Rannicchiata nella macchina, ascoltando le folate
improvvise di vento gelido che si infrangono sulle poche auto in
transito lungo la strada, Sara aspetta.
È
quello che le riesce meglio. È stato il suo lavoro per tanti anni,
aspettare con pazienza, non lasciarsi sommergere dall’onda lunga
della fretta, non anticipare gli eventi per non smarrire
l’obiettività dell’analisi. Freddezza, imperturbabilità, distacco.
Serenità.
No,
stavolta quella non c’è, pensa Sara. Niente serenità.
Le
foglie cadute dagli alberi che turbinano. Le finestre che si vanno
spegnendo, una a una. Passanti ormai non ce ne sono più, da almeno
un’ora. E Sara aspetta.
Se non
sarà stanotte, sarà la prossima. O quella dopo. Qual è il problema?
C’è solo da attendere.
Ha
imparato che proprio a forza di attendere le cose succedono, prima
o poi. Basta essere pronti.
Sara ha
imparato anche come ingannare l’attesa. Da fuori sembra quasi
addormentata, le palpebre socchiuse, i lineamenti distesi; le mani
appoggiate lungo le cosce, coi guanti per evitare che le dita si
intirizziscano, senza metterle in tasca per non ritardare i
movimenti e allungare i tempi di reazione. Ogni muscolo immobile,
nessuna contrazione sul volto impassibile. La visione periferica è
più che sufficiente per controllare lo spazio che le interessa.
L’aiuta la corporatura minuta. La sagoma avvolta dal sedile e
riparata dal poggiatesta è invisibile dal lato posteriore.
Il SUV posteggiato davanti le risparmia le sciabolate dei fari
delle rare macchine che procedono in senso opposto.
Chi
attende sparisce. Chi attende deve sparire.
Sara sa
che la posizione del corpo è la premessa, ma per riempire il tempo
va ordinata la mente. Come un salotto per ricevere gli ospiti. È
indispensabile che non ci sia nulla di estraneo, nessuna
distrazione: non bisogna pensare ad altro, pericolosissimo lasciare
che la testa vaghi altrove; la frazione di secondo necessaria per
tornare al qui e ora dell’attesa può risultare fatale. E non si può
nemmeno pretendere di restare concentrati in continuazione su
quello che si aspetta, sarebbe come fissare per ore il particolare
di un oggetto perdendo i contorni dell’insieme.
Sara lo
sa che bisogna ricostruire senza sosta il quadro generale,
ripercorrere la sequenza degli eventi. Tirare ancora le linee che
uniscono i punti, come quei disegni da bambini, una giraffa o un
elefante, che piano piano prendono forma collegando una serie di
numeretti sparsi sulla pagina.
E
allora, per l’ennesima volta, Sara ricomincia
dall’inizio.
Il
telefono aveva squillato alle quattro del mattino.
Le
capitava spesso nei momenti topici del suo servizio, quando la
situazione precipitava all’improvviso e non c’era orario o turno
che tenesse: chi aveva seguito una determinata pista doveva
mettersi subito al lavoro, e basta. Allora come adesso la
sensazione era orribile, con la coscienza che annaspava cercando di
riguadagnare la superficie dall’abisso del sonno profondo, a cui
sempre più di rado cedeva, nel petto il rombo di un tamburo, un
attimo prima dell’emergere dei peggiori pensieri, finché, dopo,
tutto si rivelava irrilevante e innocente.
In
certi casi, però, i peggiori pensieri trovavano
conferma.
Sara si
era vestita in fretta, continuando a ripetere:
«No,
no, è impossibile, non è lui».
Non
aveva trovato le chiavi dell’auto, aveva chiamato un taxi, la voce
e il cuore spezzati in mille aguzzi frammenti, ognuno dei quali
rifletteva una diversa immagine del passato. «No, è un errore. Non
può essere.»
Era
lui, invece. Proprio lui.
Restò
ferma a guardarlo sul tavolo. Era coperto a metà dal lenzuolo,
grigio, i lividi e le fratture evidenti. Rotto. Spezzato in più
punti. Restò ferma, ascoltando la tempesta di silenzio che le
montava dentro, cercando di tenere a bada i ricordi remoti, il
dolore del ventre, poi il pianto e il latte e la carne, il sangue
dal naso e le ginocchia sbucciate, la fata dei dentini e «Cambiati
il costumino ché quello è bagnato», e gli occhi pieni di lacrime
quando se n’era andata.
Giorgio. Giorgetto, Giogiò. Giorgino, il mio
Giorgino.
La
mente per non esplodere le ripropose l’odio del figlio, il fiume
incontenibile di durezza dell’adolescente che le
urlava:
«Chi
sei tu? Chi cazzo sei? Io non ho una madre». E lo rivide scappare
via senza girarsi, l’ultima volta, tanti anni prima.
Mio
figlio, pensò Sara. Ora che è troppo tardi.
A
telefonarle era stato un collega anziano, confinato nel presidio di
polizia dell’ospedale a consumare gli ultimi mesi prima della
pensione. Uno che si ricordava di lei, ed erano rimasti in pochi.
«Ciao, Morozzi… scusa l’ora, ma credo che tu debba venire qui.
Adesso, sì. Si tratta di Alberti Giorgio… È tuo figlio, giusto?
Allora devi proprio venire. Morozzi… mi dispiace.
Tanto.»
