Rannicchiata nella macchina, ascoltando le folate improvvise di vento gelido che si infrangono sulle poche auto in transito lungo la strada, Sara aspetta.
È quello che le riesce meglio. È stato il suo lavoro per tanti anni, aspettare con pazienza, non lasciarsi sommergere dall’onda lunga della fretta, non anticipare gli eventi per non smarrire l’obiettività dell’analisi. Freddezza, imperturbabilità, distacco. Serenità.
No, stavolta quella non c’è, pensa Sara. Niente serenità.
Le foglie cadute dagli alberi che turbinano. Le finestre che si vanno spegnendo, una a una. Passanti ormai non ce ne sono più, da almeno un’ora. E Sara aspetta.
Se non sarà stanotte, sarà la prossima. O quella dopo. Qual è il problema? C’è solo da attendere.
Ha imparato che proprio a forza di attendere le cose succedono, prima o poi. Basta essere pronti.
Sara ha imparato anche come ingannare l’attesa. Da fuori sembra quasi addormentata, le palpebre socchiuse, i lineamenti distesi; le mani appoggiate lungo le cosce, coi guanti per evitare che le dita si intirizziscano, senza metterle in tasca per non ritardare i movimenti e allungare i tempi di reazione. Ogni muscolo immobile, nessuna contrazione sul volto impassibile. La visione periferica è più che sufficiente per controllare lo spazio che le interessa. L’aiuta la corporatura minuta. La sagoma avvolta dal sedile e riparata dal poggiatesta è invisibile dal lato posteriore. Il SUV posteggiato davanti le risparmia le sciabolate dei fari delle rare macchine che procedono in senso opposto.
Chi attende sparisce. Chi attende deve sparire.
Sara sa che la posizione del corpo è la premessa, ma per riempire il tempo va ordinata la mente. Come un salotto per ricevere gli ospiti. È indispensabile che non ci sia nulla di estraneo, nessuna distrazione: non bisogna pensare ad altro, pericolosissimo lasciare che la testa vaghi altrove; la frazione di secondo necessaria per tornare al qui e ora dell’attesa può risultare fatale. E non si può nemmeno pretendere di restare concentrati in continuazione su quello che si aspetta, sarebbe come fissare per ore il particolare di un oggetto perdendo i contorni dell’insieme.
Sara lo sa che bisogna ricostruire senza sosta il quadro generale, ripercorrere la sequenza degli eventi. Tirare ancora le linee che uniscono i punti, come quei disegni da bambini, una giraffa o un elefante, che piano piano prendono forma collegando una serie di numeretti sparsi sulla pagina.
E allora, per l’ennesima volta, Sara ricomincia dall’inizio.
Il telefono aveva squillato alle quattro del mattino.
Le capitava spesso nei momenti topici del suo servizio, quando la situazione precipitava all’improvviso e non c’era orario o turno che tenesse: chi aveva seguito una determinata pista doveva mettersi subito al lavoro, e basta. Allora come adesso la sensazione era orribile, con la coscienza che annaspava cercando di riguadagnare la superficie dall’abisso del sonno profondo, a cui sempre più di rado cedeva, nel petto il rombo di un tamburo, un attimo prima dell’emergere dei peggiori pensieri, finché, dopo, tutto si rivelava irrilevante e innocente.
In certi casi, però, i peggiori pensieri trovavano conferma.
Sara si era vestita in fretta, continuando a ripetere:
«No, no, è impossibile, non è lui».
Non aveva trovato le chiavi dell’auto, aveva chiamato un taxi, la voce e il cuore spezzati in mille aguzzi frammenti, ognuno dei quali rifletteva una diversa immagine del passato. «No, è un errore. Non può essere.»
Era lui, invece. Proprio lui.
Restò ferma a guardarlo sul tavolo. Era coperto a metà dal lenzuolo, grigio, i lividi e le fratture evidenti. Rotto. Spezzato in più punti. Restò ferma, ascoltando la tempesta di silenzio che le montava dentro, cercando di tenere a bada i ricordi remoti, il dolore del ventre, poi il pianto e il latte e la carne, il sangue dal naso e le ginocchia sbucciate, la fata dei dentini e «Cambiati il costumino ché quello è bagnato», e gli occhi pieni di lacrime quando se n’era andata.
Giorgio. Giorgetto, Giogiò. Giorgino, il mio Giorgino.
La mente per non esplodere le ripropose l’odio del figlio, il fiume incontenibile di durezza dell’adolescente che le urlava:
«Chi sei tu? Chi cazzo sei? Io non ho una madre». E lo rivide scappare via senza girarsi, l’ultima volta, tanti anni prima.
Mio figlio, pensò Sara. Ora che è troppo tardi.
A telefonarle era stato un collega anziano, confinato nel presidio di polizia dell’ospedale a consumare gli ultimi mesi prima della pensione. Uno che si ricordava di lei, ed erano rimasti in pochi. «Ciao, Morozzi… scusa l’ora, ma credo che tu debba venire qui. Adesso, sì. Si tratta di Alberti Giorgio… È tuo figlio, giusto? Allora devi proprio venire. Morozzi… mi dispiace. Tanto.»
Erano anni che Sara non si sentiva chiamare per cognome, da quando aveva firmato per il congedo. Alla fine, grazie all’anzianità e a un gioco di contributi, aveva chiuso con l’unità prima di quanto avrebbe dovuto. Da tempo non si trovava più bene, e non per stanchezza o pigrizia: perché quel lavoro era cambiato e non le assomigliava più. Troppe macchine. Troppa magistratura. Troppa elettronica, troppo DNA. E anche gli altri erano cambiati, parlavano in modo diverso, e Sara aveva cominciato a considerarsi superflua.
Eppure era stata l’indiscussa, leggendaria maestra delle intercettazioni. Come interpretava lei quei bisbigli, quei sussurri che a stento si percepivano, nessuno mai. Una sensibilità speciale, una capacità naturale affinata con l’esercizio e l’applicazione. Tutto vanificato dai nuovi strumenti di pulizia e amplificazione del suono: all’improvviso si era sentita “normale”. Ed essere guardata con sufficienza da ragazzine presuntuose che avevano vinto un concorso facendosi il culo sui libri non era per lei.
Poi Massimiliano si era ammalato e Sara non aveva avuto dubbi: meglio, molto meglio restare a casa.
Cercando lacrime che non trovava, continuò a fissare il volto del figlio morto: uno sconosciuto.
Aveva visto tanti cadaveri. Era stata di pattuglia e di scorta, aveva assistito ad almeno quattro guerre tra clan. Ma quello era suo figlio.
Almeno, lo era stato.
Due vite, rifletté. Una per strada, inseguendo il sogno di diventare poliziotta, e nel contempo assecondando l’educazione che le avevano dato i suoi: essere moglie e madre. Così aveva sposato il fidanzato del liceo, il bravo ragazzo un po’ grigio col bel sorriso, il padre di Giorgio. Un buon padre, perché alla fine l’aveva tirato su lui quando se n’era andata.
Poi l’altra vita. Dopo che aveva deciso di essere se stessa, sbagliando tutto quello che si poteva sbagliare.
Si voltò e uscì dall’obitorio.
Il tecnico, medico o quello che era, la osservò un po’ perplesso, quindi distolse lo sguardo davanti a quella faccia di marmo. Era ancora giovane, forse si aspettava lacrime e urla.
Nel corridoio la donna sentì l’equilibrio mancarle, e per un attimo si appoggiò al muro. Adesso avrebbe avuto quel volto tumefatto, senza espressione, conficcato nella memoria al posto delle ginocchia sbucciate e del ghiacciolo che colava sulla maglietta rossa. Quel pensiero le spezzò il cuore. Considerò che tutto sommato il padre di Giorgio, morto dieci anni prima, aveva ricevuto un bel regalo dal cancro.
Il vecchio collega l’aspettava sulla porta dell’obitorio. Gli fu grata per il suo silenzio, per quegli occhi che teneva bassi, e per non aver provato a toccarle il braccio.
Gli chiese:
«Come e dove è successo, De Blasio?».
L’uomo si grattò la nuca e agitò la mano in modo vago indicando l’interno:
«Ci sta il tizio di là, non riesce a smettere di piangere. Sostiene che lui è spuntato all’improvviso, mentre stava scrivendo un messaggio al cellulare. Nell’altra mano stringeva il guinzaglio del cane. Ci stanno pure quelli della stradale. Gliel’ho spiegato che… che sei dei nostri».
Sara scosse appena il capo:
«Non più. Comunque portami da loro, dài».
De Blasio la studiò coi suoi occhi acquosi da vecchio cane da caccia:
«Moro’, se uno è un poliziotto, lo è per sempre. Mica è un lavoro che si va in pensione e si dimentica, questo».
Gli agenti della stradale erano due, uno giovane dall’aria ribalda e uno più o meno dell’età di De Blasio. L’insegnante e l’allievo, pensò Sara.
L’anziano le venne incontro, il cappello in mano:
«Ciao, Morozzi, mi chiamo Silvani. Mi… mi dispiace assai per la tua perdita».
Sara annuì, rigida. Continuava a cercare le lacrime dentro di sé, senza trovarle. Dolore sì, ma niente lacrime. «Vorrei sapere dove e come è successo.»
Silvani sospirò. Per qualche motivo sembrava più addolorato lui di Sara. «Proprio vicino casa sua, l’illuminazione là è scadente, c’è un lampione rotto e un altro è coperto dai rami di un albero. In pratica ci stanno venti metri di oscurità completa e…»
Sara chiese a bassa voce:
«In quale strada?».
