Captus... Heri captus est de coenobio Sanctae Mariae».

Il cavaliere sollevò le sopracciglia. «Invite?». Contro la sua volontà?

«Proprio così, mio signore».

«Essi affermano, mio signore», disse il cavaliere, «che Magister Eduardus è stato rapito ieri, dal monastero, ed è ora nelle mani di Lord Oliver contro la sua volontà».

Arnaut si voltò di scatto, quasi a volerli sorprendere, e li scrutò in volto.

Con voce cupa e minacciosa, disse: «Sed vos non capti estis. Nonne?». Voi però non siete stati rapiti, o sbaglio?

Chris attese un attimo prima di rispondere. «Uh... ehm...».

«Ouû».

«No, no, mio signore», disse subito Chris. «Uh, non! Siamo fuggiti. Ehm... ef... effugi... Effugimus».

Era la parola giusta? Chris stava sudando freddo.

Evidentemente, però, doveva averla azzeccata, perché il bel cavaliere annuì.

«Egli dice che sono riusciti a fuggire».

Arnaut sbottò: «Fuggire? E da dove?».

«Ex Castelgard fieri...», abbozzò Chris.

«Siete fuggiti ieri da Castelgard?».

«Etiam, mi domine». Sì, mio signore.

Arnaut lo fissò a lungo senza dir nulla. Sulla balconata, vennero messe le corde al collo dei condannati in attesa, che furono poi spinti giù dalla balconata.

Lo strappo non fu sufficiente a rompere loro il collo, cosicché i disgraziati rimasero a dimenarsi e a rantolare in lenta agonia.

Arnaut lanciò loro un'occhiata di fastidio, come indispettito dai loro ultimi sospiri. «Di corde ce n'è in abbondanza», disse. «Vi conviene dirmi la verità».

«Vi ho detto il vero, mio signore».

Con uno scatto, Arnaut voltò le spalle all'interlocutore. «Avete conferito con fra' Marcello, prima che egli morisse?».

«Marcello?». Chris fece del suo meglio per dare a vedere di non sapere chi fosse. «Avete detto "Marcello", mio signore?».

«Sì, Marcelle Cognovistine fratrem Marcellum?». Avete conosciuto fra' Marcello?

«No, mio signore».

«Transitimi ad Roccam cognitum habesne?». Per questa domanda, Chris non ebbe bisogno di traduzione: avete scoperto il passaggio segreto per entrare a La Roque?

«Il passaggio... transitum...». Chris si strinse nelle spalle, fingendo di non sapere nulla. «Il passaggio... per entrare a La Roque? No, mio signore».

Arnaut lo guardò con aperta incredulità. «Sembra che voi non sappiate nulla».

Si avvicinò a pochi centimetri da Chris e Kate; il tic del naso lo faceva assomigliare a un topo, intento ad annusarli. «Ma io ne dubito. Anzi, non vi credo affatto».

Si rivolse al bel cavaliere. «Impicchiamone uno, così all'altro si scioglierà la lingua».

«Quale volete che sia messo a morte, mio signore?».

«Questo», disse Arnaut, indicando Chris. Quindi, pizzicando e accarezzando la guancia di Kate, aggiunse: «Questo giovinetto, invece, mi muove a compassione.

Mi intratterrò con lui questa notte, nella mia tenda. Prima di allora, non mi pare opportuno fargli del male».

«Come vi piace, mio signore». Il bel cavaliere impartì l'ordine, e dal secondo piano, alcuni uomini cominciarono a legare un'altra corda alla balaustra.

Altri soldati afferrarono i polsi di Chris e glieli legarono dietro la schiena.

«Cristo, lo fanno davvero!», pensò Chris. Guardò Kate, che lo fissava terrorizzata. I soldati erano sul punto di avviarsi, trascinando con sé Chris.

«Mio signore», disse una voce proveniente da un punto decentrato della chiesa.

«Vi supplico». Quando la folla di soldati in attesa si aprì, ne emerse Lady Claire.

«Mio signore, vi supplico, concedetemi di conferire con voi privatamente», disse Lady Claire con voce suadente.

«Come? Ma certo...». Arnaut le andò incontro, e lei gli bisbigliò qualcosa all'orecchio. Arnaut si scostò, stringendosi nelle spalle. Lei riprese a sussurrare, con più calore.

Dopo un attimo, Arnaut disse: «A quale scopo?»..

Altri bisbigli. Chris non riusciva a cogliere nulla di quel che diceva.

«Mia buona signora, la decisione è presa».

Altri sussurri.

Infine, scrollando la testa, Arnaut tornò da Chris e Kate. «Questa signora, che si è affidata alla mia protezione per raggiungere Bordeaux, afferma di conoscervi e si fa garante della vostra onestà». Dopo una pausa, concluse: «Mi chiede, inoltre, di lasciarvi liberi».

«Solo se vi aggrada, mio signore. Del resto, è ben noto che gli inglesi ammazzano senza discrimine, mentre i francesi mostrano spesso la pietà che trae origine dalla saggezza e dalla cultura».

«Così è, infatti», concesse Arnaut. «Noi francesi siamo gente colta e sensibile... Se costoro, dunque, non hanno conosciuto fra' Marcello e ignorano dove sia il passaggio segreto, che siano liberati e forniti di cavalli e viveri. Possa ciò rendermi gradito al vostro Magister Eduardus, al cui favore mi raccomando. Fate buon viaggio. Andate!».

Lady Claire si inchinò.

Chris e Kate la imitarono.

Il bel cavaliere slegò le mani a Chris e li condusse fuori. I due compagni erano così sbalorditi dalla piega improvvisa presa dagli eventi che non dissero nulla, mentre tornavano verso il fiume.

Chris si sentiva fiacco e gli girava la testa. Kate continuava a stropicciarsi gli occhi, come per cercare di svegliarsi.

Alla fine, il cavaliere disse: «Dovete la vita a una dama assai intelligente».

«Certo...», disse Chris.

Il bel cavaliere abbozzò un sorriso.

«Dio vi protegge...», sospirò.

Non ne sembrava particolarmente felice.

La scena, al fiume, era completamente trasformata.

Gli uomini di Arnaut avevano preso possesso del ponte, e ora sui merli delle torri garriva la bandiera verde e nera. Su entrambe le rive erano appostati i cavalieri in sella ai loro destrieri, mentre lungo la strada un corteo di uomini, animali e cose avanzava verso La Roque, sollevando nubi di polvere.

Alcuni uomini guidavano carri trainati da cavalli carichi di viveri, carrozze di donne vocianti, bambini di tutte le età e altri veicoli che trasportavano le enormi travi di legno di gigantesche catapulte per scagliare pietre e proiettili infuocati oltre le mura del castello.

Il cavaliere aveva trovato loro un paio di cavalli o, meglio, due ronzini malconci che portavano i segni del giogo. Tenendo gli animali per le briglie li guidò oltre il casello daziario.

Un'improvvisa agitazione sul fiume attirò l'attenzione di Chris.

Si voltò a guardare e vide una decina di uomini immersi nell'acqua fino al ginocchio che trascinavano a fatica un cannone a culatta di ferro con un blocco di legno per affusto. Chris osservò la scena affascinato. Di cannoni risalenti a quell'epoca non ne erano giunti, fino al XX secolo, né ne esistevano descrizioni.

Certo, si sapeva dell'impiego di un'artiglieria primitiva; gli archeologi avevano rinvenuto palle di cannone sul sito della battaglia di Poitiers. Gli storici, però, ritenevano che i cannoni fossero armi assai rare ed essenzialmente da parata, un simbolo di prestigio. Osservando quegli uomini all'opera nel fiume, affaccendati a sollevare il cilindro e a risistemarlo su un carro, Chris comprese che nessuno avrebbe mai compiuto un simile sforzo per un'arma puramente simbolica. Il cannone era pesante, rallentava l'avanzata di tutto l'esercito, che sicuramente voleva raggiungere le mura di La Roque prima del tramonto. Se si fosse trattato di semplice ostentazione, il cannone avrebbe potuto essere trasportato in sèguito. Le fatiche di quegli uomini significavano necessariamente che il cannone aveva una funzione importante nell'attacco al castello.

In che modo, però, a Chris non era chiaro. Le mura di La Roque erano spesse più di tre metri e una palla di cannone non avrebbe mai potuto penetrarle.

Il bel cavaliere fece loro un cenno di saluto e disse; «Dio vi conservi sani e salvi».

«Dio vi benedica e conceda gloria», rispose Chris. Il cavaliere diede un colpo sui quarti posteriori dei cavalli, e Chris e Kate partirono alla volta di La Roque.

Mentre procedevano, Kate gli raccontò di quello che avevano scoperto nella stanza di fra' Marcello e della cappella verde.

«E tu sai dov'è questa cappella?», le domandò Chris.

«Sì, l'ho vista su una delle mappe che avevamo agli scavi. Si trova a poco meno di un chilometro a est di La Roque. Ci si arriva lungo un sentiero nel bosco».

Chris sospirò. «Dunque, ora sappiamo dov'è il passaggio segreto», disse, «ma André è morto e il quadratino di ceramica ce l'aveva lui. Non potremo mai più tornare a casa».

«No», disse lei, «il quadratino di ceramica ce l'ho io».

«Davvero?».

«André me l'ha dato quando eravamo sul ponte.

Credo che si sia reso conto di non poterne uscire vivo.

Avrebbe potuto mettersi a correre e salvarsi la vita, ma non lo ha fatto. È rimasto lì e ha scelto di salvare me».

Si mise a piangere sommessamente.

Chris cavalcava in silenzio. Gli sovvenne di come l'entusiasmo di Marek avesse sempre divertito i suoi compagni, che dicevano: «Ti rendi conto? Crede davvero a tutte queste stronzate cavalieresche!». Gli sovvenne anche che tutti la credevano una posa, una finzione. Nel XX secolo, infatti, nessuno riteneva che si potesse credere nell'onore e nella verità, nella purezza del corpo, nella difesa delle donne, nella sacralità del vero amore e così via.

Evidentemente, però, André ci aveva creduto davvero.

Avanzavano in un paesaggio da incubo. Il sole era pallido e offuscato dalla polvere e dal fumo. I vigneti intorno a loro erano stati bruciati e non restavano che monconi contorti di piante fumanti. Anche i frutteti erano ridotti a distese nere e desolate di alberi scheletrici. Il fuoco aveva divorato tutto.

Intorno a loro, udirono gli strazianti lamenti dei soldati feriti. Molti dei militi in ritirata giacevano ai lati della strada, chi ancora in agonia, chi già grigio di morte.

Chris si era fermato per togliere le armi a un soldato morto, quando poco lontano un ferito levò un braccio e gridò disperatamente: «Secors, secors!».

Chris gli si avvicinò. Aveva una freccia conficcata nell'addome e un'altra nel petto. Quel soldato poteva avere poco più di vent'anni e sembrava consapevole di essere in punto di morte. Disteso supino, implorò Chris con lo sguardo, pronunciando parole incomprensibili. Infine, il soldato prese a indicarsi la bocca, dicendo:

«Aquam. Da mihi aquam». Aveva sete. Voleva dell'acqua. Chris si strinse nelle spalle, impotente. Di acqua non ne aveva. L'uomo lo guardò con rabbia, socchiuse gli occhi e voltò la testa. Chris si allontanò. Da quel momento, passando accanto ai soldati agonizzanti non si fermò più. In ogni caso, non avrebbe potuto far nulla per loro.

In lontananza, riuscivano a intravedere la fortezza di La Roque, alta e inespugnabile in cima alle rupi affacciate sulla Dordogna.

Distava circa un'ora di viaggio.

In un angolo buio della chiesa della Sainte-Mère, il bel cavaliere aiutò Marek a rialzarsi in piedi. «I vostri amici sono partiti».

Marek tossicchiò e si aggrappò al braccio del cavaliere per sorreggersi, mentre una fitta di dolore gli si propagò lungo la gamba. Il bel cavaliere sorrise. Aveva catturato Marek subito dopo l'esplosione del mulino.

Quando Marek era saltato giù dalla finestra, era caduto per pura fortuna in un punto in cui l'acqua era profonda e, dunque, non si era fatto nulla.

Riemergendo si era ritrovato ancora sotto il ponte. Quella pozza più profonda aveva creato un gorgo che impediva alla corrente di trasportarlo a valle.

Marek si era liberato della tonaca e l'aveva gettata nel fiume, proprio mentre il mulino esplodeva spedendo travi e corpi in ogni direzione. Un soldato era caduto nell'acqua vicino a lui, ed era stato risucchiato dal gorgo. Marek, allora, era riuscito ad arrancare fino alla riva, dove un bel cavaliere gli aveva puntato un pugnale alla gola costringendolo a seguirlo. Marek indossava ancora l'uniforme marrone e grigia degli uomini di Oliver, cosicché prese subito a balbettare in occitanico, a protestare la propria innocenza e a implorare pietà.

Il cavaliere, semplicemente, gli aveva risposto: «Taci, ti ho visto». L'aveva visto saltar giù dalla finestra e liberarsi della tonaca. L'aveva portato alla chiesa, dove aveva trovato Claire e Arnaut. L'Arciprete era di un umore torvo e minaccioso, ma Claire sembrava esercitare su di lui una notevole influenza.

Era stata lei a ordinare a Marek di starsene in silenzio nell'oscurità all'arrivo di Chris e Kate. «Se Arnaut non scopre che siete amici, forse vi farà salva la vita. Se vi presenterete tutti e tre insieme, vi ammazzerà come cani». Claire aveva predisposto la successione degli eventi e tutto era andato come lei aveva previsto.

Almeno fino a quel momento. Ora, però, Arnaut lo guardò con aria scettica.

«Dunque, i tuoi amici conoscerebbero l'ubicazione del passaggio segreto. È così?».

«È così», disse Marek. «Lo giuro».

«Ho risparmiato loro la vita fidandomi della tua parola», disse Arnaut. «Della tua parola e di quella di questa signora che garantisce per voi». Fece un piccolo cenno a Lady Claire, che lasciò affiorare un vago sorriso.

«Mio signore, voi siete saggio», disse Claire, «poiché impiccare un uomo potrà forse sciogliere la lingua ai suoi amici che assistono, ma altrettanto spesso può rafforzarne la determinazione e convincerli a portare il segreto con sé nella tomba. E questo segreto è tanto importante che io non voglio che sfugga alla vostra signoria».

«Ebbene, seguiremo quei due e vedremo dove sono diretti». Facendo un cenno verso Marek, aggiunse:

«Raimondo, provvedi alla cavalcatura di questo pover'uomo, mettigli di scorta due dei tuoi migliori chevaliers e seguilo da vicino».

Il bel cavaliere si inchinò. «A voi piacendo, mio signore, potrei scortarlo io stesso».

«Così sia, perché la questione qui è tutt'altro che chiara», disse Arnaut, lanciando al cavaliere un'occhiata di intesa.

Nel frattempo, Lady Claire aveva raggiunto Marek e gli prese teneramente una mano tra le sue. Marek sentì tra le dita qualcosa di freddo, e subito si rese conto che si trattava di un piccolo pugnale lungo poco più di dieci centimetri. «Mia signora, ho contratto con voi un debito eterno».

«Ebbene, preparatevi a rifonderlo, cavaliere», disse lei, guardandolo negli occhi.

«Lo farò, Dio me ne sia testimone», rispose Marek nascondendosi il pugnale sotto i vestiti.

«Io pregherò Dio per voi, cavaliere», disse Claire. Si protese a baciargli castamente la guancia. Così facendo, gli sussurrò: «La vostra scorta è Raimondo di Narbonne. Gli piace sgozzare la gente.

Quando avrà scoperto il segreto, fate attenzione che non la tagli anche a voi e ai vostri amici». Si ritrasse sorridendo.

«Mia signora, voi siete troppo buona. Il vostro volere mi sta grandemente a cuore».

«Buon cavaliere, Dio vi conservi sano e sincero».

«Mia signora, sarete sempre nei miei pensieri».

«Mio buon cavaliere, vorrei...».

«Basta, basta», disse Arnaut, disgustato. Quindi, rivolto a Raimondo, aggiunse: «Ora andate, Raimondo, poiché questo eccesso di sentimentalismi mi da il voltastomaco».

«Mio signore». Il bel cavaliere si inchinò e condusse Marek fuori dalla chiesa.

 

07:34:49

«Ve lo dico io qual è il dannato problema», disse Robert Doniger, squadrando con occhi torvi gli intervenuti. «Il problema è riportare in vita il passato, renderlo vero».

Tre giovani, due uomini e una donna, erano seduti sul divano del suo ufficio.

Erano vestiti completamente di nero, con quelle giacche dalle spalle aderenti che sembrano essersi ristrette dopo un lavaggio. I due uomini avevano i capelli lunghi; la donna un taglio arruffato. Erano gli addetti alla realizzazione di materiale audiovisivo ingaggiati da Kramer, ma quel giorno Doniger notò che Diane si era seduta di fronte a loro, come a voler rimarcare un dissenso. Doniger si domandò se Kramer non avesse, per caso, già esaminato il loro materiale.

Doniger era di pessimo umore. Chiunque avesse a che fare con i media lo indisponeva, e quel giorno era già al secondo incontro con quella gente. Al mattino aveva avuto a che fare con gli stronzi delle pubbliche relazioni, e ora ecco questi altri stronzi.

«Il problema», disse, «è che domani alla mia presentazione interverranno tre alti dirigenti d'azienda.

Il titolo della mia relazione è La promessa del passato, e io non ho immagini convincenti con cui accompagnarla».

«Ho capito», disse all'improvviso uno dei giovani.

«È proprio da qui che siamo partiti, signor Doniger. Il cliente vuole riportare in vita il passato, ed è proprio questo che abbiamo cercato di fare.

Con l'aiuto dell'avvocato Kramer, abbiamo chiesto ai vostri inviati di girare dei video per noi. Noi crediamo che questo materiale possieda la capacità persuasiva...».

«Vediamolo», disse Doniger.

«Sì, signore. Se si possono abbassare te luci...».

«Le luci possono restare come sono».

«Come vuole, signor Doniger». Lo schermo alla parete si accese tingendosi di blu. In attesa delle immagini, il giovane proseguì:

«La prima cosa che vedremo rappresenta un celebre evento storico che dall'inizio alla fine dura solo due minuti. Come sapete, molti eventi storici si sono verificati con estrema lentezza, soprattutto agli occhi di noi moderni. Quello che abbiamo scelto, invece, si è svolto rapidamente, anche se, purtroppo, in una giornata piovosa».

Sullo schermo comparve un'immagine grigia e cupa di nuvole incombenti. La videocamera fece una panoramica che mostrava dall'alto un cospicuo raduno di folla. Un uomo alto e magro stava salendo su un palco di legno grezzo e spoglio.

«Che cos'è? Un'impiccagione?».

«No», disse il ragazzo. «È Abraham Lincoln, sul punto di pronunciare il suo discorso di Gettysburg».

«Davvero? Cristo, fa paura, sembra un cadavere, ha i vestiti tutti spiegazzati e le braccia gli spuntano di un bel pezzo dalle maniche».

«Sì, signore, ma...».

«È questa sarebbe la sua voce? Ma è stridula».

«Sì, signor Doniger, nessuno aveva mai sentito la voce di Lincoln prima d'ora, ma questa è...».

«Ma siete completamente scemi o che cosa?».

«No, signor Doniger...».

«Oh, Cristo... Questa roba è inutilizzabile», urlò Doniger.

«Nessuno può accettare che Abraham Lincoln abbia la voce di Betty Boop. Che altro avete da farmi vedere?».

«Ecco, signor Doniger». Imperturbato, il giovane cambiò nastro nel videoregistratore e disse: «Il secondo video si basa su premesse diverse: volevamo una buona sequenza d'azione, ma sempre pertinente a un evento noto ai più. Eccoci, dunque, nel giorno di Natale del 1778, sul fiume Delaware, dove...»

«Non si vede un cazzo», disse Doniger.

«Be', l'immagine è un po' buia, ma è notte. Abbiamo pensato che il passaggio del Delaware da parte di George Washington potesse essere un buon...».

«George Washington? Dov'è George Washington?».

«Eccolo», disse il giovane addetto, indicando lo schermo.

«Dove?».

«Lì».

«Quel tipo rannicchiato a poppa?».

«Sì, e...».

«No, no, no...», disse Doniger. «George Washington deve stare a prua, come un condottiero».

«Be', così insegna l'iconografia tradizionale, ma le cose andarono diversamente. Come si vede, George Washington attraversò il...».

«Sembra sul punto di vomitare», disse Doniger. «Volete che mostri un video in cui George Washington sta per vomitare?».

«Ma è la realtà».

«Me ne fotto della realtà!», urlò Doniger, scagliando una videocassetta contro un muro. «Che cosa avete capito? Della realtà non me ne frega un cazzo! Io voglio qualcosa di intrigante, magari a sfondo sessuale, e voi mi rifilate una specie di zombie e un cane malato».

«Be', possiamo rimetterci al lavoro e;..».

«Il mio discorso è fissato per domani», disse Doniger.

«Arriveranno tre boss delle major, e io ho anticipato che avrebbero visto qualcosa di speciale». Alzò le mani al cielo.

«Cristo!».

Kramer si schiarì la voce. «Che ne dici di utilizzare dei fermo-immagine?».

«Fermo-immagine?».

«Sì, Bob. Si possono estrarre singoli fotogrammi dai video.

L'effetto sarebbe certamente più drammatico», disse Kramer.

«Sì, certo! Funzionerà sicuramente», disse la giovane addetta, dondolando il capo.

«Il vestito di Lincoln sarebbe comunque tutto spiegazzato», disse Doniger.

«Ripuliremo l'immagine con il photoshop».

Doniger ci pensò su. «Si può provare», disse infine.

«In ogni caso», riprese Diane Kramer, «non conviene mostrare troppo. Meno si mostra, meglio è».

«Giusto», disse Doniger. «Preparate le immagini e tornate a mostrarmele tra un'ora».

Gli addetti agli audiovisivi uscirono. Doniger rimase in compagnia di Diane Kramer. Andò alla scrivania, sfogliò le pagine del suo discorso e disse:

«Credi sia meglio La promessa del passato o il futuro del passato?».

«La promessa del passato», rispose Kramer. «Senza dubbio».

 

 

 

07:34:49

Affiancato da due cavalieri, Marek cavalcava nella polvere sollevata dai carri, diretto verso la testa del corteo.

Kate e Chris ancora non erano in vista, ma il piccolo gruppo avanzava rapidamente, e presto li avrebbe raggiunti.

Guardò i cavalieri che lo scortavano. Raimondo, a sinistra, nella sua lucente armatura, aveva il busto eretto e sfoggiava il suo solito lieve sorriso. A destra, invece, gli stava un cavaliere brizzolato, anch'egli in armatura, dall'aria dura ed esperta.

Nessuno dei due gli prestava la minima attenzione. Erano certi che Marek non potesse tentare colpi di testa, anche perché aveva le mani legate sul davanti, per mezzo di funi, e distanti tra loro una ventina di centimetri.

Marek tossicchiava, la gola arsa dalla polvere. Dopo un po', riuscì a togliersi il pugnale da sotto i vestiti e a nasconderlo sotto la mano che teneva il pomo della sella. Cercò di sistemare la lama in modo che i sobbalzi del cavallo la spingessero contro le funi che gli bloccavano i polsi, recidendole a poco a poco.

Tuttavia, fu più difficile a farsi che a dirsi. Marek non riusciva a mettere la lama nella giusta posizione, e le funi rimanevano intatte. Consultò il cronometro. 07:31:02.

Restavano sette ore, o poco più, dopodiché le batterie si sarebbero scaricate.

Ben presto abbandonarono il sentiero che costeggiava il fiume e presero a salire lungo la strada tortuosa che attraversava il villaggio di La Roque, scavato nelle rocce a strapiombo sul fiume, con le case quasi integralmente in pietra che conferivano al paesino un aspetto uniforme e cupo, tanto più che porte e finestre erano senza eccezione sbarrate in previsione della battaglia.

Affiancarono e superarono il battaglione che guidava il corteo, composto da cavalieri in armatura, ciascuno con il suo sèguito di paggi e palafrenieri.

Uomini e cavalli si arrampicavano sul ripido acciottolato, con le bestie che sbuffavano e i carri che arrancavano e slittavano. I cavalieri in testa al gruppo avanzavano con una certa concitazione. Molti dei carri trasportavano pezzi di macchine da guerra. Evidentemente, speravano di prepararsi all'assedio prima che calasse la sera.