Erano
anni che Sara non si sentiva chiamare per cognome, da quando aveva
firmato per il congedo. Alla fine, grazie all’anzianità e a un
gioco di contributi, aveva chiuso con l’unità prima di quanto
avrebbe dovuto. Da tempo non si trovava più bene, e non per
stanchezza o pigrizia: perché quel lavoro era cambiato e non le
assomigliava più. Troppe macchine. Troppa magistratura. Troppa
elettronica, troppo DNA. E anche gli altri erano
cambiati, parlavano in modo diverso, e Sara aveva cominciato a
considerarsi superflua.
Eppure
era stata l’indiscussa, leggendaria maestra delle intercettazioni.
Come interpretava lei quei bisbigli, quei sussurri che a stento si
percepivano, nessuno mai. Una sensibilità speciale, una capacità
naturale affinata con l’esercizio e l’applicazione. Tutto
vanificato dai nuovi strumenti di pulizia e amplificazione del
suono: all’improvviso si era sentita “normale”. Ed essere guardata
con sufficienza da ragazzine presuntuose che avevano vinto un
concorso facendosi il culo sui libri non era per lei.
Poi
Massimiliano si era ammalato e Sara non aveva avuto dubbi: meglio,
molto meglio restare a casa.
Cercando lacrime che non trovava, continuò a fissare il
volto del figlio morto: uno sconosciuto.
Aveva
visto tanti cadaveri. Era stata di pattuglia e di scorta, aveva
assistito ad almeno quattro guerre tra clan. Ma quello era suo
figlio.
Almeno,
lo era stato.
Due
vite, rifletté. Una per strada, inseguendo il sogno di diventare
poliziotta, e nel contempo assecondando l’educazione che le avevano
dato i suoi: essere moglie e madre. Così aveva sposato il fidanzato
del liceo, il bravo ragazzo un po’ grigio col bel sorriso, il padre
di Giorgio. Un buon padre, perché alla fine l’aveva tirato su lui
quando se n’era andata.
Poi
l’altra vita. Dopo che aveva deciso di essere se stessa, sbagliando
tutto quello che si poteva sbagliare.
Si
voltò e uscì dall’obitorio.
Il
tecnico, medico o quello che era, la osservò un po’ perplesso,
quindi distolse lo sguardo davanti a quella faccia di marmo. Era
ancora giovane, forse si aspettava lacrime e urla.
Nel
corridoio la donna sentì l’equilibrio mancarle, e per un attimo si
appoggiò al muro. Adesso avrebbe avuto quel volto tumefatto, senza
espressione, conficcato nella memoria al posto delle ginocchia
sbucciate e del ghiacciolo che colava sulla maglietta rossa. Quel
pensiero le spezzò il cuore. Considerò che tutto sommato il padre
di Giorgio, morto dieci anni prima, aveva ricevuto un bel regalo
dal cancro.
Il
vecchio collega l’aspettava sulla porta dell’obitorio. Gli fu grata
per il suo silenzio, per quegli occhi che teneva bassi, e per non
aver provato a toccarle il braccio.
Gli
chiese:
«Come e
dove è successo, De Blasio?».
L’uomo
si grattò la nuca e agitò la mano in modo vago indicando
l’interno:
«Ci sta
il tizio di là, non riesce a smettere di piangere. Sostiene che lui
è spuntato all’improvviso, mentre stava scrivendo un messaggio al
cellulare. Nell’altra mano stringeva il guinzaglio del cane. Ci
stanno pure quelli della stradale. Gliel’ho spiegato che… che sei
dei nostri».
Sara
scosse appena il capo:
«Non
più. Comunque portami da loro, dài».
De
Blasio la studiò coi suoi occhi acquosi da vecchio cane da
caccia:
«Moro’,
se uno è un poliziotto, lo è per sempre. Mica è un lavoro che si va
in pensione e si dimentica, questo».
Gli
agenti della stradale erano due, uno giovane dall’aria ribalda e
uno più o meno dell’età di De Blasio. L’insegnante e l’allievo,
pensò Sara.
L’anziano le venne incontro, il cappello in
mano:
«Ciao,
Morozzi, mi chiamo Silvani. Mi… mi dispiace assai per la tua
perdita».
Sara
annuì, rigida. Continuava a cercare le lacrime dentro di sé, senza
trovarle. Dolore sì, ma niente lacrime. «Vorrei sapere dove e come
è successo.»
Silvani
sospirò. Per qualche motivo sembrava più addolorato lui di Sara.
«Proprio vicino casa sua, l’illuminazione là è scadente, c’è un
lampione rotto e un altro è coperto dai rami di un albero. In
pratica ci stanno venti metri di oscurità completa e…»
Sara
chiese a bassa voce:
«In
quale strada?».
Il
ragazzo spalancò gli occhi:
«Ma non
è tuo figlio, scusa? Nemmeno sai dove abita?».
Silvani
si voltò verso il collega e rispose, velenoso:
«Zitto,
Banti. Parli a sproposito. Morozzi…».
Sara
agitò la mano:
«Tranquillo, Silvani. No, lui e io… non ci sentivamo da
molto tempo. Tutto qui».
Il
giovane si strinse nelle spalle, e iniziò a fissarsi le
unghie.
Sara
incalzò:
«Allora, com’è andata?».
«Era
mezzanotte, più o meno. Tuo f… Giorgio era uscito per portare fuori
il cane, almeno così ci ha riferito la… Sapevi che viveva con una
ragazza, sì?»
Sara
scosse il capo.
Banti
fece uno sbuffo che poteva essere una risatina.
Silvani
gli scoccò un’occhiataccia e quello distolse lo sguardo. Il
poliziotto anziano continuò:
«Lei
non se l’è sentita, è… in stato interessante. Era con la madre, che
è arrivata di corsa e non si calmava… vive al piano di sopra. Una
signora in gamba, mi pare, e…».