Il ragazzo spalancò gli occhi:
«Ma non è tuo figlio, scusa? Nemmeno sai dove abita?».
Silvani si voltò verso il collega e rispose, velenoso:
«Zitto, Banti. Parli a sproposito. Morozzi…».
Sara agitò la mano:
«Tranquillo, Silvani. No, lui e io… non ci sentivamo da molto tempo. Tutto qui».
Il giovane si strinse nelle spalle, e iniziò a fissarsi le unghie.
Sara incalzò:
«Allora, com’è andata?».
«Era mezzanotte, più o meno. Tuo f… Giorgio era uscito per portare fuori il cane, almeno così ci ha riferito la… Sapevi che viveva con una ragazza, sì?»
Sara scosse il capo.
Banti fece uno sbuffo che poteva essere una risatina.
Silvani gli scoccò un’occhiataccia e quello distolse lo sguardo. Il poliziotto anziano continuò:
«Lei non se l’è sentita, è… in stato interessante. Era con la madre, che è arrivata di corsa e non si calmava… vive al piano di sopra. Una signora in gamba, mi pare, e…».
Sara sibilò:
«Silvani, com’è successo?».
L’uomo trasse un lungo sospiro:
«Sì, scusami. Ha attraversato la strada nel punto più buio, lontano dalle strisce, vicino a una curva. Il povero cristo andava a nemmeno cinquanta all’ora, l’ha preso in pieno e se non era per la botta neanche se ne accorgeva. È pure un medico. Ha provato a rianimarlo, poi ha chiamato il 118 ma prima ancora che arrivasse l’ambulanza l’ha caricato in macchina e l’ha portato lui. È disperato, non smette di piangere, ha voluto pure essere presente all’operazione».
Sara cercò di ricordare le deformazioni del corpo sotto il lenzuolo:
«I segni della frenata, sull’auto…».
Silvani la anticipò:
«Tutto normale, sia quelli a terra sia gli altri su paraurti, cofano e parabrezza. Tutto compatibile. Nessun testimone, a quell’ora non c’è anima viva, è una zona residenziale, la gente dorme. Il cane vagava per strada trascinando il guinzaglio, l’abbiamo riportato noi a casa».
«Magari alla signora interessa più del cane» commentò Banti con freddezza.
Sara incassò, in silenzio.
Silvani ringhiò:
«Sei un cazzone, Banti. Hai perso un’altra occasione per tacere».
Lei disse, piatta:
«Portami dal tizio, Silvani. Grazie».
Il tizio. Non “quello che ha combinato questo casino” tantomeno “l’assassino”. Soltanto il tizio.
L’uomo stava seduto su una panca scrostata vicino alla porta del pronto soccorso. Teneva una sigaretta tra le dita tremanti e piangeva. Piangeva in maniera strana, inquietante: lacrime copiose gli scorrevano dagli occhi spalancati, le labbra si muovevano quasi stesse recitando chissà quale preghiera, scuoteva il capo senza sosta come a convincersi che non era vero, che non stava capitando proprio a lui.
Era un ometto tarchiato, di mezz’età, i capelli radi, tinti con cura, un paio di baffi folti, e indossava un vestito elegante.
Silvani restò in piedi, indicandolo con la mano a Sara neanche fosse un’istallazione provvisoria.
La donna gli si sedette accanto, gli occhi puntati verso l’oscurità che avvolgeva il parcheggio delle ambulanze. Svuotata di emozioni, e in attesa della probabile ondata d’immenso dolore, si sentiva come una spiaggia nel momento di quella terribile, innaturale risacca che precede uno tsunami.
«Pensavo… pensavo si fermasse» mormorò l’uomo. «Andavo piano, ascoltavo la musica, me ne stavo tornando a casa dal teatro. Mia mo… mia moglie aveva mal di testa e non è venuta. Ha sempre mal di testa, lei.»
Silvani, con una punta di perfidia, spiegò:
«La signora è la madre. Una mia collega».
L’altro sussultò, come colpito da una freccia al costato. Rivolse uno sguardo terrorizzato a Sara, ritraendosi d’istinto. «Mi creda, sono disperato. Sono un medico, un oncologo, io le vite le salvo, non ammaz… Andavo pianissimo, le assicuro che non ho bevuto niente e…»
Silvani interloquì, mantenendo il ruolo di coro greco:
«È vero, abbiamo controllato».
Sara domandò:
«Il collega mi ha riferito che Giorgio… che mio figlio stava utilizzando il cellulare, immagino gliel’abbia raccontato lei. Ne è sicuro?».
L’uomo fece di sì con la testa, gli occhi ancora spalancati. Era sotto shock, a Sara fu chiaro che doveva in qualche modo scuoterlo. «Come si chiama, dottor…?».
«Terzani. Ludovico Terzani. Sono un medico onc… Scusi, mi sto ripetendo. Io… È una tragedia, signora. Una vera tragedia.»
Sara lo osservava, concentrata. La sua mente così lucida, malgrado il dolore, riconosceva i segni di un assoluto sconvolgimento. Quell’uomo era distrutto. Per paradosso provò più pena per lui, condannato a una specie di inferno, che per il corpo senza vita sul tavolo dell’obitorio. «Mi racconti tutto, per favore. Tutto.»
Terzani rispose con estrema lentezza. «Stavo tornando a… Insomma, ero stato a teatro, il Lohengrin, potete verificare, andavo piano… Quello è un punto in cui non si vede niente, ma ho i fari buoni. Solo che c’è una curva e… Con la coda dell’occhio ho notato la luce del telefonino, perciò lo so che… Il ragazzo teneva il cellulare in mano. Io ho pure suonato, ma lui è avanzato di un passo… Poi si è fermato, e…» Guardò la sigaretta ormai spenta tra le dita, come se non l’avesse mai vista. Piegò le labbra in un sorriso incerto, sembrava si stesse scusando: «È una delle principali cause del cancro, il primo fattore di rischio. E io lo curo, il cancro. Che fesso, eh? Che fesso».
«Dottore, ha detto che prima si è fermato. Che significa?»
L’uomo la fissò, pareva non comprendere la lingua. «Sì, lui… lui si è fermato, come per lasciarmi passare. L’ho visto bene. Aveva il telefonino in mano… Non vicino all’orecchio, in mano, forse per scrivere o ricevere un messaggio. E, all’improvviso, quando io ormai stavo andando, è venuto avanti di corsa, quasi…»
«Secondo lei…»
Da lontano si sentì l’urlo di un’ambulanza in arrivo. Terzani ricominciò a piangere:
«Era come se… come se avesse voluto buttarsi sotto la mia macchina».
Un colpo di vento sullo sportello, e Sara sobbalza quasi fosse stata svegliata di soprassalto. Invece è presente a se stessa, al massimo della concentrazione. Sta tracciando le linee tra i punti, per disegnare il suo elefante. Per verificare se per caso non ha sbagliato, e qualche linea non doveva invece unire altri punti.
«Come se avesse voluto buttarsi» aveva mormorato tra i singhiozzi l’ometto coi capelli tinti. Come se.
Allora, pensa, dovevo andare a vedere. E ci sono andata.
In deroga alle procedure, Silvani accompagnò Sara sul luogo dell’incidente. Il poliziotto lasciò il giovane collega in ospedale con Terzani. Il medico si era rifiutato di tornare a casa dalla moglie che, alle prese col mal di testa, evidentemente non doveva essere troppo in pena.
A Sara sembrava di essere immersa in una specie di nebbia, i movimenti e i pensieri erano rallentati, i sensi intorpiditi, come se l’avessero privata della capacità di leggere gli altri e interpretarne i segni. E la notte iniziata con lo squillo del telefono si dilatava, inghiottendo parole e immagini senza finire mai.
Una volante col lampeggiante acceso impediva il passaggio delle poche auto che transitavano a quell’ora in zona. Un agente sonnacchioso con una paletta in mano se ne stava appoggiato alla fiancata della macchina, mentre il compagno era seduto all’interno.
Quando Silvani e Sara giunsero sul posto, quello fuori bussò al finestrino, e l’altro uscì in fretta stringendo il nodo allentato della cravatta. Silvani presentò la donna come una collega, senza specificare il grado di parentela con la vittima.
Lei finse di non cogliere la smorfia interrogativa dell’agente con la paletta e si avvicinò.
L’uomo disse:
«Il magistrato è appena andato via, abbiamo effettuato i rilievi. È tutto a posto. La collega perché è qua?».
Silvani lo trapassò con lo sguardo:
«Perché ci deve stare, tu mettiti a disposizione».
Sara domandò a bassa voce:
«Il punto preciso?».
Il poliziotto indicò con la paletta all’interno dell’area in cui era impedito il passaggio. C’era una macchia a terra, un disegno col gesso.
Lei aspettò invano lo tsunami. «Il cellulare?» chiese.
L’uomo la fissò con un’espressione interrogativa.
«Secondo l’investitore aveva un cellulare in mano. Dov’è?»
«Ah, sì. Quel cellulare. È distrutto, ci è passata la ruota sopra. Sta in macchina, lo piglio subito.» Si sporse all’interno dell’abitacolo e tirò fuori una busta trasparente che allungò a Sara.