Prima ancora di uscire dal villaggio, Marek intravide Chris e Kate che avanzavano sui loro bolsi ronzini.

Erano sì e no a un centinaio di metri di distanza e continuavano a scomparire e riapparire lungo la strada tortuosa. Raimondo gli posò una mano su un braccio. «Più di così non ci avvicineremo».

Poco più avanti, nella nube di polvere una bandiera sventolò un po' troppo vicino al muso di un cavallo, che si impennò nitrendo.

Un carro si rovesciò, spargendo palle di cannone che presero a rotolare giù per il pendio. Era l'occasione che Marek aspettava, e non se la fece sfuggire.

Diede di sprone, ma il cavallo non partì.

Subito vide che il cavaliere brizzolato ne aveva afferrato le redini e le stringeva saldamente.

«Amico mio», disse Raimondo con estrema calma, procedendo al suo fianco. «Non costringetemi a uccidervi. Non ora, almeno». Fece un cenno verso le mani di Marek. «E mettete via quella inutile lama, prima di farvi male».

Marek arrossì violentemente, ma fece come gli era stato detto e tornò a infilare il piccolo pugnale sotto i vestiti. Proseguirono in silenzio.

Da dietro le case di pietra provenne lo stridio di un uccello, ripetuto due volte. Raimondo voltò il capo di scatto, imitato dal suo compare.

Evidentemente, non si trattava di un uccello.

I due cavalieri tesero l'orecchio. Subito si udì un grido di risposta che giungeva dalla cima della collina.

Raimondo mise mano alla spada, ma non fece nient'altro.

«Che cos'era?», domandò Marek.

«Non sono cose che vi riguardano».

I soldati erano troppo occupati per badare a loro, tantopiù che le loro selle recavano i colori di Arnaut.

Giunsero, infine, in cima alla rupe, dove si apriva un ampio spiazzo erboso.

Sulla destra si ergeva il castello.

A sinistra, incombevano i boschi, mentre a nord si  estendeva un ampio prato in dolce pendenza.

Circondato com'era da tutti quei soldati di Arnaut, Marek non fece caso al fatto che stavano passando a non più di cinquanta metri dal fossato più esterno del castello. Chris e Kate erano sempre un centinaio di metri più avanti.

L'attacco giunse con una rapidità sbalorditiva. Cinque cavalieri uscirono alla carica dai boschi sulla sinistra, agitando gli spadoni con grida di battaglia.

Si diressero subito contro Marek e la sua scorta. Era un'imboscata.

Con un grido, Raimondo e il cavaliere brizzolato sguainarono la spada e si prepararono alla pugna. I cavalli si impennavano, le lame cozzavano fragorosamente. Lo stesso Arnaut sopraggiunse al galoppo per unirsi alla lotta. Marek fu per un attimo ignorato.

Guardando avanti, vide che in testa alla colonna un altro gruppo aveva attaccato Kate e Chris. Marek intravide la piuma nera dell'elmo di ser Guy. In un attimo i suoi cavalieri li accerchiarono. Marek spronò il suo cavallo e si lanciò al galoppo verso di loro.

Vide un cavaliere afferrare Chris per il mantello, nel tentativo di disarcionarlo; un altro afferrò le redini del cavallo di Kate, che prese a nitrire e a girare su se stesso. Un terzo cavaliere aveva afferrato le redini del cavallo di Chris, ma questi, spronando l'animale, lo spinse ad arretrare, costringendo il cavaliere a mollare la presa. A un tratto, Chris si ritrovò coperto di sangue e lanciò un grido di terrore. Perse il controllo del cavallo che, nitrendo all'impazzata, partì di corsa, inoltrandosi nella foresta, mentre Chris si manteneva in sella a fatica. Un attimo dopo scomparve tra gli alberi.

Kate stava ancora cercando di sottrarre le proprie redini alla presa del cavaliere. Tutt'intorno era scoppiato il pandemonio: i soldati di Arnaut urlavano e correvano da ogni parte in cerca di armi, rispondendo ai colpi di spada dei cavalieri con le loro picche.

Uno di essi ferì alla schiena il cavaliere che bloccava il cavallo di Kate.

Marek, benché disarmato, si lanciò alla carica nel mezzo del trambusto, per separare Kate dal suo aggressore. «André!», gridò lei, ma lui le rispose soltanto: «Vai! Vai!». Dopodiché, distolto lo sguardo, urlò: «Malegant!», inducendo ser Guy a voltarsi.

Marek si allontanò immediatamente dal cuore della battaglia, dirigendosi verso La Roque. Gli altri cavalieri si liberarono dall'assalto dei soldati e si lanciarono in campo aperto al suo inseguimento. Alle sue spalle, Raimondo e Arnaut combattevano in una gigantesca nube di polvere.

Kate spronò il suo cavallo e si diresse verso i boschi, a nord.

Voltatasi indietro, vide Marek che, galoppando sul ponte levatoio di La Roque, si infilava nel castello, scomparendo, con gli inseguitori alle calcagna. A quel punto, la pesante saracinesca calò con un gran frastuono e il ponte levatoio fu sollevato.

Marek era scomparso, così come Chris. Potevano essere entrambi già morti. Una cosa, in ogni caso, era chiara: era l'unica ancora in libertà. Ora dipendeva tutto da lei.

 

07:24:33

Attorniata dai soldati, Kate trascorse la mezz'ora successiva a farsi largo tra i carri, i cavalli, nel tentativo di raggiungere i boschi a nord. Gli uomini di Arnaut stavano approntando un accampamento al confine tra i boschi e la distesa erbosa che saliva fino al castello.

Qualcuno, di tanto in tanto, le chiedeva aiuto, ma lei proseguiva, facendo cenni che sperava apparissero sufficientemente virili.

Giunse, infine, sul limitare del bosco e lo costeggiò fino a un sentiero che vi si inoltrava, perdendosi nel buio. Fece una sosta per lasciar riposare il cavallo e per cercare di calmare il battito frenetico del suo cuore, prima di addentrarsi nella vegetazione.

Sul pendio erboso, gruppi di genieri stavano assemblando in tutta fretta i trabocchi, macchine da assedio apparentemente improbabili, sorta di fionde sproporzionate con pesanti travi di legno a sorreggere il braccio oscillante, tirato all'indietro per mezzo di funi di canapa tesissime che, recise di colpo, lo facevano scattare per scagliare il proiettile oltre le mura del castello. Quei marchingegni pesavano forse due-tre quintali ciascuno, eppure i genieri lavoravano con grande rapidità e coordinazione, assemblando macchine in rapida successione.

Vedendoli all'opera, Kate comprese, finalmente, come fosse possibile costruire un castello o una chiesa, anche di notevoli dimensioni, in un paio d'anni.

L'abilità e l'esperienza di chi lavorava era tale da non richiedere quasi di essere diretta.

Kate voltò il cavallo e si addentrò nei boschi a nord del castello.

Il sentiero era una strettissima pista che si addentrava nella vegetazione sempre più fitta e buia. Non era piacevole essere lì da sola, circondata dalle grida delle civette e dai versi di altri strani uccelli. Passò accanto a un albero sui cui rami erano appollaiati almeno dieci corvi. Li contò, chiedendosi se non si trattasse di un presagio e interrogandosi sul suo eventuale significato.

Proseguendo lentamente lungo il sentiero ebbe la sensazione di scivolare all'indietro nel tempo e di inclinare verso un modo di pensare più primitivo.

Gli alberi la soffocavano, la terra era scura come di notte.

Provò un senso di oppressione, di claustrofobia.

Venti minuti dopo, giunse con sollievo in una radura con l'erba alta illuminata dal sole. Notò un varco, tra gli alberi, sul lato opposto della radura, dove il sentiero riprendeva a dipanarsi. Quando fu al centro della radura, alla sua sinistra vide un castello. Stando alle carte, non dovevano esserci costruzioni in quel punto. Il castello era piccolo - quasi un maniero - e il suo intonaco bianco lo faceva risplendere al sole.

Era dotato di quattro torrette e di un tetto a lastre di pietra scura. Di primo acchito, sembrava carino, ma poco dopo Kate notò che le finestre erano tutte sbarrate, che una parte del tetto era crollata all'interno, che gli esterni avevano un aspetto cadente.

La radura doveva essere stata, un tempo, lo spiazzo erboso antistante il castelletto, sebbene fosse anch'essa ormai piuttosto trascurata. Quel luogo le comunicava un forte senso di decadenza e di morte.

Colta dai brividi, incitò il cavallo a proseguire. Vide Che l'erba, davanti a lei, era stata calpestata di recente da un cavallo diretto dalla sua stessa parte. Lentamente, i lunghi fili d'erba stavano recuperando la posizione verticale.

Era appena passato qualcuno, solo pochi minuti prima. Kate avanzò circospetta fino al margine della radura.

Fu nuovamente inghiottita dall'oscurità del bosco. Il terreno, lì, si faceva più pesante, cosicché Kate potè - scorgere le chiare impronte degli zoccoli di un cavallo che l'aveva preceduta di poco lungo quel sentiero.

Di tanto in tanto si fermava ad ascoltare, ma non colse il benché minimo rumore. La persona a cavallo che la precedeva o era molto lontana o era molto silenziosa. In un paio di occasioni ebbe l'impressione di aver sentito lo scalpiccio di un cavallo, ma niente di più.

Frutto, probabilmente, della sua immaginazione.

Proseguì alla volta della cappella verde, denominata, sulle sue carte, chapelle verte morte.

Nel fitto del bosco, si imbattè in una figura stancamente seduta a terra contro un albero caduto. Era un uomo dal viso grinzoso con un cappuccio in testa e un'ascia da boscaiolo. Quando Kate gli passò davanti, l'uomo disse:

«Vi prego, padrone, vi prego». Aveva una voce rauca e sottile. «Datemi qualcosa da mangiare. Sono povero e ho molta fame».

Kate credeva di non avere nulla da dargli, ma subito si ricordò di un piccolo involto che il cavaliere le aveva legato alla sella.

Allungò una mano e trovò una crosta di pane e un pezzo di carne secca. Quel cibo aveva un aspetto tutt'altro che invitante e un forte odore di cavallo sudato. Kate lo offrì al mendicante.

L'uomo protese avidamente la mano ossuta, ma invece di prendere il cibo afferrò Kate per un braccio e, serrandolo con una forza sorprendente, prese a dar strattoni nel tentativo di disarcionarla. Il suo sghignazzo orribile la fece rabbrividire.

Nella lotta, all'uomo cadde il cappuccio, e Kate vide che questi era più giovane di quanto le era parso in un primo tempo.

All'improvviso, altri tre uomini sbucarono dall'ombra e accorsero verso di loro. Kate comprese immediatamente di essere caduta nelle mani dei godins, i banditi-contadini. Era ancora in sella, ma non per molto.

Spronò il cavallo, ma l'animale era stanco e non rispose alla sollecitazione.

Il più anziano del gruppo continuava a tirarla per un braccio, imprecando.

«Stupido! Sei uno stupido ragazzino!».

Non sapendo che altro fare, Kate pensò di chiedere aiuto. Si mise a gridare a squarciagola, e gli uomini parvero inizialmente disorientati, ma poi tornarono all'assalto. Quando però udirono il rumore di un cavallo che sopraggiungeva al galoppo, accompagnato dal grido di battaglia di un guerriero, i godins si guardarono in faccia e si sparpagliarono nella boscaglia.

Tutti, tranne il grinzoso, che si ostinava a trattenerla per il braccio e la minacciava, ora, con l'ascia che brandiva con l'altra mano.

In quell'istante, però, un cavaliere insanguinato piombò come un fulmine sul sentiero: il cavallo sbuffante schizzava fanghiglia con gli zoccoli, e il cavaliere aveva un aspetto così fiero e sanguinario, che anche l'ultimo dei briganti cercò di mettersi in salvo, tuffandosi nel fitto della vegetazione.

Chris, con le redini tirate, prese a girare intorno a Kate, che potè finalmente tirare un sospiro di sollievo. Si era spaventata a morte. Chris sorrideva, scopertamente fiero della sua impresa.

«Tutto bene, madame?», disse.

«Tu, piuttosto... Come stai?», ribattè Kate, sorpresa.

Chris era letteralmente coperto di sangue ormai secco che, quando sorrideva, si crepava agli angoli della bocca, scoprendo la sottostante pelle rosata.

Sembrava caduto in un bidone di vernice rossa.

«Sto bene», rispose Chris. «Qualcuno ha ferito il cavallo che avevo accanto e deve avergli tagliato un'arteria. In un attimo mi sono ritrovato in un bagno di sangue. Il sangue è caldo, lo sapevi?».

Kate lo fissò stupita. Non immaginava che una persona così conciata potesse avere ancora voglia di scherzare. Chris afferrò le redini del cavallo di Kate e la portò via. «Non credo», disse, «ci convenga aspettare che ritornino. Non te l'ha detto, la tua mamma, di non fermarti a parlare con gli sconosciuti?

Soprattutto nei boschi!».

«A dir la verità, credevo si dovesse dar loro del cibo per avere in cambio il loro aiuto».

«Solo nel mondo delle favole», disse Chris. «Nella realtà, se ti fermi a dar da mangiare a un mendicante nel bosco, finirai depredata e uccisa. È per questo che nessuno si ferma mai».

Chris continuava a sorridere. Sembrava divertito e tranquillo.

Kate si rese conto di non essersi mai accorta che Chris era, in fondo, un uomo assai attraente, dotato di un suo speciale e autentico appeal. "Forse, è solo perché mi ha appena salvato la vita", pensò Kate. Si trattava di semplice gratitudine.

«Dov'eri finito?», gli domandò lei dopo un po'.

Chris scoppiò a ridere. «Ti stavo cercando. Credevo che fossi davanti a me».

Giunsero a una biforcazione del sentiero. La via principale sembrava quella che deviava verso destra, in leggera discesa; a sinistra, in piano, aveva inizio un sentiero più stretto e, apparentemente, molto meno battuto.

«Da che parte andiamo?», domandò Kate.

«Io prenderei la via più battuta» rispose Chris. Fece strada, e Kate fu ben felice di accodarsi. La vegetazione, in quel punto, era particolarmente lussureggiante, con felci che raggiungevano i due metri di altezza e, simili a enormi orecchie di elefante, oscuravano la visuale. Udì il distante scroscio dell'acqua corrente. La pendenza del terreno continuava ad aumentare, e i cavalli faticavano a trovare l'appoggio a causa del sottobosco fitto e rigoglioso. Kate e Chris smontarono da cavallo e procedettero a piedi.

Il pendio era ormai piuttosto ripido, e il sentiero si trasformò in una pista fangosa. Chris scivolò e cercò di frenare la caduta aggrappandosi a dei cespugli, ma non ci fu nulla da fare e, con un grido, scomparve al la vista di Kate. Dopo un po', chiamò:

«Chris!».

Silenzio.

Provò con l'auricolare. «Chris!».

Nulla.

Kate non sapeva se proseguire o tornare indietro.

Decise di seguire Chris, ma con prudenza, dato che aveva avuto modo di vedere quanto fosse scivoloso il cammino. Ciononostante, dopo pochi passi, Kate si sentì mancare la terra sotto i piedi e prese a scivolare nel fango, sbattendo più volte con violenza contro gli alberi.

Il pendio era sempre più ripido. Kate schizzava giù sulla schiena, con i piedi avanti a fare da paraurti e da apripista. Gli arbusti le graffiavano la faccia e le laceravano le mani, quando tentava di afferrarvisi. Sembrava incapace di arrestare la sua caduta.

Il pendio si fece ancora più ripido. Tra gli alberi sempre più sottili cominciava a filtrare la luce. Kate stava precipitando parallelamente a una cascatella. Gli alberi, sempre più esili, terminavano venti metri più in basso. Il rumore dell'acqua scrosciante si fece più forte.

All'improvviso, Kate comprese perché gli alberi terminavano, li cominciava il precipizio.

Al di là, vi era una cascata. Proprio davanti a lei.

Presa dal panico, Kate si voltò sulla pancia e conficcò le dita come artigli nel fango, ma senza risultati. Continuava a scivolare. Non riusciva a fermarsi. Si rigirò sulla schiena, proseguendo nella sua caduta lungo quello scivolo di fango, senza poter far altro che assistere alla fine imminente. A quel punto, si ritrovò in volo, e non osò guardare in basso.

Quasi subito finì tra un fitto fogliame, a cui si afferrò.

Reggeva. Kate oscillava nel vuoto, appesa ai rami di un grosso albero che sporgeva dalla rupe. La cascata era appena sotto di lei. Non era alta come aveva temuto - quattro o cinque metri al massimo - e terminava in un piccolo bacino. Impossibile dire quanto fosse profondo.

Cercò di risalire lungo i rami fino al tronco dell'albero, ma aveva le mani infangate e viscide. Continuava a scivolare e a dimenarsi su quel ramo. Dopo un po' riuscì ad aggrapparsi anche con le gambe e, come un bradipo, tentò di arrampicarsi. Dopo due metri si rese conto di non potercela fare.

Cadde.

Andò a sbattere contro un altro ramo, due metri più in basso.

Cercò di afferrarlo, ma le mani viscide persero l'appiglio. E Kate precipitò di nuovo, finendo sopra un ramo sottostante.

Era sopra la cascata, nel punto in cui curvando bruscamente si gettava oltre l'orlo della rupe. I rami dell'albero erano umidi di bruma. Kate guardò la pozza d'acqua ribollente sotto di lei. Non riusciva a vederne il fondo; non poteva sapere quanto fosse profonda.

Appesa in equilibrio precario su quel ramo pensò:

«Dove diavolo si è cacciato Chris?». Un istante dopo, però, lasciò la presa e precipitò.

L'impatto con l'acqua gelida, ribollente, torbida e impetuosa fu traumatico.

Si capovolse, disorientata, fu risospinta in superficie e risbattuta contro le pietre sul fondo. Alla fine, riemerse proprio sotto la cascata, che le picchiava in testa con incredibile forza. Non riusciva a respirare. Tornò a immergersi, si allontanò a nuoto e riemerse alcuni metri più a valle. Lì le acque erano più calme, ma sempre terribilmente fredde.

Uscì arrancando dall'acqua e si sedette su una pietra.

Vide che l'acqua corrente l'aveva ripulita dal fango. Si sentì come rinata e felice di essere viva.

Riprese fiato e si guardò in giro. Si trovava in una angusta valle, nella luce pomeridiana leggermente offuscata dall'aria umida. La valle era lussureggiante, l'erba bagnata, gli alberi e le rocce ricoperti di muschio.

Davanti a sé, Kate vide un sentierino lastricato che conduceva a una piccola cappella.

Anche lì regnava l'umidità e il pavimento era rivestito da una sorta di muffa viscida che striava le pareti e sgocciolava dai bordi del tetto. Quella muffa era di un verde brillante.

La cappella verde.

Kate vide anche pezzi di armature ammucchiati disordinatamente accanto alla porta della cappella, vecchie corazze che arrugginivano al pallido sole ed elmi malconci, spadoni e asce gettati tutt'intorno alla rinfusa.

Kate si guardò in giro, in cerca di Chris, ma non lo vide.

Evidentemente, non era precipitato fino in fondo come lei. Con tutta probabilità, stava scendendo lungo un altro sentiero. Pensò che l'avrebbe aspettato: le aveva fatto piacere ritrovarlo, poco prima, e ora ne sentiva la mancanza.

Eppure, Chris non si vedeva.

Non si sentiva altro che il rumore della cascata in quella valle, neppure il canto degli uccelli, era un silenzio minaccioso. Kate aveva la sensazione di non essere sola. Sentiva con forza la presenza di qualcosa.

All'improvviso, dall'interno della cappella provenne un verso gutturale e animalesco.

Kate si alzò in piedi e avanzò cautamente lungo il vialetto lastricato diretta verso il mucchio delle armi.

Raccolse uno spadone e ne strinse l'impugnatura a due mani, non senza sentirsi un po' ridicola: la spada era pesante, e lei sapeva di non avere la forza né l'abilità per servirsene. Era ormai a pochi metri dalla porta della cappella.

Dall'interno proveniva un forte puzzo di decomposizione. Di nuovo risuonò quel ringhio animalesco.

All'improvviso, dalla cappella uscì un cavaliere in armatura che si piantò davanti alla porta. Era un uomo imponente, alto più di due metri, e la sua armatura era chiazzata di muffa verde. Portava in testa un pesante elmo, che impediva di vederlo in volto. In mano reggeva un'ascia bipenne, come quelle dei boia.

Il cavaliere prese ad avanzare verso di lei mulinando l'arma.

Kate indietreggiò d'istinto, gli occhi fissi sull'ascia vorticante. Il suo primo pensiero fu quello di mettersi a correre, ma il cavaliere le si era avvicinato con una tale rapidità da farle temere che l'avrebbe raggiunta quasi subito. D'altra parte, non aveva intenzione di volgergli le spalle. Tuttavia, non poteva neppure saltargli addosso, dato che quell'uomo era il doppio di lei. Il cavaliere non proferì parola. Kate non udì altro che grugniti e ringhi, versi animaleschi o da dementi.

"Dev'essere pazzo", pensò Kate.

Il cavaliere avanzava rapidamente, costringendola a una decisione.

Kate vibrò un colpo di spada con tutta la sua forza, ma l'uomo parò il colpo.

La vibrazione le fece quasi cadere il ferro di mano. Riprovò a colpire - più in basso, questa volta - mirando alle gambe, ma il cavaliere parò nuovamente il colpo e con rapida torsione dell'ascia le sfilò dalle mani la spada, che finì sull'erba poco più in là.

Kate si voltò e si mise a correre. Grugnendo e sbuffando, il cavaliere allungò un braccio e la afferrò per i corti capelli. La trascinò tra le urla dietro la cappella. Kate vide a terra un ceppo di legno ricurvo, recante le tracce di molte profonde incisioni. Capì subito di che cosa si trattava: un ceppo per le decapitazioni.

Kate non era in grado di opporre resistenza. Il cavaliere le spinse il capo con violenza sul ceppo e le premette un piede sulla schiena per tenerla ferma.

Kate cercava inutilmente di dimenarsi.

Quando l'uomo levò la sua ascia, Kate vide proiettarsi un'ombra sull'erba accanto a lei.

 

06:40:27

Il telefono squillava insistente, fortissimo. David Stern sbadigliò, accese l'abatjour sul comodino e sollevò la cornetta. «Pronto», biascicò.

«David, sono John Gordon, deve venire immediatamente all'area di transito».

Stern cercò alla cieca gli occhiali e guardò l'orologio. Erano le sei e venti del mattino. Aveva dormito tre ore.

«Dobbiamo prendere una decisione», disse Gordon. «Passo a prenderla tra cinque minuti».

«Okay», disse Stern. Posata la cornetta, si alzò dal letto e aprì le persiane.

La stanza fu invasa da una luce così forte che Stern fu costretto a socchiudere gli occhi. Si diresse in bagno per farsi una doccia.

Si trovava in una delle tre stanze allestite nei laboratori della ITC per i ricercatori che dovevano lavorare di notte. Era arredata ed equipaggiata come una stanza d'hotel, con tanto di boccette di shampoo e crema idratante sulla mensola del bagno. Stern si rase, si vestì e uscì in corridoio. Gordon non era ancora arrivato, ma Stern sentì delle voci in fondo al corridoio. Si avviò guardando dentro i laboratori davanti a cui passava. Erano tutti deserti a quell'ora.

In fondo al corridoio, però, c'era un laboratorio con la porta aperta. Un operaio stava misurando altezza e larghezza della porta. All'interno c'erano quattro tecnici in piedi intorno a un grande tavolo, su cui era posata una riproduzione in grande scala, di legno chiaro» della fortezza di La Roque e dell'area circostante. I tecnici stavano confabulando tra loro. Uno di essi tentò di sollevare il tavolo da un lato, come se stesse cercando un modo per spostarlo.

«Doniger dice che gli serve», disse il tecnico. «Vuole mostrarlo dopo la presentazione».

«Non c'è modo, secondo me, di portarlo fuori», disse un altro.

«Come hanno fatto a farlo entrare?».

«L'hanno costruito qui».

«Ci passerà, anche se per poco», disse l'uomo sulla porta, richiudendo il metro.