Sara
sibilò:
«Silvani, com’è successo?».
L’uomo
trasse un lungo sospiro:
«Sì,
scusami. Ha attraversato la strada nel punto più buio, lontano
dalle strisce, vicino a una curva. Il povero cristo andava a
nemmeno cinquanta all’ora, l’ha preso in pieno e se non era per la
botta neanche se ne accorgeva. È pure un medico. Ha provato a
rianimarlo, poi ha chiamato il 118 ma prima ancora che arrivasse
l’ambulanza l’ha caricato in macchina e l’ha portato lui. È
disperato, non smette di piangere, ha voluto pure essere presente
all’operazione».
Sara
cercò di ricordare le deformazioni del corpo sotto il
lenzuolo:
«I
segni della frenata, sull’auto…».
Silvani
la anticipò:
«Tutto
normale, sia quelli a terra sia gli altri su paraurti, cofano e
parabrezza. Tutto compatibile. Nessun testimone, a quell’ora non
c’è anima viva, è una zona residenziale, la gente dorme. Il cane
vagava per strada trascinando il guinzaglio, l’abbiamo riportato
noi a casa».
«Magari
alla signora interessa più del cane» commentò Banti con
freddezza.
Sara
incassò, in silenzio.
Silvani
ringhiò:
«Sei un
cazzone, Banti. Hai perso un’altra occasione per
tacere».
Lei
disse, piatta:
«Portami dal tizio, Silvani. Grazie».
Il
tizio. Non “quello che ha combinato
questo casino” tantomeno “l’assassino”. Soltanto
il tizio.
L’uomo
stava seduto su una panca scrostata vicino alla porta del pronto
soccorso. Teneva una sigaretta tra le dita tremanti e piangeva.
Piangeva in maniera strana, inquietante: lacrime copiose gli
scorrevano dagli occhi spalancati, le labbra si muovevano quasi
stesse recitando chissà quale preghiera, scuoteva il capo senza
sosta come a convincersi che non era vero, che non stava capitando
proprio a lui.
Era un
ometto tarchiato, di mezz’età, i capelli radi, tinti con cura, un
paio di baffi folti, e indossava un vestito elegante.
Silvani
restò in piedi, indicandolo con la mano a Sara neanche fosse
un’istallazione provvisoria.
La
donna gli si sedette accanto, gli occhi puntati verso l’oscurità
che avvolgeva il parcheggio delle ambulanze. Svuotata di emozioni,
e in attesa della probabile ondata d’immenso dolore, si sentiva
come una spiaggia nel momento di quella terribile, innaturale
risacca che precede uno tsunami.
«Pensavo… pensavo si fermasse» mormorò l’uomo. «Andavo
piano, ascoltavo la musica, me ne stavo tornando a casa dal teatro.
Mia mo… mia moglie aveva mal di testa e non è venuta. Ha sempre mal
di testa, lei.»
Silvani, con una punta di perfidia, spiegò:
«La
signora è la madre. Una mia collega».
L’altro
sussultò, come colpito da una freccia al costato. Rivolse uno
sguardo terrorizzato a Sara, ritraendosi d’istinto. «Mi creda, sono
disperato. Sono un medico, un oncologo, io le vite le salvo, non
ammaz… Andavo pianissimo, le assicuro che non ho bevuto niente
e…»
Silvani
interloquì, mantenendo il ruolo di coro greco:
«È
vero, abbiamo controllato».
Sara
domandò:
«Il
collega mi ha riferito che Giorgio… che mio figlio stava
utilizzando il cellulare, immagino gliel’abbia raccontato lei. Ne è
sicuro?».
L’uomo
fece di sì con la testa, gli occhi ancora spalancati. Era sotto
shock, a Sara fu chiaro che doveva in qualche modo scuoterlo. «Come
si chiama, dottor…?».
«Terzani. Ludovico Terzani. Sono un medico onc… Scusi, mi
sto ripetendo. Io… È una tragedia, signora. Una vera
tragedia.»
Sara lo
osservava, concentrata. La sua mente così lucida, malgrado il
dolore, riconosceva i segni di un assoluto sconvolgimento.
Quell’uomo era distrutto. Per paradosso provò più pena per lui,
condannato a una specie di inferno, che per il corpo senza vita sul
tavolo dell’obitorio. «Mi racconti tutto, per favore.
Tutto.»
Terzani
rispose con estrema lentezza. «Stavo tornando a… Insomma, ero stato
a teatro, il Lohengrin, potete
verificare, andavo piano… Quello è un punto in cui non si vede
niente, ma ho i fari buoni. Solo che c’è una curva e… Con la coda
dell’occhio ho notato la luce del telefonino, perciò lo so che… Il
ragazzo teneva il cellulare in mano. Io ho pure suonato, ma lui è
avanzato di un passo… Poi si è fermato, e…» Guardò la sigaretta
ormai spenta tra le dita, come se non l’avesse mai vista. Piegò le
labbra in un sorriso incerto, sembrava si stesse scusando: «È una
delle principali cause del cancro, il primo fattore di rischio. E
io lo curo, il cancro. Che fesso, eh? Che fesso».
«Dottore, ha detto che prima si è fermato. Che
significa?»
L’uomo
la fissò, pareva non comprendere la lingua. «Sì, lui… lui si è
fermato, come per lasciarmi passare. L’ho visto bene. Aveva il
telefonino in mano… Non vicino all’orecchio, in mano, forse per
scrivere o ricevere un messaggio. E, all’improvviso, quando io
ormai stavo andando, è venuto avanti di corsa, quasi…»
«Secondo lei…»
Da
lontano si sentì l’urlo di un’ambulanza in arrivo. Terzani
ricominciò a piangere:
«Era
come se… come se avesse voluto buttarsi sotto la mia
macchina».
