel guardò Billy e Vanja e annuí orgoglioso.

– Okay, bel lavoro. Il rettore è la nostra priorità. A quanto pare ci sono grosse possibilità che lui e Roger si trovassero nello stesso luogo la sera in cui il ragazzo è stato assassinato.

Billy estrasse una foto di Ragnar Groth e la porse a Torkel.

– Puoi appenderla? Non sono ancora riuscito a inquadrarlo, ma la cosa interessante è che sia Roger sia Peter Westin sono in relazione con lui: Westin aveva un accordo e Roger frequentava la sua scuola.

Torkel appese la fotografia del rettore, da cui fece partire una freccia in direzione di Roger e una in direzione di Westin.

– Forse è il caso di tornare a trovare il nostro rettore –. Torkel si voltò verso gli altri. Restarono in silenzio.

– Credo che dovremmo andarci piano d’ora in poi. Prima di affrontarlo dovremmo raccogliere il maggior numero di informazioni, – disse Sebastian rompendo il silenzio. – Finora si è dimostrato particolarmente abile nel tacere. Quindi, quando lo vedremo, piú sapremo e piú sarà difficile per lui schivare i colpi.

Vanja fece un cenno di assenso, era d’accordo.

– Soprattutto perché sappiamo ancora troppo poco di Peter Westin. Non sappiamo nemmeno se il cadavere trovato nella sua stanza da letto sia il suo, né come sia scoppiato l’incendio, – continuò lei. – Ursula è ancora in Rotevagen, ha promesso di consegnarci un rapporto preliminare il prima possibile.

– L’incursione nello studio ha rivelato qualcosa? – si intromise Torkel guardandola.

– No, nessuna traccia e nessuna agenda. Lí siamo fermi. Il collega di Westin ha detto che non era una persona che annotava scrupolosamente tutto, forse qualche frase qua e là, e lo faceva sempre sull’agenda che non abbiamo trovato.

– Non abbiamo un briciolo di fortuna, – sospirò Billy.

– No, per questo dobbiamo darci dentro, – disse Torkel esortandoli con lo sguardo. – La fortuna arriva col duro lavoro, lo sappiamo. Supponiamo che l’incursione abbia a che fare con l’incendio e che l’agenda di Peter Westin sia stata rubata a causa di ciò che c’è scritto. Almeno fino a prova contraria. Ho chiesto alla Hanser di mandare alcune pattuglie a interrogare gli abitanti della zona attorno allo studio, per verificare se stanotte qualcuno ha visto qualcosa di sospetto.

– E Axel Johansson? Come facciamo con lui? – Billy accennò alla fotografia del bidello in un angolo della parete. – Abbiamo scoperto qualcosa?

Torkel ridacchiò e scosse il capo.

– Sí, il nostro amato Thomas Haraldsson gli si è messo alle calcagna.

– Cosa vuoi dire?

– Da dove posso iniziare…

– Puoi iniziare col darmi ragione. Avremmo dovuto allontanarlo subito, no? – disse Vanja con un sorrisino. Torkel annuí.

– Assolutamente, Vanja.

Un agente in uniforme bussò alla porta, infilò dentro la testa e domandò di Billy e Vanja, a cui poi diede una busta ciascuno. Billy sbirciò nella propria.

– Possiamo occuparcene subito? – Billy rivolse uno sguardo titubante a Torkel.

– Di che si tratta?

– I rapporti sugli ospiti del motel che io e Vanja intendiamo esaminare un po’ piú da vicino.

Torkel annuí.

– Certo. Ma per finire con Axel Johansson, no, non abbiamo nessuna novità. Grazie a Haraldsson ora sa che lo stiamo cercando, quindi c’è il rischio che abbia lasciato Vasterås. La Hanser ha promesso di impiegare tutte le risorse possibili per trovarlo, quindi lasciamo che se ne occupi lei. Devo ammettere che si è vergognata parecchio per quanto è accaduto.

Durante l’esposizione di Torkel, Billy era si era avvicinato alla parete e aveva iniziato a tirare fuori le nuove immagini. Prima di iniziare lasciò che Torkel concludesse.

– Okay, attorno alle nove di venerdí sera c’erano in totale sette stanze occupate. Abbiamo escluso tre famiglie con bambini e una coppia di anziani rimasti fino a lunedí. Non sembra probabile che Roger o Ragnar Groth avessero appuntamento con qualcuno di loro, quindi per il momento li lasciamo da parte. Rimangono tre nomi, potrebbero essere interessanti.

Billy prese ad appendere le fotografie. Due donne e un uomo.

– Malin Sten, 28 anni, Frank Clevén, 52, e Stina Bokstrom, 46 –. Tutti si avvicinarono a quei primi piani ingranditi.

Malin Sten, nata Ragnarsson, era la piú giovane: attraente, lunghi capelli scuri spettinati. Secondo le fonti si era appena sposata con William Sten. La fotografia al centro raffigurava Frank Clevén, padre di tre figli, residente a Eskilstuna; capelli corti e scuri che avevano iniziato a diradarsi e a ingrigirsi. Tratti del viso marcati, segnati dalla vita all’aria aperta. In quell’immagine aveva un’aria risoluta. L’ultima era Stina Bokstrom: viso sottile, capelli corti e biondi e un aspetto piuttosto sgraziato. Nubile. Billy indicò la bruna.

– Sono riuscito a contattare Malin Sten. Rappresentante, 28 anni, ha pernottato lí in seguito a un incontro di lavoro a Vasterås. Sostiene di non aver visto nulla e di essersi coricata presto. Abita a Stoccolma. Gli altri due non li ho ancora sentiti, ma come vedete nessuno di loro abita a Vasterås, almeno non secondo l’anagrafe.

Torkel annuí e disse:

– Bene. Non ci resta che trovare gli altri due ospiti. Partiamo dal presupposto che forse hanno qualcosa da nascondere. Questo vale anche per Malin.

Annuirono tutti tranne Vanja. Stava sfogliando i documenti appena ricevuti. Poi alzò lo sguardo.

– Scusate, ma credo che questa ricerca debba aspettare.

Gli altri si voltarono verso di lei. Persino Sebastian. Vanja si compiacque di essere al centro dell’attenzione, e prima di continuare fece una pausa a effetto.

– Stavo pensando che l’arma utilizzata contro Roger è una calibro 22. Una classica arma da competizione, no?

Torkel la guardava impaziente.

– Sí?

– Ho appena ricevuto l’elenco dei membri del club di tiro a volo di Vasterås.

Fece una nuova pausa e non riuscí a trattenere un sorriso di soddisfazione mentre spostava lo sguardo dall’uno all’altro.

– Il nostro caro rettore Ragnar Groth è membro dal 1992. Un membro decisamente attivo.

Il club di tiro a volo si trovava a nord, nelle vicinanze dell’aeroporto. Era un edificio in legno che assomigliava a una baracca, un tempo di certo appartenuto all’esercito. Sembravano esserci pedane sia interne sia esterne, e mentre si avvicinavano Vanja, Sebastian e Billy udirono scoppi di armi da fuoco. Vanja aveva telefonato, parlando con il segretario del club che abitava nelle vicinanze e aveva promesso di passare di lí e rispondere a qualche domanda. Sulle scale uscí un uomo che diede loro il benvenuto. Aveva circa quarantacinque anni e indossava una camicia a maniche corte e un paio di jeans scoloriti. Assomigliava a un vecchio militare e si presentò come Ubbe Lindstrom. Entrarono insieme nella baracca e vennero pregati di accomodarsi nel modesto ufficio che faceva da segreteria e da magazzino.

– Ha detto che si tratta di uno dei nostri membri, – disse Ubbe sedendosi su una sedia da ufficio malandata.

– Sí, Ragnar Groth.

– Ragnar, sí. Un bravo tiratore. Ha vinto due volte il bronzo nel campionato nazionale –. Ubbe si diresse verso uno degli scaffali stracolmi, estrasse un raccoglitore logoro e lo aprí. Cercò tra una gran quantità di fogli prima di trovare quello giusto.

– Membro dal 1992. Perché vi interessa?

Billy ignorò la domanda.

– Tiene le sue armi qui al club?

– No, ce le ha a casa. Come tutti gli altri o quasi. Cosa ha fatto?

Lo ignorarono nuovamente. Questa volta parlò Vanja.

– Che tipo di armi possiede?

– Ne ha diverse. Sa, gareggia e va a caccia. Ha a che fare con quel ragazzo della sua scuola? Quello morto?

Era testardo, Ubbe. Sebastian si era già stancato della discussione e fece qualche passo fuori dall’ufficio. Non era necessario restare lí a ignorare le domande di Lindstrom. Billy gli lanciò un’occhiata mentre Vanja continuava.

– Sa se ha una calibro 22?

– Ha un Brno CZ 453 Varmint.

Ubbe aveva smesso di fare domande e aveva iniziato a rispondere. Era già qualcosa. Vanja annotò il modello sul blocco per gli appunti.

– Cos’era? Un Bruno…?

– Un Brno CZ. Un fucile da caccia, un’arma davvero bella. Voi cosa avete? Sig Sauer p225? Glock 17?

Vanja lo guardò: gli piaceva proprio concludere ogni risposta con un’altra domanda. Questa poteva passargliela.

– Sig Sauer. È l’unica calibro 22 a cui Ragnar ha accesso?

– A quanto ne so. Come mai? Al ragazzo hanno sparato?

Sebastian aveva preso per un corridoio piuttosto lungo e ben presto incappò in una sala riunioni con un bollitore per il caffè e un frigorifero grande e vecchio. Nella stanza troneggiavano due grandi vetrine piene di coppe e di medaglie. Davanti, alcune sedie senza pretese e dei tavoli coperti di bruciature di sigaretta che risalivano a un’epoca in cui gli uomini evidentemente non dovevano uscire per fumare. Sebastian vagò per la stanza. A uno dei tavoli era seduta una ragazzina di circa tredici anni, sola, davanti a una lattina di Coca-Cola e un dolce alla cannella. Scrutò Sebastian con lo sguardo asciutto tipico degli adolescenti. Sebastian le fece un rapido cenno e si diresse verso la vetrina con le coppe dorate. Era incantato dall’ostinazione con cui, in tutti gli sport, si premiavano le vittorie con coppe dorate assurdamente grosse. Era come se i giocatori avessero una bassissima autostima e avvertissero l’assoluta inutilità delle proprie prestazioni. Il modo di negare questa verità e mostrare al mondo l’importanza delle loro gesta si risolveva in una sovrabbondanza di coppe, enormi e pompose.