I resti del telefono per qualche strano motivo la impressionarono quanto il corpo sul tavolo dell’obitorio, e anche di più. Il display era frantumato, la cover colorata, con sopra lo stemma della squadra di calcio della città, spaccata. Giorgio era un tifoso, quindi. Non lo aveva mai immaginato. L’informazione rientrava nel miliardo di cose che ignorava del figlio. Il modello era di quelli nuovi, uno smartphone. A stento sarebbe stata capace di accenderlo. Una vita ad ascoltare telefonate, e ora con quel coso avrebbe avuto difficoltà perfino a chiamare qualcuno. L’apparecchio era stato schiacciato dalla ruota. E la pressione aveva aperto il vano della minuscola scheda, altrimenti accessibile solo con qualche strumento appuntito.
Approfittando dell’oscurità che regnava fuori dalla portata del lampeggiante e del breve scambio di chiacchiere tra Silvani e il collega di guardia, Sara intascò con un gesto rapido la SIM. Poteva sempre essere andata perduta, no? In fondo, era solo un incidente.
Solo un incidente.
Restituì ciò che rimaneva del cellulare, e senza voltarsi verso la macchia a terra chiese:
«Dove abitava… la vittima?».
La vittima.
Silvani le lanciò un’occhiata carica di perplessità.
L’agente indicò il portone di un’elegante palazzina dall’altra parte della strada.
Stava portando il cane fuori per un giro, ricordò Sara. Quindi si avviò decisa, controllando che non arrivassero auto. La visuale era abbastanza ampia, nonostante la curva. Era buio, d’accordo, ed era possibile che Terzani non l’avesse visto; ma lui, Giorgio, non poteva non essersi accorto dell’arrivo della macchina. «Come se si fosse buttato» aveva detto il medico.
Silvani salutò in fretta il collega e seguì Sara, che si era fermata davanti ai citofoni. Il poliziotto indicò la targhetta con la scritta: ALBERTI VISCO.
La donna però era occupata a leggere gli altri nomi. Quindi annuì, e premette il pulsante. Le aprirono senza fare domande.
Giorgio aveva abitato al secondo piano. La porta sul pianerottolo era socchiusa, dall’interno proveniva un gemito sommesso. Li accolse una donna in divisa sulla cinquantina, il viso un po’ indurito ma dai bei lineamenti.
Silvani disse:
«La collega De Marco, della questura. Le chiediamo di intervenire, in questi casi, per… per i parenti, insomma. Lei è Sara Morozzi. Primo dirigente, in congedo. È la madre della vittima».
L’espressione della De Marco non si ammorbidì. Forse aveva appreso la storia della famiglia mentre assisteva la ragazza di Giorgio.
Sara percepì il solito fastidio a metà tra lo scrupolo di coscienza e l’indisponibilità a essere giudicata. Roba vecchia.
L’agente domandò:
«E in quale veste è qui, il primo dirigente in congedo?».
Lei si sentì investire da una fredda ira. Bene. Significava che era ancora viva. «In veste dei cazzi miei, colle’. Ora levati dai coglioni e portami dalla compagna di mio figlio.»
L’altra sbatté le palpebre, come se avesse preso uno schiaffo improvviso.
Silvani tenne gli occhi bassi, concentrandosi sulle punte dei piedi.
Dopo un tentativo fallito di reggere lo sguardo di Sara, la De Marco li precedette all’interno. La casa era piccola ma molto graziosa, piena di fotografie, libri e soprammobili. Un posto vissuto. Un posto felice.
Il pianto proveniva dalla cucina, in fondo al corridoio. Nei pressi della porta la poliziotta fece cenno a Sara di attendere ed entrò. Si udì bisbigliare, poi una voce di donna parlò con durezza:
«E con che faccia viene qui, proprio adesso? Viola non ci vuole parlare, glielo riferisca pure».
Allora Sara, decisa, varcò l’uscio.
Oltre alla De Marco, nella stanza c’erano due donne. Una giovane incinta, i lineamenti sconvolti dal dolore, gli occhi fissi davanti a sé, e una cinquantenne dall’espressione determinata, in piedi con una mano sulla spalla della ragazza. Si somigliavano molto.
Con una certa sorpresa Sara capì che a gemere era una cagnetta meticcia di taglia media, ferma vicino alla soglia del terrazzino. Ignorò lo sguardo soddisfatto della De Marco e parlò alla giovane seduta:
«Me ne vado subito. Ho solo bisogno di qualche…».
La più anziana sibilò:
«Mia figlia dev’essere lasciata in pace. È incinta, e ha appena perso il suo compagno. Non ci si presenta a casa delle persone così, in piena notte a…».
Sara la fissò con freddezza. «Mi scusi, io non sono qui per lei. Mi servono alcune informazioni. Non volete capire meglio cos’è successo?»
La De Marco intervenne, acida:
«La signora Rosaria Visco, madre di Viola, è la proprietaria di questo appartamento e di quello di sopra, dove abita. E ha il pieno diritto di non gradire visite». Quindi si rivolse direttamente alla padrona di casa: «Devo accompagnarla fuori, signora? Basta che me lo dice e provvedo».
Provaci, pensò Sara. Provaci, e paghi tu per tutti.
Prima che la madre rispondesse, Viola parlò con una voce calda e bassa, increspata da un tremito lontano:
«Mamma, per favore. Sentiamo che vuole».
Rosaria aprì la bocca, ma la richiuse subito. Restò impettita al fianco della figlia, la mano ferma sulla spalla come ad affermarne la proprietà.
Sara si rese conto della precarietà della situazione e chiese, rapida:
«Era normale che uscisse col cane a quell’ora?».
Viola confermò:
«Sì. Giorgio è… era uno scienziato, si comportava in maniera metodica. Io lo sfottevo per questo, sono una fotografa, e sono anche disordinata. Tutto il contrario di lui».
«Ti ha per caso riferito di qualche discussione o litigio sul lavoro negli ultimi tempi? Anche un dettaglio, un particolare.»
Fissando la De Marco, Rosaria intervenne, disorientata:
«Ma… mi scusi, ci sono evidenze che… Non è stato un incidente, allora? Di che parla questa donna?».
La poliziotta si rivolse a Sara:
«Non capisco a che gioco stai giocando, ma di certo so che non ti è consentito presentarti qui a…».
Viola la interruppe:
«No, niente di niente. A Giorgio volevano tutti molto bene. Aveva un carattere dolcissimo, sono due anni che ci conosciamo e non l’ho mai visto litigare con nessuno».
La De Marco riprese:
«Adesso basta, ti accompagno fuori. Non me ne starò qua ad assistere a…».
Sara scrollò brusca la mano che l’altra le aveva appoggiato sull’avambraccio. Non aveva mai spostato gli occhi dal viso di Viola. La bastardina continuava a guaire. «E dove lavorava?».
La ragazza mormorò:
«All’università, dipartimento di Chimica organica. Era ancora un ricercatore, aspettava il concorso. Ma era bravissimo, davvero bravissimo».
Rosaria s’intromise, velenosa:
«Scusi, risponda lei a una domanda: ma come si può abbandonare un figlio piccolo, me lo vuole spiegare? Giorgio non la nominava mai, e ogni volta che qualcuno gli chiedeva, sorrideva triste e cambiava discorso. Dov’era lei, quando ha avuto bisogno di una madre?».
Sara la ignorò, rimanendo concentrata su Viola. La cagnetta gemette e la giovane spiegò:
«Lo sta aspettando. Era sua, l’aveva già da prima. Piange, quando lo aspetta. Adesso come farò? Piangerà sempre».
Sara le disse:
«Tornerò. Te lo prometto».
Poi si rivolse alla madre:
«Mi ero innamorata. Giorgio non ha voluto incontrarmi più».
Quindi si girò e se ne andò.
Le linee e i punti. Mentre tiene gli occhi fissi sulle foglie che si alzano volteggiando come in una specie di girotondo, per poi ricadere al calare improvviso del vento, Sara continua a ripercorrere ogni singola azione che ha compiuto, il tragitto tra una tappa e l’altra, momento dopo momento.
E anche a prescindere dalle conclusioni alle quali è giunta, non può non interrogarsi ancora sul motivo che l’ha spinta ad agire in quel modo.
Massimiliano sosteneva che era testarda. Che quella, alla fine, era la caratteristica fondamentale della sua esistenza. Magari poteva metterci un po’ a decidere, ma se imboccava una strada, la percorreva fino in fondo, senza esitazioni. Glielo ripeteva sorridendo, con quel suo modo strano di piegare la testa:
«Anche con me è stato così, quando hai compreso che ero il grande amore della tua vita. Io l’avevo capito appena ti ho vista entrare nel mio ufficio, il giorno in cui hai preso servizio. E da allora non è esistito altro futuro al di là di noi due, figli o non figli, matrimonio o meno. Solo noi due».
Derogando al percorso tra linee e punti, Sara rifletté che non si era mai pentita di aver rinunciato a tutto per Massimiliano. Mai. Nemmeno quando aveva dovuto assisterlo durante la malattia. Solo loro due.
Giusto così, no? Giusto così.
Allora, perché sei qui adesso?, si chiede. Ognuno prende la sua strada. Mica sei un giudice, tu. Sei soltanto una poliziotta in pensione. Che è rimasta sola.
«Testarda» diceva Massimiliano. «Una dannata, meravigliosa testarda.»
Sara ricomincia a seguire la linea, fino al punto successivo.
E il punto successivo è Teresa.
Davanti al portone, un po’ defilato sulla sinistra, c’era un bar.