Un
colpo di vento sullo sportello, e Sara sobbalza quasi fosse stata
svegliata di soprassalto. Invece è presente a se stessa, al massimo
della concentrazione. Sta tracciando le linee tra i punti, per
disegnare il suo elefante. Per verificare se per caso non ha
sbagliato, e qualche linea non doveva invece unire altri
punti.
«Come
se avesse voluto buttarsi» aveva mormorato tra i singhiozzi
l’ometto coi capelli tinti. Come
se.
Allora,
pensa, dovevo andare a vedere. E ci sono andata.
In
deroga alle procedure, Silvani accompagnò Sara sul luogo
dell’incidente. Il poliziotto lasciò il giovane collega in ospedale
con Terzani. Il medico si era rifiutato di tornare a casa dalla
moglie che, alle prese col mal di testa, evidentemente non doveva
essere troppo in pena.
A Sara
sembrava di essere immersa in una specie di nebbia, i movimenti e i
pensieri erano rallentati, i sensi intorpiditi, come se l’avessero
privata della capacità di leggere gli altri e interpretarne i
segni. E la notte iniziata con lo squillo del telefono si dilatava,
inghiottendo parole e immagini senza finire mai.
Una
volante col lampeggiante acceso impediva il passaggio delle poche
auto che transitavano a quell’ora in zona. Un agente sonnacchioso
con una paletta in mano se ne stava appoggiato alla fiancata della
macchina, mentre il compagno era seduto all’interno.
Quando
Silvani e Sara giunsero sul posto, quello fuori bussò al
finestrino, e l’altro uscì in fretta stringendo il nodo allentato
della cravatta. Silvani presentò la donna come una collega, senza
specificare il grado di parentela con la vittima.
Lei
finse di non cogliere la smorfia interrogativa dell’agente con la
paletta e si avvicinò.
L’uomo
disse:
«Il
magistrato è appena andato via, abbiamo effettuato i rilievi. È
tutto a posto. La collega perché è qua?».
Silvani
lo trapassò con lo sguardo:
«Perché
ci deve stare, tu mettiti a disposizione».
Sara
domandò a bassa voce:
«Il
punto preciso?».
Il
poliziotto indicò con la paletta all’interno dell’area in cui era
impedito il passaggio. C’era una macchia a terra, un disegno col
gesso.
Lei
aspettò invano lo tsunami. «Il cellulare?» chiese.
L’uomo
la fissò con un’espressione interrogativa.
«Secondo l’investitore aveva un cellulare in mano.
Dov’è?»
«Ah,
sì. Quel cellulare. È distrutto, ci è passata la ruota sopra. Sta
in macchina, lo piglio subito.» Si sporse all’interno
dell’abitacolo e tirò fuori una busta trasparente che allungò a
Sara.
I resti
del telefono per qualche strano motivo la impressionarono quanto il
corpo sul tavolo dell’obitorio, e anche di più. Il display era
frantumato, la cover colorata, con sopra lo stemma della squadra di
calcio della città, spaccata. Giorgio era un tifoso, quindi. Non lo
aveva mai immaginato. L’informazione rientrava nel miliardo di cose
che ignorava del figlio. Il modello era di quelli nuovi, uno
smartphone. A stento sarebbe stata capace di accenderlo. Una vita
ad ascoltare telefonate, e ora con quel coso avrebbe avuto
difficoltà perfino a chiamare qualcuno. L’apparecchio era stato
schiacciato dalla ruota. E la pressione aveva aperto il vano della
minuscola scheda, altrimenti accessibile solo con qualche strumento
appuntito.
Approfittando dell’oscurità che regnava fuori dalla
portata del lampeggiante e del breve scambio di chiacchiere tra
Silvani e il collega di guardia, Sara intascò con un gesto rapido
la SIM.
Poteva sempre essere andata perduta, no? In fondo, era solo un
incidente.
Solo un
incidente.
Restituì ciò che rimaneva del cellulare, e senza voltarsi
verso la macchia a terra chiese:
«Dove
abitava… la vittima?».
La
vittima.
Silvani
le lanciò un’occhiata carica di perplessità.
L’agente indicò il portone di un’elegante palazzina
dall’altra parte della strada.
Stava
portando il cane fuori per un giro, ricordò Sara. Quindi si avviò
decisa, controllando che non arrivassero auto. La visuale era
abbastanza ampia, nonostante la curva. Era buio, d’accordo, ed era
possibile che Terzani non l’avesse visto; ma lui, Giorgio, non
poteva non essersi accorto dell’arrivo della macchina. «Come se si
fosse buttato» aveva detto il medico.
Silvani
salutò in fretta il collega e seguì Sara, che si era fermata
davanti ai citofoni. Il poliziotto indicò la targhetta con la
scritta: ALBERTI – VISCO.
La
donna però era occupata a leggere gli altri nomi. Quindi annuì, e
premette il pulsante. Le aprirono senza fare domande.
Giorgio
aveva abitato al secondo piano. La porta sul pianerottolo era
socchiusa, dall’interno proveniva un gemito sommesso. Li accolse
una donna in divisa sulla cinquantina, il viso un po’ indurito ma
dai bei lineamenti.
Silvani
disse:
«La
collega De Marco, della questura. Le chiediamo di intervenire, in
questi casi, per… per i parenti, insomma. Lei è Sara Morozzi. Primo
dirigente, in congedo. È la madre della vittima».
L’espressione della De Marco non si ammorbidì. Forse
aveva appreso la storia della famiglia mentre assisteva la ragazza
di Giorgio.