Alle pareti erano appese fotografie di tiratori singoli e in gruppo. Qua e là, alcuni manifesti e articoli di giornale incorniciati. Un classico locale da club. Sebastian osservò svogliatamente le immagini alle pareti. La maggior parte raffigurava uomini armati che, a gambe divaricate, sorridevano orgogliosi verso l’obiettivo. C’era qualcosa di ridicolmente vanesio in quei sorrisi, pensò. Era davvero cosí bello imbracciare quei fucili e reggere quelle coppe? Sentí lo sguardo della ragazzina sulla schiena e si voltò. Lei lo fissò di nuovo con aria severa. Poi arrivarono le prime parole.

– Cosa fai?

– Sto lavorando.

– A cosa?

Sebastian la guardò brevemente.

– Sono uno psicologo della polizia. Tu cosa fai?

– Tra poco mi devo allenare.

– Si comincia cosí presto?

La ragazzina ridacchiò.

– Non spariamo tra di noi.

– Non ancora… È divertente?

La ragazzina scrollò le spalle.

– Piú divertente che rincorrere uno stupido pallone. È divertente essere uno psicologo della polizia?

– Insomma. Preferirei sparare, come te.

La ragazzina lo guardò in silenzio e tornò al suo dolce. Evidentemente il discorso era chiuso. Sebastian si girò di nuovo verso la parete. I suoi occhi si soffermarono sull’immagine di sei uomini felici che attorniavano una di quelle coppe davvero troppo grandi. Sopra, una piccola etichetta dorata descriveva quell’istante come «Bronzo, campionato nazionale, 1999». Sebastian guardò piú da vicino, concentrandosi su uno di quei sei uomini. Era nell’angolo a sinistra e sembrava particolarmente entusiasta. Sorriso largo, parecchi denti. Sganciò la fotografia con fare risoluto e se ne andò.

Prima che Ursula lasciasse Rotevagen, lei e Sundstedt si erano sempre piú convinti che l’incendio nella casa di Peter Westin fosse di natura dolosa. Che fosse nato nella camera da letto era fuor di dubbio. Il muro dietro la testiera e il pavimento accanto riportavano chiari segni di un’esplosione. Una volta attecchito, il fuoco si era diffuso voracemente fino al soffitto, e in seguito allo scoppio dei vetri per via del calore era stato alimentato da altro ossigeno. Attorno al letto non c’era nulla che potesse spiegare uno sviluppo tanto rapido. Quando esaminarono il luogo piú da vicino trovarono tracce evidenti di un acceleratore. Quindi, incendio doloso. La vera causa della morte di Westin era ancora ignota, ma Sundstedt era riuscito a estrarre il corpo dalle macerie. C’erano volute alcune ore; prima, a partire dal piano inferiore, avevano dovuto mettere in sicurezza il pavimento danneggiato. Ursula si assicurò che il corpo venisse avvolto con cautela in un sacco di plastica, e decise di seguirlo al dipartimento di medicina legale per essere presente all’autopsia. Sundstedt promise di raggiungerla con il rapporto il prima possibile.

In medicina legale storsero un po’ il naso per la sua presenza, ma lei non se ne curò. Aveva deciso che questa volta avrebbe partecipato alle operazioni sin dall’inizio, per evitare di incorrere in ulteriori errori. Un confronto con la radiografia dentale che aveva richiesto stabilí subito che il corpo trovato nella villetta semicarbonizzata era davvero quello di Peter Westin; di conseguenza, le fu piuttosto chiaro che da un omicidio si era passati a due, e che ora avevano a che fare con un pluriomicida. Ursula sapeva che una persona capace di uccidere due volte poteva farlo una terza, e poi ancora. Sarebbe stato sempre piú semplice.

Telefonò a Torkel.

Billy e Vanja non riuscirono a cavare altro da Ubbe Lindstrom. Via via che procedevano nella conversazione, si era messo sempre piú sulla difensiva. Ma avevano ottenuto l’informazione piú importante: Ragnar Groth possedeva un’arma dello stesso calibro del proiettile che aveva ucciso Roger. Ubbe aveva cercato in ogni modo di sapere il motivo del loro interesse per uno dei membri piú fedeli e di maggior successo dell’associazione. Meno risposte riceveva, piú rispondeva in maniera sintetica e svogliata. Vanja intuí che probabilmente Ragnar Groth e Ubbe erano piú che semplici membri di un club: aveva la sensazione che fossero amici e temeva che, non appena fossero andati via, Ubbe Lindstrom avrebbe chiamato l’amico per raccontargli della loro visita.

– Lei sa che il porto d’armi va rinnovato ogni cinque anni, vero? Se dovessimo notare che la nostra conversazione confidenziale non rimarrà cosí confidenziale, be’… – Vanja lasciò la frase a metà.

– Che cosa vuole dire? – domandò il segretario del club stizzito. – Mi sta minacciando?

Billy gli sorrise.

– Vuol dire soltanto che questa conversazione deve rimanere tra noi. Giusto? – Gli occhi di Ubbe si incupirono e lui annuí, innervosito. In ogni caso era stato avvisato. Sebastian entrò rumorosamente nel locale.

– Un’altra cosa soltanto –. Posò la fotografia davanti a Ubbe e indicò con enfasi un punto. – Chi è questo? In fondo a sinistra?

Ubbe si chinò in avanti e osservò l’immagine. Billy e Vanja fecero appena in tempo a scorgere quell’uomo dall’ampio sorriso.

– Frank. Frank Clevén.

Sia Vanja sia Billy lo riconobbero immediatamente. La sua foto era appesa nel loro ufficio in commissariato. Certo, in quella fotografia il sorriso non era cosí ampio, ma non c’erano dubbi che fosse stato lui, Frank Clevén, a prenotare una stanza in quel motel da quattro soldi il venerdí precedente.

– È membro del club?

– Lo era. Si è trasferito dopo il campionato nazionale. Credo che abiti a Örebro. O Eskilstuna. È coinvolto anche lui?

– Nessuno è coinvolto. Tenga a mente ciò che ci siamo detti sul porto d’armi, – riprese Vanja in fretta, girando sui tacchi insieme agli altri. I tre si diressero all’auto molto piú velocemente del solito. Iniziava a essere una bella giornata.

Frank Clevén abitava in Larkvagen, a Eskilstuna. Al numero di casa, tuttavia, non rispose nessuno e secondo il servizio di informazioni telefoniche l’utente non disponeva di un telefono cellulare, o almeno non ne aveva uno registrato a suo nome. Dopo alcune ricerche Billy individuò il posto di lavoro di Frank: Costruzioni H&R. Lavorava come ingegnere edile e aveva un cellulare aziendale. Billy lo chiamò. Frank parve molto sorpreso di sentire che la polizia lo stava cercando, ma Billy sottolineò che si trattava soltanto di qualche domanda.

Che gli avrebbero posto volentieri lí dove si trovava.

Tra mezz’ora.

A dire il vero furono parecchio insistenti.

Quando ricevettero la chiamata di Billy, rimasto in commissariato, Vanja e Sebastian erano già a metà strada verso Eskilstuna. Billy lesse ad alta voce l’estratto dell’archivio su Frank Clevén, che non rivelava poi molto. 52 anni, sposato, tre figli, nato a Vastervik, trasferitosi in giovane età a Vasterås, diploma quadriennale di istituto tecnico, servizio militare presso l’artiglieria costiera a Gotland, licenza di porto sia di pistola che di fucile dalla fine del 1981, incensurato e senza nessuna ingiunzione di pagamento per debiti. Nulla a cui aggrapparsi. Tuttavia ebbero l’indirizzo.

Prima di arrivare a Eskilstuna svoltarono nel cantiere edile di un nuovo centro commerciale. Non aveva ancora l’aspetto di un futuro tempio per gli acquisti, si scorgevano soltanto le travi sporgenti che avrebbero retto le pareti e la grande base di cemento quasi finita. In lontananza si intravedevano alcuni operai occupati accanto a un grande macchinario giallo. Sebastian e Vanja avanzarono verso dei capanni poco distanti. Incontrarono quello che parve essere il capocantiere.

– Stiamo cercando Frank Clevén –. L’uomo annuí e indicò una delle baracche al centro.

– L’ultima volta che l’ho visto era lí.

– Grazie.

Vanja e Sebastian proseguirono.

Frank Clevén era uno di quelli che apparivano meglio dal vivo che in fotografia. Il volto aveva tratti marcati, anche se la pelle era piuttosto rovinata dal tempo passato all’aria aperta. Gli occhi svegli, da fumatore di Marlboro, li osservarono mentre stringeva loro la mano. Il sorriso ampio della foto al club non comparve una sola volta durante la conversazione. Propose di andare nel suo ufficetto in una delle altre baracche, dove avrebbero potuto parlare indisturbati. Vanja e Sebastian lo seguirono, e a Vanja parve di vedere le sue spalle farsi sempre piú pesanti a ogni passo che muoveva sulla ghiaia scricchiolante. Erano sulla strada giusta, se lo sentiva.

Clevén aprí la porta e li pregò di accomodarsi. Varcando la soglia della baracca videro la grigia luce del giorno filtrare da due finestre bianche e polverose. C’era un odore pungente di acido tannico. Una macchina per il caffè accesa era situata all’ingresso, che metteva in comunicazione due piccoli locali. Quello di Clevén era il primo. I soli mobili presenti erano una scrivania completamente anonima con sopra disegni in quantità e alcune sedie. Le pareti erano spoglie, all’infuori di vecchie tracce di nastro adesivo e di un calendario di una catena di alimentari dell’anno passato. Clevén guardò i poliziotti che, nonostante fossero stati pregati di accomodarsi, erano ancora in piedi. Li imitò.