Un tempo il locale aveva avuto ambizioni di caffetteria, perciò con un certo sforzo finanziario si era dotato di finiture in legno scuro, tavolini dal piano in cristallo e poltroncine coi braccioli. Il banco era stato sostituito da un affare alto e cromatissimo, con ben due vetrine separate, una per la pasticceria, l’altra per la rosticceria, e una spettacolare macchina per il caffè, su cui spiccavano delle lunghe leve e uno sfiatatoio del vapore che ricordava una locomotiva di inizio secolo. Ma quella non era zona dove sorbire tè col mignolo alzato, assaggiando biscottini al burro, così ben presto si era tornati agli espressi veloci con cornetto al banco e al panino per gli impiegati all’ora di pranzo, insieme al conseguente, progressivo degrado degli arredi.
Tavoli e poltroncine però erano sopravvissuti, e Sara si accomodò al solito posto, in un angolino appartato dal quale si vedeva chi entrava e usciva dal palazzo.
L’ufficio, ovviamente, non aveva alcun contrassegno. Non c’erano nomi sul citofono né targhe sulla porta. L’attività svolta là dentro da una dozzina di donne e uomini era forse la più riservata che ci fosse. Accadeva di rado che qualcuno chiedesse cosa diavolo facessero in quel palazzo grigio e anonimo; la prima regola del luogo era pensare agli affari propri. Se capitava, allora rispondevano che si occupavano di importazioni ed esportazioni come indicava la vecchia insegna sull’edificio.
E in un certo senso era vero.
Il proprietario del bar le aveva rivolto un brusco cenno della testa. Si erano incontrati tre volte al giorno per più di vent’anni, senza parlarsi mai. Niente di più intimo di quel gesto. E le aveva portato anche il doppio caffè ristretto e lo zucchero, come ai vecchi tempi. Come se non fosse passato un solo giorno da quando se n’era andata.
Sara non aveva bisogno di guardare l’orologio. All’ora esatta in cui l’aspettava, la bionda uscì dal portone e attraversò la strada con ampie falcate delle lunghe gambe, lanciando un’occhiata a destra e una a sinistra. È una tipa attenta, considerò Sara. E per chissà quale motivo, il pensiero la rassicurò.
Appena entrata nel locale, Teresa la vide. Regola numero uno: controllare l’ambiente. Quindi si avvicinò e sedette sulla poltroncina accanto alla sua, fissando Sara con evidente curiosità.
Teresa era stata stupenda, ed esercitava ancora un incredibile fascino: aveva i capelli dorati, gli occhi azzurri segnati da qualche ruga, gli zigomi alti, le labbra piene, la figura snella. In passato, fianco a fianco negli uffici dell’unità ad ascoltare e trascrivere, avevano scherzato spesso sul fatto che avrebbe potuto diventare un’attrice, guadagnando un sacco di soldi e divertendosi molto di più. «Più di così?» rispondeva sempre Teresa indicando le cuffie e i blocchi di appunti. E poi ridevano insieme.
Se mai poteva esserci amicizia in quel posto, in cui si scavava senza interruzione nella melma, dove si svolgeva un’attività delatoria e vile, si mandavano padri di famiglia in galera per decenni, quella era stata l’unica amica che Sara aveva avuto. Una coppia strana, la bella bionda alta e la piccola bruna coi capelli precocemente striati di grigio, dal corpo morbido e dagli occhi profondi; entrambe affascinanti, entrambe silenziose e riservate. Se mai poteva esserci amicizia in quel posto, loro due erano amiche.
Teresa restò a fissarla, compunta. Poi disse:
«Madonna, quanto sei vecchia».
Sara piegò le labbra in una smorfia:
«E ho giusto un anno e mezzo più di te».
Sorrisero, guardando fuori come se ci fosse qualcosa da vedere. Poi Teresa mormorò:
«Ho saputo. Mi dispiace».
L’altra non fu sorpresa. Se c’era un luogo dove le notizie prima o poi arrivavano sempre era quel triste, malmesso stabile dal lato opposto della strada. Si strinse nelle spalle. «Un incidente. Capita, no? E poi, era uno sconosciuto per me. Vent’anni non sono uno scherzo».
La bionda era ammutolita. Dopo un po’ disse:
«Capita, sì. Tu come stai? Davvero, intendo».
Sara cercò dentro di sé. La risacca aveva lasciato sabbia asciutta. Dello tsunami ancora nessuna traccia. «Per ora non provo niente. Arriverà dopo, immagino. Aveva una compagna, è incinta.»
Teresa annuì, come se fosse un’informazione fondamentale.
Sara le chiese:
«E tu? Come te la passi?».
L’amica allargò le braccia:
«Penso spesso a te. A Massimiliano, a noi. Io, te e Marco eravamo così giovani, ci sembrava di combattere chissà quale guerra. Di essere fondamentali. Esisteva solo quel maledetto palazzo. Piano piano era normale mollare il resto. Poi loro sono morti, tu te ne sei andata. E io mi chiedo perché sono ancora là. Solo che non ho nient’altro, e ho paura di quello che c’è fuori. Ecco come me la passo».
L’altra tacque ricordando Marco, l’uomo di Teresa, un collega allegro e brillante, impulsivo e intelligente. A un certo punto aveva deciso che era inaccettabile starsene a guardare e aveva chiesto di tornare operativo. Sei mesi dopo, era stato ucciso in un conflitto a fuoco. Erano tempi così.
Teresa la fissò:
«Che vuoi? Perché sei qui?».
Senza rispondere, Sara tirò fuori dalla borsa il portafogli. Aprì la zip, prese un oggetto minuscolo e lo allungò sul cristallo del tavolino.
L’amica studiò la scheda dello smartphone di Giorgio e scosse il capo, come di fronte a un’assurdità. «Conosci le regole, in buona parte le hai scritte tu. Non dovrei salutarti né mostrare di conoscerti. Sei sparita dal giorno in cui ti sei dimessa, e adesso…»
«E adesso sì. E anche in fretta. Per il tempo che è trascorso, Tere’. Per ognuno di quegli anni insieme. Ti prego.»
Senza distogliere gli occhi dal viso di Sara, la bionda allungò la mano e prese la scheda. Poi domandò:
«Che vuoi sapere?».
«Tutto: i messaggi, le chiamate. Immagino che i testi non ci siano, Giorgio non rientrava nei controlli, ma i tabulati sì».
«Figurati, sei rimasta ancora ai tabulati… ora è tutto digitale. Vedo come posso aiutarti. Non tornare, però: ti chiamo io.» Quindi Teresa si alzò e uscì dal locale a passo svelto, senza guardarsi indietro. Attraversò la strada e s’infilò nel passato.
Adesso Sara pensa all’amica dai capelli biondi, e a come ha imparato l’arte dell’attesa.
Le volte che sono rimaste insieme, sere e notti e albe e mattine, e di nuovo sere, senza un diversivo o una distrazione, aspettando un movimento, un segnale o una parola, pronunciata spesso in dialetti così stretti da risultare quasi incomprensibili a quelli che non possiedono il loro speciale talento.
Pensa alle poche volte che si sono trovati in quattro, con Marco e Massimiliano. Strane vigilie di Natale, un po’ rubate alla sorte e al lavoro, qualche silenzio, nessun imbarazzo. Altri mondi, mariti e mogli e figli, lasciati alle normali esistenze della gente normale. Loro no. Loro ascoltavano in cuffia le vite degli altri, ne trascrivevano i sentimenti e le preoccupazioni, scavavano nella banalità alla ricerca delle perle rare del tradimento.
Forse è stata Teresa, ragiona Sara unendo i punti con le linee mentre il vento gioca con qualche cartaccia; rivederne il volto, ascoltarne la voce dopo tanto tempo, le ha fatto venire in mente le carte di Massimiliano.
O forse sarebbe successo in ogni caso.
Quando lo aveva incontrato, era il capo dell’unità. Un uomo mite, dolcissimo e silenzioso, che l’aveva incantata con un unico luminoso sguardo; eppure aveva imparato presto cosa si nascondeva dietro quei silenzi, anche se mai era riuscita a toccarne il fondo pieno di ombre e segreti. Al contrario di lei, un’operativa che stava in trincea, Massimiliano aveva alle spalle trent’anni di strategie e di decisioni terribili. Uomini e donne censiti con rigore, classificati e catalogati al fine di seguirne le esistenze anche nei minimi dettagli o cambiamenti, l’intero Paese scandagliato negli anni in cui erano in atto decine di guerre sotto traccia, invisibili ai più ma non per questo meno cruente e mortali. Certo, era roba da scrivania. Per lui, però, la distinzione tra lavoro e vita non esisteva.
Sara ricordava le notti insonni, il secondo ufficio allestito nella cantina dell’appartamento comprato proprio per quel motivo, i dossier con le facce e i trascorsi della gente, gli indirizzi e i precedenti, le realtà visibili e quelle sommerse. Non era passato troppo tempo, in fondo. In quell’ambiente senza aperture, tenuto al fresco dal ronzante aeratore, era custodito l’archivio più completo dei delitti nascosti di un’intera nazione nel periodo più buio. La porta dello scantinato era sbarrata dal giorno in cui Massimiliano le aveva chiesto di non aggiornare più gli incartamenti, ma Sara non aveva dimenticato quel fiume vorticoso di dati, di informazioni, di volti.
Con l’università era stata fortunata, in un certo senso.
Magari la stessa fortuna l’avrebbe avuta anche in altri ambienti; o avrebbe comunque trovato una pista, qualcuno da ascoltare c’era sempre.
Per due giorni era rimasta su una panchina, davanti al dipartimento di Chimica, memorizzando gesti e lineamenti. Perlopiù si trattava di giovani, indaffarati e occhialuti studenti in camice, coi libri in mano, le cuffiette nelle orecchie e i panini consumati in fretta. Poi però aveva individuato un viso, e le era tornata in mente qualcosa che anni prima aveva archiviato nei fascicoli.