Incuriosito, Stern si affacciò nella stanza e si mise a osservare attentamente il plastico che raffigurava il castello, ben riconoscibile e ricco di dettagli, al centro di un più ampio complesso. Intorno al castello vi era una cintura verde, all'esterno della quale sorgevano un agglomerato di edifici squadrati e un reticolo di strade. Nel medioevo, però, tutta quella roba non esisteva: davanti al castello c'era uno spiazzo erboso.

«Che cos'è questo plastico?», domandò Stern.

«È una riproduzione di La Roque», rispose un tecnico.

«Ma non mi sembra molto realistico».

«Altroché se è realistico!», ribattè il tecnico. «Almeno, stando agli ultimi disegni architettonici che ci hanno fornito».

«Quali disegni architettonici?», domandò Stern.

I tecnici ammutolirono di colpo, guardandosi l'un l'altro con aria preoccupata. Stern vide che c'erano altre riproduzioni in scala in quella stanza: di Castelgard e del monastero della Sainte-Mère.

Alle pareti vide appesi enormi disegni. «Sembra lo studio di un architetto», pensò.

In quell'istante, Gordon si affacciò nella stanza.

«David, andiamo!».

Percorse il corridoio insieme a Gordon. Si voltò indietro e vide che i tecnici avevano girato il plastico di traverso e lo stavano portando fuori dalla porta.

«Che cos'è quella roba?», domandò Stern.

«È uno studio sull'edificazione del sito», disse Gordon. «È una cosa che realizziamo per ogni sito archeologico da noi finanziato.

L'idea è quella di inserire i monumenti storici in un contesto ambientale che ne preservi il valore turistico, ma anche accademico.

È uno studio per preservare le vedute panoramiche e cose del genere».

«Perché ve ne occupate?», domandò Stern.

«È nel nostro interesse», disse Gordon. «Per restaurare interamente un sito, spendiamo milioni di dollari e non vogliamo che il nostro lavoro venga rovinato dalla costruzione di un centro commerciale e una serie di grattacieli. Per questo studiamo la definizione del sito in senso più ampio, per fornire suggerimenti alle autorità locali». Guardò Stern perplesso e aggiunse:

«Sinceramente, non credevo che fosse così interessante».

«Ma mi dica: che cosa succede all'area di transito?».

«Ora lo vedrà».

Il pavimento di gomma dell'area di transito era stato sgombrato dai detriti e ripulito. Nei punti in cui l'acido aveva corroso la gomma, alcuni operai stavano sostituendo il rivestimento. Due degli schermi d'acqua erano già stati ripristinati, e un tecnico, con occhialoni e una strana luce incappucciata, ne stava ispezionando uno. Stern, però, con gli occhi alzati, stava osservando altri enormi pannelli di vetro, oscillanti sospesi a delle gru, in arrivo dalla seconda area di transito ancora incompiuta.

«Per fortuna stavamo approntando una seconda area di transito», disse Gordon.

«Altrimenti, ci sarebbe voluta una settimana per trasportare qua sotto dei nuovi schermi di vetro. Una vera fortuna».

Stern continuava a guardare in alto. Non si era reso conto, prima di allora, di quanto fossero grandi quegli schermi. Sospesi sopra la sua testa, quei contenitori di vetro ricurvo sembravano lunghi tre metri e larghi cinque, con una profondità di quasi un metro.

Venivano trasportati per mezzo di cinghie imbottite verso speciali montanti fissati al pavimento. «Però, non avremo altre possibilità», disse Gordon.

«Questi sono gli ultimi schermi rimasti».

«Dunque?».

Gordon si avvicinò a uno degli schermi di vetro già installati.

«In fondo, questi schermi possono essere considerati come dei grossi fiaschi», disse Gordon.

«Sono dei contenitori arrotondati che vengono riempiti tramite un'apertura superiore. Pieni d'acqua, questi contenitori pesano circa cinque tonnellate l'uno.

La curvatura ne aumenta la resistenza. Ma è proprio questo che mi preoccupa».

«Perché?», domandò Stern.

«Si avvicini». Gordon fece scorrere le dita sulla superficie vitrea. «Vede questi piccoli punti grigi? Sono minuscoli; quasi non si vedono. Prima, però, non c'erano. Temo che l'esplosione abbia fatto schizzare minuscole gocce di acido fluoridrico fin nell'altra stanza».

«E ora il vetro è pieno di scalfitture».

«Già, minuscole. Ma se queste scalfitture hanno indebolito il vetro, gli schermi potrebbero creparsi sotto pressione. Anzi, potrebbero addirittura andare in frantumi».

«E in tal caso?».

«Non disporremo più della schermatura intorno all'area di transito», rispose Gordon, guardandolo in faccia. «In altre parole, non potremmo riportare a casa i suoi amici. Sarebbe troppo alto il rischio di errori di trascrizione».

Stern si rabbuiò. «Non c'è un modo per verificare la resistenza degli schermi?».

«In realtà, no. Potremmo sottoporne uno a forte sollecitazione, se potessimo rischiare che si rompa. Non avendo schermi di ricambio, però, io lo eviterei.

Piuttosto, ho dato ordine di effettuare un esame microscopico con un polarizzatore». Indicò il tecnico con gli occhialoni che stava esaminando lo schermo.

«Questo esame è in grado di rilevare eventuali punti deboli nel vetro e fornirci una vaga idea sulla possibilità che resista. Gli occhialoni sono dotati di una videocamera digitale che trasmette i dati direttamente al computer».

«Dunque, farete una simulazione al computer. Ho capito bene?», domandò Stern.

«Una simulazione molto, approssimativa», disse Gordon.

«Probabilmente inutile. Comunque sia, ci proviamo».

«Qual è, insomma, la decisione da prendere?».

«Dobbiamo decidere quando riempire i contenitori di vetro».

«Non capisco».

«Se li riempiamo ora e vediamo che tengono, allora tutto, probabilmente, andrà per il meglio. Il fatto è che non possiamo esserne certi, perché uno dei contenitori potrebbe avere un difetto che si manifesta solo dopo una pressione prolungata.

Dunque, per questo motivo, forse, converrà riempirli all'ultimo momento».

«Quanto ci vuole per riempirli?».

«Poco. Abbiamo un idrante molto grosso. Forse, però, per ridurre al minimo lo stress a cui sottoporremo il vetro, sarà meglio farlo lentamente, nel qual caso, per riempirli tutti e nove, ci vorranno quasi due ore».

«Ma non si registrano dei fìeld-bucks se si comincia due ore prima?».

«Sì... se la cabina di controllo funziona a dovere. Le macchine della nostra cabina, invece, sono rimaste inutilizzate, nelle ultime dieci ore. I vapori degli acidi sono arrivati fin lì e possono aver danneggiato le strumentazioni elettroniche».

«Ora capisco», disse Stern. «E ognuno dei contenitori è diverso».

«Esatto. Ognuno è diverso».

Era un tipico problema scientifico del mondo reale, pensò Stern.

Valutazione dei rischi, valutazione delle probabilità. Gran parte della gente non sa che i problemi scientifici assumono perlopiù proprio questa forma.

Piogge acide, surriscaldamento del pianeta, pulizia dell'ambiente, rischi di cancro - tutte queste complesse questioni richiedevano una decisione, una valutazione. Qual è la qualità dei dati raccolti? Quanto affidabili gli scienziati che hanno svolto il lavoro?

Quanto accurata la simulazione al computer? Quanto significative le proiezioni future? Queste domande si ripresentano di continuo.

Di tali questioni complesse i media non si curano, perché è impossibile trasformarle in titoli efficaci. La gente, di conseguenza, finisce per considerare la scienza qualcosa di banale, come mai è successo prima. Persino le nozioni più radicate, come quella secondo cui i microbi causano malattie, non sono affatto dimostrate, contrariamente a quanto pensa la maggioranza della gente.

In quel particolare caso, in una situazione in cui era in gioco la sicurezza dei suoi amici, Stern si ritrovò a dover fronteggiare tutte le incertezze della scienza.

Non si sapeva se gli schermi di vetro avrebbero resistito. Non si sapeva se la cabina di controllo avrebbe fornito un adeguato supporto. Non era chiaro se fosse meglio riempire i contenitori lentamente e da subito o più rapidamente, in sèguito. Dovevano prendere una decisione, e da quella decisione dipendeva la vita o la morte di alcune persone.

Gordon lo fissava, in attesa.

«Ci sono degli schermi privi di scalfitture?», domandò Stern.

«Sì. Ce ne sono quattro».

«Allora, riempiamoli subito», disse Stern, «per gli altri, aspetteremo l'esito dell'esame e della simulazione al computer».

Gordon annuì lentamente. «Proprio come pensavo di fare io», disse.

«Qual è il suo pronostico?», domandò Stern. «Gli altri serbatoi terranno o no?».

«Il mio pronostico», rispose Gordon, «è che resisteranno. In ogni caso, ne sapremo di più tra un paio d'ore».

 

06:40:22

«Mio buon ser André, vi prego di venire da questa parte», disse ser Guy con un grazioso inchino e un cenno della mano.

Marek cercò di dissimulare lo stupore. Immaginava che, non appena fosse entrato nella fortezza, ser Guy e i suoi uomini l'avrebbero ucciso all'istante. E, invece, all'improvviso, lo trattavano con deferenza, come un ospite da onorare. Si trovava nel cuore del castello, entro il cortile centrale, e di lì scorgeva un vasto salone illuminato.

Malegant lo condusse oltre il salone, in una bizzarra struttura in pietra sulla destra. Le finestre di questo edificio, dotate di persiane e infissi di legno, avevano al posto dei vetri membrane ricavate dalle vesciche dei maiali.

C'erano candele, alle finestre, ma fuori dalla stanza, dietro quelle membrane.

Marek capì immediatamente il perché, prima ancora di entrare nell'edificio, che consisteva di un unico grande stanzone. Contro le pareti, su pedane di legno, erano ammucchiati sacchetti di tela delle dimensioni di un pugno. In un angolo, erano impilati proiettili di ferro, a formare piramidi nere. La stanza era impregnata di un odore molto particolare, intenso e secco, che Marek riconobbe subito.

Si trovava nell'arsenale.

«Ebbene, Magister, eccovi uno dei vostri aiutanti».

«Ve ne sono grato». Al centro della stanza, il professor Edward Johnston era seduto a terra, a gambe incrociate, accanto a due recipienti in pietra, contenenti misture di polvere. Tra le ginocchia stringeva un terzo recipiente e, servendosi di un pestello di pietra, stava triturando una polvere grigia, con un ritmico movimento circolare. Johnston non si fermò quando vide Marek.

Non diede il minimo segno di sorpresa.

«Ciao, André».

«Salve, Professore».

«Tutto bene?», domandò il Professore, senza smettere di pestare nel mortaio.

«Sì, grazie. Mi fa solo un po' male la gamba». In realtà, gli doleva da matti, ma la ferita era pulita, essendo stata lavata dall'acqua del fiume, e Marek contava che guarisse nel giro di qualche giorno.

Il Professore proseguiva senza tregua nella sua paziente opera.

«Molto bene, André», disse, con la sua solita voce calma. «Dove sono gli altri?».

«Chris non so dove sia», rispose Marek. Gli tornò alla mente l'immagine del compagno coperto di sangue. «Kate, però, sta bene.

Starà cercando...».

«Molto bene», disse il Professore, sottovoce, guardando di sottecchi ser Guy.

Cambiò discorso e fece cenno- al mortaio. «Hai capito che cosa sto facendo, vero?».

«Sta preparando la polvere», rispose Marek. «Il materiale è buono?».

«Non è male, tutto sommato. Il carbone è di salice.

Lo zolfo è quasi puro, mentre il nitrato è organico».

«Sterco?».

«Esatto».

«È tutto come immaginava?», domandò Marek. Una delle prime cose che Marek aveva studiato era la tecnologia della polvere da sparo, una sostanza il cui impiego cominciò a diffondersi in Europa nel XIV secolo.

Si trattava di una di quelle invenzioni che, come il mulino a vento o l'automobile, non poteva essere fatta risalire ad alcun individuo o luogo in particolare. La ricetta originale - una parte di carbone di legna, una parte di zolfo e sei parti di salnitro - proveniva dalla Cina, ma le circostanze della sua diffusione in Europa sono controverse, così come gli scopi a cui inizialmente serviva, essendo forse usata più come arma incendiaria che come esplosivo. La polvere da sparo, infatti, veniva utilizzata con armi da fuoco intese come «sistemi basati sull'uso del fuoco» e non all'interno di proiettili esplosivi sparati per mezzo di fucili o cannoni.

Le polveri da sparo delle origini, del resto, non erano granché esplosive, perché la chimica della polvere rimaneva ignota, e i metodi per trattarla non erano ancora stati sviluppati. La polvere da sparo esplode quando il carbone e lo zolfo bruciano rapidamente, e la combustione è resa possibile da una notevole presenza di ossigeno, fornito dal nitrato di potassio, o salnitro, anche se tale denominazione è più tarda. La fonte di nitrati più accessibile era costituita dai depositi di sterco di pipistrello che si trovavano nelle caverne. In origine, tale sostanza non veniva in alcun modo raffinata, bensì semplicemente aggiunta così com'era al composto.

La grande svolta del XIV secolo derivò dalla scoperta che la polvere da sparo esplodeva tanto meglio quanto più era fine.

Correttamente eseguita, la triturazione conferiva alla polvere la consistenza del borotalco. Nel corso delle lunghe ore richieste da questo procedimento, le particelle di salnitro e di zolfo penetravano nei microscopici pori del carbone di legna. Il carbone originato da legni particolari, poi - come quello del salice, ad esempio - era particolarmente apprezzato per la sua porosità.

«Non vedo il setaccio. Intende farla a pallini?».

«No», rispose Johnston, sorridendo. «Quella procedura dev'essere ancora scoperta, in quest'epoca. Ricordi?».

La procedura consisteva nell'aggiungere acqua alla polvere da sparo che assumeva, così, la consistenza di una pasta lasciata poi seccare. La polvere così trattata era molto più potente di quella miscelata a secco. La causa chimica di questo fenomeno risiede nel fatto che l'acqua scioglie una parte del salnitro che finisce, perciò, a rivestire l'interno dei pori del carbone, portandosi dietro anche parte dello zolfo, che non è solubile. La polvere così prodotta era non solo più potente, bensì anche più stabile, oltre a durare più a lungo.

Johnston, però, aveva ragione: la scoperta di quella tecnica risaliva al 1400, cioè di lì a una quarantina d'anni.

«Vuole che me ne occupi io?», disse Marek. Quel procedimento poteva andare per le lunghe; a volte, persino per sei o otto ore.

«No, ho finito, ormai». Il Professore si alzò in piedi e, rivolto a ser Guy, disse: «Dite pure a Lord Oliver che sono pronto per la dimostrazione».

«Del "fuoco greco"?».

«Non esattamente», rispose Johnston.

Nel sole del tardo pomeriggio, Lord Oliver passeggiava impaziente lungo i massicci spalti della cinta muraria più esterna. Il camminamento, in quel punto, era largo più di cinque metri e faceva sembrare piccoli i cannoni che vi si trovavano allineati.

Lo accompagnavano ser Guy e un torvo Robert de Kere. Quando comparve il Professore, alzarono tutti lo sguardo impazienti.

«Ebbene, Magister, siete pronto, finalmente?».

«Sì, mio signore», rispose il Professore, avanzando con due dei recipienti di pietra. Marek portava il terzo mortaio, in cui la finissima polvere grigia era stata miscelata a un olio denso dal forte odore di resina. Johnston gli aveva detto di non toccare quel preparato per nessuna ragione, e lui non ebbe bisogno di farselo ripetere. Era disgustosa ed emanava un puzzo insopportabile. Oltre a questo, Marek portava un altro recipiente pieno di sabbia.

«Ci mostrerete il "fuoco greco"?».

«No, mio signore. Di meglio. Il fuoco di Ateneo di Naukratis, denominato anche "fuoco automatico"».

«Ah, davvero?». Lord Oliver socchiuse gli occhi, vagamente scettico.

«Mostratecelo».

Oltre la fila dei cannoni, si estendeva lo spiazzo orientale, ai cui margini si preparavano i trabocchi nemici. Erano fuori dalla portata dei cannoni, a duecento metri di distanza. Johnston dispose i recipienti a terra tra i primi due cannoni della fila.

Caricò il primo cannone con uno dei sacchetti che Marek aveva visto appesi in gran numero nell'arsenale e, poi, con una pesante freccia interamente di metallo, penne comprese. «Questa è la vostra polvere, e questa la vostra freccia».

Passato al secondo cannone, il Professore versò la sua polvere finemente triturata in un sacchetto, che infilò poi nella bocca del cannone. Quindi, disse:

«André, la sabbia, grazie». Marek si fece avanti e posò il recipiente con la sabbia ai piedi del Professore.

«A che prò la sabbia?», domandò Oliver.

«Per precauzione, mio signore. Contro eventuali errori».

Johnston raccolse una seconda freccia e, maneggiandola con cautela per le estremità, la inserì nel cannone. La punta della freccia era scanalata, e le scanalature erano state riempite di pastella marrone dall'odore acre.

«Questa è la mia polvere, e questa la mia freccia».

L'artigliere gli porse una sottile bacchetta di legno ardente a un'estremità.

Johnston la avvicinò al primo cannone.

Vi fu una modesta esplosione, con uno sbuffo di fumo nero, e la freccia partì in volo sopra lo spiazzo, atterrando ad almeno cento metri di distanza dal trabocco più vicino.

«Ora la mia polvere e la mia freccia».

Con la bacchetta toccò il secondo cannone.

L'esplosione, questa volta, fu di notevole potenza, e dalla bocca del cannone si levò una densa nube di fumo. La freccia atterrò a non più di tre metri da uno dei trabocchi in costruzione.

Oliver sbuffò. «Tutto qui? Voi mi perdonerete se io...».

Non fece in tempo a terminare la frase, che la freccia esplose in un cerchio di fuoco, facendo schizzare piccole masse infuocate in tutte le direzioni. Il trabocco prese fuoco immediatamente, i soldati che erano nei pressi accorsero a spegnerlo portando otri d'acqua.

«Ora vedo...», disse Lord Oliver.

L'acqua, però, sembrava alimentare il fuoco anziché spegnerlo. A ogni spruzzo, le fiamme divampavano con più violenza. I soldati arretrarono confusi. Non poterono far altro che restare a guardare, finché il loro trabocco non fu ridotto a una massa di tizzoni fumanti.

«Per Dio, per Edoardo e per san Giorgio», esclamò Lord Oliver.

Johnston sorrise e fece un piccolo inchino.

«La gittata della freccia è più che raddoppiata... Come è possibile?».

«Più la polvere è fine, tanto più violenta sarà l'esplosione. Le frecce sono riempite di olio, zolfo e calce, misti a stoppa. Al contatto con l'acqua prendono fuoco... In questo caso, l'umidità è stata fornita dall'erba bagnata.

Per questo porto con me anche un recipiente pieno di sabbia: se anche solo una porzione minuscola di questa mistura mi sfiorasse le dita, a contatto con l'umidità della pelle comincerebbe a bruciare. È un'arma molto pericolosa, mio signore, difficile da maneggiare».

Si voltò verso il terzo recipiente, posto accanto a Marek.

«Ora, mio signore», disse Johnston, raccogliendo una bacchetta di legno, «vi prego di osservare con attenzione». Intinse la bacchetta nel terzo recipiente, rivestendone la punta con quella miscela oleosa e dall'odore intenso. Mostrò la bacchetta ai presenti e aggiunse: «Come vedete, nulla apparentemente è cambiato, e così sarà per diverse ore o persino giorni, finché...». Con la teatralità di un prestigiatore, versò sulla bacchetta una piccola quantità di acqua.

La bacchetta prese a sfrigolare e a far fumo, per poi incendiarsi con una fiamma di un arancione molto intenso.

«Ah», disse Oliver, sospirando per la meraviglia, «ne voglio subito in gran quantità. Quanti uomini vi servono per triturare e miscelare la vostra sostanza?».

«Mio signore, venti sono sufficienti, ma cinquanta sarebbero anche meglio».

«Avrete i cinquanta, e anche più se vorrete», disse Oliver sfregandosi le mani. «Quanto tempo sarà necessario?».

«La preparazione, di per sé, non richiede moltissimo tempo, mio signore», disse Johnston, «ma non è operazione che possa essere svolta di fretta, poiché è assai pericolosa. A ciò si aggiunga che immagazzinare grandi quantità di questa sostanza all'interno del castello è un rischio, poiché Arnaut attaccherà certamente anche con armi incendiarie».

Oliver sbuffò. «Non mi importa, Magister. Mettetevi subito all'opera, cosicché io possa servirmene questa sera stessa».

Tornati che furono all'arsenale, sotto gli occhi di Marek Johnston dispose i soldati a file di dieci, ciascuno con il suo mortaio e relativo pestello.

Johnston passò in rassegna le file dei soldati, fermandosi di tanto in tanto per dare istruzioni. I soldati borbottavano, umiliati da quello che ritenevano un «lavoro domestico», ma Johnston li convinse dicendo che quelle erano - testuali parole - «le erbe della guerra».

Passarono alcuni minuti prima che il professore raggiungesse Marek sedendosi accanto a lui in un angolo. Osservando i soldati al lavoro, Marek disse:

«Doniger non ha fatto anche a lei il discorsetto sul fatto che non si deve cambiare il corso della storia?».

«Sì. Perché?».

«Perché mi pare che stiamo fornendo a Oliver un eccessivo aiuto per difendere il suo castello contro Arnaut. Quelle frecce costringeranno Arnaut a far indietreggiare le sue macchine da guerra, rendendole inefficaci. E senza macchine ossidionali, non c'è assalto alla fortezza. Arnaut non può aspettare di prenderli per fame. I suoi soldati esigono ricompense immediate, come in tutte le compagnie del genere. Se vedono che un castello risulta imprendibile, si spostano altrove».

«Sì, è vero...».

«Secondo la storia, però, questo castello dovrebbe cadere nelle mani di Arnaut».

«Sì», disse Johnston, «ma non a causa di un assedio, bensì perché un traditore consente agli assalitori di penetrare nel castello».

«In effetti, ci ho pensato anch'io», disse Marek. «Però non ha senso: ci sono troppe porte da aprire in questo castello. Come è possibile che una sola persona ci sia riuscita? Io non credo sia possibile».

Johnston sorrise. «Tu credi che potremmo aiutare Oliver a restare in possesso del suo castello e, così, cambiare la storia».

«Be', mi stavo interrogando».

Che il castello cadesse o meno nelle mani di Arnaut - stava pensando Marek - l'evento aveva comunque un peso molto relativo sugli sviluppi futuri. La storia della guerra dei Cent'anni poteva, infatti, essere considerata come una lunga serie di assedi e conquiste più o meno significativi. Di lì a pochi anni, ad esempio, i briganti avrebbero preso la città di Moins sulla foce della Senna. Questo, di per sé, poteva essere considerato un evento di scarso rilievo, ma in realtà consentì agli assalitori di assumere il controllo del fiume e, quindi, di risalirlo fino a Parigi assaltando e conquistando anche i castelli ubicati lungo il suo corso.

C'era, inoltre, la questione di chi viveva e di chi moriva. Quando un castello veniva espugnato, infatti, molto spesso i suoi abitanti venivano massacrati.

All'interno di La Roque c'erano centinaia di persone. Se fossero sopravvissuti, le migliaia di loro discendenti avrebbero potuto probabilmente orientare il futuro in un modo diverso.

«Non potremo mai saperlo», disse Johnston. «Quante ore ci restano?».

Marek consultò il cronometro che aveva al polso. Il display segnava 05:50:29.

Si morse le labbra. Si era dimenticato che il tempo continuava a scorrere.

L'ultima volta che aveva guardato, mancavano poco meno di nove ore, che gli erano parse un tempo più che ragionevole. Sei ore sembravano già meno.

«Neanche sei ore», rispose Marek.

«E il selettore di rotta? Ce l'ha Kate?».

«Sì».

«E dov'è adesso?».

«Sta cercando il passaggio segreto». Si era ormai nel tardo pomeriggio, e Marek pensò che se Kate fosse riuscita a trovare il passaggio, sarebbe arrivata al castello nel giro di due o tre ore al più tardi.

«E dov'è andata a cercare il passaggio segreto?».

«Alla cappella verde».

Johnston sospirò. «Siete riusciti a decifrare l'enigma di Marcello?».

«Sì».

«Ed è andata da sola?».

«Sì».

Johnston scosse la testa. «Nessuno va mai in quel luogo».

«Perché?».