– Non ho molto tempo, dovrà essere una cosa rapida –. Clevén cercò di mantenere la voce calma, ma non ci riuscí. Sebastian si accorse che il suo labbro superiore si stava imperlando. E la stanza non era calda.

– Abbiamo tutto il tempo del mondo e quanto ci impiegheremo dipenderà da lei, – disse Sebastian, per sottolineare che quella conversazione non si sarebbe svolta alle sue condizioni.

– Non capisco nemmeno perché siate qui. Il vostro collega mi ha solo detto che dovevate parlarmi.

– Se si mette comodo, la mia collega potrà iniziare –. Sebastian guardò Vanja che annuí, ma aspettò che Clevén si sedesse. Dopo un breve silenzio l’uomo decise di andare loro incontro. Si sedette. Sul bordo della sedia. Come sulle spine.

– Può dirci perché ha pernottato in un motel di Vasterås lo scorso venerdí?

Li guardò.

– Non ho pernottato in nessun motel lo scorso venerdí. Chi ve l’ha detto?

– Lo diciamo noi.

Vanja tacque. Normalmente la gente iniziava a parlare quando veniva messa di fronte ai fatti. Non sarebbero andati fino a Eskilstuna se non fossero stati certi di quell’informazione. L’alternativa era confermare o sostenere il contrario. Oppure si poteva prendere un’altra strada. Tacere. Clevén scelse la terza alternativa. Spostò lo sguardo da Vanja a Sebastian senza dire una parola. Vanja sospirò e si chinò in avanti.

– Chi ha incontrato? Cosa ci faceva lí?

– Non sono stato lí, ve l’ho detto –. Nei suoi occhi uno sguardo quasi supplice. – Dovete aver sbagliato persona.

Vanja abbassò lo sguardo sui propri fogli, annuendo tra sé. La tirava per le lunghe. Sebastian non gli tolse gli occhi di dosso. Clevén si umettò le labbra come se fossero secche. Una goccia di sudore si insinuò sulla fronte. Eppure nella stanza continuava a non fare caldo.

– Lei non è Frank Clevén, codice fiscale 580518? – domandò Vanja in tono neutrale.

– Sí.

– Non è stato lei a pagare con la sua carta di credito 779 corone per una stanza, venerdí scorso?

Clevén impallidí.

– L’hanno rubata. Mi hanno rubato la carta.

– Rubata? Ha sporto denuncia? Se sí, quando?

Lui tacque, il suo cervello stava lavorando a gran velocità. La goccia di sudore corse lungo la guancia notevolmente impallidita.

– Non ho sporto denuncia.

– L’ha bloccata?

– Me ne sono dimenticato, non so…

– Andiamo, vuole davvero farci credere che la sua carta è stata rubata?

Nessuna risposta. Vanja sentí che per Frank Clevén era giunto il momento di prendere atto della sua pessima situazione.

– Questa è un’indagine per omicidio. Ciò significa che analizzeremo fino in fondo tutte le informazioni che ci comunicherà. Quindi glielo richiedo: lo scorso venerdí lei era in un motel di Vasterås, sí o no?

Clevén parve quasi scioccato.

– Indagine per omicidio?

– Sí.

– Ma io non ho ucciso nessuno.

– Cosa ha fatto, allora?

– Niente. Non ho fatto niente.

– Lei era a Vasterås la notte dell’omicidio e sta mentendo. Alle mie orecchie questo suona un po’ sospetto.

Clevén trasalí, il suo corpo si stava contorcendo. Aveva difficoltà a tenere lo sguardo fermo sui due poliziotti seduti di fronte a lui. Sebastian si alzò con impeto.

– Non ha importanza. Vado a casa sua per vedere se sua moglie sa qualcosa. Tu resti qui con lui?

Vanja annuí e guardò l’uomo che, bianco in volto, fissava Sebastian che lentamente si stava dirigendo alla porta.

– Lei non sa niente, – disse infine.

– No, forse no, ma di certo saprà se quella sera era a casa oppure no. Le mogli sono straordinariamente precise al riguardo –. Con un sorriso a trentadue denti, Sebastian mostrò quanto il solo pensiero di andare dalla moglie e dai figli di Clevén per porre loro quella domanda lo mettesse di buonumore.

Riuscí a fare solo alcuni passi verso la porta prima che Clevén lo fermasse.

– Okay, ero al motel.

– Bene.

– Ma mia moglie non sa niente.

– No, l’ha già detto. Chi ha incontrato?

Nessuna risposta.

– Chi ha incontrato? Possiamo restare qui tutto il giorno. Possiamo chiamare un’auto della polizia che verrà a prenderla con le manette. Dipende da lei. Ma una cosa è certa, alla fine lo scopriremo.

– Non posso dire con chi ero. Non posso. Sarà già abbastanza brutto per me, se verrà fuori, ma per lui…

– Lui?

Frank tacque e annuí, imbarazzato. D’un tratto Sebastian vide tutto chiaramente.

Il club di tiro a volo.

Lo sguardo turbato di Frank.

Il liceo Palmlovska, luogo di menzogne.

– Ha incontrato Ragnar Groth, non è cosí?

Frank annuí lentamente.

Il suo sguardo cadde a terra.

Il suo mondo anche.

Al ritorno, Sebastian e Vanja erano quasi euforici.

Frank Clevén e Ragnar Groth avevano avuto una relazione per un lungo periodo. Si erano incontrati al club di tiro a volo quattordici anni prima. In un primo momento timorosi, in seguito completamente travolti. Sopraffatti. Clevén si era persino allontanato da Vasterås per cercare di porre fine a una cosa di cui si vergognava moltissimo. Era sposato. Aveva dei figli. Non era omosessuale. Ma non era riuscito a trattenersi. Era come un veleno.

Il godimento.

Il sesso.

La vergogna.

Un circolo vizioso. Avevano continuato a vedersi. Era sempre Groth che lo chiamava per un incontro, ma lui non rifiutava mai. Desiderava quegli incontri. Mai a casa di Groth. Il motel era diventato la loro oasi. Quella stanza a basso costo. Quei letti molli. Era Clevén che prenotava e pagava. Doveva trovare delle motivazioni. Era sempre riuscito a tenere a bada i sospetti della moglie. Era piú facile quando non si fermava lí a dormire. Tornare a casa tardi era piú semplice che non tornare affatto. Sí, si erano visti quel venerdí. Attorno alle quattro del pomeriggio. Aveva trovato Groth insaziabile, come sempre. Cléven aveva lasciato il motel non prima delle dieci. Groth se n’era andato una mezz’ora scarsa prima di lui.

Subito dopo le nove e mezzo.

Alla stessa ora in cui probabilmente Roger era passato accanto all’edificio.

 

 

I cinque avvertivano che la soluzione si stava avvicinando, la riconobbero e la accolsero. La sentivano nell’aria a ogni passo che facevano, come quando un’indagine prendeva un nuovo slancio e, nel migliore dei casi, se ne vedeva la fine. Per parecchi giorni tutti gli indizi e i vari spunti avevano portato in fondo a vicoli ciechi, ma l’appuntamento galante di Ragnar Groth nel motel aveva aggiunto nuove tessere al puzzle. Tessere che sembravano incastrarsi alla perfezione.

– Dunque il rettore di un liceo dagli ideali e dai valori cristiani è omosessuale –. Torkel osservò la sua squadra. Negli sguardi che incrociò percepí una nuova energia. – Non è troppo azzardare che fosse pronto a spingersi molto lontano per nascondere il suo segreto.

– Uccidere qualcuno non è spingersi molto lontano, è spingersi al di là del bene e del male –. Era Ursula. Sembrava stanca, pensò Torkel. Certo, era stata occupata tutto il giorno con l’incendio e il presunto omicidio di Westin, ma Torkel non poté fare a meno di domandarsi se avesse dormito male come lui.

– Non era previsto che ci scappasse il morto –. Sebastian si chinò in avanti e afferrò una pera dal cesto della frutta, dandole un gran morso.

– Stiamo partendo dal presupposto che la persona che ha ucciso Roger Eriksson abbia ucciso anche Peter Westin? – chiese Ursula. – O c’è qualcuno che la crede una coincidenza?

– No, ma insisto nel dire che l’omicidio di Roger non è stato pianificato –. Difficile distinguere le parole, con mezza pera in bocca. Sebastian stette alcuni secondi a masticare e deglutire. Poi ricominciò da capo.

– Insisto nel dire che l’omicidio di Roger non era previsto. In compenso abbiamo a che fare con una persona che, consapevolmente e sistematicamente, fa di tutto per apparire incolpevole.

– Quindi l’omicidio di Roger può essere stato un incidente, ma l’assassino è pronto a uccidere a sangue freddo affinché nessuno lo scopra?

– Sí.

– Che nesso ci può essere? – domandò Billy. – Nella sua testa, voglio dire.

– È probabile che si veda come una persona importante. Non necessariamente di per sé. Forse pensa che qualcuno potrebbe essere danneggiato dal suo arresto, potrebbe soffrire a causa sua. Forse ricopre un ruolo che crede di essere il solo a poter gestire, oppure ha un incarico che deve portare a termine. A ogni costo.

– Il rettore del Palmlovska è un tipo del genere? – Fu Vanja a porre la domanda. Sebastian scrollò le spalle. Non poteva dare un giudizio su Ragnar Groth in base ai due brevi incontri che avevano avuto, ma non poteva nemmeno escluderlo. Il suo attaccamento alla scuola lo aveva già portato a non sporgere una denuncia alla polizia. Era disposto a spingersi oltre? Certo. A qualsiasi costo? Questo era da vedere. Sebastian lasciava il finale aperto.

– Potrebbe.

– Sappiamo se Ragnar Groth fosse a conoscenza delle visite di Roger a Westin? – Ursula, comprensibilmente, si teneva sulla pista che considerava il legame fra le due morti.