Sapeva aspettare. Quindi aspettò.
Finché non vide un uomo con un camice sedersi a fumare fuori dalla porta col maniglione antipanico, insieme a un altro tizio e a una donna.
Sara si avvicinò e gli rivolse un cenno:
«Chiedo scusa, permette una parola?».
Quello corrugò la fronte, cercando di capire se la conoscesse. Decise di no, scrollò le spalle e si rimise a chiacchierare con gli altri due. Allora Sara mormorò in tono sommesso ma perfettamente udibile:
«6 ottobre ’68».
L’uomo riuscì a mantenere il controllo. Non sbiancò, non sobbalzò. Continuò a sorridere mentre tirava un’ultima boccata. Quindi spense il mozzicone e disse:
«Scusatemi. Ci vediamo dentro».
Dopo si girò e prese con delicatezza il braccio di Sara, come se fosse una vecchia conoscenza di cui aveva tardato a ricordarsi:
«Ehi, tutto bene? Vieni, che mi racconti».
Si allontanarono di qualche passo, sotto lo sguardo appena velato di curiosità dei due colleghi. Quando furono a distanza di sicurezza, l’uomo ringhiò:
«Lei chi è? E che cazzo significa quella data?».
Sara rispose, calma:
«È solo una data. Poi ci sarebbe anche un posto, piazza Sannazaro. E tutta la storia, davvero interessante, di un tizio che si fingeva amico di qualcuno e invece non lo era. Che aiutò a organizzare un certo incontro, e andò a finire piuttosto male».
L’uomo sbatté le palpebre e lei notò che dimostrava anche più dell’età che aveva.
«Mi confonde con qualcun altro, e non capisco di cosa sta…»
Sara lo interruppe, quasi stesse recitando una preghiera:
«Lucio Mascolo, nato a Casoria il 3 novembre del ’59. Militante nei gruppi comunisti rivoluzionari, in realtà un agente dei Servizi e un fiancheggiatore di Terza Posizione».
«Io non…»
«Certo, adesso sei Luigi Mastrangelo, tecnico di laboratorio, con moglie e due figli: uno studente fuori corso e l’altra insegnante elementare. Chissà se sei sempre fascista. Di nascosto. Se qualche notte ti svegli per i morsi della coscienza, e se vedi ancora il sangue sul selciato di piazza Sannazaro.»
Gli occhi dell’altro cambiarono colore, velandosi di angoscia. «Io ho pagato, cazzo! Non ho mai smesso di pagare, e ho chiuso con quella faccenda! Tu da quale fogna sei saltata fuori, maledizione? Chi cazzo sei?»
Sara lo fissò inespressiva:
«Togliti quei cazzi dalla bocca, quando ti rivolgi a me. E tra noi due basta che io sappia tutto di te, non serve altro. Stai tranquillo, me ne fotto della tua coscienza e pure del tuo passato. Mi servono informazioni, e se sarai esauriente, sparirò come sono comparsa. Altrimenti, diventerò il peggiore degli incubi».
Sia Lucio sia Luigi restarono a bocca aperta. «Quali informazioni? Non frequento nessuno di quelli da almeno vent’anni!»
Sara fece una smorfia:
«Non è vero, non prendermi per il culo, continui a sentirti con almeno tre di loro. Ma non me ne fotte niente, adesso. Ho bisogno di altro».
Mascolo si guardò attorno, poi domandò:
«Di cosa?».
E la donna parlò.
Alla fine Lucio, con un sorriso che si andava allargando sul volto, disse, sorpreso:
«Solo questo? Le interessano i pettegolezzi del dipartimento? E perché?».
La donna indurì il tono:
«Mascolo, alla prossima frase che non è una risposta me ne andrò e la tua vita com’è adesso sarà finita. Ti verranno a prendere, e non vedrai mai più il cielo».
Un uccello cantò a poca distanza, facendo sobbalzare l’uomo, che rispose in fretta:
«Alberti? Un ottimo ragazzo, tra i migliori. L’incidente ha sconvolto tutti. In particolare la Pratella, la direttrice. Loro due erano molto, molto legati. L’ha voluto lei, qui. Gli aveva dato il posto, e un paio di progetti di ricerca importanti».
«Raccontami di lei, della direttrice.»
Lucio si passò una mano tremante sulla faccia. «Questo dipartimento è tranquillo, fuori dalla calca e da certi interessi. Lavoriamo con serenità, gli studenti girano, arrivano e se ne vanno, molti però chiedono di restare anche senza essere pagati. Silvia, la Pratella, è brava ed è piuttosto giovane per il ruolo che ricopre: è sulla cinquantina. Ha un marito e un paio di figli grandi. Quartieri alti. Un buon capo.»
Sara sogghignò, beffarda. «Sono informazioni che ho già. Stupiscimi, Mascolo. Altrimenti decido che non mi servi, e allora ti accartoccio e ti butto nell’organica.»
Lucio quasi strillò, la voce vagamente in falsetto:
«Senta, io non m’impiccio degli affari degli altri, non attiro l’attenzione su di me. Questo è un ambiente piccolo, si chiacchiera. Posso raccontarle qualche voce, ma non mi metto certo a cercare le prove dei pettegolezzi».
«E allora raccontameli, ’sti pettegolezzi. Non ho tempo da perdere.»
Mascolo si passò la lingua sulle labbra:
«Il dottor Alberti, glielo ripeto, era un bravo ragazzo, sempre gentile e allegro. Anche un bel ragazzo. La Pratella, be’, si cura molto. Si mormorava che… Cioè, io non li ho mai visti in atteggiamenti ambigui, intendiamoci, ma lui era un po’ il preferito, e lei l’ha infilato in un progetto che curava in prima persona. Restavano in ufficio fino a tardi».
«Insomma, avevano una relazione?»
L’uomo fece spallucce:
«Così si diceva in giro. Ma forse era solo invidia. Lui ha una compagna, che adesso è pure incinta, poveretta. E il marito di lei è un pezzo grosso, un industriale farmaceutico, di certo non si mette a rischio un matrimonio così per un ragazzo carino. Poi lei è stata male, è mancata per qualche mese, e al suo ritorno sono sembrati più distanti».
«In che senso “è stata male”?»
«Nessuno l’ha capito, di preciso. Doveva essere un problema serio, però. Quando è tornata, era la metà. Comunque si è ripresa presto e ora è di nuovo come prima.»
Sara valutò l’informazione:
«E dopo l’assenza com’era con lui?».
Lucio scosse il capo:
«Io li avrò incrociati un paio di volte. Mi parevano più freddi, più… professionali. Ma è solo un’impressione».
«E Alberti che umore aveva negli ultimi tempi? Era triste, depresso?»
Mascolo sembrò riflettere per qualche istante:
«No, non mi è sembrato. Certo, uno che aspetta il primo figlio e ha un carattere estroverso come il suo avrebbe dovuto sorridere di più, secondo me; ma depresso no».
Prima che Sara potesse formulare altre domande, le arrivò un messaggio. Sul display del cellulare il numero era anonimo.
Teresa.
Senza salutarlo, diede le spalle a Mascolo e se ne andò.
Tracciando la linea che unisce il punto di Mascolo, diventato Mastrangelo, a quello di Teresa, Sara riflette sulla strana costante di quelli che, dovendo cambiare nome, finiscono sempre per conservare le stesse iniziali. Per le camicie, magari: anche se tende a escludere che un soggetto come Lucio possegga camicie con un ricamo personalizzato.
Chiusa nell’abitacolo, in attesa, Sara medita sugli snodi. Perché è vero, i punti e le linee sono tutti uguali: ma è anche vero che certi incroci sono rivelatori.
Molto rivelatori.
Prima di rivedere Teresa per le informazioni che l’amica aveva trovato, Sara decise di passare da un’altra parte.
Ricostruire con più particolari il passato di Giorgio le avrebbe consentito di dare il giusto peso alle notizie, abbreviando il tempo che le serviva per collegare gli ultimi punti. Ma non era per quello che Sara voleva incontrare di nuovo la compagna del figlio.
Si sistemò più o meno all’altezza del luogo dove era avvenuto l’incidente. Il traffico era stato riaperto quasi subito, aveva piovuto un po’, ed erano bastati pochi giorni per cancellare ogni traccia dell’accaduto. Niente macchia a terra, niente frammenti di parabrezza, niente di niente. Solo un mazzo di fiori appoggiato all’albero su un lato della strada, col cellophane inzaccherato di fanghiglia. Pochi giorni, e nulla più.
Sara sapeva attendere, e attese. Passò un’ora, ne passò un’altra. Certo, c’era la possibilità che a uscire non fosse la giovane, ma la madre; eppure era convinta che sarebbe stata proprio Viola, e lei avrebbe avuto la sua occasione.
Ebbe ragione.
La ragazza varcò il portone all’ora di pranzo, quando il transito di veicoli era scemato sensibilmente. La cagnetta la precedeva trotterellando, la coda alta, il naso in cerca di novità. Viola indossava un cappotto col bavero rialzato e portava un cappello di lana. Teneva in mano la paletta per raccogliere le feci dell’animale insieme a un mazzo di chiavi.
Riconobbe quasi subito Sara e senza esitare la raggiunse attraversando la strada, controllando con attenzione a destra e sinistra se venivano automobili. Gli occhi, tra il bavero e il copricapo, erano arrossati, cerchiati dal sonno e dal pianto.