Sara
percepì il solito fastidio a metà tra lo scrupolo di coscienza e
l’indisponibilità a essere giudicata. Roba vecchia.
L’agente domandò:
«E in
quale veste è qui, il primo dirigente in congedo?».
Lei si
sentì investire da una fredda ira. Bene. Significava che era ancora
viva. «In veste dei cazzi miei, colle’. Ora levati dai coglioni e
portami dalla compagna di mio figlio.»
L’altra
sbatté le palpebre, come se avesse preso uno schiaffo
improvviso.
Silvani
tenne gli occhi bassi, concentrandosi sulle punte dei
piedi.
Dopo un
tentativo fallito di reggere lo sguardo di Sara, la De Marco li
precedette all’interno. La casa era piccola ma molto graziosa,
piena di fotografie, libri e soprammobili. Un posto vissuto. Un
posto felice.
Il
pianto proveniva dalla cucina, in fondo al corridoio. Nei pressi
della porta la poliziotta fece cenno a Sara di attendere ed entrò.
Si udì bisbigliare, poi una voce di donna parlò con
durezza:
«E con
che faccia viene qui, proprio adesso? Viola non ci vuole parlare,
glielo riferisca pure».
Allora
Sara, decisa, varcò l’uscio.
Oltre
alla De Marco, nella stanza c’erano due donne. Una giovane incinta,
i lineamenti sconvolti dal dolore, gli occhi fissi davanti a sé, e
una cinquantenne dall’espressione determinata, in piedi con una
mano sulla spalla della ragazza. Si somigliavano
molto.
Con una
certa sorpresa Sara capì che a gemere era una cagnetta meticcia di
taglia media, ferma vicino alla soglia del terrazzino. Ignorò lo
sguardo soddisfatto della De Marco e parlò alla giovane
seduta:
«Me ne
vado subito. Ho solo bisogno di qualche…».
La più
anziana sibilò:
«Mia
figlia dev’essere lasciata in pace. È incinta, e ha appena perso il
suo compagno. Non ci si presenta a casa delle persone così, in
piena notte a…».
Sara la
fissò con freddezza. «Mi scusi, io non sono qui per lei. Mi servono
alcune informazioni. Non volete capire meglio cos’è
successo?»
La De
Marco intervenne, acida:
«La
signora Rosaria Visco, madre di Viola, è la proprietaria di questo
appartamento e di quello di sopra, dove abita. E ha il pieno
diritto di non gradire visite». Quindi si rivolse direttamente alla
padrona di casa: «Devo accompagnarla fuori, signora? Basta che me
lo dice e provvedo».
Provaci, pensò Sara. Provaci, e paghi tu per
tutti.
Prima
che la madre rispondesse, Viola parlò con una voce calda e bassa,
increspata da un tremito lontano:
«Mamma,
per favore. Sentiamo che vuole».
Rosaria
aprì la bocca, ma la richiuse subito. Restò impettita al fianco
della figlia, la mano ferma sulla spalla come ad affermarne la
proprietà.
Sara si
rese conto della precarietà della situazione e chiese,
rapida:
«Era
normale che uscisse col cane a quell’ora?».
Viola
confermò:
«Sì.
Giorgio è… era uno scienziato, si comportava in maniera metodica.
Io lo sfottevo per questo, sono una fotografa, e sono anche
disordinata. Tutto il contrario di lui».
«Ti ha
per caso riferito di qualche discussione o litigio sul lavoro negli
ultimi tempi? Anche un dettaglio, un particolare.»
Fissando la De Marco, Rosaria intervenne,
disorientata:
«Ma… mi
scusi, ci sono evidenze che… Non è stato un incidente, allora? Di
che parla questa donna?».
La
poliziotta si rivolse a Sara:
«Non
capisco a che gioco stai giocando, ma di certo so che non ti è
consentito presentarti qui a…».
Viola
la interruppe:
«No,
niente di niente. A Giorgio volevano tutti molto bene. Aveva un
carattere dolcissimo, sono due anni che ci conosciamo e non l’ho
mai visto litigare con nessuno».
La De
Marco riprese:
«Adesso
basta, ti accompagno fuori. Non me ne starò qua ad assistere
a…».
Sara
scrollò brusca la mano che l’altra le aveva appoggiato
sull’avambraccio. Non aveva mai spostato gli occhi dal viso di
Viola. La bastardina continuava a guaire. «E dove
lavorava?».
La
ragazza mormorò:
«All’università, dipartimento di Chimica organica. Era
ancora un ricercatore, aspettava il concorso. Ma era bravissimo,
davvero bravissimo».
Rosaria
s’intromise, velenosa:
«Scusi,
risponda lei a una domanda: ma come si può abbandonare un figlio
piccolo, me lo vuole spiegare? Giorgio non la nominava mai, e ogni
volta che qualcuno gli chiedeva, sorrideva triste e cambiava
discorso. Dov’era lei, quando ha avuto bisogno di una
madre?».
Sara la
ignorò, rimanendo concentrata su Viola. La cagnetta gemette e la
giovane spiegò:
«Lo sta
aspettando. Era sua, l’aveva già da prima. Piange, quando lo
aspetta. Adesso come farò? Piangerà sempre».
Sara le
disse:
«Tornerò. Te lo prometto».
Poi si
rivolse alla madre:
«Mi ero
innamorata. Giorgio non ha voluto incontrarmi più».
Quindi
si girò e se ne andò.
Le
linee e i punti. Mentre tiene gli occhi fissi sulle foglie che si
alzano volteggiando come in una specie di girotondo, per poi
ricadere al calare improvviso del vento, Sara continua a
ripercorrere ogni singola azione che ha compiuto, il tragitto tra
una tappa e l’altra, momento dopo momento.