– Sí, per forza –. Billy si guardò attorno, come per ottenere conferma. – Westin era stato ingaggiato dalla scuola, faceva rapporto sui ragazzi che usufruivano del suo aiuto. Andava pagato.

– Dobbiamo scoprirlo –. Torkel interruppe la conversazione prima che l’entusiasmo ritrovato fornisse le risposte anche alle domande che ancora non avevano posto. In quella fase dell’indagine la smania di far combaciare ogni tessera era forte, ma dovevano andare avanti. Analizzare quello che sapevano, quello che era possibile o probabile e quello che ancora ignoravano.

– Sebastian e Vanja hanno costruito uno scenario. Noi ne prendiamo atto e cerchiamo di individuare i punti in cui i fatti o le dimostrazioni tecniche non coincidono, okay?

Annuirono tutti. Torkel si voltò verso Sebastian, che fece un breve cenno con la mano per dare la parola a Vanja. Lei annuí, gettò un’occhiata ai propri fogli e iniziò a parlare.

– Immaginiamo che…

«… Roger sta andando verso il motel. È arrabbiato e giú di morale dopo l’incontro con Leo Lundin. Con il viso imbrattato di sangue, depresso, si asciuga le lacrime con la manica della giacca. Attraversa lo spiazzo davanti al motel, per incontrare la persona con cui ha appuntamento. All’improvviso si ferma. Un movimento proveniente da una delle camere attira la sua attenzione. Alza lo sguardo e scorge il rettore. Ragnar fa per allontanarsi dalla porta della stanza che ha appena lasciato, ma una mano lo tira indietro. Un uomo che Roger non conosce spunta dalla soglia della porta, si china in avanti e bacia Ragnar sulla bocca. All’inizio Ragnar sembra voler protestare ma in seguito, mentre Roger si ritira nell’oscurità, si lascia andare e ricambia il bacio. Quando finiscono e la porta della stanza si richiude, Ragnar si guarda attorno con circospezione.

– Fermo restando che Roger debba incontrare qualcuno al motel, ora i suoi piani cambiano completamente –. Vanja si voltò verso Sebastian, che si alzò e iniziò a camminare su e giú riprendendo il discorso.

– Roger si dirige di nascosto verso il parcheggio…

«… e quando Ragnar raggiunge la propria auto, Roger è lí che lo aspetta. Un sorriso di superiorità sulle labbra. Lo affronta dicendogli ciò che ha appena visto. Ragnar nega, ma Roger insiste. Se non è successo niente, allora non sarà un problema dirlo in giro, no? Roger lo vede cercare febbrilmente una soluzione. Lo guarda e gode. Dopo l’incontro con Leo, gli sembra bello avere il sopravvento per qualche istante; vedere Ragnar sudare; vedere qualcun altro soffrire, per una volta; essere il piú forte. Roger spiega che potrà certamente tacere le avventure amorose del rettore, ma non gli costerà poco. Vuole dei soldi. Molti soldi. Ragnar rifiuta. Roger scrolla le spalle, in tal caso sarà sputtanato su Facebook nel giro di un quarto d’ora. Ragnar capisce di essere prossimo alla catastrofe. Roger si volta per andarsene. Il parcheggio è vuoto. Male illuminato. Quando gli rivolge la schiena, Roger non ha calcolato quanto Ragnar abbia da difendere. Ragnar lo colpisce e Roger cade a terra.

«Non piove da un pezzo. Dovremmo recarci nel parcheggio fuori dal motel per controllare se ci sono delle tracce –. Ursula annuí e lo annotò sul blocco che aveva davanti. Non era davvero caduta che qualche goccia di pioggia da quando avevano trovato il cadavere di Roger, ma sperare di rinvenire delle prove in un’area di sosta cosí frequentata, a quasi una settimana da un ipotetico crimine, voleva dire peccare di ottimismo. Ci avrebbe fatto un salto comunque. Forse il ragazzo o il rettore avevano perso qualcosa.

Sebastian guardò Vanja che, di nuovo, lanciò un’occhiata furtiva alle sue carte prima di riprendere la parola. Torkel restò in silenzio, non solo perché l’ipotesi che si andava formando avrebbe potuto trovare conferma. Sebastian lasciava a Vanja parte della scena. Normalmente c’era posto per una persona soltanto sotto il sole di Sebastian. Non dava spazio ad altri. Vanja doveva aver svolto un ottimo lavoro.

– Con una certa difficoltà, Ragnar trascina Roger in auto…

«… Non era sua intenzione uccidere il ragazzo, ma non poteva permettergli di andarsene cosí. Di raccontare tutto. Di rovinare tutto. Dovevano giungere a un compromesso accettabile per entrambi. Parlarne da adulti, razionalmente. Ragnar guida senza meta in quartieri sempre piú deserti, sudato e irrequieto, con il ragazzo privo di sensi accanto a sé. Riflette su come tirarsi fuori da quella situazione, su cosa dire a Roger quando riprenderà i sensi. Non appena il ragazzo si sveglia, Ragnar cerca di riprendere il controllo di quell’incubo, ma non fa nemmeno in tempo a iniziare il suo discorso razionale e conciliante: Roger si getta su di lui. Lo colpisce forsennatamente. Ragnar è costretto a frenare. L’auto procede a zig zag fino al ciglio della strada, si ferma, e i tentativi di Ragnar di tranquillizzare il ragazzo falliscono. Non si accontenterà di far sapere a tutti che si scopa altri uomini, lo denuncerà per maltrattamenti e sequestro di persona. Ragnar non ha nemmeno il tempo di reagire, perché Roger apre la portiera e si fionda fuori. Infuriato, inizia a camminare lungo la strada poco illuminata cercando di orientarsi. Dove sono finiti? Dove lo ha portato quel pazzo? L’adrenalina gli scorre nelle vene, zittendo la sua vera paura. I fari dell’auto gettano lunghe ombre davanti a lui. Ragnar esce dall’auto, lo chiama, ma in risposta riceve soltanto un dito medio alzato. Ragnar è disperato. Vede la sua vita andare in mille pezzi. Il ragazzo deve essere fermato. Non pensa, agisce d’istinto. Corre sul retro della macchina, apre il bagagliaio e afferra il fucile con cui si allena. Lo imbraccia rapidamente e con destrezza, punta il mirino sul ragazzo in fuga e spara. Roger cade.

«Non passa un secondo prima che Ragnar si accorga di ciò che ha appena fatto. Si guarda attorno, scioccato. Non arriva nessuno. Nessuno nei paraggi. Nessuno che abbia visto o sentito. Ha ancora una possibilità di farla franca. Di sopravvivere.

«Ragnar si precipita sul ragazzo e alla luce dei fari, vedendo tutto quel sangue fuoriuscire dal foro del proiettile sulla schiena, capisce due cose.

«Il ragazzo è morto.

«La pallottola è come un’impronta digitale.

«Afferra Roger e lo trascina via dalla strada, tra i cespugli. Prende un coltello dall’auto, si posiziona a gambe divaricate sul giovane a terra e scopre il foro del proiettile. Senza pensarci davvero, agendo meccanicamente, Ragnar squarcia il cuore ed estrae la pallottola. Quasi meravigliato, osserva il piccolo frammento di metallo insanguinato che ha causato un simile danno. Poi guarda il corpo sotto di sé. Certo, la pallottola non c’è piú, ma sarebbe meglio nascondere del tutto la ferita da arma da fuoco. Farla sembrare una serie di pugnalate. L’istinto di sopravvivenza ha il sopravvento e Ragnar inizia a colpire furibondo con il coltello.

«Dopodiché rimette Roger in macchina e guida fino a Listakarr, lo butta in uno stagno e il resto lo sappiamo…

Sebastian e Vanja avevano finito. Era stata una ricostruzione molto vivida. Certo, condita di pensieri ed emozioni immaginate, ma si trattava comunque di una descrizione che alle orecchie di Torkel suonava plausibile. Si guardò attorno nella stanza, si tolse gli occhiali e li ripose.

– A questo punto, credo che faremo ancora due chiacchiere con Ragnar Groth.

– No, no e no, non è affatto andata cosí.

Ragnar Groth scosse il capo, si chinò in avanti sulla sedia e distese le mani curate in un gesto di protezione; una debole scia di Hugo Boss raggiunse Vanja dall’altra parte del tavolo. Lo stesso dopobarba di Jonathan, pensò distrattamente, forse l’unica cosa che avevano in comune quei due. Vanja aveva appena esposto la loro teoria sulla sera del delitto, e cioè che Ragnar aveva incontrato Roger fuori del motel, dove probabilmente era scoppiata una lite. Un’affermazione che aveva provocato la negazione decisa del rettore.

– Allora come è andata?

– Non è andata del tutto. Non ho mai incontrato Roger quel venerdí sera, ve l’ho già detto.

L’aveva detto nemmeno un’ora prima, quando erano andati a prenderlo a scuola. Quando Vanja e Billy si erano presentati nel suo ufficio era parso stanco e irritato, ma la stanchezza era scomparsa nello stesso istante in cui gli avevano comunicato la loro richiesta, lasciando il posto a una stizzita incredulità. Non credevano davvero che fosse in qualche modo coinvolto in quel tragico evento? Tuttavia, quando lo avevano pregato di seguirli in commissariato per un colloquio, aveva capito che era proprio cosí. Groth aveva chiesto se fosse in stato di fermo, arrestato o altro, ma Vanja gli aveva assicurato che si trattava soltanto di una chiacchierata. Il rettore aveva domandato se quella chiacchierata non poteva svolgersi nel suo ufficio, come le due volte precedenti, ma Vanja aveva insistito affinché questa volta avesse luogo in commissariato. C’era voluto del tempo per ovviare alle formalità che una cosa semplice quanto lasciare l’ufficio e la scuola implicavano. Groth era stato molto attento a far sí che non sembrasse un arresto e Vanja lo aveva rassicurato. Non avrebbero utilizzato le manette, non c’era nessun agente in divisa ad aspettarlo e si sarebbe potuto sedere al posto del passeggero. Gli aveva addirittura fornito una scusa quando uno dei suoi colleghi gli aveva chiesto dove stesse andando: in commissariato era necessaria la presenza di Ragnar Groth per l’identificazione di alcuni giovani in certi filmati della videosorveglianza. Il rettore l’aveva ringraziata per l’aiuto quando, uscendo, erano passati sotto l’immagine gigantesca di Cristo sulla facciata della scuola.