«Si dice che la cappella verde sia sorvegliata da un cavaliere pazzo. Pare che la sua amata sia morta proprio lì e che il dolore gli abbia fatto perdere la ragione. Avrebbe imprigionato la sorella di sua moglie in un castello non lontano e si racconta che uccida chiunque osi avvicinarsi».

«Lei crede che sia vero?», domandò Marek.

Johnston si strinse nelle spalle. «Nessuno può saperlo», rispose, «perché nessuno è mai tornato vivo di lì».

 

05:19:55

Kate serrò le palpebre e attese il colpo d'ascia. Il cavaliere, che incombeva su di lei, grugniva e gorgogliava, il respiro sempre più affannoso e concitato prima di sferrare il colpo mortale...

All'improvviso, calò il silenzio.

Sentì sulla schiena il piede del cavaliere che si spostava.

Si stava guardando in giro.

L'ascia andò a conficcarsi nel ceppo a pochi centimetri dalla faccia di Kate, ma non per un colpo fuori bersaglio. Il cavaliere aveva posato l'arma e vi si era appoggiato per guardare qualcosa alle sue spalle. Riprese a grugnire e a rantolare, apparentemente infuriato.

Kate avrebbe voluto vedere di che si trattava, ma la lama dell'ascia glielo impediva.

Udì dei passi.

C'era qualcun altro.

L'ascia fu nuovamente levata in aria, ma il cavaliere le tolse il piede dalla schiena. In tutta fretta, Kate si allontanò dal ceppo e si voltò a guardare.

Era Chris, che brandiva la spada che le era caduta poco prima.

«Chris!».

Chris sorrise a denti stretti. Kate vide che era terrorizzato e non distoglieva lo sguardo dal cavaliere verde. Con un urlo inarticolato, questi vibrò il primo sibilante colpo con l'ascia, ma Chris lo parò. I due uomini cominciarono a muoversi in tondo. Il cavaliere sferrò un secondo colpo, e Chris, per evitarlo, inciampò, cadendo a terra. Si rialzò rapidamente in piedi, proprio mentre l'ascia si conficcava nel terreno.

Kate si mise a frugare nel suo sacchetto alla ricerca dello spray paralizzante. Quello strano e anacronistico oggetto pareva fin troppo piccolo e leggero, ma era tutto ciò di cui disponeva.

«Chris!».

Alle spalle del cavaliere, Kate mostrò la bomboletta a Chris.

Questi annuì distrattamente, continuando a schivare colpi e ad arretrare. Era vistosamente affaticato, perdeva terreno sotto gli assalti del cavaliere verde.

Kate non aveva scelta: prese la rincorsa e saltò sulla schiena del cavaliere, che emise un rauco grugnito di sorpresa. Allungò il braccio con la bomboletta davanti al viso dell'uomo e spruzzò. Il cavaliere tossì e fu scosso da un tremito. Al secondo spruzzo, cominciò a barcollare. Lei saltò a terra.

Disse: «Coraggio, Chris!».

Chris, ansimante, si era adagiato su un ginocchio. Il cavaliere verde, sebbene vacillante, era ancora in piedi. Chris avanzò lentamente e gli conficcò la spada nel fianco, tra la corazza pettorale e la dorsale. Il cavaliere lanciò un grido folle e cadde sulla schiena.

Chris gli piombò addosso, gli recise i lacci dell'elmo e glielo tolse con un calcio. Kate vide gli occhi dementi, la barba folta e i capelli aggrovigliati di quell'uomo, proprio mentre Chris gli fece calare la lama tra capo e collo.

Non fu sufficiente.

La lama si impiantò nell'osso e rimase lì bloccata, senza romperlo. Il cavaliere era ancora vivo e guardava Chris con occhi stravolti dalla furia, muovendo le labbra. Chris cercò di estrarre la spada, ma era impigliata-nella gola del cavaliere, il quale all'improvviso alzò il braccio sinistro e afferrò Chris per la spalla.

Aveva una forza tremenda, demoniaca, e lo tirò a sé finché le loro facce non furono separate che da pochi centimetri. Aveva gli occhi iniettati di sangue.

I denti spezzati e marci. La barba pullulava di pidocchi e di resti di cibo.

Emanava un fetore di decomposizione.

Chris era disgustato da quel fiato acido e vomitevole. A fatica, riuscì a puntare un piede in faccia al cavaliere e si rialzò, liberandosi dalla sua morsa. Contemporaneamente anche la spada si disincagliò.

Quando Chris la levò in aria per vibrare il colpo di grazia, il cavaliere rovesciò gli occhi all'indietro e spalancò la bocca. Era morto. Le mosche cominciarono a ronzargli sulla faccia.

Chris si lasciò andare sul terreno umido, cercando di riprendere fiato. La repulsione lo assalì come un'ondata, facendolo rabbrividire in tutto il corpo.

Provò a raggomitolarsi, per farla passare. Batteva i denti.

Kate gli posò una mano sulla spalla: «Mio eroe!».

Lui la udì a malapena e non rispose. Dopo un po', passato il tremore, si rialzò in piedi.

«Mi ha fatto piacere vederti arrivare», disse Kate.

Chris annuì e sorrise. «Ho preferito prendere la via più comoda, anche se meno rapida».

Era riuscito ad arrestare la sua caduta ed era risalito, sebbene a fatica, lungo il pendio; di lì, aveva poi imboccato l'altro sentiero, che era parso loro meno battuto, per poi rivelarsi invece un comodo viottolo che raggiungeva la base della cascata, dove aveva trovato Kate sul punto di essere decapitata.

«Il resto della storia lo conosci anche tu», disse lui.

Alzò gli occhi al cielo. Calavano le prime ombre della sera.

«Quanto tempo credi che ci rimanga?».

«Non saprei... Quattro, cinque ore, forse».

«Allora, ci conviene muoverci».

Il soffitto della cappella verde era crollato in più punti, e l'interno era completamente in rovina, con un piccolo altare, cornici gotiche intorno a finestre infrante, pozze di acqua stagnante a terra. Era difficile capire che quella cappella era stata un tempo un vero e proprio gioiello architettonico, dagli archi e dalle porte elegantemente scolpiti. Dai rilievi sgocciolava ormai una muffa viscida che li aveva corrosi irrimediabilmente.

Una serpe nera strisciò via quando Chris prese a discendere la scala a chiocciola che conduceva alla cripta sottostante. Kate lo seguì con maggiore cautela.

Lì, l'ambiente era più buio, e la sola luce era quella che penetrava attraverso le fessure del pavimento della cappella. In sottofondo si udiva il costante sgocciolio dell'acqua. Il centro della stanza era occupato da un sarcofago perfettamente conservato, scolpito in una pietra nera, e da altri ormai a pezzi.

Il sarcofago intatto recava incisa sulla faccia superiore l'armatura di un cavaliere. Kate guardò la faccia corrispondente, ma la pietra era ormai stata erosa dalla muffa onnipresente, che l'aveva resa irriconoscibile.

«Che cosa diceva l'enigma?», domandò Chris. «Qualcosa a proposito dei piedi di un gigante, mi pare».

«Esatto. Bisogna contare un certo numero di passi a partire dai piedi di un gigante o da dei piedi giganteschi».

«Dai piedi del gigante», ripetè Chris, convinto. Indicò il sarcofago. I piedi del cavaliere scolpito erano due monconi arrotondati. «Credi che si riferisse a questi piedi?».

Kate corrugò la fronte. «Non mi sembrano esattamente giganteschi».

«Già...».

«Possiamo provare, però», disse lei. Si piazzò ai piedi del sarcofago. Si voltò verso destra e fece cinque passi. Poi a sinistra, e fece altri quattro passi; infine, nuovamente a destra, e dopo tre passi si ritrovò di fronte a un muro.

«Mi sa che abbiamo sbagliato qualcosa», disse Chris.

Presero a guardarsi intorno con estrema meticolosità. Ben presto Kate fece una scoperta incoraggiante: una decina di torce, ammucchiate da qualcuno in un angolo per proteggerle dall'umidità. Erano di fattura rudimentale, ma utilizzabili.

«Da qualche parte dovrà pur essere, questo passaggio», sospirò Kate.

Chris non disse nulla. Le ricerche dei fantomatici piedi del gigante - consistenti, soprattutto, nella ripulitura delle pareti dalla muffa e nell'esame dei rilievi corrosi - proseguirono per una buona mezz'ora.

Chris, infine, domandò: «Il riferimento era all'interno della cappella o alla cappella in generale?».

«Non lo so», rispose Kate. «Il testo l'ha letto e tradotto André».

«Forse, è il caso di provare a guardare anche fuori».

«Le torce, però, erano qui».

«Hai ragione».

Chris si guardò in giro, sconsolato.

«Se fra' Marcello ha ideato un enigma la cui soluzione consiste in un percorso da seguire partendo da un certo punto, non può aver scelto come riferimento il sarcofago, perché se questo fosse stato spostato, l'accesso a La Roque sarebbe stato introvabile.

Quindi, deve aver scelto qualcosa di fisso, un elemento delle pareti».

«O del pavimento».

«Giusto».

Kate stava esaminando la parete sul fondo, nella cui pietra era stata ricavata una serie di piccole nicchie.

D'improvviso, li identificò come minuscoli altari, ma erano troppo piccoli.

Notò dei resti di cera; dunque, servivano a ospitare dei ceri. Vide un gran numero di queste nicchie sulle pareti della cripta. Le superfici interne della nicchia che aveva davanti erano meravigliosamente scolpite in rilievo, con un disegno di ali d'uccello simmetricamente levate. Il rilievo era intatto, forse perché il calore delle candele aveva impedito la formazione della muffa.

Kate si soffermò sulla simmetria del disegno.

Si spostò, con una vaga agitazione, alla nicchia successiva, che ospitava un rilievo raffigurante due viti frondose. La nicchia successiva mostrava due mani giunte in preghiera. Proseguì lungo il muro, osservando una nicchia dopo l'altra.

Di figure di piedi non ce n'erano.

Chris stava tracciando ampi archi a terra con la punta di un piede, scrostando la muffa antica dal pavimento. «Piedi giganti, piedi giganti...», borbottava.

Kate lo guardò e disse: «Mi sento proprio stupida».

«Perché?».

Lei indicò la porta alle spalle di Chris, quella da cui erano entrati, che doveva essere stata, un tempo, finemente scolpita, pur essendo ormai irrimediabilmente corrosa.

Tuttavia, era ancora possibile distinguere ciò che il disegno originale raffigurava. Su ciascuno dei lati della porta vi erano cinque protuberanze, la più grossa in alto, la più piccola in basso. La coppia di protuberanze superiore presentava una specie di dentellatura che non lasciava adito a dubbi.

Si trattava di due serie - o cinque paia - di piedi.

«Ehi!», esclamò Chris. «Il punto di partenza è la porta».

«I piedi giganti...».

«Che senso ha questa decorazione?».

Kate scrollò le spalle. «A volte, le porte venivano decorate con figure grottesche e demoniache a simboleggiare la cacciata degli spiriti maligni».

Oltrepassarono la Soglia, e Kate contò cinque passi, poi altri quattro e infine ancora nove. Si ritrovò di fronte a un muro, a cui era fissato un anello di ferro arrugginito.

Furono entrambi elettrizzati da quel ritrovamento, ma quando tirarono, l'anello si ruppe.

«Evidentemente, abbiamo sbagliato qualcosa».

«Riproviamo a contare i passi».

Kate tornò alla porta e rifece il conteggio da capo, facendo passi più piccoli. Destra, sinistra, destra. Si ritrovò davanti a una zona del muro assolutamente nuda. Sospirò sconsolata.

«Non so», disse. «Ho l'impressione che stiamo sbagliando qualcosa».

Scoraggiata, protese un braccio e si appoggiò alla parete.

«Forse, hai messo dei passi ancora troppo lunghi», disse Chris.

«O troppo corti».

Chris le si avvicinò. «Lo scopriremo, vedrai».

«Lo credi davvero?».

«Certo».

Si allontanarono dal muro, ma non appena si furono voltati per tornare alla porta udirono un rumore cupo e fortissimo alle loro spalle. Nel punto del pavimento in cui avevano sostato, una grossa lastra di pietra si era spostata, rivelando, al di sotto, una scala in pietra. Si sentiva il lontano scrosciare di un fiume.

Davanti a loro, il passaggio si spalancava oscuro e minaccioso.

«Tombola!», disse Chris.

 

03:10:12

Nella cabina di controllo senza finestre soprastante l'area di transito, Gordon e Stern fissavano lo schermo del computer.

Mostrava l'immagine di cinque pannelli simboleggianti i cinque contenitori di vetro scalfiti dall'acido. Mentre guardavano, sui pannelli comparvero dei piccoli puntini bianchi.

«La posizione è quella delle scalfitture reali», disse Gordon.

Ogni puntino era accompagnato da una quantità di cifre troppo piccole per essere lette.

«E anche le dimensioni e la profondità sono quelle reali», aggiunse Gordon.

Stern tacque. La simulazione procedette. I pannelli cominciarono a riempirsi di acqua, rappresentata per mezzo di una linea orizzontale blu ascendente. Su ciascun pannello erano sovraimpressi due numeri molto lunghi, indicanti rispettivamente il peso totale dell'acqua e la pressione per centimetro quadrato esercitata sulla base dei contenitori, dove era al suo massimo.

Benché la simulazione fosse estremamente approssimata, Stern si ritrovò a trattenere il respiro. Il livello dell'acqua continuava a salire.

Si accese una lucina rossa intermittente: da uno dei contenitori cominciò a filtrare dell'acqua.

«Uno dei contenitori perde», disse Gordon.

Subito cominciò a perdere acqua anche un altro contenitore, e mentre il livello continuava a salire, una linea spezzata simile a un fulmine stilizzato rigò il pannello, che subito scomparve dallo schermo.

«Uno è andato».

Stern scosse il capo. «Qual è il grado di approssimazione di questa simulazione?».

«Molto basso, bassissimo».

Sul monitor, andò in pezzi un secondo contenitore.

Gli ultimi due si riempirono senza incidenti.

«Ecco fatto», disse Gordon. «Secondo il computer tre dei nostri cinque contenitori non sono abbastanza resistenti».

«Posto che ci si creda. Lei ci crede?».

«Io, personalmente, no», rispose Gordon. «I dati che abbiamo inserito non sono sufficientemente raffinati, cosicché il computer è costretto a impostare la simulazione sulla base di elementi incerti. In ogni caso, credo che ci converrà riempire i contenitori all'ultimo minuto».

«È una disdetta che non ci sia un modo per irrobustire i contenitori», disse Stern.

Gordon alzò gli occhi di scatto. «Che cosa intende dire?», domandò. «Ha forse in mente qualcosa?».

«Non so... Forse potremmo riempire i buchi di plastica o di mastice.

Oppure...».

Gordon stava scuotendo la testa. «Di qualunque cosa si tratti, il rivestimento deve essere uniforme e integrale».

«Non vedo come sia possibile», sospirò Stern.

«In un tempo così limitato, poi...», disse Gordon.

«Restano soltanto tre ore».

Stern si sedette su una poltroncina, accigliato. Stava pensando, inspiegabilmente, alle macchine da corsa.

Nella sua mente si susseguirono rapidissime le immagini.

Ferrari. Steve McQueen. Formula Uno. L'omino Michelin con il suo corpo di camere d'aria. Il logo giallo della Shell. Grossi pneumatici da camion che sfrecciano nella pioggia. "Strano", pensò. "A me le automobili non piacciono neanche". A New Haven possedeva un vecchissimo Maggiolino Volkswagen.

Evidentemente, il suo pensiero stava cercando di sfuggire al confronto con una realtà spiacevole.

Il rischio.

«Dunque, possiamo solo riempire i contenitori all'ultimo momento e pregare», disse Stern.

«Proprio così», confermò Gordon. «Ed è esattamente quello che faremo. Sarà difficile, ma io sono convinto che tutto andrà per il meglio».

«Non esiste un'alternativa?», domandò Stern.

Gordon scosse la testa. «Possiamo rimandare il rientro dei suoi amici.

Allestiamo un'area di transito con pannelli nuovi di zecca.

A quel punto, la riuscita sarebbe tecnicamente sicura».

«E quanto tempo ci vorrà?».

«Due settimane».

«No», disse Stern. «Non possiamo aspettare tanto.

Dobbiamo tentare».

«Sono d'accordo», assentì Gordon. «Tenteremo».

 

02:55:14

Marek e Johnston salirono per la scala a chiocciola.

In cima, trovarono Robert de Kere, che osservava con aria compiaciuta. Erano di nuovo sugli spalti di La Roque. Oliver camminava avanti e indietro, rosso in volto, furibondo.

«Non sentite la puzza?», gridò, indicando in direzione dello spiazzo, dove continuavano ad ammassarsi i soldati di Arnaut.

Stava arrivando la sera. Il sole era tramontato, e Marek pensò che dovevano essere le sei di sera. Tra le ombre incombenti, vide che i genieri avevano già allestito una decina abbondante di trabocchi, disposti su più file irregolari, separati da spazio sufficiente a evitare il propagarsi del fuoco tra le macchine.

Dietro i trabocchi, sostavano le truppe, raccolte intorno ai fuochi. E al di là di esse si stendeva il vasto accampamento di tende.

Tutto sembrava svolgersi nella più assoluta normalità, pensò Marek. I preparativi di un assedio. Non capiva per quale ragione Lord Oliver fosse così inviperito.

Dai fuochi delle truppe assedianti si levava, col fumo, uno strano odore che il vento trasportava fino a loro. Un odore come di pece bruciata. «Sì, mio signore», disse Johnston. «È pece».

Dall'espressione di Johnston, Marek comprese che neppure a lui era chiaro il motivo del turbamento di Lord Oliver. Era normale, nel corso di un assedio, il lancio di frecce infuocate oltre le mura della fortezza assaltata.

«Sì, sì», disse Oliver, «è pece. Certo che è pece. Ma non solo.

Non sentite? Alla pece hanno mischiato altro».

Marek annusò l'aria e si rese conto che Oliver, forse, aveva ragione. Se la pece era pura, infatti, il fuoco tendeva a estinguersi. Per rimediare all'inconveniente e far sì che bruciasse a dovere, la si mischiava con altre sostanze: olio, stoppa o zolfo.

«Sì, mio signore», disse Johnston. «Lo sento».

«Che cos'è?», domandò Oliver in tono accusatorio.

«Ceraunio, credo».

«Detto anche "pietra di fulmine"?».

«Sì, mio signore».

«Disponiamo anche noi di questa pietra di fulmine?».

«No, mio signore...», provò a dire Johnston.

«Ah! Lo immaginavo».

Oliver rivolse un cenno d'intesa a de Kere, come se avesse trovato conferma a chissà quali sospetti. C'era lo zampino di de Kere.

«Mio signore»., disse Johnston, «non abbiamo alcun bisogno della pietra di fulmine, poiché abbiamo di meglio: noi usiamo zolfo puro».

«Ma lo zolfo non è la stessa cosa», obiettò Oliver, cercando conforto in de Kere.

«Sì, invece, mio signore. La pietra di fulmine è pirite kerdonienne. Se polverizzata finemente da origine allo zolfo».

Oliver sbuffò. Riprese a camminare con aria torva.

«E come si spiega», disse infine, «che Arnaut sia in possesso di questa pietra di fulmine?».

«Non saprei dire, mio signore», rispose Johnston.

«La pietra di fulmine, però, è assai nota tra i militari.

Ne parlava già Plinio».

«Voi eludete le mie questioni, Magister. Io non parlo di Plinio, parlo di Arnaut, che è un porco analfabeta. Lui non sa nulla di ceraunio o di pietre di fulmine».

«Mio signore...».

«A meno che qualcuno non gliel'abbia suggerito!», gridò Oliver.

«Dove sono i vostri aiutanti?».

«I miei aiutanti?».

«Suvvia, Magister, non fate lo gnorri!».

«Uno è qui», disse Johnston, facendo cenno a Marek. «Del secondo ho saputo che è morto, mentre del terzo non ho notizia».

«Io, invece, credo che voi sappiate bene dove si trovano. Sono entrambi al servizio di Arnaut. Ecco come si spiega che sia entrato in possesso di quella pietra arcana».

Marek ascoltava con un crescente senso di disagio.

Oliver non gli era mai parso particolarmente stabile, dal punto di vista psicologico, neanche nei suoi momenti migliori.

Nell'imminenza dell'attacco, era ormai chiaramente in preda alla paranoia, fomentata da de Kere. Oliver era imprevedibile, pericoloso.

«Mio signore...», provò a dire Johnston.

«Oltre a ciò, mi sono convinto di ciò a cui ho pensato sin dall'inizio! Voi siete un uomo di Arnaut. Non avreste trascorso tre giorni al monastero della Sainte-Mère con l'abate, che con Arnaut è in combutta».

«Mio signore, se mi concedete...».

«Non lo concedo! Ora parlo io! Ho capito che tramate ai miei danni: voi e i vostri aiutanti, checché ne diciate, conoscete l'accesso segreto al castello e meditate di scappare alla prima occasione... magari questa notte stessa, approfittando della confusione cagionata dall'attacco di Arnaut».

Marek si sforzò di non lasciar trasparire emozioni, ma il loro intendimento era precisamente quello, sempreché Kate fosse riuscita a trovare il passaggio segreto.

«Aha!», esclamò Oliver, indicando Marek. «Lo vedete? È rimasto a bocca aperta. Sa bene che quanto dico risponde al vero».

Marek stava per replicare, ma posandogli una mano sul braccio, il Professore lo indusse al silenzio, cui a sua volta si attenne, scuotendo il capo.

«Come osate? Volete forse impedirgli di confessare?».

«No, mio signore. Le vostre supposizioni sono errate».

Oliver, sempre più torvo, riprese a muoversi inquieto avanti e indietro.

«Orsù, allora! Portatemi le armi che vi ho comandato!».

«Non sono ancora pronte, mio signore».

«Aha!». Rivolse un altro cenno d'intesa a de Kere.

«Mio signore, la preparazione della polvere richiede tempo».

«Il tempo scarseggia».

«Saranno pronte per tempo».

«Voi mentite, mentite mentite!». Oliver si voltò di scatto, battendo un piede a terra, e fissò lo sguardo sulle macchine ossidionali. «Guardate! Si preparano...

Ma ora ditemi, Magister. Dov'è lui?».

Dopo un breve indugio, il Professore domandò:

«Lui chi, mio signore?».

«Arnaut! Dov'è Arnaut? Le sue truppe si stanno radunando per sferrare l'attacco, ma lui - che è noto per essere sempre alla testa dei suoi soldati - non si vede. Dov'è?».

«Mio signore, io non saprei...».

«Ecco, la strega di Eltham... La vedete, là accanto alle macchine?

Ci guarda, quella donna del demonio».

Marek si voltò a guardare. Claire, in effetti, stava camminando tra i soldati al fianco di ser Daniel. Al solo vederla, il cuore gli cominciò a battere furiosamente. Tuttavia, non capiva perché lei se ne andasse a spasso così vicino alla linea del fuoco.

Claire guardava in direzione delle mura e, a un certo punto, si fermò di scatto. Marek ebbe la netta sensazione che lei l'avesse scorto. Faticò per soffocare l'impulso di levare un braccio in segno di saluto. "Mi mancherà", pensò.

«Quella Lady Claire», ringhiò Oliver, «è una spia di Arnaut, e lo è sempre stata. Ha aperto le porte di Castelgard ai suoi uomini, con la complicità del losco abate. Ma dov'è il marrano? Dov'è quel porco di Arnaut? Sembra svanito nel nulla».

Calò un silenzio carico di tensione. Sul viso di Oliver affiorò un ghigno sinistro.

«Mio signore», disse Johnston, «comprendo le vostre preoccu...».

«No, voi non comprendete!», urlò, battendo un piede a terra.

Quindi, fissandoli torvo, aggiunse: «E ora venite con me!».

La superficie dell'acqua era nera e oleosa; e puzzava, nonostante si trovasse trenta metri più in basso.

Erano sul bordo di una fossa circolare, nelle viscere del castello. Intorno a loro, pareti umide e nere, fiocamente illuminate dalle fiamme delle torce.

A un cenno di Oliver, un soldato mise in azione un verricello di ferro, e dalle profondità della fossa emerse una pesante catena.

«Lo chiamano "il bagno di Milady"», disse Oliver.