E anche
a prescindere dalle conclusioni alle quali è giunta, non può non
interrogarsi ancora sul motivo che l’ha spinta ad agire in quel
modo.
Massimiliano sosteneva che era testarda. Che quella, alla
fine, era la caratteristica fondamentale della sua esistenza.
Magari poteva metterci un po’ a decidere, ma se imboccava una
strada, la percorreva fino in fondo, senza esitazioni. Glielo
ripeteva sorridendo, con quel suo modo strano di piegare la
testa:
«Anche
con me è stato così, quando hai compreso che ero il grande amore
della tua vita. Io l’avevo capito appena ti ho vista entrare nel
mio ufficio, il giorno in cui hai preso servizio. E da allora non è
esistito altro futuro al di là di noi due, figli o non figli,
matrimonio o meno. Solo noi due».
Derogando al percorso tra linee e punti, Sara rifletté
che non si era mai pentita di aver rinunciato a tutto per
Massimiliano. Mai. Nemmeno quando aveva dovuto assisterlo durante
la malattia. Solo loro due.
Giusto
così, no? Giusto così.
Allora,
perché sei qui adesso?, si chiede. Ognuno prende la sua strada.
Mica sei un giudice, tu. Sei soltanto una poliziotta in pensione.
Che è rimasta sola.
«Testarda» diceva Massimiliano. «Una dannata,
meravigliosa testarda.»
Sara
ricomincia a seguire la linea, fino al punto
successivo.
E il
punto successivo è Teresa.
Davanti
al portone, un po’ defilato sulla sinistra, c’era un
bar.
Un
tempo il locale aveva avuto ambizioni di caffetteria, perciò con un
certo sforzo finanziario si era dotato di finiture in legno scuro,
tavolini dal piano in cristallo e poltroncine coi braccioli. Il
banco era stato sostituito da un affare alto e cromatissimo, con
ben due vetrine separate, una per la pasticceria, l’altra per la
rosticceria, e una spettacolare macchina per il caffè, su cui
spiccavano delle lunghe leve e uno sfiatatoio del vapore che
ricordava una locomotiva di inizio secolo. Ma quella non era zona
dove sorbire tè col mignolo alzato, assaggiando biscottini al
burro, così ben presto si era tornati agli espressi veloci con
cornetto al banco e al panino per gli impiegati all’ora di pranzo,
insieme al conseguente, progressivo degrado degli
arredi.
Tavoli
e poltroncine però erano sopravvissuti, e Sara si accomodò al
solito posto, in un angolino appartato dal quale si vedeva chi
entrava e usciva dal palazzo.
L’ufficio, ovviamente, non aveva alcun contrassegno. Non
c’erano nomi sul citofono né targhe sulla porta. L’attività svolta
là dentro da una dozzina di donne e uomini era forse la più
riservata che ci fosse. Accadeva di rado che qualcuno chiedesse
cosa diavolo facessero in quel palazzo grigio e anonimo; la prima
regola del luogo era pensare agli affari propri. Se capitava,
allora rispondevano che si occupavano di importazioni ed
esportazioni come indicava la vecchia insegna
sull’edificio.
E in un
certo senso era vero.
Il
proprietario del bar le aveva rivolto un brusco cenno della testa.
Si erano incontrati tre volte al giorno per più di vent’anni, senza
parlarsi mai. Niente di più intimo di quel gesto. E le aveva
portato anche il doppio caffè ristretto e lo zucchero, come ai
vecchi tempi. Come se non fosse passato un solo giorno da quando se
n’era andata.
Sara
non aveva bisogno di guardare l’orologio. All’ora esatta in cui
l’aspettava, la bionda uscì dal portone e attraversò la strada con
ampie falcate delle lunghe gambe, lanciando un’occhiata a destra e
una a sinistra. È una tipa attenta, considerò Sara. E per chissà
quale motivo, il pensiero la rassicurò.
Appena
entrata nel locale, Teresa la vide. Regola numero uno: controllare
l’ambiente. Quindi si avvicinò e sedette sulla poltroncina accanto
alla sua, fissando Sara con evidente curiosità.
Teresa
era stata stupenda, ed esercitava ancora un incredibile fascino:
aveva i capelli dorati, gli occhi azzurri segnati da qualche ruga,
gli zigomi alti, le labbra piene, la figura snella. In passato,
fianco a fianco negli uffici dell’unità ad ascoltare e trascrivere,
avevano scherzato spesso sul fatto che avrebbe potuto diventare
un’attrice, guadagnando un sacco di soldi e divertendosi molto di
più. «Più di così?» rispondeva sempre Teresa indicando le cuffie e
i blocchi di appunti. E poi ridevano insieme.
Se mai
poteva esserci amicizia in quel posto, in cui si scavava senza
interruzione nella melma, dove si svolgeva un’attività delatoria e
vile, si mandavano padri di famiglia in galera per decenni, quella
era stata l’unica amica che Sara aveva avuto. Una coppia strana, la
bella bionda alta e la piccola bruna coi capelli precocemente
striati di grigio, dal corpo morbido e dagli occhi profondi;
entrambe affascinanti, entrambe silenziose e riservate. Se mai
poteva esserci amicizia in quel posto, loro due erano
amiche.
Teresa
restò a fissarla, compunta. Poi disse:
«Madonna, quanto sei vecchia».
Sara
piegò le labbra in una smorfia:
«E ho
giusto un anno e mezzo più di te».