In una delle tre sale per gli interrogatori Groth aveva rifiutato, nell’ordine, caffè, acqua, caramelle Lakerol e la presenza di un avvocato. Aveva salutato Torkel, dopodiché i tre si erano seduti, Vanja e Torkel da una parte e Groth dall’altra. Prima di appoggiare i gomiti aveva sommariamente ripulito, con un fazzoletto, la superficie del tavolo macchiata.

– Che cos’è quello? – aveva domandato vedendo Vanja estrarre un auricolare.

– Questo? – Vanja sollevò l’auricolare e Groth annuí. – È un auricolare.

– Chi ci sta ascoltando?

Vanja scelse di non rispondere e indossò l’auricolare senza dire una parola. Groth si voltò e fissò lo specchio alla parete, un po’ troppo grande.

– C’è Bergman lí dietro? – Non riuscí a trattenere una nota di puro disgusto. Vanja scelse di nuovo di non rispondere, ma il rettore aveva visto giusto. Nella stanzetta accanto Sebastian stava assistendo all’interrogatorio; se necessario, avrebbe trasmesso a Vanja alcuni brevi commenti. Insieme, avevano deciso che Sebastian non avrebbe presenziato. Sarebbe stato già abbastanza difficile far sí che Ragnar Groth, cosí controllato, si lasciasse andare, senza che ci fosse Sebastian a provocarlo.

Vanja accese il registratore sul tavolo, scandí ad alta voce luogo e ora dell’interrogatorio, dopodiché illustrò come, grazie alle videocamere di sorveglianza, avessero seguito Roger, concludendo che Ragnar Groth si era imbattuto nel ragazzo fuori del motel. All’inizio il rettore ascoltò senza muovere un muscolo. Ebbe una prima reazione quando sentí nominare il motel. In seguito scosse il capo in silenzio, incrociando le braccia sul petto e reclinandosi all’indietro. Atteggiamento che mostrava chiaramente una presa di distanza.

Da Vanja.

Da ciò che diceva.

Da tutta la situazione.

Solo quando Vanja ebbe finito, si curvò in avanti distendendo le mani.

– No, no e no. Non è affatto andata cosí.

– Allora come è andata?

– Non è proprio andata. Non ho mai incontrato Roger quel venerdí sera, ve l’ho già detto.

– Ma si trovava al motel a quell’ora? – Nella sala accanto Sebastian annuí tra sé. Avevano in mano un orario e un luogo, ed era evidente che la cosa lo disturbava.

Molto.

Tanto che non rispose nemmeno alla domanda di Vanja. Naturalmente lei non si arrese.

– La domanda era retorica, sappiamo che si trovava al motel attorno alle nove e mezzo di venerdí.

– Ma non ho mai incontrato Roger.

– Chiedigli di Frank, – suggerí Sebastian. Dall’altra parte, vide Vanja illuminarsi e gettare una rapida occhiata allo specchio. Sebastian annuí a mo’ di conferma, come se lei lo potesse vedere. Vanja si chinò in avanti sul tavolo.

– Ci racconti di Frank Clevén.

Groth non rispose subito. Prese tempo, tirando giú le maniche della camicia sotto quelle della giacca, di modo che fuoriuscissero entrambe perfettamente di un centimetro e mezzo. Poi indietreggiò con il busto e osservò con calma Vanja e Torkel.

– È un vecchio amico del club di tiro a volo. Ci vediamo di tanto in tanto.

– Per fare cosa? – Fu Torkel a domandarglielo. Groth rivolse l’attenzione a lui.

– Per parlare di ricordi. Come forse saprete, abbiamo vinto il bronzo nel campionato nazionale. Di solito ci prendiamo un bicchiere di vino e a volte giochiamo a carte.

– Perché non vi incontrate a casa sua?

– Spesso ci vediamo quando Frank è di ritorno da qualche viaggio. Il motel si trova in una posizione piú comoda.

– Sappiamo che lei e Frank Clevén vi siete incontrati nel motel per fare sesso.

Groth si voltò verso Vanja, e per qualche secondo sembrò disgustato al solo udire quella frase. Si sporse in avanti senza abbassare lo sguardo.

– E, se posso domandarlo, come lo sapete?

– Ce l’ha detto Frank Clevén.

– Ha mentito.

– È sposato e ha tre figli. Perché dovrebbe mentire affermando di essere andato a Vasterås per fare sesso con un uomo?

– Non lo so, questo dovete chiederlo a lui.

– Non siete buoni amici?

– Lo credevo, ma ora inizio a dubitarne.

– Abbiamo le prove che lei era al motel.

– Sí, ero lí. Ho incontrato Frank, non lo nego. Quello che nego fermamente è di aver avuto un rapporto sessuale con lui e di aver incontrato Roger Eriksson quella sera.

Vanja e Torkel si scambiarono una rapida occhiata. Ragnar Groth era abile. Confessava ciò doveva e negava tutto il resto. L’avevano fermato troppo presto? In effetti non avevano che qualche indizio. Incontri amorosi segreti, l’appartenenza al club di tiro a volo, una reputazione da difendere. C’era bisogno di altro?

Nella stanza accanto, Sebastian pensava la stessa cosa. Groth era un uomo dai chiari, se non gravi, disturbi psichici, come dimostravano la sua pignoleria e i suoi gesti compulsivi. Con gli anni doveva aver sviluppato un profondo e quasi impenetrabile meccanismo di difesa, per proteggersi da azioni che lui stesso considerava deprecabili. Sebastian percepiva come Ragnar Groth fosse in grado di valutare vantaggi e svantaggi di una situazione; una volta presa una decisione, plasmava la realtà. La sua decisione diventava la verità. Di certo non considerava una menzogna sostenere che lui e Frank Clevén non avessero fatto sesso nella stanza del motel. Ci credeva davvero. Probabilmente ci sarebbero volute delle prove concrete affinché confessasse. Prove che loro non avevano.

– Peter Westin?

Fu Vanja a imboccare un’altra strada.

– Cosa volete sapere a riguardo?

– Lo conosce?

– La scuola ha un accordo con il suo studio, sí. Cosa c’entra questo?

– Sa dove abita?

– No, non ci frequentiamo privatamente –. A Groth venne un’idea e si chinò in avanti sul tavolo. – Volete che ammetta di avere una relazione anche con lui?

– Ce l’ha?

– No.

– Dove si trovava questa mattina alle quattro?

– Ero a casa a dormire. È davvero una brutta abitudine, sa, cercare di dormire un po’ a quell’ora. Perché me lo domandate?

Sarcasmo. Nella stanza accanto Sebastian sospirò. Groth aveva riacquistato sicurezza. Si era accorto che non avevano indizi sufficienti. Non sarebbero arrivati a nulla. Torkel cercò comunque di salvare il salvabile.

– Dovremmo dare un’occhiata alle sue armi.

– Per quale motivo? – Lo stupore era autentico. Vanja imprecò tra sé. Erano riusciti a tenere all’oscuro la stampa. Nessuno, oltre all’assassino, sapeva che Roger era stato colpito da un’arma da fuoco. Se Groth avesse considerato la loro richiesta come del tutto irregolare o, meglio ancora, si fosse opposto, sarebbe stato meglio.

– Perché no?

– Non capisco il motivo. Al ragazzo non hanno sparato, no? – chiese spostando lo sguardo da Vanja a Torkel. Nessuno dei due aveva intenzione di confermare o smentire.

– Si oppone alla nostra richiesta?

– Nient’affatto. Prendete quelle che volete, per quanto tempo volete.

– Vorremmo dare anche un’occhiata al suo appartamento.

– Abito in una villa.

– Allora vorremmo dare anche un’occhiata alla sua villa.

– Non dovete avere un qualche mandato del tribunale?

– Sí, se non otteniamo il permesso dal proprietario è sufficiente farne richiesta al magistrato –. Vanja capí che non potevano aspettarsi nessun’altra reazione dal rettore, cosí optò per una minaccia ammantata di cortesia.

– Sa, per ottenere un mandato bisogna coinvolgere un certo numero di persone. Piú sono, piú aumenta il rischio che l’informazione trapeli.

Dal suo sguardo, Vanja capí che Ragnar Groth aveva immediatamente captato la nota falsa della sua cortesia, recependo per intero la minaccia.

– Certo. Esaminate quello che volete. Prima vi renderete conto che non ho fatto nulla a Roger, meglio sarà –. Vanja ebbe l’impressione che quella sarebbe stata l’ultima dimostrazione di disponibilità del rettore.

– Ha un cellulare?

– Sí. Volete vederlo?

– Sí, grazie.

– Si trova nel cassetto superiore della scrivania del mio studio. Ci andrete subito?

– Presto.

Ragnar Groth si alzò in piedi. Vanja e Torkel rimasero fermi, ma il rettore si limitò a infilare la mano nella tasca dei pantaloni per estrarre un piccolo portachiavi. Tre chiavi. Le posò sul tavolo e le spinse piano verso Vanja.

– La chiave della vetrina delle armi si trova nello sgabuzzino a destra. Devo insistere affinché siate discreti. Voglio sperare che non si presentino agenti in uniforme o auto della polizia. Ho una reputazione nel quartiere.

– Faremo del nostro meglio.

– Lo spero –. Il rettore si sedette di nuovo, chinandosi comodamente all’indietro e incrociando le braccia sul petto. Vanja e Torkel si scambiarono un’occhiata. Poi Vanja guardò rapidamente lo specchio. Sebastian portò il trasmettitore alla bocca.

– Non ricaveremo altro.

Vanja annuí tra sé, scandí ad alta voce l’ora, si sporse in avanti e spense il registratore. Incontrò lo sguardo di Torkel e capí che pensavano la stessa cosa.

L’avevano fermato troppo presto.