«Fu inventato da Francesco il Grosso, che nutriva una sincera passione per questo genere di cose. Si narra che Henri de Renaud sia rimasto confinato per dieci anni, prima di morire. Gli gettavano giù i ratti, che lui uccideva e mangiava crudi. Per dieci anni».

L'acqua si increspò e lasciò affiorare una pesante gabbia di metallo, dalle sbarre nere coperte di melma. Il fetore era insopportabile.

Osservando la scena, Oliver disse: «A Castelgard ve l'ho giurato, Magister! Se mi avete ingannato, vi ucciderò. Vi getterò nel "bagno di Milady"». li guardò negli occhi, reprimendo a stento la furia.

«Confessate!».

«Mio signore, non abbiamo nulla da confessare».

«Se così è, non avete nulla da temere, ma ve lo ripeto, Magister, se scopro che voi e i vostri aiutanti conoscete l'ubicazione dell'accesso segreto al castello, vi rinchiuderò quaggiù, al buio, a marcire e a morire di fame».

Illuminato dalla torcia che reggeva in una mano, de Kere si concesse un sorriso.

 

02:22:13

I gradini si inoltravano ripidi nell'oscurità. Kate scese per prima, con la torcia. Chris la seguì. Percorsero un angusto cunicolo apparentemente artificiale che sboccava in una grotta naturale. Da un punto imprecisato, in alto a sinistra, filtrava un barlume di luce naturale. Quella grotta, forse, aveva un'altra entrata.

Terminati i gradini, proseguirono su un terreno in pendenza. Sotto di loro videro una larga pozza di acqua nera e udirono lo scorrere di un fiume. L'aria era impregnata di un odore acre, come di sudore o di urina. Scivolando sui ciottoli, Kate raggiunse lo specchio d'acqua, circondato da un sottile bordo di sabbia.

E sulla sabbia c'erano delle impronte.

Numerose impronte.

«Non sono recenti», disse Chris.

«Da che parte si va?», domandò Kate, con voce che riecheggiò.

Subito, però, notò alla sua sinistra che una sporgenza di roccia era stata artificialmente ridimensionata, per consentire il passaggio intorno al bacino.

Kate si diresse da quella parte.

Le grotte non la spaventavano. Ne aveva visitate diverse in Colorado e in New Mexico, con i suoi amici rocciatori. Kate seguì il vialetto, dove scorse altre impronte, insieme a rigature chiare nella roccia che potevano essere state prodotte da colpi di spada.

«Questa grotta», disse, «non può essere troppo estesa, se la gente se ne serviva per portare acqua al castello durante gli assedi».

«Ma non serviva per l'acqua», obiettò Chris. «Il castello può attingere a un'altra fonte. Da qui passano i viveri e gli altri rifornimenti».

«Anche in questo caso, quanto può essere lunga?».

«Nel XIV secolo», disse Chris, «per un contadino non era un problema percorrere trenta o anche più chilometri a piedi in un giorno. Anche i pellegrini camminavano, in alcuni casi, per più di venti chilometri al giorno, e tra essi vi erano spesso donne e anziani».

«Ah...», fece lei.

«Un passaggio come questo potrebbe benissimo essere lungo quindici chilometri», disse Chris. Ma poi aggiunse: «Anche se spero di no».

Superata la roccia sporgente, scorsero un passaggio artificiale che conduceva lontano dal laghetto scuro.

Era largo un metro e alto un metro e mezzo. In riva al laghetto videro una minuscola imbarcazione che oscillava dolcemente, sbattendo ritmicamente contro le pietre.

Kate si voltò. «Che cosa dici? Andiamo a piedi o in barca?».

«Prendiamo la barca», disse Chris.

Salirono a bordo. Kate reggeva la torcia e Chris si mise ai remi.

Si muovevano in modo sorprendentemente rapido, sospinti da una corrente.

Stavano navigando sul fiume sotterraneo.

Kate cominciava a temere che fosse tardi. Secondo i suoi calcoli, dovevano mancare all'incirca due ore allo scadere del tempo.

Dovevano ancora arrivare al castello, trovare il Professore e Marek e raggiungere uno spazio aperto.

Fu felice, dunque, di quella corrente che li conduceva rapidamente nei meandri della grotta. La torcia crepitava e sibilava. A quel punto, udirono un fruscio, come di carta turbinante nel vento. Il rumore, sempre più forte, fu ben presto accompagnato da uno squittio, simile a quello dei topi.

Proveniva da un punto invisibile in fondo alla grotta.

Kate si voltò verso Chris con espressione interrogativa.

«È sera», disse Chris. Kate cominciò a intravederli, sempre più numerosi, una fosca nube, un torrente di pipistrelli che scorreva sopra le loro teste, diretto verso l'aria aperta. Sentì la lieve brezza prodotta dallo sbattere delle ali.

Il vorticare dei pipistrelli si protrasse per alcuni minuti.

Dopodiché calò il silenzio, rotto soltanto dai crepitii e dai sibili della torcia.

Kate e Chris continuarono la loro discesa lungo quel fiume scuro.

La torcia con alcuni improvvisi guizzi diede segno di volersi spegnere. Kate ne accese subito un'altra, delle tre rimaste. Che cosa sarebbe successo se avessero finito le torce prima di essere riusciti a tornare all'aperto? Si sarebbero messi a strisciare nel buio, cercando la via a tentoni, magari per giorni e giorni? Ce l'avrebbero fatta o sarebbero morti lì, senza poter far nulla?

«Smettila», disse Chris.

«Di fare cosa?», domandò Kate.

«Di pensarci».

«Di pensare a che cosa?».

Chris le sorrise. «Sta filando tutto liscio. Ce la faremo, vedrai».

Non gli domandò come avesse fatto a indovinare, ma fu risollevata dalle sue parole, che fossero sincere o meno.

Si lasciarono alle spalle un tratto di galleria tortuoso e molto basso e sbucarono in un'ampia grotta piena di stalattiti appese alla volta che, in alcuni punti, toccavano terra e si immergevano nell'acqua. La luce della torcia rivelò, a un certo punto, l'esistenza di un tratto di terreno percorribile a piedi. Sembrava parte di un sentiero che, forse, si dipanava per tutta la lunghezza del passaggio segreto.

Il corso d'acqua si stringeva e proseguiva rapidamente tra le stalattiti. Quel luogo, a parte il fatto che si trovava sottoterra, le ricordava le paludi della Louisiana. Comunque, stavano facendo in fretta; cominciava a sentirsi più tranquilla. A quella velocità, quindici chilometri li avrebbero coperti in pochi minuti.

Forse, potevano ancora riuscire a fare tutto entro il termine delle due ore.

Anzi, ce l'avrebbero fatta agevolmente.

L'incidente accadde così all'improvviso, che lei non fece quasi in tempo ad accorgersi di nulla. «Kate!», urlò Chris. Kate si voltò e vide una stalattite vicino all'orecchio. Oltre a colpirla alla testa, la stalattite sfilò lo stoppino infuocato dalla torcia e lo spedì, con una parabola, a ricongiungersi col suo riflesso nell'acqua.

Lo stoppino sfrigolò, dopo un ultimo guizzo, e si spense.

Erano immersi nel buio totale.

Kate si lasciò sfuggire un grido.

Non si era mai trovata in un buio simile, così completo. Udì lo sgocciolare dell'acqua, una lieve brezza, la vastità dello spazio che li circondava. La barchetta proseguiva il suo viaggio, sia pure a caso, urtando ripetutamente contro le stalattiti. Udì un grugnito. La barca oscillò pericolosamente e, subito dopo, si sentì un tonfo nell'acqua.

«Chris!?».

Kate cercò di non farsi sopraffare dal panico.

«Chris!?», ripetè. «Che cosa facciamo, adesso?».

Le rispose solo l'eco della sua voce.

 

01:33:00

La sera era scesa da poco, e il cielo da blu si era fatto nero, riempiendosi di una miriade di stelle. Lord Oliver, accantonate per il momento le minacce e le fanfaronate, stava raggiungendo, in compagnia di de Kere, il grande salone da pranzo, da cui provenivano urla e canti: i cavalieri di Lord Oliver stavano brindando e facendo baldoria prima della battaglia.

Marek tornò con Johnston all'arsenale. Consultò il cronometro, che segnava 01:32:14. Il Professore non gli domandò quanto tempo restasse, e Marek non glielo disse. In quell'istante, si udì un rumore come di vento. Gli uomini sugli spalti si misero a urlare, mentre un grosso e strano proiettile infuocato, capovolgendosi in aria, tracciava una parabola che minacciava di concludersi proprio nel cortile interno, a poca distanza da loro.

«Ecco che cominciano», disse il Professore con calma.

Il proiettile infuocato si schiantò a terra a non più di venti metri da loro.

Marek capì che si trattava di un cavallo morto dalle zampe che spuntavano rigide dalle fiamme. Si sentiva puzza di carne e di peli bruciati.

Il grasso scoppiettava e sfrigolava.

«Cristo!», disse Marek.

«È morto da molto tempo», disse Johnston, indicando le zampe irrigidite. «È consuetudine lanciare vecchie carcasse oltre le mura. Prima di notte vedremo di peggio».

Accorsero dei soldati con l'acqua per spegnere il fuoco. Johnston tornò nel laboratorio delle polveri. I cinquanta uomini stavano triturando la polvere da sparo. In un grosso recipiente, un uomo stava miscelando grandi quantità di resina e calce viva, per ottenerne la poltiglia marrone.

Mentre Marek li osservava lavorare, si udì un altro forte sibilo, seguito da un tonfo sul tetto che fece tremolare le candele alle finestre. Si udirono grida di uomini, che correvano sul tetto.

Il Professore sospirò. «Hanno centrato il bersaglio al secondo tentativo», disse. «Proprio come temevo».

«Che cosa intende dire?».

«Arnaut sa della presenza dell'arsenale e sa anche, all'incirca, dove si trova... È ben visibile dalla cima della collina. Arnaut sa che questo laboratorio è pieno di polvere e sa che, se riuscirà a colpirlo con un proiettile incendiario, potrà infliggere gravi danni al nemico».

«Salterà tutto in aria», disse Marek, guardando i sacchetti di polvere ammucchiati ovunque. Benché perlopiù la polvere medievale non esplodesse, avevano già potuto osservare che quella di Oliver era in grado di far detonare un cannone.

«Già, salterà tutto in aria», ripetè Johnston. «E molta gente, dentro il castello, morirà; ci sarà una gran confusione e un enorme incendio al centro del cortile. Ciò significa che i soldati dovranno scendere dagli spalti per cercare di spegnere il fuoco, e a quel punto...».

«...Arnaut darà l'assalto al castello».

«Esatto, e in men che non si dica».

«Siamo sicuri che Arnaut sia in grado di far penetrare qui dentro un ordigno incendiario? I muri sono di pietra e sembrano piuttosto spessi».

«Passerà dal tetto».

«Ma come...?».

«Dispone di cannoni», disse il Professore, «e di proiettili di ferro.

Arroventerà le palle di cannone, prima di spararle, nella speranza di colpire l'arsenale.

Una palla da venticinque chili sfonderà il tetto e cadrà all'interno. E quando ciò avverrà, noi dovremo essere lontani».

Fece una smorfia di disappunto. «Dove diavolo è Kate?».

 

01:22:12

Kate era persa nel buio infinito. «È un incubo», pensò, raggomitolandosi sul fondo della barchetta e sentendola scivolare alla deriva, sospinta dalla corrente contro le stalattiti come in un flipper. Malgrado l'aria fredda, cominciò a sudare. Il cuore le batteva a martello. Le pareva di riuscire a respirare a malapena.

Era sconvolta dalla paura. Provò a spostarsi, ma la barca oscillò pericolosamente. Allargò le braccia per cercare di riequilibrarla.

«Chris!?», chiamò.

In lontananza, nell'oscurità, sentì uno sciabordio, come se qualcuno stesse nuotando.

«Chris!?».

Da molto lontano giunse una voce. «Sono qui».

«Dove?».

«Sono caduto in acqua».

Sembrava lontanissimo. E, comunque, si allontanava sempre di più.

Kate era sola. Doveva trovare il modo di far luce. Cominciò a spostarsi verso la parte posteriore della barchetta, allungando le mani in cerca delle torce.

La barca oscillò di nuovo.

«Merda!».

Interruppe per un attimo le ricerche, per far sì che la barca si stabilizzasse.

«Dove sono quelle cazzo di torce?». Credeva che fossero al centro della barca, ma non riusciva a trovarle..

C'erano i remi; riconosceva al tatto le assi del fondo, ma le torce non c'erano.

Erano cadute in acqua con Chris?

Doveva assolutamente trovare il modo di far luce.

Frugò nel marsupio che aveva legato in vita. Lo aprì alla cieca, ma non poteva vedere quel che c'era all'interno. C'erano le pillole... la bomboletta spray... Le dita si strinsero intorno a un cubetto delle dimensioni di una zolletta di zucchero. Era uno dei cubetti infiammabili! Lo estrasse e se lo mise tra i denti.

Quindi, impugnò il coltello e con esso tagliò da una manica della tunica un pezzo di stoffa lungo una trentina di centimetri, che poi avvolse intorno al cubetto.

Infine, tirò la cordicella.

Aspettò.

Non accadde nulla.

Forse, il cubetto si era bagnato quando era caduta nel fiume, dopo l'esplosione del mulino. Certo, avrebbero dovuto essere impermeabili, ma era rimasta in acqua a lungo. O forse quel particolare cubetto era difettoso. Kate decise che era il caso di provare con un altro. Fece per cercarlo, ma in quel momento la stoffa che aveva in mano prese fuoco.

«Ah!», gridò. Si stava ustionando una mano. A questo non aveva pensato, ma strinse i denti e decise di non mollare la presa.

Subito, alla sua destra, scorse le torce disposte in verticale contro il lato della barca.

Ne prese una, la accostò allo straccio infuocato e la accese.

Gettò la stoffa nell'acqua, dove immerse anche la mano scottata.

Osservò da vicino e vide che, per quanto molto arrossata, la mano non era malridotta. Decise di ignorare il dolore: ci avrebbe pensato in sèguito.

Roteò la torcia e notò di essere ancora circondata da pallide stalattiti bianche che incombevano sul fiume. Kate ebbe la sensazione di muoversi nella bocca semiaperta di un qualche pesce gigantesco, tra i cui denti la sua barca continuava a sbattere.

«Chris!?».

Da lontano: «Sono qui».

«Riesci a vedere la luce della torcia?».

«Sì».

Kate si aggrappò a una stalattite, percependone la caratteristica testura viscida e gessosa. Riuscì a fermare la barca, ma non poteva certo tornare a remi da Chris, anche perché con una mano doveva reggere la torcia.

«Riesci a raggiungermi?».

«Sì».

Da un punto oscuro e lontano, Kate sentì levarsi il rumore dell'acqua mossa dalle bracciate di un nuotatore.

Quando Chris fu risalito a bordo, zuppo ma sorridente, Kate lasciò la stalattite, e la barca riprese a discendere lungo il fiume.

Trascorsero altri minuti all'interno di quella foresta di stalattiti e, infine, sbucarono in un'altra enorme grotta. La corrente si fece più forte.

Udirono uno scroscio rimbombante: più avanti doveva esserci una cascata.

A quel punto, però, Kate ebbe un sobbalzo. Aveva visto, sulla riva, un grosso blocco di pietra con delle scanalature causate dalle funi delle barche ormeggiate.

«Chris...».

«L'ho visto».

A Kate parve anche di intravedere un minuscolo sentiero appena praticabile, ma non era certa. Chris portò la barca a riva, attraccarono e scesero a terra.

C'era proprio un sentiero che portava a un cunicolo scavato artificialmente.

Vi si inoltrarono. Kate teneva la torcia davanti a sé.

Trattenne il respiro.

«Chris, c'è un gradino».

«Che cosa?».

«Un gradino, ricavato nella roccia, cinquanta metri più avanti».

Kate accelerò, imitata da Chris. «Anzi», disse, sollevando la torcia in aria, «ce n'è più di uno.

C'è tutta una scala».

Alla luce guizzante della fiamma, videro una dozzina di scalini che salivano ripidissimi e senza ringhiera fino a un soffitto di pietra, dove si notava una botola munita di un anello di ferro.

Passò la torcia a Chris e si arrampicò sulle scale.

Tirò l'anello, ma non accadde nulla. Provò a spingere, allora, aiutandosi con una spalla.

Riuscì a sollevare la pietra di un paio di centimetri.

Kate vide una luce gialla così intensa che la costrinse a socchiudere gli occhi. Il peso, però, era insostenibile, e dopo pochi secondi Kate lasciò ricadere la pietra.

Chris accorse ad aiutarla. «Accendiamo gli auricolari», disse, dandosi un colpetto sull'orecchio.

«Sei sicuro?».

«Dobbiamo correre il rischio».

Kate accese l'auricolare, che emise una breve scarica. Cominciò a udire il respiro di Chris amplificato.

«Vado io per prima», disse Kate. Si infilò una mano in tasca, ne tolse il selettore di rotta e glielo affidò.

«Per sicurezza... Non sappiamo cosa può esserci dall'altra parte».

«Okay». Chris posò la torcia a terra e, aiutandosi con la schiena, si mise a spingere contro la botola. La pietra scricchiolò e si spostò verso l'alto.

Kate si infilò nel varco e aiutò il compagno ad aprire completamente la botola.

Ce l'avevano fatta.

Erano all'interno del castello di La Roque.

 

01:13:52

Robert Doniger girò su se stesso con il microfono in mano. «Provate a domandarvi», disse all'auditorium deserto e buio. «Qual è la modalità fondamentale dell'esperienza alla fine del XX secolo. In che modo la gente vede le cose? E, soprattutto, in che modo si aspetta di vedere le cose? La risposta è semplice: in qualsiasi campo, dagli affari alla politica, dal marketing all'istruzione, la modalità dominante è lo svago, il divertimento».

Sul lato opposto del palco, vi erano tre cabine insonorizzate disposte una accanto all'altra, ciascuna contenente una scrivania e una sedia, un blocchetto per appunti e un bicchiere d'acqua. Le cabine erano aperte solo sul davanti, cosicché chi vi si accomodava poteva vedere solo Doniger e non le persone sedute nelle altre cabine.

Era così che Doniger teneva le sue presentazioni.

Era un trucco che aveva imparato da alcuni vecchi studi di psicologia della visione coatta. Ogni spettatore sapeva della presenza di altre persone nelle cabine adiacenti, ma non poteva né vederle né sentirle. E, in effetti, gli osservatori si sentivano sottoposti a una pressione tremenda, perché non sapevano che cosa stessero facendo gli altri e se fossero favorevoli o meno all'investimento.

Doniger camminava avanti e indietro sul palco. «Al giorno d'oggi, tutti sperano sempre e solo di divertirsi. Le riunioni di lavoro devono essere briose, rapide e accompagnate da grafici animati, per evitare che i dirigenti si annoino. I centri commerciali e i negozi devono essere intriganti, in modo da divertirci, nel momento in cui ci vendono la loro merce. I politici devono avere una bella immagine televisiva e dirci soltanto quello che vogliamo sentirci dire. Le scuole devono fare attenzione a non annoiare le giovani menti che si aspettano la stessa velocità e complessità della televisione. Gli studenti devono divertirsi... Tutti devono divertirsi, altrimenti cambieranno: cambieranno marca, canale, partito e anche sentimenti. Questa è la realtà della società occidentale alla fine del XX secolo.

«In altri secoli, gli esseri umani aspiravano alla redenzione o a un miglioramento, alla libertà o all'istruzione. Nel nostro secolo, invece, ci si vuole soltanto divertire. Non abbiamo tanto paura della malattia e della morte, quanto della noia, della sensazione di non saper che cosa fare del nostro tempo, della sensazione di non divertirci.

«Ma dove conduce tutta questa smania di divertimento? Che cosa farà la gente quando si stancherà della televisione e del cinema?

La risposta è nota: si lancia in attività quali lo sport, le visite di parchi a tema e così via. Un divertimento organizzato, brividi preconfezionati. Ma che farà la gente quando si stancherà dei parchi a tema e di queste emozioni precotte?

Prima o poi, anche questo artificio verrà a noia... si comincerà a comprendere che un parco dei divertimenti è in realtà una specie di prigione con entrata a pagamento.

«Il disgusto per questa artificiosità porterà la gente a cercare ciò che è autentico. «Autenticità» sarà la parola chiave del XXi secolo. Che cosa è davvero autentico, però? Qualsiasi cosa non sia costruita ad arte per ricavarne profitto o controllata dalle grandi corporation. Che esista di per sé, autonomamente, e sia dotata di una sua originalità. Naturalmente, però, nulla, nel nostro mondo moderno, può ambire a questa originalità. Il mondo moderno è l'equivalente capitalistico di un giardino formale, in cui ogni cosa è sistemata e disposta per ottenere un certo effetto. Dove nulla è intatto e nulla è autentico.

«Dove andrà allora la gente a cercare questa così rara e ambita esperienza dell'autenticità? Si finirà per rivolgersi al passato.

«Il passato è senza dubbio autentico. È il mondo che esisteva prima di Disney e di Murdoch, della Nissan e della Sony, della Ibm e di tutte le altre corporation che plasmano il presente. Il passato è venuto prima di loro, è venuto ed è trascorso senza la loro intrusione, le loro manipolazioni e le loro merci. Il passato è vero, autentico. Ed è proprio questo che lo renderà incredibilmente attraente. Ecco perché io dico che il futuro è il passato. Il passato è l'unica concreta alternativa a... sì? Che cosa c'è Diane?». Si voltò.

«C'è un problema all'area di transito. Pare che l'esplosione abbia danneggiato anche gli schermi ad acqua rimasti. Gordon ha effettuato una simulazione al computer secondo cui quattro dei contenitori andrebbero in pezzi se venissero riempiti d'acqua».

«Diane, ma questa è un'assurdità totale», disse Doniger, aggiustandosi la cravatta. «Vuoi dire che vogliono farli ritornare senza schermatura?».

«Sì».

«Non possiamo rischiare».

«Be' non è così semplice».

«Sì che lo è», tagliò corto Doniger. «Non possiamo correre un rischio del genere. Sarebbe meglio che non tornassero, piuttosto che riaverli indietro gravemente danneggiati».

«Ma...».

«Niente "ma"! Se Gordon ha avuto quegli esiti dalla simulazione, perché va avanti?».

«Crede che la simulazione non sia affidabile. Dice che è stata fatta con molta approssimazione e ritiene che il transito andrà bene».

«Non possiamo rischiare», disse Doniger, scuotendo la testa. «Non possono tornare senza schermatura, punto e basta».

Diane Kramer si morse le labbra. «Bob, io credo che...».

«Ehi», disse lui. «Abbiamo dei problemi di perdita della memoria a breve termine, per caso? Eri proprio tu che non volevi mandare Stern nel XIV secolo per via del rischio di errori di trascrizione. E adesso vieni qui a dirmi che vuoi far tornare tutto il gruppo senza schermatura? No, Diane».

«Okay», disse lei, chiaramente poco convinta. «Andrò a parlare con...».

«No. Non devi andare a parlare. Tu devi andare lì a chiudere la questione.

Stacca la spina, se è necessario, ma non permettere che quella gente ritorni.

Su questo punto ho certamente ragione, e tu lo sai benissimo».

In cabina di controllo, Gordon trasecolò: «Che cosa ha detto?».

«Che non possono tornare. Bob è stato irremovibile».

«Ma loro devono pur tornare», disse David Stern.

«Non potete impedirglielo».

«Sì, invece», disse Kramer.

«Ma...».

«John», disse Kramer, rivolgendosi a Gordon. «Glielo hai fatto vedere Wellsey?

Glielo hai fatto vedere?».

«Chi è Wellsey?».

«Wellsey è un gatto», disse Gordon.

«Wellsey è un gatto devastato», disse Kramer a Stern. «È stato uno dei primi animali che abbiamo spedito con le nostre macchine, prima di scoprire che era necessario usare gli schermi ad acqua intorno all'area di transito. Ed è tornato tutto sbagliato».

«Sbagliato?».

Kramer tornò a rivolgersi a Gordon. «Non glielo hai ancora detto?».

«Certo che gliel'ho detto», ripose Gordon. «Intende dire che ha subito gravi errori di trascrizione», disse a beneficio di Stern.

Voltandosi verso Kramer, aggiunse: «Quella, però, è roba vecchia, che risale ai tempi in cui avevamo anche problemi con i computer...».