Sorrisero, guardando fuori come se ci fosse qualcosa da
vedere. Poi Teresa mormorò:
«Ho
saputo. Mi dispiace».
L’altra
non fu sorpresa. Se c’era un luogo dove le notizie prima o poi
arrivavano sempre era quel triste, malmesso stabile dal lato
opposto della strada. Si strinse nelle spalle. «Un incidente.
Capita, no? E poi, era uno sconosciuto per me. Vent’anni non sono
uno scherzo».
La
bionda era ammutolita. Dopo un po’ disse:
«Capita, sì. Tu come stai? Davvero,
intendo».
Sara
cercò dentro di sé. La risacca aveva lasciato sabbia asciutta.
Dello tsunami ancora nessuna traccia. «Per ora non provo niente.
Arriverà dopo, immagino. Aveva una compagna, è
incinta.»
Teresa
annuì, come se fosse un’informazione fondamentale.
Sara le
chiese:
«E tu?
Come te la passi?».
L’amica
allargò le braccia:
«Penso
spesso a te. A Massimiliano, a noi. Io, te e Marco eravamo così
giovani, ci sembrava di combattere chissà quale guerra. Di essere
fondamentali. Esisteva solo quel maledetto palazzo. Piano piano era
normale mollare il resto. Poi loro sono morti, tu te ne sei andata.
E io mi chiedo perché sono ancora là. Solo che non ho nient’altro,
e ho paura di quello che c’è fuori. Ecco come me la
passo».
L’altra
tacque ricordando Marco, l’uomo di Teresa, un collega allegro e
brillante, impulsivo e intelligente. A un certo punto aveva deciso
che era inaccettabile starsene a guardare e aveva chiesto di
tornare operativo. Sei mesi dopo, era stato ucciso in un conflitto
a fuoco. Erano tempi così.
Teresa
la fissò:
«Che
vuoi? Perché sei qui?».
Senza
rispondere, Sara tirò fuori dalla borsa il portafogli. Aprì la zip,
prese un oggetto minuscolo e lo allungò sul cristallo del
tavolino.
L’amica
studiò la scheda dello smartphone di Giorgio e scosse il capo, come
di fronte a un’assurdità. «Conosci le regole, in buona parte le hai
scritte tu. Non dovrei salutarti né mostrare di conoscerti. Sei
sparita dal giorno in cui ti sei dimessa, e adesso…»
«E
adesso sì. E anche in fretta. Per il tempo che è trascorso, Tere’.
Per ognuno di quegli anni insieme. Ti prego.»
Senza
distogliere gli occhi dal viso di Sara, la bionda allungò la mano e
prese la scheda. Poi domandò:
«Che
vuoi sapere?».
«Tutto:
i messaggi, le chiamate. Immagino che i testi non ci siano, Giorgio
non rientrava nei controlli, ma i tabulati sì».
«Figurati, sei rimasta ancora ai tabulati… ora è tutto
digitale. Vedo come posso aiutarti. Non tornare, però: ti chiamo
io.» Quindi Teresa si alzò e uscì dal locale a passo svelto, senza
guardarsi indietro. Attraversò la strada e s’infilò nel
passato.
Adesso
Sara pensa all’amica dai capelli biondi, e a come ha imparato
l’arte dell’attesa.
Le
volte che sono rimaste insieme, sere e notti e albe e mattine, e di
nuovo sere, senza un diversivo o una distrazione, aspettando un
movimento, un segnale o una parola, pronunciata spesso in dialetti
così stretti da risultare quasi incomprensibili a quelli che non
possiedono il loro speciale talento.
Pensa
alle poche volte che si sono trovati in quattro, con Marco e
Massimiliano. Strane vigilie di Natale, un po’ rubate alla sorte e
al lavoro, qualche silenzio, nessun imbarazzo. Altri mondi, mariti
e mogli e figli, lasciati alle normali esistenze della gente
normale. Loro no. Loro ascoltavano in cuffia le vite degli altri,
ne trascrivevano i sentimenti e le preoccupazioni, scavavano nella
banalità alla ricerca delle perle rare del tradimento.
Forse è
stata Teresa, ragiona Sara unendo i punti con le linee mentre il
vento gioca con qualche cartaccia; rivederne il volto, ascoltarne
la voce dopo tanto tempo, le ha fatto venire in mente le carte di
Massimiliano.
O forse
sarebbe successo in ogni caso.
Quando
lo aveva incontrato, era il capo dell’unità. Un uomo mite,
dolcissimo e silenzioso, che l’aveva incantata con un unico
luminoso sguardo; eppure aveva imparato presto cosa si nascondeva
dietro quei silenzi, anche se mai era riuscita a toccarne il fondo
pieno di ombre e segreti. Al contrario di lei, un’operativa che
stava in trincea, Massimiliano aveva alle spalle trent’anni di
strategie e di decisioni terribili. Uomini e donne censiti con
rigore, classificati e catalogati al fine di seguirne le esistenze
anche nei minimi dettagli o cambiamenti, l’intero Paese
scandagliato negli anni in cui erano in atto decine di guerre sotto
traccia, invisibili ai più ma non per questo meno cruente e
mortali. Certo, era roba da scrivania. Per lui, però, la
distinzione tra lavoro e vita non esisteva.
Sara
ricordava le notti insonni, il secondo ufficio allestito nella
cantina dell’appartamento comprato proprio per quel motivo, i
dossier con le facce e i trascorsi della gente, gli indirizzi e i
precedenti, le realtà visibili e quelle sommerse. Non era passato
troppo tempo, in fondo. In quell’ambiente senza aperture, tenuto al
fresco dal ronzante aeratore, era custodito l’archivio più completo
dei delitti nascosti di un’intera nazione nel periodo più buio. La
porta dello scantinato era sbarrata dal giorno in cui Massimiliano
le aveva chiesto di non aggiornare più gli incartamenti, ma Sara
non aveva dimenticato quel fiume vorticoso di dati, di
informazioni, di volti.