Rimase in silenzio e, dopo un lungo momento, si incamminò piano dietro alla bastardina, che procedeva annusando il muro di fianco al marciapiede.
Sara si mosse a sua volta, seguendo la giovane a qualche centimetro dalla sua spalla, dall’altro lato rispetto alla cagnetta.
Dopo un po’ domandò:
«Quindi stavate insieme da un paio d’anni, è così?»
La spalla rispose:
«Sì, e convivevamo da un anno e due mesi».
«Come vi siete conosciuti?»
«In modo banale, a una cena da amici comuni. Era la prima volta che usciva dopo molto tempo. Almeno, così mi raccontò. Strano, perché amava stare in mezzo alla gente, ridere, scherzare. Cantava, perfino, aveva una bellissima voce.»
Sara si guardò dentro, e vide la sabbia arida della risacca. Dello tsunami ancora nessuna traccia, eppure avrebbe dovuto essere arrivato, ormai. «Il padre era così, suonava perfino la fisarmonica.»
La spalla ebbe un breve sussultò:
«Me l’ha raccontato. Trovava impossibile che si potesse lasciare un uomo come il papà. E un figlio, è chiaro».
Sara ignorò l’allusione. Era abituata a quelle frecciate. Lei stessa se ne infliggeva almeno una decina al giorno, i primi anni. «Cosa conosci del suo passato?»
Viola si voltò, brusca, e strattonò la bastardina che stava orinando. «In che senso? Era un chimico, un ragazzo studioso e onesto, che siccome è stato abbandonato dalla madre quando aveva cinque anni…»
«Sette» precisò Sara in maniera meccanica.
«… è rimasto ad assistere il padre durante i sei anni di malattia…»
«Quattro.»
«Senti, che cazzo vuoi da me? Che senso hanno queste domande? Ha ragione mia madre: io non dovrei scambiare nemmeno una parola con te e rispettare la volontà di Giorgio.»
L’altra lasciò vagare lo sguardo lungo la strada, soffermandosi su un cancello scrostato. «Voglio solo essere certa, tutto qui. Certa di quello che è capitato. Magari è proprio come sembra, a volte è così, un caso. Però ho imparato che nella vita le fatalità sono davvero molto rare.»
Viola sbatté le palpebre, e d’istinto si passò la mano guantata sul ventre:
«Ma perché, pensi che… che non sia stato un incidente?».
«Io non penso proprio niente. Ho bisogno di capire. Perciò mi servi tu. Non è il passato remoto che mi interessa, ma quello recente. Sei certa che non era successo niente? Né litigi né discussioni. Era geloso di te?»
«Chi, Giorgio? No. Non gliene davo motivo, nelle mie condizioni, poi… Il tempo libero lo trascorrevamo insieme. Nessuna gelosia.»
Sara annuì con lentezza. Una moto sfrecciò rumorosa, squarciando il silenzio di quella strada residenziale. «E tu? Eri gelosa di lui?»
La ragazza serrò le labbra:
«Giorgio… Insomma, a quanto mi ha raccontato, ha avuto solo una storia seria. Non toccava l’argomento volentieri, e io non chiedevo».
«E non eri curiosa?».
«Non è questo, magari lo ero anche. Ma avevo un po’… paura, forse. Hai presente quando temi di scoprire che sei e sarai sempre meno importante? Quando hai paura di dover combattere contro un fantasma?»
Sara rifletté. Sì, aveva presente. Lei con i fantasmi combatteva di continuo.
Viola riprese:
«Credo fosse qualcuna del vecchio lavoro, magari del periodo in cui era stato stagista presso un’azienda farmaceutica. Una volta si lasciò scappare che era una storia senza futuro, che lei era sposata e lui l’aveva scoperto dopo. Ma ti ripeto, evitava di parlarne. E io non insistevo».
La bastardina si mise in posizione, e la giovane preparò la paletta.
«Che farai, adesso?» chiese Sara. «Hai come… coi soldi sei a posto?».
La ragazza si voltò verso di lei, gli occhi cerchiati colmi di stupore:
«Perché, vorresti darmi una mano? Per metterti in pace la coscienza? No, grazie. Noi stiamo bene, io sono figlia unica e mia madre è ricca. E poi non credi che per rispetto a Giorgio io il tuo aiuto non potrei mai accettarlo?».
Sara si mise a osservare la cagnetta intenta a espletare i propri bisogni. A un tratto mormorò:
«Non lo so. Non lo so come sarebbe andata, se fossi venuta a cercarlo, prima o poi. Magari il rancore gli sarebbe passato, o gli era già passato. Il permanere di certi sentimenti è delle donne, non degli uomini».
Viola tacque, assorta. Alla fine domandò:
«Hai detto che ti sei innamorata. Che significa?».
Sara rivide davanti agli occhi Massimiliano. Non com’era alla fine, nel letto dell’ospedale, rinsecchito e annichilito dalla malattia, quando aveva sentito defluire la vita dalla mano che gli stringeva, ma quando lo aveva incontrato per la prima volta, seduto alla sua scrivania, in mezzo a tre assistenti, che sollevava gli occhi su di lei e con un gesto lento si toglieva gli occhiali per guardarla meglio. «Significa che certe passioni, se si ha la fortuna di provarle, si riconoscono. E che si può scegliere se essere sinceri e seguirle alla luce del sole, o vigliacchi e consumarle in segreto. Ma a quelle passioni è impossibile rinunciare.» Tolse la paletta dalle mani della ragazza per impedirle di abbassarsi, raccolse le feci dell’animale e alla fine estrasse la bustina. Alzò di nuovo lo sguardo sul viso di Viola e riprese a parlare: «Io non sono stata capace di essere madre, d’accordo. Chissà, magari potrei provare a essere un po’ nonna. Se sopravvivo a tutto questo».
La giovane aveva negli occhi tutta la malinconia del mondo, ma le disse, piano:
«Io non priverei mai mio figlio di una nonna. Mi pare già abbastanza svantaggiato negli affetti, ti pare?».
Sara annuì, seria. Quindi accennò un sorriso, così breve che l’altra dubitò di averlo visto davvero; poi si girò e se ne andò.
Adesso che il tempo è quasi concluso, Sara ripensa a Viola. Mentre il vento sferza la macchina, pensa a Viola. Mentre la mente si danna per disegnare ogni linea tra i punti, e mentre quasi per magia la figura nascosta dietro i numeri si compone, Sara pensa a Viola.
E allora non può non pensare alle proprie decisioni, alla strada che ha scelto tanti anni prima. A quanto sia stata giusta, a quanto possa essere stata sbagliata. Ma, si risponde come sempre, chi è che stabilisce quello che è giusto e quello che è sbagliato?
Certo, la morale comune impone che una madre non volti le spalle a un figlio di appena sette anni. Certo, se si prende un impegno come il matrimonio, si dovrebbe mantenerlo. Certo, chi se ne va ha torto. Sempre.
Ma anche il defunto padre di Giorgio aveva i suoi torti, per quanto fosse probabile che il ragazzo non l’avesse mai scoperto. Una bella, lunga relazione clandestina con una collega sposata, per esempio. Venuta a conoscenza del tradimento durante un’intercettazione ambientale, un’agente che lavorava con Sara si era sentita in dovere di riferirglielo senza la minima esitazione.
Ognuno compie i suoi errori, pensa senza distogliere lo sguardo dal portone, con le foglie che si alzano e cadono a intervalli. E li paga.
Sara fantastica sull’ipotesi di futuro, perché alla fine ognuno ha un futuro. Magari potrebbe provare a essere nonna. Sempre se la notte finirà nel verso giusto. Questa notte, o una delle successive. Quando tutti i punti saranno stati collegati, e la figura complessiva non avrà più segreti.
Ma adesso c’è da ultimare la ricostruzione.
Con calma e senza fretta, la mente unisce il punto precedente a quello successivo.
E il punto successivo non può che essere Teresa.
Attese al tavolino del bar, ma era certa che non si sarebbe fermata. Se le informazioni erano parecchie, se non si trattava di un “Non ho trovato niente”, allora Teresa avrebbe proseguito sicura, sul suo lato della via, senza nemmeno accertarsi che Sara fosse al solito posto.
Lei però c’era, e scorse l’amica uscire dal palazzo grigio e imboccare la traversa con passo tranquillo ma non troppo lento, come chi ha una commissione da sbrigare e sa esattamente quanto ci vorrà.
Aspettò qualche secondo, poi uscì mettendo i soldi per il caffè sul ripiano del banco.
Il proprietario non sollevò nemmeno lo sguardo dal bicchiere che stava asciugando. Sara considerò che avrebbero dovuto assumerlo, prima o poi.
L’aria era umida, e stava venendo sera. Lasciò sempre che almeno una decina di persone si frapponesse tra lei e Teresa, che camminava dall’altra parte della via. Quindi la vide infilarsi in un negozio di abbigliamento a più piani. Sorrise, era la scelta più saggia, il posto migliore per non essere notate: merce di valore troppo basso per giustificare la presenza di telecamere di sorveglianza, e un grosso bodyguard nero all’ingresso a scoraggiare i curiosi.
Sara non credeva che quelle cautele fossero necessarie, ma certe abitudini erano difficili da perdere e la diffidenza rientrava tra queste.
Il reparto femminile era al secondo piano, affollato da una schiera di galline alla ricerca di una gonna sexy a basso costo. Teresa non c’era. Borse e valigie, terzo piano. Troppo silenzio tra gli scaffali, e Teresa non c’era. Biancheria per la casa, quarto piano, ed ecco l’amica intenta a rovistare tra le lenzuola.