«Fagli vedere Wellsey», disse Kramer. «Poi vediamo se è ancora così ansioso di far tornare i suoi amici. In ogni caso, Bob ha deciso: senza schermatura di sicurezza non torna nessuno, per nessuna ragione».

All'improvviso, uno dei tecnici seduti alle console disse:

«Abbiamo un field buck».

Si affollarono tutti intorno al monitor per osservare quella linea ondeggiante marcata da piccole increspature.

«Tra quanto tempo ritorneranno?», domandò Stern.

«A giudicare da questo segnale, più o meno tra un'ora».

«Sapete dire quante persone intendono tornare?», domandò Gordon.

«Non ancora, ma... sicuramente più di una. Quattro, forse cinque».

«Ci sono tutti», disse Gordon. «Devono essere riusciti a trovare il Professore e si stanno accingendo a tornare. Proprio come previsto».

«Mi dispiace», disse Kramer. «Senza schermatura, non torna nessuno, punto e basta».

 

01:01:52

Rannicchiata accanto alla botola, Kate si rialzò lentamente in piedi. Si trovava in un angusto spazio largo poco più di un metro, fiancheggiato da alte mura di pietra. La luce del fuoco proveniva da una apertura alla sua sinistra.

Grazie a essa, riuscì a individuare una porta. Alle sue spalle, una ripida rampa di scale saliva fino al soffitto di quel minuscolo locale, a dieci metri circa di altezza.

Dov'era?

Chris spuntò con la testa fuori dalla botola e indicò il fuoco.

«Credo di aver capito perché l'accesso a questo passaggio non è mai stato trovato», bisbigliò.

«Perché?».

«Perché è dietro il caminetto».

«Dietro il caminetto?», bisbigliò Kate. Subito, però, si rese conto che aveva ragione. Quello spazio angusto era uno dei passaggi segreti di La Roque, proprio dietro il camino della grande sala.

Kate avanzò con prudenza lungo il muro alla sua sinistra e si ritrovò a sbirciare nel salone, attraverso l'apertura nella parete di fondo del camino.

Tra le fiamme guizzanti, intravide l'alto tavolo di Oliver, intorno al quale, con le spalle rivolte verso di lei, erano seduti a mangiare e a bere i cavalieri, distanti non più di cinque metri.

«Hai ragione. È proprio dietro il caminetto», sussurrò Kate.

Si voltò verso il compagno e gli fece cenno di seguirlo. Stava quasi per spostarsi verso la porta quando ser Guy si voltò verso il fuoco e lanciò un'ala di pollo tra le fiamme, per poi riprendere a mangiare e a intrattenersi con i commensali.

«Dobbiamo uscire di qui», pensò Kate.

Ma era troppo tardi. Ser Guy si voltò di scatto verso il caminetto e la vide chiaramente. I loro sguardi si incrociarono. «Mio signore!», gridò ser Guy. Si alzò in tutta fretta dal tavolo e sguainò la spada.

Kate si lanciò verso la porta e provò ad aprirla, ma era chiusa a chiave o forse sbarrata da fuori. Adocchiò la stretta rampa di scale alle sue spalle.

Vide ser Guy in piedi davanti al caminetto, incerto sul da farsi. La guardò di nuovo e si tuffò nel fuoco.

Chris sbucò dalla botola e disse: «Giù!». Mentre Kate si arrampicava su per le scale, Chris abbassò la testa, al riparo.

Ser Guy menò un fendente mirando alle gambe di Kate, ma la mancò per poco, e la sua spada colpì fragorosamente la pietra. Lui la maledisse e poi si voltò verso la botola. Evidentemente, non aveva visto Chris, perché subito dopo Kate lo sentì salire di corsa le scale alle sue spalle.

Era disarmata. Non aveva nulla con cui difendersi.

Corse più veloce che potè.

In cima alle scale, a dieci metri da terra, c'era uno stretto pianerottolo.

Quando Kate vi arrivò sentì uno strato di ragnatele appiccicarlesi al viso.

Con un gesto istintivo, cercò di liberarsene. Il pianerottolo aveva una superficie di poco più di mezzo metro quadrato.

Non era facile restare in equilibrio, ma Kate era una scalatrice e non aveva problemi.

Al contrario di ser Guy, che si arrampicava a fatica su quella stretta rampa di scale, appiattendosi con la schiena contro la parete, per tenersi il più lontano possibile dal vuoto, afferrandosi a minuscole irregolarità del muro.

Aveva un'aria desolata e il respiro affannoso. Il valente cavaliere, dunque, soffriva di vertigini, ma non tanto da rinunciare all'inseguimento.

Quel disagio, anzi, pareva renderlo ancora più furioso. La fissava con sguardo omicida.

Il pianerottolo precedeva una porta rettangolare dotata di uno spioncino delle dimensioni di una monetina. Quelle scale erano chiaramente state costruite per consentire di sbirciare attraverso quel buco, che si apriva sulla grande sala.

Kate provò a spingere la porta, appoggiandovisi con tutto il suo peso, ma invece di scorrere sui cardini, il rettangolo di legno si staccò dal muro, precipitando sul pavimento del salone sottostante. Kate stava quasi per cadere anche lei.

Si trovava in alto, tra le pesanti travi di legno del soffitto della grande sala. Guardò in basso verso i tavoli. Davanti a sé vide l'enorme trave longitudinale centrale, intersecata perpendicolarmente da travi disposte a intervalli di circa un metro e mezzo. Tutte queste travi erano riccamente decorate e dotate di ulteriori rinforzi.

Senza esitare, Kate saltò sulla trave centrale. Nella sala avevano tutti gli occhi rivolti in alto e restarono a bocca aperta quando la videro. Kate udì Oliver gridare: «Per san Giorgio e tutti i diavoli dell'Inferno! È uno degli aiutanti! Ci hanno traditi!

Andate a prendere il Magister».

Battè un pugno sul tavolo e si alzò in piedi, senza distogliere lo sguardo da Kate.

«Chris, trova il Professore», disse Kate.

Nell'auricolare le giunse una scarica. «...kay.».

«Chris, mi hai sentito?».

Per tutta risposta le giunse solo il crepitio di una scarica.

Kate si spostò rapidamente lungo la trave centrale.

Malgrado il vuoto sottostante, era perfettamente a suo agio. La trave, del resto, era larga venti centimetri. Un gioco da ragazzi.

Kate udì levarsi dalla piccola folla un altro boato e, voltandosi, vide che anche ser Guy era saltato sulla trave centrale.

All'inizio, sembrava spaventato, ma la presenza di un pubblico sembrò dargli coraggio. O, forse, era solo volontà di mascherare la propria paura. Ser Guy mosse un primo passo esitante ma, trovato l'equilibrio, si lanciò rapidamente verso Kate, agitando la spada. Raggiunse il primo sostegno verticale, prese fiato e lo aggirò, per poi proseguire lungo la trave centrale.

Kate si rese conto che quella trave era troppo larga; anche ser Guy riusciva a percorrerla. Quindi, si spostò lateralmente lungo una a essa perpendicolare, verso una delle pareti più lunghe. Questa trave era molto più stretta e ser Guy avrebbe avuto più difficoltà. Aggirò alcuni dei sostegni obliqui e verticali e proseguì.

Solo allora si rese conto dell'errore che aveva commesso.

In genere, i soffitti medievali aperti prevedevano un elemento strutturale in corrispondenza delle pareti: un'altra trave, o una cornice decorativa, o altro tipo di sostegno lungo il quale Kate avrebbe potuto muoversi.

Quel soffitto, però, era stato creato secondo lo stile francese, cosicché la trave su cui si trovava, come quelle parallele, si infilava direttamente nel muro, in una indentatura appositamente realizzata un metro e mezzo più in basso rispetto al colmo del tetto. Subito, si ricordò di aver notato quelle indentature nel corso degli scavi. Dove diavolo aveva la testa in quel momento?

Era intrappolata su quella trave.

Non poteva proseguire lungo il muro perché non aveva dove appoggiarsi, e non poteva tornare verso la trave centrale perché ser Guy l'aspettava al varco. E non poteva neppure raggiungere una delle travi parallele alla sua, perché erano lontane almeno un metro e mezzo.

Non era impossibile, però era difficile, soprattutto senza cinghie di sicurezza.

Kate vide che ser Guy si stava avventurando lungo la trave su cui anche lei si trovava, bilanciandosi con cautela e agitando leggermente la spada che aveva in mano. Avanzava con un ghigno bieco. Era certo di averla ormai in pugno.

Kate non aveva scelta.

Guardò la trave accanto alla sua. Doveva saltare. Il problema era acquistare abbastanza slancio.

Ser Guy, nel frattempo, stava cercando di aggirare i sostegni obliqui e verticali. Era ormai a pochi metri da lei. Kate si rannicchiò sulla trave, inspirò, tese i muscoli e si diede lo slancio, librandosi nell'aria.

Chris tornò a sbirciare oltre l'apertura della botola.

Guardando attraverso il buco del caminetto, vide che tutte le persone presenti nel salone avevano gli occhi rivolti al soffitto.

Sapeva che lassù c'era Kate, ma non poteva far nulla per lei.

Raggiunse la porta laterale e tentò di aprirla. Vedendo che non cedeva, provò a sfondarla a spallate. Cominciava a schiudersi.

Riprovò con più forza e, dopo un cigolio sinistro, la porta si spalancò. Chris si ritrovò nel cortile più interno della fortezza.

C'erano soldati che correvano dappertutto.

Una delle palizzate che erano lungo il bordo superiore delle mura si era incendiata e anche al centro del cortile c'era qualcosa che bruciava. Nella confusione, nessuno si curava di lui.

«André, ci sei?», disse.

Una scarica elettrostatica. Nessuna risposta» Dopo un po', però, udì: «Sì».

Era la voce di André.

«Dove sei, André?».

«Con il Professore».

«Dove?», domandò Chris.

«All'arsenale».

«Dove si trova?».

 

00:59:20

In un deposito annesso ai laboratori vi erano delle gabbie che ospitavano una dozzina di animali: gatti, perlopiù, ma anche qualche topo e qualche porcellino d'India. Il locale odorava di pelo e di feci d'animale.

Guidando Stern lungo il corridoio centrale, Gordon disse: «Gli animali "sbagliati" li teniamo separati dagli altri. Siamo obbligati».

Disposte contro la parete in fondo, Stern vide tre gabbie dalle sbarre molto grosse. In una di esse, Stern vide raggomitolato un piccolo batuffolo di peluria.

Era un gatto addormentato, un persiano dalla pelliccia grigio pallido.

«Questo è Wellsey», disse Gordon.

Il gatto sembrava normale. Dormiva e respirava piano. Oltre la curva della pelliccia Stern riuscì a vedere solo metà del muso. Le zampe erano scure.

Stern si sporse per vedere meglio, ma Gordon protese un braccio per bloccarlo.

«Non si avvicini troppo», disse.

Gordon prese una bacchetta e la fece scorrere sulle sbarre della gabbia. Il gatto aprì gli occhi tutt'altro che pigramente. Li spalancò all'istante, subito vigili, però non si mosse.

Gordon passò nuovamente la bacchetta contro le sbarre.

Con un soffio terrificante, il gatto si scagliò contro le sbarre, con le fauci spalancate e i denti scoperti.

Sbattè con violenza contro la gabbia, ma riprese la rincorsa e si lanciò di nuovo e poi ancora, sempre urtando contro le sbarre e senza smettere di soffiare e di emettere miagolii strazianti.

Stern era inorridito.

Il muso dell'animale era orribilmente distorto. Da un lato sembrava normale, ma l'altra parte era chiaramente più bassa, come spostata, con una linea verticale che lo divideva in due. "Ecco cosa intendevano per "sbagliato"", pensò.

La cosa peggiore, però, era il lato del muso che prima Stern non aveva potuto vedere bene, dato che il gatto continuava a lanciarsi come un forsennato contro le sbarre della gabbia. Dietro l'orecchio deforme c'era un terzo occhio, più piccolo degli altri e solo parzialmente formato. Sotto l'occhio, vi era una chiazza di carne simile a quella del naso. Infine, sembrava spuntare anche un pezzo di mandibola, dall'aspetto di un tumore. Dal pelo spuntava un arco di denti bianchi, nonostante dietro di essi non vi fosse una bocca.

Errori di trascrizione. Ora Stern capiva che cosa significava quella formula.

Il gatto riprese a scagliarsi ripetutamente contro le sbarre e il muso cominciò a sanguinargli. «Continuerà così finché non ce ne andiamo», disse Gordon.

«Allora, è meglio andare», disse Stern.

Camminarono in silenzio per un po'. A un certo punto, Gordon disse: «Quel che si vede non è tutto. Ci sono anche trasformazioni a livello psichico. Anzi, proprio queste sono il primo chiaro sintomo degli errori di trascrizione».

«Come nel caso di quella persona di cui mi parlava?

Quella che è rimasta nel XIV secolo?».

«Già», disse Gordon. «Deckard. Rob Deckard. Era uno dei nostri marine. Ben prima che si manifestassero mutamenti esteriori, se ne verificarono di interiori.

Solo in sèguito, però, ci rendemmo conto che la causa erano gli errori di trascrizione».

«Di che tipo di mutamenti si trattava?».

«All'inizio, Rob era un ragazzo allegro, un ottimo atleta, molto portato per le lingue. Si sedeva a bere una birra con uno straniero e quando si alzava dal tavolo, aveva già cominciato ad assimilarne la pronuncia e poi - sai com'è - una frase qui, una parola là... insomma, imparava subito. E sempre con un perfetto accento. In poche settimane finiva per parlare come un madrelingua.

Era stato notato dai marine che l'avevano mandato in una delle loro scuole di lingue, ma con il passare del tempo, Rob cominciò ad accumulare un po' troppi errori di trascrizione e perse completamente la sua giovialità, trasformandosi in una persona cattiva», disse Gordon. «Veramente cattiva».

«Ah...».

«Ha massacrato di botte il custode degli impianti, qui alla ITC, perché ci stava mettendo un po' troppo tempo a controllare il suo tesserino di identificazione.

Ad Albuquerque, in un bar, ha praticamente ammazzato un uomo. Fu a quel punto che cominciammo a intuire che Deckard doveva aver riportato danni irreversibili al cervello, destinati a peggiorare ulteriormente».

Tornati in cabina di controllo, trovarono Kramer chinata sul monitor che mostrava delle fluttuazioni di campo sempre più intense. I tecnici prevedevano il ritorno di almeno tre persone, ma potevano anche essere quattro o cinque.

Dalla sua espressione era facile intuire che Kramer era combattuta; da una parte, avrebbe voluto vederli tornare tutti sani e salvi.

«Continuo a credere che il computer si sia sbagliato: i contenitori resisteranno», disse Gordon. «Ora possiamo riempirli per vedere se tengono».

Kramer annuì. «Sì, possiamo far così, ma se anche riusciamo a riempirli senza romperli, non possiamo esser certi che non esplodano dopo, a transito in corso. Sarebbe un disastro».

Stern cominciò ad agitarsi sulla sedia. Fu assalito da un'improvvisa ansia.

C'era qualcosa che gli ronzava in testa e lo infastidiva. Quando Kramer aveva detto «esplodere», nella sua mente aveva preso a scorrere la stessa sequenza di immagini che già in precedenza gli si era inspiegabilmente presentata: corse automobilistiche, grossi pneumatici da camion, l'omino Michelin, un grosso chiodo in mezzo alla strada e un copertone che ci passa sopra.

Esplosione.

I contenitori d'acqua esploderebbero. I copertoni esploderebbero.

Che cosa gli evocava la parola «esplodere».

«Per risolvere il problema», disse Kramer, «dovremmo trovare il modo di rinforzare i contenitori».

«Sì, ma ne abbiamo già parlato», disse Gordon.

«Non c'è modo di farlo».

Stern sospirò. «Quanto tempo manca?».

«Cinquantuno minuti e rotti», rispose il tecnico.

 

00:54:00

Con sua grande sorpresa, Kate sentì giungere dal basso uno scroscio di applausi. Alla fine, aveva spiccato il salto e ora penzolava avanti e indietro aggrappata alla trave. A terra, i presenti la stavano applaudendo come fossero al circo.

Rapidamente, sollevò le gambe e si rimise in piedi.

Sulla trave da cui Kate si era lanciata, ser Guy stava affrettandosi a tornare verso il grosso sostegno longitudinale, con l'intenzione di impedirle di riguadagnare il centro del soffitto.

Kate, però, si affrettò a raggiungere la trave centrale e, essendo più agile di ser Guy, lo precedette. Ebbe un attimo di tempo per raccogliere le idee e decidere sul da farsi.

Ma che cosa poteva fare?

Era in piedi al centro di quel soffitto, aggrappata a un massiccio sostegno verticale largo due volte un palo del telefono. Dal punto mediano di questo sostegno si dipartivano su entrambi i lati due travi diagonali orientate verso l'alto, fino a raggiungere il soffitto.

Queste travi erano così basse che, se avesse deciso di raggiungerla, Guy avrebbe dovuto rannicchiarsi per aggirarle.

Kate si rannicchiò, per vedere che effetto faceva.

Era tutt'altro che agevole e occorreva procedere lentamente. Si rialzò in piedi e, così facendo, sfiorò con una mano il pugnale. Si era dimenticata di averlo. Lo estrasse e lo puntò davanti a sé.

Guy la vide e scoppiò a ridere. La risata fu raccolta dalla folla sottostante.

Guy urlò qualcosa all'indirizzo dei presenti, facendoli ridere ancora più forte.

Kate lo guardò avanzare e pensò bene di indietreggiare. Gli stava concedendo spazio sufficiente per aggirare il sostegno verticale.

Kate cercò di mostrarsi terrorizzata, e non le fu difficile: si rannicchiò, stringendo il coltello nella mano tremante.

"È una questione di scelta di tempo", pensò.

Ser Guy si fermò dietro il sostegno e la osservò per un attimo.

Quindi, si accucciò e si accinse ad aggirare la trave verticale.

Abbracciò il sostegno, tenendo la spada con la destra appoggiata a esso.

Kate si slanciò in avanti e gli conficcò il pugnale in una mano, bloccandogliela contro la trave. Quindi, balzando dall'altra parte del sostegno, sgambettò ser Guy, facendogli perdere l'appoggio.

Questi rimase a penzolare nel vuoto, appeso alla trave con la mano trafitta dal pugnale. Strinse i denti, ma non emise un solo lamento. «Cristo, questa gente è davvero tosta!», pensò Kate.

Senza mollare la spada, ser Guy cercò di risalire sulla trave, ma a quel punto Kate era già tornata sull'altro lato del sostegno. I loro sguardi si incrociarono.

Ser Guy comprese subito ciò che Kate aveva intenzione di fare.

«Che tu possa bruciare all'inferno!», ringhiò ser Guy.

«Dopo di te», disse Kate.

Tolse il pugnale dal legno e dalla mano, e ser Guy precipitò in silenzio. A metà della caduta, andò a sbattere contro l'asta a cui era appesa una bandiera e per un attimo restò lì sospeso.

Subito dopo, però, l'asta si ruppe e ser Guy finì sul tavolo, mandando all'aria tutte le stoviglie. I convitati fecero un balzo all'indietro.

Ser Guy giaceva inerte tra cocci e resti di cibo.

Oliver puntò il dito all'indirizzo di Kate, gridando:

«Uccidetelo, uccidetelo!». L'ordine fu subito raccolto dagli arcieri che misero mano alle armi.

Oliver non aspettò-di vedere la scena: in fretta e furia uscì dal salone, seguito da un gruppo di soldati.

Kate udì le cameriere, i bambini e tutti gli altri che gridavano in coro:

«Uccidetelo!». Corse lungo la trave centrale diretta verso la parete del salone opposta al camino. Le frecce le sibilavano tutt'intorno, conficcandosi nel legno. Ma ormai, per loro era tardi: Kate, infatti, vide una porticina nel muro verso cui stava correndo, identica a quella da cui aveva fatto il suo ingresso nel salone. La spinse con violenza e la spalancò, infilandosi nel buio retrostante.

Si ritrovò in uno spazio molto angusto. Sbattè la testa contro il soffitto e si rese conto di essere sul lato settentrionale del grande salone, che era separato dalle mura del castello. Quindi...

Diede dei colpi al soffitto, che cominciò a cedere. Si arrampicò sul tetto e di lì raggiunse con facilità i bastioni della cinta muraria interna.

Kate notò che l'assedio era in corso. Ampi ventagli di frecce infuocate fendevano l'aria tracciando parabole perfette che terminavano nella corte sottostante.

Gli arcieri che difendevano il castello rispondevano al fuoco.

Sugli spalti i soldati caricavano i cannoni con frecce di metallo, agli ordini di de Kere, che si muoveva avanti e indietro furente.

De Kere non si accorse di lei.

Kate si diede un colpetto all'orecchio e disse: «Chris». De Kere si girò di scatto, con la mano vicino all'orecchio. All'improvviso, cominciò a guardarsi intorno concitato, prima sugli spalti e poi in cortile.

"Era de Kere! Aveva ragione Chris".

In quell'istante de Kere la vide e la riconobbe immediatamente.

Kate si mise a correre.

«Kate, sono qui», disse Chris. Nel cortile continuavano a piovere frecce infuocate. Chris agitò una mano, ma non era certo che lei l'avesse visto.

Kate disse qualcosa, ma le sue parole furono coperte dalle scariche elettrostatiche. Chris si voltò appena in tempo per scorgere Oliver che, seguito da quattro soldati, entrava in un piccolo edificio squadrato che - pensò lui - poteva essere l'arsenale.

Chris stava per mettersi sulle loro tracce, ma proprio in quel momento una palla infuocata atterrò ai suoi piedi, rimbalzò un paio di volte e si fermò poco lontano. Attraverso le fiamme, Chris vide che era una testa umana, con gli occhi aperti e le labbra serrate.

La carne sfrigolava e il grasso scoppiettava. Un soldato di passaggio la scalciò distrattamente come fosse un pallone.

Una delle frecce che continuavano a cadere sul cortile gli sfiorò una spalla, lasciandogli una scia di fuoco sulla manica. Subito sentì l'odore della pece e il calore sul braccio e sul viso. Chris si gettò a terra, ma il fuoco non si spense. Anzi, sembrava aumentare. Si rialzò in ginocchio e, servendosi del pugnale, si squarciò il farsetto, si liberò della manica in fiamme e la gettò lontano. Il dorso della mano, però, continuava a bruciare a causa di piccole gocce di pece. Strofinò la mano a terra e il fuoco infine si estinse.

Rialzandosi in piedi, disse: «André, sto arrivando».

Ma non ebbe risposta. Allarmato, balzò in piedi e vide Oliver che usciva dall'arsenale in compagnia del Professore e di Marek, conducendoli verso una porta lontana che si apriva nelle mura del castello. I soldati li punzecchiavano con le punte delle spade. A Chris la scena non piacque affatto.

Ebbe la sgradevole sensazione che Oliver avesse l'intenzione di ucciderli.

«Kate».

«Sì, Chris».

«Li vedo».

«Dove?».

«Li stanno portando verso quella porta d'angolo».

Chris li seguì, ma presto si rese conto di essere disarmato. A pochi metri da lui, una freccia infuocata si conficcò nella schiena di un soldato, abbattendolo.

Chris si chinò su di lui, gli tolse la spada e, rialzatosi in piedi, si voltò per riprendere l'inseguimento.

«Chris».

Nell'auricolare, Chris udì una voce maschile sconosciuta. Si guardò in giro, ma vide soltanto soldati che correvano e frecce infuocate che volavano dappertutto.

«Chris». La voce era suadente. «Da questa parte».

Tra le fiamme, vide una nera figura immobile come una statua che lo fissava, ignorando l'infuriare dei combattimenti. Fissava Chris con sguardo torvo. Era Robert de Kere.

«Lo sai cosa voglio, Chris?», gli domandò de Kere.

Chris non gli rispose. Soppesò nervosamente la spada nella mano.

De Kere si limitò a guardare e a sorridere sommessamente. «Hai forse intenzione di sfidarmi, Chris?».

De Kere prese ad avanzare verso di lui.

Chris inspirò profondamente, non sapendo se aspettarlo o fuggire.

All'improvviso, da una porta retrostante il salone uscì un cavaliere in armatura, ma senza elmo, che urlò: «Per Dio e per Arnaut, l'Arciprete!». Chris riconobbe subito il bel cavaliere, Raimondo. Nel cortile cominciarono a riversarsi decine e decine di soldati in verde e nero, che subito attaccarono battaglia con le truppe di Oliver.