 

 

A voler essere pignoli Ragnar Groth non abitava in una villa, bensí in una villetta a schiera. Il garage era in comune con il vicino. Individuare la casa non fu un problema. Vedendola, sia Billy sia Ursula la riconobbero istintivamente. La casa del rettore era la piú pulita.

La ghiaia lasciata dai mezzi spargisabbia l’inverno precedente era stata accuratamente rimossa dalla strada e dal marciapiede ai margini del giardino. Nel garage ogni attrezzo era appeso, allineato in un ordine impeccabile. Nell’avvicinarsi, Billy e Ursula notarono che sul vialetto e sul prato non c’era nemmeno una foglia secca. Giunti alla porta d’ingresso, Ursula passò un dito sul davanzale della finestra piú vicina e lo alzò verso Billy: pulito.

– Occuparsi di tutto questo deve portargli via un sacco di tempo, – constatò. Billy infilò la chiave nella serratura, aprí ed entrò.

La casa era piuttosto piccola, 92 metri quadri divisi su due piani. Entrarono in un vestibolo stretto che terminava davanti a una scala. Ai lati, due porte e due passaggi ad arco. Billy accese la lampada all’ingresso e i due si scambiarono un’occhiata. Senza dire una parola, si chinarono e si tolsero le scarpe. Non erano soliti farlo nel perlustrare le abitazioni, ma in quella casa camminare con le scarpe ai piedi pareva un atto quasi blasfemo. Le lasciarono sul tappetino all’ingresso, benché sul ripiano per le scarpe sotto l’appendiabiti, a destra della porta, ci fosse posto. Sullo scaffale in alto era riposto un cappello e su una gruccia era appeso un soprabito. In basso, un paio di scarpe. Lucide. Non una macchia d’erba o di fango. C’era odore di pulito. Non di detersivo, piuttosto di… pulito. A Ursula venne in mente una casa di nuova costruzione che lei e Mikael avevano visitato diversi anni prima. Aveva quello stesso odore.

Impersonale.

Di disabitato.

Ursula e Billy fecero qualche passo e ognuno aprí una porta. Quella sulla destra era un guardaroba, quella a sinistra portava al bagno del pianoterra. Una rapida ispezione rivelò che entrambi i locali erano ugualmente impeccabili, puliti e ordinati come ogni altra cosa nella vita del rettore. Il resto del pianoterra non faceva eccezione. L’arco sulla destra dava su un piccolo soggiorno arredato con gusto. Di fronte a un divano con tavolino coordinato, una libreria occupata per metà da libri e per metà da dischi in vinile. Musica jazz e classica. Al centro della libreria si trovava un giradischi. Il rettore non aveva la tv. Almeno non nel soggiorno.

L’arco sulla sinistra dava invece su una cucina immacolata e smagliante. I coltelli sistemati con cura su una sbarra magnetica alla parete. Un bollitore sul ripiano. Sale e pepe sul tavolo. Per il resto le superfici erano sgombre. Tirate a lucido.

Salirono la scala. Sbucava su un piccolo pianerottolo quadrato con tre porte. Un bagno, una camera da letto e uno studio. Dietro l’imponente scrivania di quercia scura, nello studio, le armi erano appese e richiuse in un mobile per armi omologato. Billy si voltò verso Ursula.

– Su o giú?

– Non importa. Tu cosa preferisci?

– Io posso andare di sotto, cosí tu potrai guardare le armi.

– Okay. Il primo che finisce si occupa del garage e dell’auto, okay?

– Affare fatto –. Billy annuí e tornò di nuovo al pianoterra. Ursula si infilò nello studio.

Fu solo quando Vanja abbracciò suo padre che sentí la differenza. Prima e dopo. Aveva perso qualche chilo, ma non era soltanto quello. Gli abbracci degli ultimi mesi erano stati carichi di un vibrante timore per la fragilità della vita, di una tenerezza disperata, data dalla consapevolezza che ogni contatto poteva essere l’ultimo. Ma alle buone notizie dei medici d’un tratto gli abbracci avevano acquistato un significato diverso. La scienza aveva prolungato i tempi del loro viaggio, salvandoli dall’abisso in cui negli ultimi tempi era sprofondata la loro relazione. Ora i loro abbracci erano la promessa di un futuro possibile. Valdemar le sorrise. I suoi occhi verdeazzurri erano piú vispi di quanto non fossero da tempo, benché lucidi per via delle lacrime di gioia.

– Mi sei mancata cosí tanto.

– Anche tu, papà.

Valdemar le accarezzò una guancia.

– È cosí strano, ho l’impressione che ogni cosa sia una novità. Come se fosse la prima volta.

Vanja lo guardò calma.

– Ti capisco, ti capisco, – disse facendo qualche passo indietro. Non aveva nessuna voglia di restare nella hall dell’albergo a piangere. Fece un ampio gesto verso la finestra che dava sul tramonto.

– Facciamo una passeggiata. Puoi mostrarmi un po’ Vasterås.

– Io? Non vengo qui da un’eternità.

– Conosci la città meglio di me. Non ci hai vissuto per qualche tempo? – Valdemar ridacchiò, afferrò sua figlia per un braccio e insieme si diressero verso le porte scorrevoli.

– È stato mille anni fa, avevo ventun anni e avevo appena ottenuto il mio primo lavoro all’Asea, la compagnia elettrica.

– Sai molte cose piú di me. Io conosco soltanto l’albergo, il commissariato e i luoghi delle indagini.

Si incamminarono. Parlarono dell’epoca in cui Valdemar era un giovane pieno di speranze, un ingegnere neolaureato che abitava a Vasterås. Entrambi godevano di quel momento e delle chiacchiere che per la prima volta da mesi erano soltanto chiacchiere, e non un modo per sfuggire all’idea fissa che occupava i loro pensieri giorno e notte.

Il buio calava lentamente sulla città. Il tempo si era guastato e aveva cominciato a scendere una pioggerella leggera, ma mentre camminavano uno accanto all’altra la notarono appena. Solo mezz’ora dopo, quando le gocce si fecero piú pesanti e fitte, Valdemar disse che avrebbero dovuto trovare un riparo. Vanja propose di tornare in albergo e mangiare qualcosa.

– Hai tempo?

– Me lo prendo.

– Non voglio che passi dei guai per colpa mia.

– Sul serio, l’indagine può procedere anche senza di me almeno per un’altra oretta.

Valdemar sembrò soddisfatto. Prese di nuovo la figlia sottobraccio e affrettarono il passo verso l’albergo.

Vanja ordinò un bicchiere di vino bianco e una Coca-Cola light mentre suo padre studiava il menu del bar. Lo guardò. Lo amava davvero. Amava anche sua madre, ma con lei c’erano sempre problemi e discussioni sulla sua vita privata. Con Valdemar era piú tranquilla. Piú docile. Certo, anche lui la provocava, ma su argomenti a proposito dei quali Vanja si trovava piú a suo agio.

Niente a che vedere con le sue relazioni.

Con il suo talento.

Si fidava di lei. E questo la rassicurava. In realtà anche Vanja avrebbe voluto un bicchiere di vino, ma sentí che era meglio lasciar perdere. Probabilmente quella sera avrebbe dovuto lavorare, o comunque aggiornarsi sull’indagine. Meglio restare lucida.

Valdemar alzò lo sguardo dal menu.

– Ti saluta mamma. Voleva venire anche lei.

– E perché non l’ha fatto?

– Lavoro.

Vanja annuí. Ovviamente. Non era la prima volta.

– Abbracciala da parte mia.

La cameriera arrivò con le bevande e prese le ordinazioni. Vanja ordinò un cheeseburger al chili, suo padre una zuppa di pesce con salsa aioli e bruschette all’aglio. La cameriera afferrò i menu e se ne andò. Alzarono i bicchieri e fecero un brindisi in silenzio. Vanja sedeva lí con il suo padre ritrovato, il piú distante possibile dalle indagini e dalle sfide della quotidianità, quando udí una voce. Una voce che non c’entrava affatto con quel momento cosí intimo.

– Vanja?

Si voltò sperando di aver sentito male, ma non era cosí. Sebastian Bergman si stava dirigendo verso di loro, la giacca fradicia per la pioggia.

– Ciao, hai saputo qualcos’altro su Groth?

Vanja gli rivolse uno sguardo che sperava comunicasse chiaramente la sua irritazione.

– No. Cosa fai qui? Non ce l’hai una casa?

– Ci sono appena stato per mangiare qualcosa e stavo tornando in commissariato. Pensavo di sentire Billy o Ursula, per vedere se ci sono delle novità. Tu non sai nulla?

– No, mi sono presa qualche ora di libertà.

Sebastian osservò brevemente Valdemar, seduto in silenzio sulla sua poltrona. Vanja capí di dover agire prima che a suo padre venisse in mente di presentarsi, magari pregando Sebastian di unirsi a loro.

– Mangio qualcosa. Tu vai pure avanti, io arriverò tra poco. Ci vediamo lí.

A nessuna persona normale poteva sfuggire l’irritazione nella sua voce ma, quando vide Sebastian allungare una mano verso Valdemar e abbozzare un sorriso, Vanja si ricordò che Sebastian non era una persona normale.

– Salve, mi chiamo Sebastian Bergman, lavoro con Vanja.

Valdemar lo salutò amichevolmente, accennando ad alzarsi dalla poltrona e stringendogli la mano.

– Salve, Valdemar, sono il papà di Vanja –. Vanja si irritò ancora di piú: sapeva quanto suo padre fosse interessato al suo lavoro e capí che quello scambio di battute poteva far nascere qualcosa di piú che un breve saluto. E cosí fu. Valdemar si raddrizzò sulla poltrona e lo guardò incuriosito.

– Vanja mi parla molto dei suoi colleghi, ma credo di non averla mai sentita nominare.

– Lavoro con lei da poco come consulente. Sono uno psicologo, non un poliziotto.

A quelle parole Sebastian vide l’espressione di Valdemar mutare, come se stesse frugando nella sua memoria.

– Bergman… Lei non è il Sebastian Bergman che ha scritto quel libro su Hinde, il serial killer…?