Sara si avvicinò, e finse di scegliere un plaid in pile.
Senza alzare gli occhi dalla merce, la bionda disse:
«Notevole, il contenuto della scheda».
«Che intendi?»
Un sorriso fugace, a occhi bassi. «Cazzo, sessanta euro queste. E sono pure brutte, ma la gente che gusti ha? Insomma, chiamate senza interesse perlopiù: Viola, la madre di Viola, un tizio con cui giocava a calcetto, pare. Poi c’erano i due messaggi».
Sara rifletté:
«I due messaggi… Quindi erano ricorrenti».
Teresa sollevò la tela in controluce:
«Brava la mia ragazza. Molto ricorrenti. Per la precisione uno di mattina e uno a mezzanotte, da circa diciotto mesi».
«E a chi?»
«Al tempo, Sari’. Al tempo. Ti ho preparato un po’ di documentazione, lascio la busta qui tra i coordinati, prendila dopo che me ne sarò andata. Ed è inutile ricordarti che noi senza un mandato mica possiamo leggere i messaggi o ascoltare le conversazioni. I tempi sono cambiati. E magari adesso nemmeno vale la pena.»
Sara sbuffò, continuando a esaminare perplessa una coperta scozzese:
«Non uscirtene con queste stronzate, Tere’. Mai avuto bisogno di un mandato per sentire quello che si dice la gente».
«Vero. Ma questo quando li intercettiamo in diretta, non quando si tratta di roba già successa. Certo, se tuo figlio o la persona a cui scriveva ogni mattina e ogni notte fossero stati sotto controllo, esisterebbero le trascrizioni. Non è così, però. Il che da un lato può intralciarti, ma dall’altro ti deve pure rassicurare, no?»
Sara comprese che era così. «Quindi, che c’è nella busta?»
«Proprio i dati di quella persona con la quale Giorgio scambiava poche ma intense parole, fingendo di portare il cane a spasso, all’insaputa della piccola, ingenua Violetta. Buon sangue non mente. E mi riferisco al padre, non a te.»
La voce di Teresa le arrivava in un sussurro, come se l’amica non stesse muovendo le labbra. Che strana magia, che potere occulto il tempo e il lavoro avevano conferito alle due donne: quello di sentire, di interpretare i segni, di distinguere le parole in un ronzio sommesso che il resto della gente non avrebbe nemmeno riconosciuto come una conversazione.
Sara sussurrò:
«Perché non hai lasciato la busta da qualche parte, allora? L’avrei trovata senza problemi. Bastava un accenno, una parola…».
L’altra scosse il capo, disgustata dal disegno della federa che teneva in mano, e mormorò:
«Dài che ci arrivi. Rifletti e ci arrivi. Non deludermi».
Giusto.
«Devi comunicarmi qualcosa che non vuoi o non puoi scrivere.»
La bionda annuì, e infilò la federa nel cestino che aveva al braccio. Poi si avvicinò allo scaffale degli asciugamani alle spalle di Sara, che la perse di vista.
La voce di Teresa risuonò chiara:
«Ascoltami. Alcuni di noi sono stanchi. Stanchi di venire a conoscenza di certi fatti, di essere testimoni silenziosi di atrocità, private e pubbliche. Non te lo puoi neanche immaginare, oggi è molto peggio di prima: la Rete, i social… Accadono eventi terribili, e dobbiamo stare a guardare senza poter intervenire».
«E non è sempre stato così? Non abbiamo sempre sentito cose, che abbiamo segnalato senza occuparcene più? Non stava mica a noi…»
L’amica la interruppe:
«No, credimi. Oggi il lavoro consiste nello scavare tra foto, messaggi audio, video… Non puoi capire. È come navigare in un mare di merda, scandagliando il fondale in continuazione. E siamo stufi».
«Stufi? Chi siete?»
«Tu sei brava, Sara. Sei forte, determinata. E sei sempre stata diversa. Anche adesso, con questa storia di tuo figlio… Se la porterai a termine, e io sono certa che ci riuscirai, non sarai più vergine. Ci servi. Ci servi assai.»
«E che dovrei fare?»
La bionda rimase in silenzio. Non aveva ancora lasciato il dossier. Poteva andarsene senza darle quello che le serviva. Sara pensò che magari era già successo, e che alle sue spalle non ci fosse più nessuno.
Poi avvertì di nuovo la voce:
«Il braccio. La mano. Il dito che preme il grilletto. Prima che gli eventi orribili si compiano, oppure dopo, se non siamo in grado di impedirli. Quella che punisce, insomma».
Pur nel silenzio della risacca, Sara avvertì un lungo brivido. «Ma perché io?»
«Perché sei una di noi, perché sei sola, e perché ne saresti capace». Quindi Teresa si voltò e con un gesto rapido inserì una busta tra le lenzuola. «Pensaci, Sari’. Ti cerco io.»
E si allontanò in fretta.
Ora che aspetta di tracciare l’ultima linea, Sara ragiona sulle parole dell’amica.
Chissà, magari ha ragione. Magari è ora di occupare il tempo, di porre fine a quel limbo in cui langue dalla morte di Massimiliano.
Magari tutte quelle cartelline, classificate con attenzione e rigore nelle scaffalature della cantina, possono tornare ad avere un senso.
Per qualche strano motivo la mente va a Viola, la compagna di Giorgio. Curioso come la risacca continui a essere silenziosa e arida, e come lo tsunami di dolore non accenni a manifestarsi; e quanto poco, per paradosso, stia piangendo il figlio, pur muovendosi, con assoluta determinazione, per capire ciò che gli è capitato davvero, al di là delle apparenze.
Viola, invece, con quegli occhi cerchiati e smarriti, con quella bastardina al guinzaglio, con la voglia repressa di affrancarsi dalla madre, le si è piazzata nel cuore. Lei e il suo ventre arrotondato.
Lo sguardo fisso davanti a sé, incassata e invisibile al posto di guida, Sara considera come in qualche modo il ventre di Viola e le parole di Teresa siano due parentesi che racchiudono il futuro.
Sempre se ne avrà uno.
Nel frattempo la mente torna alla busta aperta sul tavolo della cucina, sotto la luce bianca del neon. E ai due fogli che conteneva.
Su uno c’era quello che le serviva per stabilire quale fosse l’ultimo puntino da unire. Sull’altro c’era il gentile omaggio di Teresa, che spiegava tutto.
Tutto quanto.
Silvia Pratella, la direttrice del dipartimento di Chimica che era stata il capo di Giorgio, il giovedì sera andava a un cineforum. Fino a un anno prima, l’appuntamento era stato una copertura per i suoi incontri col giovane; adesso invece ci andava davvero, e da sola.
Il sintetico rapporto di Teresa, redatto col tono asciutto che Sara ben conosceva e che le aveva perfino strappato un sorriso, precisava che la donna era intercettata in maniera indiretta perché il marito, industriale sospettato di finanziare in segreto gruppi di estrema destra, era sotto controllo. Una piccola, imprevista fortuna.
Sara ricordò il dettaglio delle telefonate: il giovedì Giorgio era impegnato a calcetto. Forse anche lui aveva ripreso a giocare con regolarità, dopo la fine della relazione col suo capo.
Aspettò la Pratella all’uscita del cinema, al termine della proiezione di un film polacco; la donna doveva essere davvero un’appassionata. La riconobbe subito avendone cercato immagini recenti in Rete. Era bella, magra e alta, curata ed elegante. La sequenza temporale delle fotografie che Sara aveva trovato restituiva tuttavia un impalpabile, sottile degrado del fisico. L’espressione era diventata triste, c’era stato un lieve dimagrimento e l’ex poliziotta aveva anche avuto l’impressione di un diradamento della capigliatura, ben celato da cappelli portati in quasi tutte le occasioni.
Il secondo foglio nella busta, d’altronde, spiegava i motivi di quel deterioramento appena percepibile.
Silvia Pratella sostò qualche attimo sulla soglia della sala, si guardò attorno e si chiuse meglio il soprabito sul collo; poi s’incamminò, lenta, verso il parcheggio.
Sara l’avvicinò, affiancandola. «La dottoressa Pratella, vero?»
L’altra si fermò, sorpresa:
«Ci conosciamo?».
«No, ma forse abbiamo qualcosa in comune. Anzi, ne sono sicura.»
Lo sguardo di Silvia si piantò in quello di Sara. Una blanda curiosità, un vago interesse; ma anche un sottofondo di malinconia e un latente dolore che alla più anziana ricordarono gli occhi di Viola. Era strano come Giorgio avesse lasciato un cratere incolmabile in donne così diverse, e come in lei, al contrario, la sua morte avesse prodotto un deserto. Con più difficoltà di quanto sarebbe stato immaginabile disse:
«Io sono la… la madre di Giorgio Alberti».
Sorpresa. Un evidente indurimento dell’espressione, segno che anche a lei il figlio aveva confidato dell’assenza della madre. Nessun perdono, nessun oblio.
«Ah. Allora esiste. E che vuole da me, signora? Io non ho niente da raccontare di Giorgio che possa interessarle.»
Le labbra di Sara si piegarono in una smorfia. «Perché non continuiamo nella sua macchina? Così non prendiamo freddo, qui fuori. E bar aperti, a quest’ora e da queste parti, non ce ne sono.»
«E perché dovrei parlare con lei, scusi? Credo che non abbiamo nulla di cui conversare. E ora che ci penso, nemmeno mi va la sua compagnia. Buona serata.»