De Kere non aveva perso di vista Chris, ma si era fermato, reso incerto da quell'imprevisto sviluppo. A quel punto, Arnaut afferrò Chris per la gola e, levando la spada, lo tirò a sé urlando:

«Dov'è Oliver?».

Chris indicò la porta d'angolo. «Fammi-vedere!».

Accompagnò Arnaut oltre quella porta. Discesero una lunga scala a chiocciola fino a una serie di stanze sotterranee ampie e tetre, dalle alte volte ricurve.

Arnaut proseguì ansimante e rosso in volto, accecato dalla furia.

Chris dovette allungare il passo, per restargli accanto. Entrarono nella seconda stanza, che era vuota come la prima. Chris, però, udì delle voci.

Una di esse sembrava quella del Professore.

 

00:36:02

Sui monitor della cabina di controllo, il campo ondulatorio generato dal computer aveva cominciato a mostrare dei picchi. Mordendosi le labbra, Kramer li vide aumentare in altezza e in ampiezza. Prese a tamburellare con le dita sul tavolo. Alla fine, disse: «Okay, riempiamo i contenitori, ma solo per vedere se resistono».

«Bene», disse Gordon, con espressione di sollievo.

Prese la rice-trasmittente e cominciò a impartire ordini ai tecnici al lavoro all'area di transito.

Sui monitor, Stern vide trasportare dei pesanti idranti verso il primo contenitore di vetro. Alcuni uomini in cima a scale a pioli si accinsero a fissare il tubo all'apertura. «Credo che abbiamo fatto la scelta giusta», disse Gordon. «Almeno...».

Stern balzò in piedi di scatto. «No», disse. «Non fatelo».

«Che cosa?».

«Non riempite i contenitori».

Kramer lo fissò perplessa. «Perché? Che cosa...?».

«Non fatelo!», gridò Stern. Sullo schermo, i tecnici stavano per collegare il tubo dell'idrante. «Ditegli di fermarsi! Non versate acqua nel contenitore!

Neanche una goccia!».

Gordon diramò l'ordine via radio. I tecnici guardarono stupiti verso la cabina di controllo, ma interruppero le operazioni e tornarono a posare gli idranti a terra.

«David», disse Gordon gentilmente. «Secondo me, dobbiamo...».

«No», disse Stern. «Non dobbiamo riempirli, i serbatoi».

«Perché no?».

«Perché rischiamo di rovinare l'effetto della colla».

«La colla?».

«Sì», disse Stern. «So come fare per rinforzare i contenitori».

«Davvero? E come?», domandò Kramer.

Gordon si rivolse ai tecnici. «Quanto manca?».

«Trentacinque minuti».

Tornò a rivolgersi a Stern: «Mancano solo trentacinque minuti, David. Non c'è tempo».

«Sì che c'è, invece», disse Stern. «Faremo in tempo, se ci sbrighiamo».

 

00:33:09

Kate scese in cortile e raggiunse il punto in cui, prima, aveva visto Chris, ma questi se n'era andato.

«Chris!?».

L'auricolare non trasmise alcuna risposta.

"E il quadratino di ceramica ce l'ho io...", pensò.

Tutt'intorno, nel cortile, c'erano cadaveri in fiamme. Passò da uno all'altro, per controllare che tra essi non vi fosse Chris.

Vide Raimondo, che le fece un cenno con il capo e con la mano, ma subito le si accapponò la pelle. Dapprima pensò che la causa fossero le ondate di calore che si levavano dai fuochi, ma poi vide che Raimondo stava sanguinando da un fianco. Cera un uomo alle sue spalle che lo stava colpendo ripetutamente con uno spadone, ferendolo alle braccia, alle spalle, al tronco e alle gambe. A ogni colpo, si apriva una ferita grave, ma non mortale.

Raimondo indietreggiò barcollando e sanguinando copiosamente.

L'avversario avanzava senza smettere di menar fendenti. Raimondo cadde all'indietro, il nemico si accanì sul suo volto, aprendogli squarci in diagonale e facendo volare brandelli di carne. Il volto dell'assalitore era nascosto dalle fiamme, ma Kate lo udì ripetere: «Bastardi! Bastardi Bastardi».

Quell'uomo parlava inglese moderno, e a quel punto Kate non ebbe difficoltà a identificarlo.

L'assalitore era de Kere.

Chris seguì Arnaut sempre più giù nelle segrete.

Davanti a loro sentirono echeggiare alcune voci. Arnaut prese ad avanzare con maggiore prudenza, tenendosi vicino al muro. Poco dopo, si affacciarono su una stanza il cui centro era occupato da una grande fossa. Sopra la fossa, sorretta da una catena, pendeva una grossa gabbia di metallo, al cui interno era imprigionato il Professore. Questi osservava impassibile i due soldati che, azionando la manovella, calavano la gabbia nella fossa. Marek, che aveva le mani legate, era stato spinto contro la parete retrostante, tenuto d'occhio da altri due soldati.

Sull'orlo della fossa, Lord Oliver assisteva compiaciuto alla discesa della gabbia. Bevve da una coppa dorata e si ripulì il mento. «Ve l'avevo promesso, Magister», disse, «e, come vedete, mantengo la mia parola». Quindi, rivolto ai soldati che giravano la manovella, disse: «Piano... più piano».

Alla vista di Oliver, Arnaut ringhiò come un cane rabbioso e sguainò la spada.

Si voltò verso Chris e disse: «Oliver è mio. Gli altri li lascio a te».

«Gli altri?», pensò Chris. C'erano quattro soldati, in quella stanza.

Tuttavia, non ebbe il tempo di obiettare, perché con un urlo belluino Arnaut si lanciò all'attacco. «Oliverrr!».

Lord Oliver, che ancora reggeva la coppa da cui aveva bevuto, si voltò e con una smorfia di disprezzo, disse: «Ecco che arrivano i porci». Gettò via la coppa e sguainò anch'egli la spada. In un attimo, cominciarono a duellare.

Chris si mise a correre verso i soldati alla manovella, pur non avendo ancora deciso quale tattica adottare. I soldati a guardia di Marek avevano le spade levate. Oliver e Arnaut combattevano furiosamente, insultandosi tra un colpo e l'altro.

Tutto accadde con estrema rapidità. Marek sgambettò uno dei soldati che gli erano accanto e lo pugnalò con una lama così piccola che Chris non riuscì neppure a vederla. L'altra guardia si voltò, e Marek gli sferrò un calcio che lo fece barcollare all'indietro, mandandolo a urtare i soldati addetti alla manovella, che mollarono la presa.

Non più frenata dai soldati, la manovella cominciò a girare più velocemente.

Doveva esserci un meccanismo a dentelli che faceva un frastuono terribile.

Chris vide scomparire la gabbia oltre l'orlo della fossa.

A quel punto aveva ormai raggiunto il primo dei due soldati, che gli rivolgevano le spalle. Non appena questi fece per voltarsi, Chris sferrò un colpo che lo ferì gravemente; subito lo colpì di nuovo, facendolo piombare al suolo.

Erano rimasti due soli soldati. Marek, con i polsi ancora legati, stava arretrando sotto l'attacco di uno di essi, muovendosi sul tronco e sulle gambe per evitarne gli assalti. L'altro soldato era accanto alla manovella, pronto alla lotta. Chris affondò, ma l'avversario parò facilmente. Marek, però, arretrando andò a urtarlo; il soldato si voltò per un attimo, e Marek gridò:

«Colpisci!». Chris calò la spada sul soldato, che si accasciò al suolo.

La manovella continuava a girare. Chris la afferrò, ma dovette allontanarsene con un balzo, per evitare l'attacco dell'ultimo soldato. La gabbia, intanto, continuava a scendere verso il fondo della fossa. Chris indietreggiò. Marek gli stava porgendo i polsi legati, ma lui non era certo di riuscire a controllare la spada.

Marek urlò: «Taglia!», e Chris tagliò. Non appena la fune fu recisa, il quarto soldato gli saltò addosso. Lottava con la furia di un animale in trappola.

Mentre arretrava, Chris fu ferito a un avambraccio. Si rese conto di essere in difficoltà, ma all'improvviso vide disegnarsi sul volto del suo avversario una smorfia di orrore. Dall'addome gli sbucò una punta di spada insanguinata. Il soldato cadde di faccia a terra, e alle sue spalle comparve Marek, con la spada ancora protesa.

Chris tornò di corsa alla manovella e, afferrandola, riuscì ad arrestarne la rotazione. Affacciandosi oltre l'orlo della buca, vide che la gabbia era ormai quasi completamente immersa nell'acqua oleosa. Del Professore affiorava appena la testa. Se la manovella avesse compiuto un altro giro, sarebbe sprofondato.

Marek raggiunse Chris e, insieme, risollevarono la gabbia. «Quanto tempo ci resta?», domandò Chris.

Marek consultò il cronometro. «Ventisei minuti».

Oliver e Arnaut, intanto, proseguivano nel loro duello.

Dall'angolo in cui si trovavano, Chris vide scaturire scintille.

La gabbia riemerse oltre l'orlo della fossa. Con il sorriso sulle labbra, il Professore disse, rivolto a Chris:

«Sapevo che saresti arrivato in tempo».

Chris afferrò le sbarre nere e viscide della gabbia e la spostò al sicuro, a pochi centimetri dal suolo della segreta, dove si formarono subito piccole pozze di fanghiglia e acqua sporca. Chris tornò alla manovella e, con l'aiuto di Marek, fece scendere la gabbia a terra. Il Professore era zuppo di melma, ma atterrando tirò un sospiro di sollievo. Chris provò ad aprire la gabbia, ma vide che era chiusa da un pesante lucchetto grosso quanto un pugno.

«Dov'è la chiave?», domandò Chris a Marek.

«Non lo so», rispose lui. «Non ho visto quel che è successo quando il Professore è stato chiuso nella gabbia».

«Professore...?».

Johnston scosse la testa. «Non so. Io stavo guardando da un'altra parte», rispose, indicando la fossa.

Marek colpì il lucchetto con la spada. Volarono scintille, ma il lucchetto resistette. La botta era riuscita appena a scalfirlo.

«Non ci riuscirai mai, André», disse Chris. «Ci serve quella maledetta chiave!».

Marek si guardò in giro, alla ricerca della chiave.

«Quanto manca?», ridomandò Chris.

«Venticinque minuti».

Scrollando il capo, disperato, Chris si avvicinò al cadavere più vicino e si mise a perquisirlo.

 

00:21:52

Nella cabina di controllo, Stern osservava i tecnici che intingevano la chiara membrana di gomma in un secchio colmo di colla, per poi applicarla, ancora grondante, all'interno della bocchetta del contenitore di vetro. Quindi, innestarono sull'apertura un tubo ad aria compressa che fece espandere la gomma. Per un attimo, a un occhio attento non sarebbe sfuggito che si trattava di una sonda meteorologica, ma subito il pallone si espanse, assottigliandosi sempre di più, divenendo trasparente e conformandosi ai contorni del contenitore di vetro, fino a occuparlo tutto. A quel punto, i tecnici lo tapparono, fecero scattare un cronometro e attesero che la colla aderisse.

«Quanto tempo resta?», domandò Stern.

«Ventuno minuti» Gordon indicò i palloni-sonda.

«È una cosa un po' artigianale, ma funziona».

Stern scosse la testa. «Già da qualche ora c'era un pensiero che mi ronzava in testa».

«Quale pensiero?».

«Gli scoppi», rispose Stern. «Continuavo a domandarmi: «Che cosa dobbiamo assolutamente evitare, qui?». E la risposta è: «Gli scoppi». Scoppi, come di pneumatici. Continuavo a pensare alle automobili e a quanto siano rari, ormai, gli scoppi di pneumatici.

Ma perché sono così rari? Perché sono rivestiti, all'interno, da una membrana auto-sigillante».

Sospirò. «Non capivo perché continuasse a tornarmi in mente questa cosa, ma alla fine si è accesa la lampadina: doveva esserci un modo per creare una membrana simile che facesse al caso nostro».

«Questa, però, non è auto-sigillante», disse Kramer.

«No», ammise Gordon, «ma si aggiungerà allo spessore del vetro e assorbirà una parte della pressione».

«Esatto», confermò Stern.

I tecnici avevano gonfiato i palloni in tutti i contenitori di vetro e li avevano tappati. Ora dovevano attendere che la colla si asciugasse. Gordon guardò l'orologio. «Ci vorranno altri tre minuti».

«E quanto ci vorrà per riempirli?».

«Sei minuti ciascuno, ma ne possiamo riempire due alla volta».

Kramer sospirò. «Diciotto minuti, in totale, se tutto va bene».

«Ce la faremo», disse Gordon. «Possiamo fare in modo di sveltire le operazioni».

«In questo modo, però, non sottoporremo i contenitori a una pressione aggiuntiva?».

«Sì, ma dobbiamo tentare».

Kramer si volse verso i monitor e vide che il field buck stava cambiando forma. I picchi del tracciato erano più netti. «Perché i field bucks stanno cambiando?».

«Non stanno cambiando», rispose Gordon, senza voltarsi a guardare.

«Sì, invece», ribadì Kramer. «Le punte sono più basse, ora».

«Più basse?».

Gordon si avvicinò, per osservare meglio. Fissando lo schermo, si rabbuiò. Si vedevano quattro picchi; poi, ne scomparve uno; infine, non ne rimasero che due. Quindi, tornarono a essere quattro, per un attimo. «Tieni presente che quello che vedi è soltanto una funzione di probabilità», disse.

«L'ampiezza del campo indica la probabilità che un dato evento si verifichi».

«In parole povere?».

Senza togliere gli occhi dal monitor, Gordon rispose: «Dev'essere successo qualcosa, laggiù. E di qualunque cosa si tratti, ha influenzato la probabilità del loro ritorno».

 

00:15: 02

Chris stava sudando. Rigirò a fatica il soldato sulla schiena e ricominciò a frugare. Aveva già speso alcuni minuti a cercare freneticamente la chiave del lucchetto tra le tuniche marroni e grigie degli altri soldati morti. I sorcotti erano lunghi, e sotto di essi i soldati indossavano maglie trapuntate. Un gran mucchio di stracci, insomma, ma non era certo facile nascondervi la chiave; Chris sapeva, infatti, che per un lucchetto come quello ci voleva una chiave di ferro piuttosto lunga.

Chris, però, addosso ai soldati non la trovò. Si rialzò in piedi imprecando.

In fondo alla segreta, Arnaut e Oliver continuavano a combattere, in un incessante e ritmato cozzare di spade. Marek, con la torcia, cercò lungo il muro e negli angoli più bui, ma senza successo.

Chris sentiva scorrere il tempo quasi fisicamente e si domandava dove potesse essere la chiave. Purtroppo - si rese conto - poteva essere praticamente dovunque: appesa a un muro o incastrata nel manico di una torcia. Si avvicinò alla manovella e, guardando intorno al meccanismo, finalmente trovò una grossa chiave di ferro. «Eccola!».

Marek alzò gli occhi e poi consultò il cronometro, mentre Chris corse ad aprire la gabbia. La chiave entrò nella toppa, ma sembrava non voler girare.

Chris pensò che si fosse inceppato il meccanismo, ma dopo trenta secondi di sforzi inutili fu costretto ad ammettere che quella non era la chiave giusta.

Alzò gli occhi verso il Professore, ancora imprigionato.

«Mi dispiace», disse Chris. «Mi dispiace davvero».

Il Professore, imperturbabile come sempre, disse:

«Stavo pensando a come si sono svolte esattamente le cose, Chris».

«Eh?».

«Credo che la chiave ce l'abbia Oliver», disse il Professore. «È stato lui a chiudermi qui dentro, e credo che la chiave se la sia tenuta addosso».

«Oliver?».

Oliver continuava a combattere, ma era ormai in evidente difficoltà. Arnaut era un guerriero certamente più abile, e Oliver, oltre a essere ubriaco, aveva anche il fiato corto. Arnaut lo sospinse verso l'orlo della fossa e lo chiuse contro la ringhiera che la delimitava. Oliver era esausto, fradicio di sudore.

Arnaut puntò la spada alla gola dell'avversario.

«Pietà!», implorò Oliver, ansimante. «Chiedo pietà».

Era chiaro, però, che non se ne aspettava. Arnaut premette con più forza, e Oliver cominciò a tossicchiare.

«Mio signor Arnaut», disse Marek facendosi avanti.

«Ci occorre la chiave della gabbia».

«Come? Quale chiave? Quale gabbia?».

Oliver, pur boccheggiante, sorrise. «Solo io so dov'è».

Arnaut esercitò una certa pressione con la spada.

«Parla».

Oliver scosse la testa. «Giammai!».

«Se parlerai», disse Arnaut, «avrai salva la vita».

Oliver lo guardò con espressione dubitativa. «Chi me lo garantisce?».

«Non sono un vile inglese traditore, io», sentenziò Arnaut.

«In cambio della chiave, giuro sul mio onore di nobile francese che non ti ucciderò».

Respirando con affanno, Oliver scrutò Arnaut in viso per alcuni secondi. Alla fine, disse: «Voglio fidarmi». Gettò a terra la spada, infilò una mano sotto la tunica e ne estrasse una pesante chiave di ferro. Marek la prese in consegna.

Oliver si volse verso Arnaut. «Ebbene, io ho fatto la mia parte.

Ora dimostra di essere un uomo di parola».

«Non ti ucciderò», disse Arnaut, «sta' pur tranquillo...». Con un balzo felino, afferrò Oliver per le ginocchia. «Voglio, però, che tu faccia un bagno».

Scaraventò Oliver oltre la ringhiera. Oliver precipitò nell'acqua melmosa sottostante, riemergendone poi sputacchiante. Imprecando, raggiunse a nuoto il perimetro della fossa e cercò un appiglio, ma le pietre che lo delimitavano erano nere e viscide di melma.

Era impossibile aggrapparvisi. Cercò tutt'intorno un approdo, sbatacchiando goffamente mani e piedi nell'acqua. Alzò gli occhi verso Arnaut e lo maledisse.

«Sai nuotare?», domandò Arnaut.

«Nuoto benissimo, maiale di un francese».

«Bene», disse Arnaut, «perché il tuo bagno durerà a lungo».

Distolse lo sguardo e, facendo un cenno a Chris e a Marek, disse:

«Vi sono debitore. Possa Dio ricompensarvi con la Sua grazia».

Detto questo, corse via per tornare a combattere. Presto, il rumore dei suoi passi svanì.

Marek aprì il lucchetto e la porta della gabbia. Il Professore ne uscì e domandò: «Quanto tempo manca?».

«Undici minuti?», rispose Marek. Si avviarono di corsa verso l'uscita delle segrete. Marek zoppicava vistosamente, ma riusciva comunque a muoversi con rapidità. Alle loro spalle, Oliver era a mollo nella fossa.

«Arnaut!», gridava Oliver, con voce che echeggiava nel sotterraneo. «Arnaut!».

 

00:09:04

I grandi schermi della cabina di controllo mostravano i tecnici intenti a riempire d'acqua i grossi contenitori di vetro che, a quanto pareva, resistevano. In cabina di controllo, però, nessuno stava assistendo a quell'operazione. Avevano tutti gli occhi fissi al monitor di una console e scrutavano le ondulazioni di un campo luccicante generato dal computer. Nei dieci minuti precedenti, i picchi erano sensibilmente diminuiti e ormai erano quasi scomparsi; anzi, quando comparivano non erano che vaghe increspature superficiali.

Eppure, tutti continuavano a guardare.

Per un attimo, le increspature parvero più marcate, più nette.

«Sta succedendo qualcosa?», domandò Kramer speranzosa.

Gordon scosse la testa. «Non credo. Mi sembrano fluttuazioni casuali».

«Mi pareva che stessero diventando più evidenti», disse Kramer.

Stern sapeva che non era così. Gordon aveva ragione: quel mutamento era il frutto di fluttuazioni casuali. Le increspature, sullo schermo, continuavano a essere intermittenti e instabili.

«Qualunque problema abbiano, laggiù», disse Gordon, «non l'hanno ancora risolto».

 

00:05:30

Tra le fiamme che si levavano dal cortile centrale di La Roque, Kate vide il Professore e gli altri sbucare da una porta in lontananza. Corse loro incontro. All'aspetto sembravano in buona salute. Il Professore le fece un cenno. «Ce l'hai ancora il quadratino di ceramica?», domandò Kate a Chris.

«Sì, ce l'ho qui». Se lo tolse di tasca e lo girò per premere il pulsante.

«Non c'è abbastanza spazio».

«Sì che c'è», obiettò Chris.

«No. Ci vogliono due metri di spazio tutt'intorno, ricordi?».

Erano circondati dal fuoco. «In questo cortile non troveremo un posto che fa al caso nostro».

«Giusto», concordò il Professore. «Dobbiamo raggiungere il cortile esterno».

Kate alzò gli occhi e vide che l'accesso al cortile più esterno distava di lì una quarantina di metri, e la saracinesca era sollevata. Anzi, quel varco sembrava del tutto incustodito: i soldati dovevano averlo abbandonato per combattere.

«Quanto tempo manca?».

«Cinque minuti».

«Okay», disse il Professore. «Sbrighiamoci».

Si lanciarono di corsa verso l'accesso al cortile più esterno, aggirando fuochi e soldati intenti a combattere. Il Professore e Kate guidavano il gruppo. Marek, stringendo i denti per resistere al dolore, li seguiva a breve distanza, mentre Chris, preoccupato per lui, gli copriva le spalle.

Kate raggiunse l'entrata del passaggio. Era completamente sguarnito. Passarono sotto la saracinesca, ma quando giunsero all'uscita del passaggio, Kate disse:

«Oh, no!».

Nel cortile più esterno si erano radunati tutti i soldati di Oliver. Centinaia di cavalieri e di paggi che correvano avanti e indietro, urlando ordini agli uomini sugli spalti e trasportando armi e provviste.

«Qui non c'è spazio», disse il Professore. «Dobbiamo uscire dal castello».

«Uscire?», disse Kate. «Non ce la faremo ad attraversare questo cortile».

Marek li raggiunse claudicante e affannato. Diede un'occhiata al cortile e disse: «La garitta».

«Giusto», disse il Professore, annuendo. Indicò verso l'orlo superiore delle mura. «La garitta».

La garitta era la piattaforma di legno recintata e aggettante oltre le mura, da cui i soldati potevano tirare contro gli attaccanti. Se fossero riusciti a raggiungerla e a percorrerla tutta, avrebbero aggirato il cortile trovandosi dal lato della porta più esterna del castello.

«Dov'è Chris?», domandò Marek.

Si guardarono in giro.

Era scomparso.

Chris si era messo alle spalle di Marek perché pensava che l'amico potesse aver bisogno d'aiuto. Proprio mentre si domandava se sarebbe stato in grado di trasportarlo di peso, fu sospinto con violenza da un lato finendo a sbattere contro un muro. Sentì una voce maschile, alle sue spalle, che parlava in perfetto inglese. «Tu resti qui, amico». Chris si sentì pungere alla schiena da una spada.

Voltatosi, si trovò di fronte Robert de Kere, che lo afferrò per il collo e lo sbattè contro un altro muro.

Chris notò con grande preoccupazione che si trovavano appena fuori dall'arsenale. Con il cortile in fiamme, non era esattamente il posto ideale in cui trovarsi.

De Kere pareva non curarsene. Sorrideva. «Anzi», disse, «nessuno di voi pezzi di merda se ne andrà di qui».

«Perché?», disse Chris, senza perdere di vista la spada.

«Perché tu hai il selettore, amico».

«No, ti sbagli».

«Hai dimenticato che riesco a captare le vostre comunicazioni via auricolare?». De Kere protese una mano. «Dai, dammelo».

Tornò ad afferrare Chris per il bavero e lo sbattè contro una porta, che si spalancò. Chris rotolò nell'arsenale, che era stato abbandonato da tutti.

Tutt'intorno erano ammucchiati sacchetti pieni di polvere da sparo. I recipienti usati dai soldati per preparare la polvere erano ancora posati a terra.

«Il vostro Professore del cazzo», disse de Kere, vedendo i mortai, «crede di sapere tutto. Dammi qua!».

Chris infilò una mano sotto il farsetto, alla ricerca del marsupio.

De Kere schioccò le dita. «Dai, dai, sbrìgati».

«Un attimo», disse Chris.

«Siete tutti uguali, voi», disse de Kere. «Siete uguali a Doniger.