Sebastian annuí rapidamente.

– Il libro, sí. Sono io.

Valdemar si voltò verso Vanja. Sembrava euforico.

– Quel libro che mi regalasti tanti anni fa, ricordi?

– Sí.

Valdemar tornò di nuovo a voltarsi verso Sebastian, mostrando la poltrona libera di fronte alla figlia.

– Non vuole sedersi?

– Papà, sono certa che Sebastian ha altro da fare. Stiamo lavorando a un caso piuttosto complesso.

Sebastian incrociò lo sguardo di Vanja. Era una supplica quella che vi leggeva? In ogni caso non c’erano dubbi che non volesse averlo lí.

– Be’, no, un po’ di tempo ce l’ho –. Si sbottonò la giacca bagnata, la tolse e l’appoggiò sullo schienale della poltrona, dopodiché si sedette. Per tutto il tempo guardò Vanja con un sorriso e un’espressione chiaramente provocatori. Era divertito. Lei se ne accorse e andò su tutte le furie, piú per quello che per il fatto che si fosse fermato.

– Non sapevo che avessi letto il mio libro, – le disse Sebastian sprofondando nella poltrona. – Non me l’hai mai detto.

– Forse non ne ho avuto il tempo.

– Le era piaciuto tantissimo, – intervenne Valdemar, del tutto inconsapevole di quanto gli occhi della figlia si incupissero a ogni sua parola. – Mi ha quasi costretto a leggerlo. Credo sia stato uno dei motivi per cui è entrata in polizia.

– Oh, davvero? Che bello –. Sebastian si chinò all’indietro, soddisfatto. – Non sapevo di avere tanto potere.

Game over. Sebastian le sorrise. Non avrebbe mai, mai piú avuto l’ultima parola. Grazie al suo adorato padre.

Mikael chiamò Ursula dalla stazione per sapere se avesse intenzione di andargli incontro o se doveva recarsi in albergo. Ursula imprecò tra sé. Non aveva dimenticato il suo arrivo, ma non ci aveva pensato per tutto il giorno. Lanciò una rapida occhiata all’orologio. Era stata una giornata lunga e faticosa e non era ancora finita. Si trovava nella stanza da letto di Groth e stava per iniziare con il guardaroba: le camicie, i pullover, la biancheria intima, le calze e via dicendo, tutto ordinatamente piegato e appeso in grucce a tre centimetri esatti di distanza l’una dall’altra. In un primo momento pensò di pregare il marito di aspettare qualche ora. Era di cattivo umore. La mancanza di prove la irritava. Aveva cominciato con le armi, ma si era subito resa conto che non avrebbero portato a niente. Certo, c’erano segni evidenti che avevano esploso dei colpi di recente, tuttavia Groth era un tiratore abituale. Senza una pallottola per eseguire un confronto, risultava un’informazione inutile. Neanche il resto dello studio aveva rivelato alcunché. Niente nella scrivania, sul tavolino alla finestra e nella libreria. Forse c’era qualcosa nel computer, ma se ne sarebbe occupato Billy. Anche il bagno era stato una delusione. Nulla all’infuori di un capello nello scarico della doccia.

E ora era al telefono con Mikael. Che insisteva. Eppure era stata lei a chiedergli di raggiungerla. Si stava avvicinando l’ora di cena. In ogni caso doveva mangiare qualcosa, no? Ursula si arrese, scese la scala e infilò la testa in cucina, dove Billy stava frugando tra credenze e cassetti.

– Vado via, torno tra un’ora o due –. Billy la guardò meravigliato.

– Okay.

– Va bene se prendo la macchina?

– Dove vai?

– A cena.

Billy continuava a non capire. Non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui Ursula si fosse assentata per andare a mangiare. Ai suoi occhi, viveva di panini confezionati presi nelle varie stazioni di servizio, che consumava sui luoghi delle indagini.

– È successo qualcosa?

– Mikael è in città.

Billy annuí con l’aria piú comprensiva possibile, benché la situazione diventasse sempre piú curiosa. Mikael, l’uomo che Billy aveva visto una volta sola, per dieci minuti, quando era venuto a prendere Ursula all’annuale festa di Natale, ora era arrivato fino a Vasterås per cenare con lei.

Doveva proprio essere successo qualcosa.

Ursula uscí e, indispettita, si diresse verso l’auto. Aprendo la portiera, realizzò improvvisamente di essersi dimenticata il motivo della presenza di Mikael a Vasterås.

Non era Mikael quello con cui avrebbe dovuto arrabbiarsi.

Assolutamente no.

Mikael era del tutto innocente. Era già abbastanza meschino che lei lo utilizzasse per i propri scopi. Probabilmente suo marito pensava che l’avesse chiamato perché desiderava incontrarlo e sentiva la sua mancanza, non perché la sua presenza avrebbe dato a Torkel una lezione.

Avrebbe dovuto essere estremamente gentile con lui. Doveva tenerlo a mente. Non doveva punire la persona sbagliata.

Salí in macchina ed estrasse il cellulare. Nel tragitto verso il centro fece due rapide telefonate. Una in commissariato, per assicurarsi che Torkel fosse ancora lí, e una a Mikael per stabilire il luogo dell’incontro. Poi rallentò, per essere sicura di arrivare dopo di lui. Accese la radio e l’ascoltò per un po’ con la mente sgombra.

Il dado era tratto.

La punizione era pronta.

– Ciao Torkel.

Torkel si voltò e riconobbe immediatamente l’uomo alto dai capelli scuri seduto su uno dei divani della reception. Gli fece un cenno con il capo. Cercò di sorridere.

– Mikael, che bello vederti. Ursula mi ha detto che saresti arrivato.

– È qui?

– Non che io sappia, ma posso controllare.

– Tranquillo, sa che sono qui –. Torkel annuí di nuovo. Mikael sembrava in forma. Sulle tempie, tra i capelli neri se ne intravedevano alcuni bianchi, ma gli donavano. Erano piú o meno coetanei, ma Torkel non poté fare a meno di sentirsi piú vecchio e trasandato. Non era invecchiato altrettanto bene, e a giudicare dal suo aspetto i problemi che Mikael aveva avuto con l’alcol non si notavano affatto. Sembrava piú tonico e in forma che mai.

Sarà una questione genetica, pensò Torkel, iniziando comunque a meditare di iscriversi in palestra. I due restarono qualche istante in piedi, in silenzio. Torkel non voleva certo sembrare scortese, ma non gli veniva in mente nulla da dire. In mancanza di un genuino interesse, optò per una conversazione di routine. Giocò una carta senz’altro vincente.

– Caffè? Vuoi un caffè? – Mikael annuí e Torkel si diresse verso l’entrata, strisciò il proprio badge e gli tenne aperta la porta. Attraversarono gli uffici, proseguendo verso la sala mensa.

– Ho letto dell’omicidio. Sembra un’indagine complicata.

– Sí, lo è.

Torkel fece strada in silenzio. Lui e Mikael si erano incontrati soltanto una manciata di volte in quegli anni. Soprattutto all’inizio, quando Ursula era nuova alla Omicidi. Torkel li aveva invitati a casa sua e di Monica, due o forse tre volte. All’epoca lui e Ursula erano soltanto due colleghi che si frequentavano insieme ai rispettivi coniugi. Prima che iniziasse la loro relazione. Da quanto andava avanti, ormai? Quattro anni? Cinque, se si contava quella sera tardi a Copenaghen. Quella che, in un attacco di pentimento e paura, Torkel aveva chiamato «affare di una notte». Qualcosa che non si sarebbe piú dovuto ripetere. Allora.

Ora invece era diverso. Il pentimento e la promessa che sarebbe rimasto l’affare di una notte erano svaniti, sostituiti da una serie di regole non scritte.

Solo al lavoro.

Mai a casa.

Nessun piano per il futuro.

L’ultimo punto per Torkel era stato il piú difficile da accettare. All’inizio, quando giacevano nudi e soddisfatti uno accanto all’altra, era stato duro, se non impossibile, non desiderare qualcosa al di là di quelle anonime stanze d’albergo. Ma le poche volte in cui aveva superato il limite rompendo il loro accordo, gli occhi di Ursula si erano fatti piú severi e lui aveva passato settimane senza vederla. Cosí Torkel aveva capito.

Nessun piano per il futuro.

Però gli costava molto.

E ora era lí, in quell’anonima sala mensa, a fissare la tazza che si stava riempendo di caffè scuro. Mikael, seduto al tavolo accanto, sorseggiava un cappuccino.

Torkel gli aveva già raccontato dell’indagine, lasciando poi spazio alle chiacchiere.

Il tempo e il vento. (La primavera è arrivata sul serio).

Come andava il lavoro di Mikael? (Come sempre, piú o meno, i soliti problemi).

Come stava Bella? (Bene, grazie, è all’ultimo anno di giurisprudenza).

Mikael giocava a calcio ultimamente? (No, il ginocchio non regge. Sai, il menisco).

Per tutto il tempo Torkel non riuscí a fare a meno di pensare che la mattina precedente era stato a letto con sua moglie. Si sentiva bugiardo.

Ipocrita.

Perché diavolo Ursula aveva deciso di incontrarlo lí? Torkel immaginò il motivo e ne ebbe la conferma un secondo piú tardi, quando lei li raggiunse.

– Ciao, tesoro, scusa il ritardo –. Ursula passò accanto a Torkel senza degnarlo di uno sguardo e diede a Mikael un tenero bacio. Poi si voltò verso Torkel con una breve occhiata infastidita.

– Hai anche il tempo di prenderti un caffè? – Torkel stava per risponderle quando Mikael giunse in suo soccorso.

– Ero seduto alla reception e ha voluto essere gentile.

– Abbiamo un sacco di cose da fare, tanto da aver assunto altro personale. Non è cosí, Torkel?

Confermato. L’arrivo di Mikael era la sua punizione. Forse non tra le piú raffinate, ma di certo efficace. Non rispose. Non era il caso di combattere quella battaglia. Non con Mikael presente. Né con nessun altro. Quando Ursula era di quell’umore, non si poteva averla vinta.