Sara era preparata alla reazione, e ribatté in fretta:
«Come vuole. Magari potrebbe interessare a suo marito, impegnato in questo momento nel poker settimanale con gli amici politici, apprendere che quando è stato investito, Giorgio le stava scrivendo il solito messaggio della buonanotte. E che, secondo quanto dichiarato dall’uomo alla guida, se si è gettato di proposito, la decisione può risalire proprio alla fine della vostra relazione. Nel malaugurato caso in cui, è ovvio, questa vicenda dovesse diventare di pubblico dominio». Aveva parlato a bassa voce, quasi un sussurro, tenendo le mani nelle tasche del cappotto, i capelli grigi appena scompigliati dal vento. Anonima, all’apparenza fragile. E invece letale.
L’altra sbatté le palpebre:
«Chi è lei? Come… come ha scoperto che… E come mi ha rintracciata?».
«L’importante sono le informazioni che ho, e soprattutto quelle che voglio. Io le ho spiegato chi sono. Adesso mi dica chi è lei».
Il bel viso della professoressa si contrasse in una smorfia indecifrabile. Poi annuì, e si diresse senza voltarsi verso la propria auto.
Sara le andò dietro e salì dalla parte del passeggero.
Silvia mormorò:
«Vuole sapere se io e Giorgio abbiamo avuto una relazione, se eravamo amanti? Immagino di sì, che sia proprio così. Suo figlio, ammesso che lei sia davvero la madre, è stato il grande amore della mia vita. E io il suo».
«È sicura? Perché poi è finita, giusto? I grandi amori si inseguono, e voi due avete rinunciato.»
La Pratella rise, beffarda:
«Ah, ecco. Lei che fa la morale a me. Lei, che ha lasciato un bambino, e…».
Sara sibilò:
«Io, sì. Perché per l’appunto io l’ho inseguito, il grande amore. Contro tutto, contro il mondo. Per questo posso assicurarle che Giorgio aveva compiuto altre scelte e…».
Silvia la interruppe:
«Lei non sa un cazzo. Sono stata io a chiudere la storia, appena ho scoperto che… Insomma, sono stata io. Gli ho detto che i miei figli avevano bisogno di me, che non potevo lasciarli. Che lo amavo, ma…».
«Ma» la precedette secca Sara, «non era questo il vero motivo, è così?»
Silvia tacque, lo sguardo perso nel vuoto davanti a sé. Le mani le tremavano. Aprì la borsetta, prese una sigaretta ma non l’accese.
«Ha scoperto anche questo, quindi. Sì, la vera ragione era un’altra.»
Sara attese qualche attimo, poi aggiunse:
«Quando le è stata diagnosticata, la malattia?».
La Pratella accese la sigaretta, le dita tremanti. Soffiò il fumo aprendo il finestrino di un dito. «Non dovrei fumare, proprio io. Ma da quando Giorgio è… non mi interessa più sopravvivere. E non riesco a credere che sia stata una sua scelta deliberata. Non è possibile. Lui era… era tenace, sereno, sempre positivo. Non ci credo proprio. Anche se non ci frequentavamo più, in quel senso.» Aspirò un’altra boccata, scuotendo il capo. Quindi riprese: «Era al seno destro. Se ne accorse proprio lui. Assurdo, no? Non fui io, e nemmeno il ginecologo. Fu Giorgio. Sono stata operata, e hanno scoperto che c’era qualcosa anche all’intestino. Operata ancora. Ho rotto subito con Giorgio, non potevo sopportare di costringerlo fuori dall’ospedale, di impedirgli di venire a trovarmi. È giovane… era giovane. C’erano parecchi anni di differenza tra noi. Meritava una vita. Lei l’ha conosciuta, Viola? Io no, non l’ho mai voluta incontrare. Immagino di non essere abbastanza forte, per questo. Non sono andata nemmeno al funerale. Non sarei riuscita a mantenere un contegno».
Sara annuì, pensosa:
«Chi è di certo a conoscenza di voi due?».
Silvia spalancò gli occhi, scuotendo il capo:
«Ma sta scherzando? Nessuno, nessuno mai! Al di là di qualche pettegolezzo in dipartimento, che posso immaginare, le assicuro che nessuno ha mai sospettato di noi. Eravamo attenti a livello maniacale. Mio marito, lui… È un uomo terribile. Potentissimo e terribile. Ci avrebbe distrutti, e non potevo permetterlo».
«Eppure, come ci sono arrivata io, poteva arrivarci chiunque. Quindi anche suo marito, non le pare?»
«No, lei non lo conosce, non sarebbe riuscito a nascondermelo. Avrebbe reagito con rabbia, sarebbe impazzito, mi avrebbe cacciata di casa. Lo escludo.»
«Quindi lo ha lasciato andare. Però poi avete ripreso la relazione…»
Silvia gettò il mozzicone dal finestrino, e sorrise con tristezza:
«No. Quando mi raccontò di Viola, del figlio in arrivo, decidemmo insieme che non ci saremmo incontrati più. Mi sentivo svuotata, non volevo andare avanti. Perfino il mio medico, al quale sto molto a cuore, mi ha supplicato di spiegargli perché avevo smesso di combattere».
«E lei si è confidata?»
La Pratella si strinse nelle spalle:
«Sì, ma senza fare nomi, è chiaro. Gli ho detto che la vita deve avere un senso, per essere conservata. E che io questo senso non lo trovavo più. Perciò non volevo altre storie, non mi interessavano altre relazioni. Aspetto che provveda la malattia, tanto le cure non riusciranno a guarirmi».
Ecco, pensò Sara, ecco l’ultimo punto da unire. Ecco cos’è successo in realtà.
Silvia continuò a bassa voce:
«Era rimasta quest’abitudine, dalla quale non riuscivamo a separarci. La buonanotte e il buongiorno. Il primo e l’ultimo pensiero. L’inizio e la fine. Ricevevo la buonanotte nel bagno di casa, e il buongiorno nello studio del dottore dove vado per la terapia, prima del lavoro. Non ha idea di quanto mi manchi».
Sara sentì il sordo rumore dello tsunami in arrivo. Finalmente. Aprì lo sportello per uscire, ma si fermò:
«Un’ultima cosa, signora. Che sa dell’incidente di Giorgio?».
«Quello che conoscono tutti, a chi avrei potuto chiedere altre informazioni? La stampa ha parlato solo dell’incidente, un trafiletto in cronaca. Perché?»
Sara accennò un sorriso:
«Così. Solo per curiosità».
La donna le prese il braccio, trattenendola:
«Un attimo, la prego… Giorgio non si è ucciso per me, vero? Io non potrei reggere se…».
Sara la fissò; e nei suoi occhi c’erano una nuova durezza e un nuovo dolore. «No, signora. Non l’ha fatto di proposito. Glielo assicuro.» Scese dalla macchina e si avviò nella notte.
Ora che si trova a chiudere la storia, Sara è sicura che verrà avvolta da una nebbia. Ha sbagliato, perché il dolore per la perdita del figlio non era uno tsunami che l’avrebbe sbattuta chissà dove, sospingendola in una sconosciuta follia, bensì una bruma ignota, biancastra, melmosa e maleodorante dalla quale non sarebbe uscita mai più.
Non sarebbe dovuto servirle il secondo foglio nella busta, per comprendere. Gli elementi li aveva tutti, eppure non li aveva collegati. Era arrugginita, forse il coinvolgimento personale l’aveva confusa, togliendole lucidità.
Io salvo le vite, aveva detto. Non ammazzo. Sono un oncologo. Dottor Terzani, Ludovico Terzani.
Il povero medico terrorizzato, sconvolto e insignificante. E innamorato. Perdutamente innamorato della sua bella paziente, a sua volta innamorata per sempre di un ragazzo che aveva dovuto lasciare.
Gli occhi fissi sul cancello, Sara cerchia in rosso nella mente l’ultimo punto che, unito agli altri, mostra un’immagine molto più semplice di come sembrava all’inizio.
L’amore è un inferno, dottore. Quanto devi aver sofferto, vedendo quella donna, che non avresti mai avuto riservare l’unico sorriso della giornata al messaggio ricevuto ogni mattina nel tuo studio?
L’amore è un inferno.
Devi aver creduto che toglierlo di mezzo ti avrebbe aperto un mondo di possibilità. Che l’inconsolabile professoressa si sarebbe aggrappata a chi l’aiutava a combattere la malattia. Magari alla lunga avresti vinto. Magari l’avresti persuasa, con un po’ di tempo a disposizione.
Peccato che il tempo non ce l’hai, dottore. Perché sul secondo foglio contenuto nella busta di Teresa c’era l’informazione giusta: cioè il nome del medico che stava cercando di salvare Silvia Pratella.
L’amore è un inferno.
Spaccando il minuto, l’uomo esce dal cancello per recarsi in ospedale, al turno di notte. Sara apprezza molto la precisione altrui. È una comodità.
A passo svelto, Ludovico Terzani, oncologo e assassino, si avvia verso il garage dall’altra parte della strada che attraverserà in corrispondenza delle strisce, in un punto fuori dalla portata delle telecamere di sorveglianza.
Sara mette in moto.
Stavolta nessuno si fermerà a simulare un inutile soccorso. Anche stavolta nessuno sentirà una frenata, perché non ci sarà.
L’amore è un vero inferno.
Avviandosi silenziosa, Sara pensa a Viola e al suo bambino.
Chissà com’è essere nonna.
Chissà com’è.


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