Lo sai che cosa mi aveva detto Doniger?

"Non ti preoccupare, Rob, stiamo approntando una nuova tecnologia che ti rimetterà a posto". Così ha detto, ma poi non ha approntato niente. Non ci ha neanche mai pensato. Mentiva, come ha sempre fatto.

Guarda la mia faccia». Si toccò lo sfregio che la bisecava. «Mi fa sempre male. C'è qualcosa a livello osseo.

Mi fa un male tremendo. E dentro sono tutto incasinato. E soffro».

De Kere fece un cenno nervoso con la mano. «Dai, sbrìgati! Se la fai lunga, ti ammazzo!».

Chris strinse la mano intorno alla bomboletta spray.

A che distanza faceva effetto? Comunque, non aveva scelta.

Chris inspirò e spruzzò il gas in faccia al suo aggressore. De Kere tossì, più irritato che sorpreso e si fece avanti. «Pezzo di merda!», disse. «Credi di aver avuto una bella idea? Credi di essere furbo, eh?».

Punzecchiandolo con la spada, sospinse Chris all'indietro.

«Per questa stronzata finirai sbudellato». Provò a trafiggerlo, ma Chris riuscì a sfuggirgli. Evidentemente, lo spray un po' di effetto lo aveva avuto.

Chris spruzzò di nuovo, da più vicino, questa volta, e si spostò sul tronco per evitare un altro colpo di de Kere, che si abbattè a terra, rovesciando uno dei mortai pieni di polvere.

De Kere vacillò, ma rimase in piedi. Chris gli spruzzò in faccia un'altra dose di gas, ma de Kere non cadde. Anzi, vibrò un ulteriore colpo. Chris cercò di evitarlo, ma la lama lo ferì al braccio destro, appena sopra il gomito. Dalla ferita il sangue cominciò a sgorgare e a sgocciolare a terra. La bomboletta gli cadde di mano.

De Kere fece un ghigno mostruoso. «I giochetti non funzionano, qui», disse.

«È la realtà, amico, e questa è una spada vera.

Prepàrati a morire».

De Kere levò nuovamente in aria la spada. Non aveva ancora recuperato appieno le forze, dopo l'inalazione del gas, ma era perfettamente in grado di manovrare l'arma. Quando sferrò il colpo, Chris si spostò di scatto, cosicché la lama finì tra i sacchetti di polvere ammucchiati contro la parete retrostante.

L'aria si riempì di pulviscolo grigio. Chris arretrò di nuovo e posò un piede contro uno dei recipienti di pietra contenenti la polvere. Stava quasi per calciarlo lontano, ma poi si accorse che il mortaio non era pieno di polvere, bensì di una pasta densa dall'odore acre che riconobbe immediatamente: era calce viva.

"Il fuoco automatico", pensò,Chris.

Si chinò e raccolse il recipiente.

De Kere si fermò.

Aveva capito.

Chris approfittò dell'esitazione di de Kere e gli scagliò il recipiente in faccia. Lo colpì al petto, ma schizzi di calce viva lo raggiunsero anche al volto.

De Kere urlò inferocito.

Ora a Chris serviva dell'acqua. Dove trovarla? Si guardò in giro disperatamente, perché già conosceva la triste verità: in quella stanza di acqua non ce n'era.

De Kere l'aveva costretto in un angolo e ghignava soddisfatto.

«Non c'è acqua. Vero, furbone?», disse. «Che peccato!».

Si avvicinò con la spada puntata. Chris era con le spalle al muro, convinto che fosse ormai finita, per lui. Gli altri, perlomeno, sarebbero potuti tornare a casa.

Lo vide avanzare, spavaldo, compiaciuto. Chris ne sentiva il fiato. Era a tiro di sputo.

"Posso sputargli!".

L'azione fu praticamente simultanea al pensiero.

Chris sputò contro de Kere, ma non in faccia, bensì sul petto. Al contatto con la calce la saliva cominciava a fumare e a sfrigolare.

De Kere si guardò il petto terrorizzato.

Chris sputò ancora e, poi, ancora.

Lo sfrigolio aumentò. Chris vide le prime scintille.

In un attimo divamparono le fiamme, e de Kere ne fu avvolto. Cercò freneticamente di spegnerle con le mani, ma contribuì soltanto a peggiorare la situazione, perché sparse ulteriormente la calce, riempiendosene le dita. Lo sfrigolio aumentò ancora, al contatto della calce con l'umidità della pelle.

«Prepàrati a morire, amico».

Corse verso la porta. Alle sue spalle sentì una vampata. Chris si voltò. De Kere, trasformato in una torcia umana, lo stava guardando.

Chris riprese a correre più veloce che potè, il più lontano possibile dall'arsenale.

Sulla soglia della cinta muraria più interna, i compagni di Chris lo videro arrivare di corsa. Faceva loro dei gesti, ma non riuscivano a decifrarli.

Aspettavano che li raggiungesse.

«Andate! Andate!», urlava Chris, facendo ampi cenni. Marek vide uscire delle lingue di fuoco dalle finestre dell'arsenale.

«Via!», disse. Spinse gli altri dietro l'angolo, nel cortile più esterno.

Chris imboccò in tutta fretta il passaggio e, all'uscita, Marek lo afferrò per un braccio, tirandolo al riparo, un istante prima che l'arsenale esplodesse.

Un'enorme sfera di fuoco si levò al di sopra delle mura. Il cortile fu completamente sommerso dalla luce del fuoco. Soldati, tende e cavalli vennero travolti dall'onda d'urto. C'erano confusione e fumo dappertutto.

«Lasciamo perdere la garitta», disse il Professore.

«Andiamo». Si lanciarono di corsa in cortile, diretti verso la porta più esterna del castello.

 

00:02:22

In cabina di controllo si levarono grida di gioia.

Kramer saltava come una molla. Gonion si complimentava con Stern.

Sul monitor erano ricomparse le fluttuazioni di campo. Intense e marcate.

«Stanno tornando a casa!» gridò Kramer.

Stern aveva gli occhi fissi sui monitor che mostravano i contenitori d'acqua dell'area di transito. Alcuni di essi erano già stati riempiti e, a quanto pareva, resistevano. Le operazioni di riempimento degli altri contenitori erano in corso, ma volgevano al termine.

«Quanto manca?», domandò.

«Due minuti e venti secondi».

«Quanto ci vorrà per finire di riempire i contenitori?»

«Due minuti e dieci».

Stern si morse le labbra. «Ce la faremo?».

«Puoi scommetterci il culo», disse Gordon.

Stern tornò a osservare le fluttuazioni di campo.

Erano sempre più nette e potenti. Un picco si stabilizzò, per poi dividersi in punte distinte. «Quanti sono?», domandò, pur conoscendo già la risposta.

«Sono in tre», disse uno dei tecnici. «A quanto pare ne tornano solo tre».

 

00:01:44

La porta più esterna del castello era chiusa: la pesante saracinesca era abbassata e il ponte levatoio era sollevato. Cinque guardie giacevano a terra esanimi.

Marek sollevò la saracinesca di quel tanto che bastò a passare dall'altra parte. Rimaneva, comunque, il ponte levatoio.

«Come facciamo ad aprirlo?», domandò Chris.

Marek stava esaminando le catene fissate nella pietra. «Là!», esclamò, indicando verso l'alto. C'era un meccanismo a manovella.

«Voi restate qui», disse Marek. «Vado io».

«Sbrìgati, però», disse Kate.

«Non ti preoccupare».

Arrancando su per una scala a chiocciola, Marek raggiunse una minuscola e spoglia guardiola in pietra, occupata in gran parte dalla manovella che azionava il ponte levatoio. Accanto a questa, Marek vide un vecchio che teneva una sbarra di ferro in un anello della catena. Era lui che teneva chiuso il ponte. Marek spinse via il vecchio e tolse la sbarra che bloccava il meccanismo. La catena, sferragliando, si srotolò, e il ponte cominciò ad abbassarsi. Guardò il cronometro e sobbalzò, vedendo che segnava

 

00:01:19.

«André», sentì chiamare via auricolare. «Sbrìgati, dai!».

«Arrivo».

Marek fece per avviarsi, ma sentì un rumore di passi affrettati. Sul tetto della guardiola c'erano dei soldati che accorrevano per vedere come mai il ponte levatoio si stesse abbassando. Se fosse fuggito i soldati avrebbero subito bloccato l'apertura del ponte.

Marek comprese subito di doversi trattenere.

A terra, Chris stava osservando il ponte che si abbassava con gran fragore di catene. Attraverso il varco apertosi intravide il cielo stellato. «Dai, André!

Vieni giù!».

«Ci sono dei soldati».

«E allora?».

«Devo impedire che blocchino la catena».

«Che cosa stai dicendo?», domandò Chris.

Marek non rispose. Chris udì un rantolo e un grido di dolore.

Marek era lassù impegnato a combattere.

Chris osservò il ponte che continuava a scendere.

Guardò il Professore, che fissava nel vuoto con uno sguardo inespressivo.

Marek era in piedi presso la scala a chiocciola, con la spada sguainata. Sulla soglia della guardiola uccise un primo soldato e, subito dopo, un secondo, spingendoli da parte a calci per tenere sgombro il terreno.

Gli altri soldati, vista la malaparata, si fermarono, borbottando qualcosa tra loro.

La catena del ponte levatoio continuava a srotolarsi.

«André, sbrìgati!».

Marek consultò il cronometro. Mancava poco più di un minuto.

Guardò oltre la finestrella e vide che i suoi compagni non avevano atteso che il ponte levatoio toccasse terra: si erano arrampicati fino al bordo per poi saltare sul prato sottostante. Riusciva appena a intravederli, nel buio.

«André!». Era Chris. «André!».

Dal tetto della guardiola scese un altro soldato. Marek sferrò un colpo, ma andò a vuoto, urtando con la lama contro la manovella e sollevando scintille.

Il soldato subito indietreggiò, gridando e incitando i commilitoni.

«André, corri!», disse Chris. «Fai ancora in tempo».

Marek sapeva che Chris aveva ragione. Poteva ancora farcela. Se fosse corso via, i soldati non avrebbero fatto in tempo a sollevare il ponte levatoio prima che lui potesse uscire. Sapeva che erano lì ad aspettarlo. I suoi amici.

Lo aspettavano per tornare a casa.

Voltandosi verso la scala, lo sguardo gli cadde sul vecchio che era di guardia alla manovella, rannicchiato in un angolo. Marek provò a immaginare come doveva essere trascorrere tutta la vita in quel mondo: vivere e amare con la minaccia sempre incombente della malattia, della fame, della morte violenta.

«André! Vieni o no?».

«Non c'è più tempo», rispose Marek.

«André».

Sullo spiazzo antistante il castello vide una serie di lampi di luce. Stavano chiamando le macchine. Erano pronti a partire.

Le macchine erano arrivate. Kate, Chris e il Professore avevano preso posto all'interno. Dalle basi delle macchine si levava un vapore freddo che andava alla deriva sopra il prato.

«Sei ancora in tempo, André», disse Kate.

Ci fu un breve silenzio. «Ho deciso di restare qui», disse Marek.

«André, ti senti bene?».

«Sì».

«Stai dicendo sul serio?».

Kate guardò il Professore, che annuì lentamente.

«Per tutta la vita, ha sognato qualcosa del genere».

Chris inserì il quadratino di ceramica in una fessura ai suoi piedi.

Marek osservava dalla finestrella della guardiola.

«Ehi, André». Era Chris.

«arrivederci, Chris».

«Riguàrdati».

«André». Era Kate. «Non so cosa dire».

«Addio, Kate».

Marek udì anche il saluto del Professore e ricambiò.

Nell'auricolare sentì una voce registrata che diceva:

«Fermi... Occhi aperti... Inspirare profondamente...

Trattenere il respiro... Via!».

Sullo spiazzo antistante il castello, Marek vide un lampo di luce azzurrina.

Poi, un altro e un altro ancora, con intensità decrescente, finché tutto sprofondò di nuovo nel buio.

 

 

 

Doniger passeggiava avanti e indietro lungo il palco in penombra. Il pubblico, formato dai tre alti dirigenti d'azienda, osservava in silenzio.

«Prima o poi, l'artificiosità del divertimento - incessante, onnipervasivo - porterà la gente a cercare ciò che è autentico.

«Autenticità» sarà la parola chiave del XXI secolo. Che cosa è davvero autentico, però?

Qualsiasi cosa non sia costruita ad arte per ricavarne profitto o controllata dalle grandi corporations. Che esista di per sé, autonomamente, e sia dotata di una sua originalità. E cosa c'è di più autentico del passato?

«Il passato è il mondo che esisteva prima di Disney e di Murdoch, della Nissan e della Sony, della Ibm e di tutte le altre corporations che plasmano il presente. Il passato è venuto prima di loro, è venuto ed è trascorso senza la loro intrusione e le loro manipolazioni. Il passato è vero, autentico. Ed è proprio questo che lo renderà incredibilmente attraente. Il passato è l'unica concreta alternativa al presente governato dalle grandi corporations.

«Che cosa farà, allora, la gente? Ciò che sta già cominciando a fare. Nel settore viaggi il segmento di mercato in più rapida espansione è quello del turismo culturale. La gente non vuole visitare altri luoghi, bensì altre epoche. La gente ama immergersi nell'atmosfera delle città fortificate medievali, dei templi buddisti, delle piramidi maya, delle necropoli egizie.

La gente vorrebbe andare a spasso nel passato, in mondi che non sono più.

«E non vogliono imitazioni. Niente ricostruzioni tutte perfette e pulitine.

Vogliono la cosa autentica. E chi può garantire loro questa autenticità? Qual è il marchio che diventerà sinonimo di autenticità? Il nostro: ITC.

«Sto per illustrarvi», proseguì Doniger, «i nostri progetti di sviluppo del turismo culturale in diversi siti archeologici sparsi per il mondo. Prenderò ad esempio degli scavi in corso in Francia, ma ve ne sono numerosi altri. In sostanza, noi finanziamo gli scavi concedendo ogni diritto sul sito archeologico vero e proprio al governo locale, ma acquistiamo vaste estensioni di terreno tutt'intorno, garantendoci la possibilità di costruire hotel, ristoranti, negozi e tutte le infrastrutture indispensabili al turismo di massa, per non parlare dello sfruttamento dell'indotto, con libri, guide, costumi, giocattoli e così via. I turisti spenderanno dieci dollari per visitare il sito e cinquecento per tutto il resto, che sarà controllato da noi». Sorrise. «A garanzia che il tutto venga realizzato con gusto, ovviamente».

Alle sue spalle comparve un diagramma.

«Noi stimiamo che ogni sito produrrà ricavi netti, calcolando il merchandising, di circa due miliardi di dollari all'anno. Alla fine del secondo decennio del XXi secolo, i profitti annui della nostra azienda supereranno i cento miliardi di dollari. E questa è la prima ragione per cui potreste investire su di noi.

«La seconda ragione, a mio parere, è più importante. Pur operando, apparentemente, nel campo del turismo, noi creiamo, in realtà, un nuovo marchio culturale. È già avvenuto, nel campo del software, ma nessuno aveva mai pensato di applicare quest'idea alla storia. Eppure, la storia è uno degli strumenti culturali più potenti a disposizione della società contemporanea.

Intendiamoci: storia non è disinteressata registrazione di eventi ormai lontani, né materia di dispute erudite e inutili.

«La storia deve porsi come obiettivo la chiarificazione del presente, delle ragioni che hanno reso il mondo tale quale noi lo vediamo. La storia ci spiega le cose essenziali del nostro mondo e in che modo si sia giunti a crearle. Ci rivela i fondamenti e la validità dei nostri assunti assiologici. Ci suggerisce cosa trascurare o tralasciare... Un grande potere, insomma. Il potere di plasmare una società nel suo insieme.

«Il futuro è nel passato... nelle mani di chi controllerà il passato. Tale controllo, però, è sempre stato impossibile. Ora, non più. Noi della ITC vogliamo offrire ai nostri clienti l'opportunità di plasmare il mondo in cui noi tutti viviamo, lavoriamo e consumiamo. E contiamo, in questo ambizioso progetto, di avere il vostro pieno e convinto sostegno».

Non ci furono applausi. Solo silenzio e stupore. Come al solito.

Ci voleva sempre un po', perché capissero. «Vi ringrazio dell'attenzione», disse Doniger, e abbandonò il palco.

«Spero che tu abbia un'ottima giustificazione», disse Doniger.

«Detesto lasciare a metà le mie presentazioni».

«È importante», disse Gordon. Procedettero lungo il corridoio che conduceva alla sala delle macchine.

«Sono tornati?».

«Sì, siamo riusciti a sistemare gli schermi ad acqua.

Sono tornati in tre».' «Quando?».

«Un quarto d'ora fa».

«E allora?».

«Ne hanno passate di tutti i colori. Uno di loro è ferito in modo serio e dev'essere ricoverato. Gli altri due stanno bene».

«Qual è il problema, insomma?».

Oltrepassarono una porta.

«Vogliono sapere», disse Gordon, «perché non li hai informati dei veri progetti della ITC.

«Perché non sono affari loro», replicò Doniger.

«Ma hanno rischiato la vita...».

«Si sono offerti volontari».

«Ma loro...».

«Oh, 'fanculo!», sbottò Doniger. «Che cosa mi significano tutte queste improvvise preoccupazioni?

Chissenefrega! Sono solo una manica di storici... finiranno presto disoccupati, se non lavoreranno per me».

Gordon non rispose. Fissava un punto alle spalle di Doniger.

Questi, lentamente, si voltò.

Vide il professor Johnston e la ragazza, che aveva i capelli tagliati corti, e uno degli altri due che erano partiti. Erano sporchi, laceri e coperti di sangue. Erano in piedi accanto a un monitor su cui campeggiava l'immagine dell'auditorium, con il palco deserto e i tre alti dirigenti d'azienda che si stavano preparando ad andarsene. Dovevano aver ascoltato il discorso di Doniger, almeno in parte.

«Bentornati», disse Doniger, con un sorriso posticcio. «Sono felice che siate tornati».

«Anche noi», replicò Johnston, senza sorridere.

Nessuno aggiunse altro.

Rimasero a fissare Doniger.

«Ehi, 'fanculo!», disse. Quindi, rivolto a Gordon, aggiunse:

«Perché mi hai portato qui? Perché i signori storici sono arrabbiati? Be', questo è il futuro, che a loro piaccia o no. Non ho tempo da perdere per queste cagate. Ho un'azienda da mandare avanti, io».

Gordon aveva in mano una piccola bomboletta di gas. «Sai, Bob, abbiamo discusso di alcune cose. Crediamo sia meglio affidare l'azienda a una guida più moderata».

Si udì un sibilo, e Doniger sentì un odore intenso, come di etere.

Svegliandosi, udì un forte ronzio e quello che sembrava un orribile stridio di metallo squarciato. Era all'interno di una macchina. Li vide in piedi dietro gli schermi ad acqua. Sapeva di non poter scendere a macchina ormai in moto.

«Non funzionerà», gridò.

Subito, però, fu abbagliato dal lampo violetto del laser. I lampi presero a susseguirsi con sempre maggiore frequenza. Vide l'area di transito ingigantirsi, quanto più lui rimpiccioliva... Poi, solo il risucchio della schiuma quantica, e un ultimo stridio nelle orecchie.

Chiuse gli occhi e si preparò all'impatto.

Buio.

Sentì un cinguettio di uccelli e riaprì gli occhi. Per prima cosa guardò il cielo. Era limpido. Dunque, non si trovava alle falde del Vesuvio. Era nel fitto di una foltissima foresta dagli alberi alti e massicci. Quindi, non si trovava neppure a Tokyo. Il cinguettio degli uccelli era piacevole, e l'aria tiepida. Non era neppure a Tunguska.

Dove diavolo era?

La macchina era leggermente inclinata: verso sinistra il terreno digradava dolcemente. Tra le fronde, a una certa distanza, intravide la luce. Uscì dalla macchina e discese il pendio. Da un punto imprecisato giungeva il battito cadenzato di un tamburo solitario.

Raggiunse un varco nella vegetazione e vide, sotto di sé, un borgo fortificato. Era parzialmente oscurato dal fumo che si levava da una gran quantità di fuochi, ma lo riconobbe subito.

"Oh, cazzo!", pensò. "Mi hanno spedito a Castelgard". Che cosa credevano di aver fatto, mandandolo lì?

In tutta la vicenda, ovviamente, c'era lo zampino di Gordon.

Quella stronzata sul fatto che quei tre storici «volevano sapere» doveva essersela inventata lui. "Che figlio di puttana", pensò.

"Siccome fa funzionare la tecnologia, crede di poter gestire anche l'azienda".

Gordon l'aveva spedito nel passato, credendo che non sarebbe riuscito a ritornare.

Doniger, però, non era affatto preoccupato: aveva un asso nella manica, e l'avrebbe usato. Doniger portava sempre con sé uno di quei quadratini di ceramica che servivano a chiamare le macchine.

Lo teneva in una fessura appositamente creata nel tacco di una scarpa. Si tolse la scarpa e controllò il tacco. Sì, il quadratino era lì, ma sembrava incastrato nella fessura.

Doniger agitò la scarpa, ma il quadratino non uscì.

Provò a infilare nella fessura un bastoncino, ma senza sortire effetti.

Quindi, provò a staccare il tacco dalla scarpa, ma non avendo modo di fare leva dovette rinunciare. Gli occorreva un ferro di qualche tipo, un cuneo o uno scalpello. In paese avrebbe certamente trovato qualcosa.

Si rimise la scarpa, si tolse giacca e cravatta e si incamminò giù per il pendio. Osservando il borgo sottostante, notò alcune stranezze. La porta orientale, a cui si stava approssimando, era spalancata, e non c'erano soldati lungo le mura. Strano. Quale che fosse l'anno preciso, era evidentemente capitato in un periodo di pace tra un'invasione inglese e l'altra. Eppure, gli risultava che le porte fossero sempre e comunque sorvegliate. Guardò verso i campi e non vite nessuno al lavoro. Sembravano abbandonati, coperti da fitte distese di erbacce.

"Che cazzo succede?", pensò.

Oltrepassò la porta di Castelgard e si addentrò nel borgo. Vide che la porta era incustodita perché il soldato di guardia giaceva a terra, privo di vita.

Doniger si chinò accanto al cadavere.

Intorno agli occhi c'erano delle tracce di sangue brillanti.

"Dev'essere stato ferito alla testa", pensò.

Si rialzò in piedi. Guardandosi in giro, notò che il fumo proveniva da piccoli vasi sparsi un po' dappertutto: a terra, sui muri, in cima ai pali degli steccati.

Era una bella giornata di sole, ma Castelgard sembrava deserta.

Raggiunse il mercato, ma non incontrò anima viva. Udì un canto di monaci, sempre più vicino, e i colpi del tamburo.

Fu assalito da un brivido.

Da dietro un angolo comparve un gruppo di monaci in processione, vestiti di nero. Alcuni erano nudi dalla cintola in su e si flagellavano la schiena già copiosamente sanguinante con fruste di cuoio guarnite di frammenti di metallo.

I flagellanti.

Una processione di flagellanti. Doniger si allontanò mugugnando dal corteo di monaci che avanzava come in trance, ignorandolo.

Continuò a indietreggiare finché non urtò contro un oggetto di legno.

Si voltò e vide un carretto di quelli normalmente trainati da cavalli. I cavalli, però, non c'erano. Sul carro erano ammucchiati dei fagotti di stracci. Da uno di essi, vide spuntare il piede di un bambino. Da un altro il braccio di una donna. Il ronzio delle mosche era assordante. Un gigantesco sciame di mosche volteggiava sui cadaveri.

Doniger cominciò a tremare.

Il braccio della donna era cosparso di bubboni nerastri.

La «morte nera».

Doveva essere il 1348, anno in cui la peste aveva colpito Castelgard per la prima volta, uccidendo un terzo della popolazione. E sapeva come si diffondeva il contagio: tramite le mosche, il contatto e anche solo respirando. Sapeva anche che uccideva con incredibile rapidità, al punto che le vittime venivano sorprese dalla morte anche in mezzo alla strada.

All'improvviso si cominciava a tossire e ad avere mal di testa e un'ora dopo sopraggiungeva la morte.

Lui si era avvicinato al soldato morto; gli era arrivato molto vicino.

Quasi a contatto.

Doniger si abbandonò contro un muro, sopraffatto dal terrore.

E, sedendosi, cominciò a tossire.