Torkel si scusò, ma prima di andarsene strinse forte la mano di Mikael. Un po’ di orgoglio poteva comunque dimostrarlo. Non voleva andarsene con la coda tra le gambe.

Ursula prese Mikael per un braccio e i due uscirono dalla sala mensa.

– Non conosco bene i posti qui in città, ma Billy dice che c’è un buon ristorante greco non lontano.

– Mi sembra una buona idea –. Fecero qualche passo in silenzio, poi Mikael si fermò.

– Perché mi hai fatto venire?

Ursula si voltò verso di lui con aria titubante.

– Cosa vuoi dire?

– Quello che ho detto. Perché sono qui? Cosa vuoi?

– Non voglio niente. Pensavo solo che, essendo a un’ora soltanto da Stoccolma, avremmo potuto approfittarne…

Mikael la guardò, studiandola. Per niente convinto.

– Hai lavorato anche piú vicino a Stoccolma e non mi hai mai chiamato.

Ursula sospirò tra sé.

– Proprio per questo. Ci vediamo troppo poco. Volevo fare qualcosa di diverso. Ora andiamo.

Lo prese per un braccio, e avanzando lo tirò dolcemente a sé. Mentre si stringeva al marito, maledisse l’idea che il giorno prima le era parsa cosí azzeccata. Cosa voleva? Ingelosire Torkel?

Umiliarlo?

Dimostrare la propria autonomia?

Al di là di tutto, la presenza di Mikael aveva già dato i suoi frutti. Torkel era evidentemente a disagio, e quando si era allontanato senza dire una parola le sue spalle si erano abbassate.

Ma la domanda era un’altra: cosa ne avrebbe fatto adesso di suo marito?

 

 

Dopo nemmeno un’ora al ristorante greco, Ursula si sentí in dovere di tornare a casa di Ragnar Groth. La cena era stata piacevole. Piú piacevole di quanto avesse creduto. Certo, Mikael le aveva chiesto un altro paio di volte perché lo avesse voluto lí, sembrava stentasse a credere che fosse semplicemente per vederlo. In realtà non era poi cosí strano.

Per molti anni la relazione con Mikael era stata problematica ed era un vero miracolo che durasse ancora, ma nei momenti difficili il loro legame si era rafforzato. Conoscere a fondo le segrete debolezze del proprio partner poteva consolidare una relazione, oppure ucciderla. Entrambi avevano i loro difetti. Anche in quanto genitori. Nel caso di Bella, era come se ci fosse un filtro, un velo sottile che impediva a Ursula di avvicinarsi davvero alla figlia e la spingeva spesso a preferire il lavoro alla famiglia. Ursula provava per questo un senso di colpa; inconsciamente, le sembrava di preferire le ricerche e le vittime alla figlia viva e vegeta. Dava la colpa alla propria educazione, ai genitori, al suo carattere piú razionale che passionale. Ma ciò non toglieva che il velo fosse lí, insieme al dolore per le proprie carenze in campo affettivo. Sentiva in continuazione che avrebbe dovuto stare piú spesso con sua figlia, e con piú entusiasmo. Soprattutto nei momenti in cui Mikael ricadeva nell’alcol. In quei casi i nonni erano stati la loro salvezza.

Nonostante le evidenti debolezze, Ursula non riusciva a non ammirare Mikael. Lui non aveva mai permesso che il suo vizio guastasse i loro rapporti o minasse la convivenza. Se le cose si mettevano male, piuttosto si isolava. Come un animale ferito. La persona a cui faceva piú male era se stesso. La vita di Mikael era un’unica lunga battaglia contro i propri fallimenti.

Senza dubbio, Ursula la considerava la chiave del suo amore per lui. Il fatto che non si arrendesse mai. Nonostante tutti gli sbagli, i passi falsi e le speranze infrante, Mikael continuava a lottare. Con maggiore lucidità e vigore rispetto a lei. Lui cadeva, sbagliava, ma si rialzava e andava avanti.

Per lei.

Per Bella.

Per la famiglia.

E Ursula era leale con chi restava al suo fianco. Risolutamente fedele. Non era una situazione romantica, né il sogno adolescenziale della relazione perfetta, ma lei non era mai stata attratta da quell’ideale. Aveva sempre messo la lealtà su un gradino piú alto rispetto all’amore. Aveva bisogno di persone che le restassero accanto e si teneva stretto chi lo faceva. Se lo meritavano. Ciò che mancava alla loro relazione l’avrebbe trovato altrove.

Torkel non era stato il suo primo amante, anche se lui ne era convinto. No, ce n’erano stati altri. Ursula aveva trovato un diversivo alla relazione con Mikael. All’inizio aveva tentato di colpevolizzarsi, ma non c’era riuscita. Per quanto ci avesse provato. Non riusciva ad ammettere di aver tradito Mikael. Le sue avventure extraconiugali erano il presupposto per restare con lui. Aveva bisogno sia della complessità dei sentimenti che provava per Mikael, sia della mera presenza fisica di qualcuno come Torkel. Come una batteria, che necessitava di un polo positivo e di uno negativo per funzionare. Altrimenti si sentiva persa.

Una cosa, tuttavia, la richiedeva a entrambi.

La lealtà.

E Torkel l’aveva tradita. Ecco il motivo scatenante della sua decisione di mettere a contatto i due poli, come in un cortocircuito. Era stata una decisione ingenua, non ponderata e presa su due piedi. Comunque aveva funzionato.

E la cena era stata piacevole.

Lasciò Mikael fuori dal ristorante con la promessa di tornare in albergo il prima possibile, ma forse ci sarebbe voluto un po’. Lui disse di essersi portato un libro, per tenersi occupato. Ursula non doveva preoccuparsi.

Dopo l’incontro con Mikael, la serata di Torkel aveva seguito la sua curva discendente. Una telefonata di Billy, che stava lasciando la casa di Groth, lo informò che non era emerso nulla. Nessuna traccia di sangue su nessun indumento, nessuna scarpa infangata, nessun segno che Roger – e nemmeno qualcun altro – fosse passato di lí. Nessuno pneumatico Pirelli sull’auto e nessuna traccia di sangue lí o in garage. Nessuna tanica con liquidi facilmente infiammabili, nessun vestito che puzzasse di fumo. Niente che lo collegasse in alcun modo all’omicidio di Roger Eriksson o a quello di Peter Westin.

Niente.

Assolutamente niente.

Billy avrebbe esaminato un’altra volta il computer del rettore, ma non c’era molto da aspettarsi.

Torkel riattaccò con un sospiro. Era seduto al tavolo, con lo sguardo perso sulla parete ricoperta di note. Certo, avrebbe potuto trattenere Groth per ventiquattr’ore, ma a essere sincero non sapeva come incrementare i sospetti contro di lui. Nessun pubblico ministero al mondo avrebbe accettato di metterlo in cella con gli elementi che avevano in mano. Cosí, lasciarlo andare quella sera o l’indomani pomeriggio era indifferente. Torkel stava per alzarsi quando Vanja, con sua sorpresa, piombò nella stanza. Non si era aspettato di rivederla quel giorno. Aveva alcuni impegni personali di cui occuparsi.

– Perché diavolo hai coinvolto Sebastian in quest’indagine?

I suoi occhi brillavano d’ira. Torkel la guardò con aria stanca.

– Credo di averlo spiegato un numero sufficiente di volte.

– È stata una decisione idiota.

– È successo qualcosa?

– No, non è successo niente. Ma se ne deve andare. Sta rovinando tutto.

Il telefono di Torkel squillò. Guardò il display. Era il capo della polizia regionale. Rivolse uno sguardo di scuse a Vanja e rispose. Si scambiarono alcune informazioni in meno di un minuto.

Torkel venne a sapere che l’«Expressen» aveva collegato Peter Westin al liceo Palmlovska, e di conseguenza a Roger Eriksson. La notizia appariva in rete.

Il capo della polizia regionale apprese dell’intenzione di Torkel di rilasciare Ragnar Groth, e il motivo di questa decisione. Torkel prese atto della sua delusione. Il caso andava risolto. Il prima possibile.

Il capo della polizia regionale fu informato del fatto che stavano facendo del loro meglio.

Torkel apprese che il capo della polizia regionale si aspettava che Torkel parlasse con i giornalisti radunati fuori dal commissariato, prima della fine della giornata.

Il capo della polizia regionale riattaccò. Torkel fece lo stesso, ma capí, incrociando lo sguardo di Vanja, che le seccature non erano ancora finite.

– Lasciamo andare Groth?

– Sí.

– Perché?

– Hai sentito quello che ho detto al telefono?

– Sí.

– Bene.

Vanja restò in silenzio per qualche secondo, come per digerire l’informazione appena ricevuta, e arrivò rapidamente a una conclusione.

– Odio questo caso. Odio questa dannata città –. Si voltò e si diresse alla porta, la aprí ma si fermò per girarsi di nuovo verso Torkel.

– E odio Sebastian Bergman.

Vanja lasciò la stanza richiudendo la porta dietro di sé. Torkel la guardò svanire a passo svelto nell’ufficio deserto. Afferrò stancamente la giacca dallo schienale della sedia. Aveva pagato cara la decisione affrettata riguardo a Sebastian.

Mezz’ora piú tardi Torkel aveva organizzato le procedure per il rilascio. Ragnar Groth era stato corretto e di poche parole. Aveva ripetuto che sperava fossero stati discreti e aveva richiesto che un’auto civetta o un taxi lo riaccompagnasse alla sua abitazione. Da una porta secondaria. Non aveva intenzione di darsi in pasto ai giornalisti. A quell’ora non fu possibile procurarsi un’auto civetta, cosí Torkel chiamò un taxi. Si separarono. Groth si augurò di non rivederli mai piú e Torkel non riuscí a fare a meno di augurarsi lo stesso. Seguí con lo sguardo i fanali posteriori del taxi svanire dal cortile interno. Restò in piedi in cerca di qualcosa da fare, qualcosa a cui dare la priorità senza sensi di colpa.

Non ci riuscí. Fu costretto a uscire e affrontare la stampa.