Con
l’università era stata fortunata, in un certo senso.
Magari
la stessa fortuna l’avrebbe avuta anche in altri ambienti; o
avrebbe comunque trovato una pista, qualcuno da ascoltare c’era
sempre.
Per due
giorni era rimasta su una panchina, davanti al dipartimento di
Chimica, memorizzando gesti e lineamenti. Perlopiù si trattava di
giovani, indaffarati e occhialuti studenti in camice, coi libri in
mano, le cuffiette nelle orecchie e i panini consumati in fretta.
Poi però aveva individuato un viso, e le era tornata in mente
qualcosa che anni prima aveva archiviato nei
fascicoli.
Sapeva
aspettare. Quindi aspettò.
Finché
non vide un uomo con un camice sedersi a fumare fuori dalla porta
col maniglione antipanico, insieme a un altro tizio e a una
donna.
Sara si
avvicinò e gli rivolse un cenno:
«Chiedo
scusa, permette una parola?».
Quello
corrugò la fronte, cercando di capire se la conoscesse. Decise di
no, scrollò le spalle e si rimise a chiacchierare con gli altri
due. Allora Sara mormorò in tono sommesso ma perfettamente
udibile:
«6
ottobre ’68».
L’uomo
riuscì a mantenere il controllo. Non sbiancò, non sobbalzò.
Continuò a sorridere mentre tirava un’ultima boccata. Quindi spense
il mozzicone e disse:
«Scusatemi. Ci vediamo dentro».
Dopo si
girò e prese con delicatezza il braccio di Sara, come se fosse una
vecchia conoscenza di cui aveva tardato a ricordarsi:
«Ehi,
tutto bene? Vieni, che mi racconti».
Si
allontanarono di qualche passo, sotto lo sguardo appena velato di
curiosità dei due colleghi. Quando furono a distanza di sicurezza,
l’uomo ringhiò:
«Lei
chi è? E che cazzo significa quella data?».
Sara
rispose, calma:
«È solo
una data. Poi ci sarebbe anche un posto, piazza Sannazaro. E tutta
la storia, davvero interessante, di un tizio che si fingeva amico
di qualcuno e invece non lo era. Che aiutò a organizzare un certo
incontro, e andò a finire piuttosto male».
L’uomo
sbatté le palpebre e lei notò che dimostrava anche più dell’età che
aveva.
«Mi
confonde con qualcun altro, e non capisco di cosa
sta…»
Sara lo
interruppe, quasi stesse recitando una preghiera:
«Lucio
Mascolo, nato a Casoria il 3 novembre del ’59. Militante nei gruppi
comunisti rivoluzionari, in realtà un agente dei Servizi e un
fiancheggiatore di Terza Posizione».
«Io
non…»
«Certo,
adesso sei Luigi Mastrangelo, tecnico di laboratorio, con moglie e
due figli: uno studente fuori corso e l’altra insegnante
elementare. Chissà se sei sempre fascista. Di nascosto. Se qualche
notte ti svegli per i morsi della coscienza, e se vedi ancora il
sangue sul selciato di piazza Sannazaro.»
Gli
occhi dell’altro cambiarono colore, velandosi di angoscia. «Io ho
pagato, cazzo! Non ho mai smesso di pagare, e ho chiuso con quella
faccenda! Tu da quale fogna sei saltata fuori, maledizione? Chi
cazzo sei?»
Sara lo
fissò inespressiva:
«Togliti quei cazzi dalla bocca, quando ti rivolgi a me.
E tra noi due basta che io sappia tutto di te, non serve altro.
Stai tranquillo, me ne fotto della tua coscienza e pure del tuo
passato. Mi servono informazioni, e se sarai esauriente, sparirò
come sono comparsa. Altrimenti, diventerò il peggiore degli
incubi».
Sia
Lucio sia Luigi restarono a bocca aperta. «Quali informazioni? Non
frequento nessuno di quelli da almeno vent’anni!»
Sara
fece una smorfia:
«Non è
vero, non prendermi per il culo, continui a sentirti con almeno tre
di loro. Ma non me ne fotte niente, adesso. Ho bisogno di
altro».
Mascolo
si guardò attorno, poi domandò:
«Di
cosa?».
E la
donna parlò.
Alla
fine Lucio, con un sorriso che si andava allargando sul volto,
disse, sorpreso:
«Solo
questo? Le interessano i pettegolezzi del dipartimento? E
perché?».
La
donna indurì il tono:
«Mascolo, alla prossima frase che non è una risposta me
ne andrò e la tua vita com’è adesso sarà finita. Ti verranno a
prendere, e non vedrai mai più il cielo».
Un
uccello cantò a poca distanza, facendo sobbalzare l’uomo, che
rispose in fretta:
«Alberti? Un ottimo ragazzo, tra i migliori. L’incidente
ha sconvolto tutti. In particolare la Pratella, la direttrice. Loro
due erano molto, molto legati. L’ha voluto lei, qui. Gli aveva dato
il posto, e un paio di progetti di ricerca
importanti».
«Raccontami di lei, della direttrice.»
Lucio
si passò una mano tremante sulla faccia. «Questo dipartimento è
tranquillo, fuori dalla calca e da certi interessi. Lavoriamo con
serenità, gli studenti girano, arrivano e se ne vanno, molti però
chiedono di restare anche senza essere pagati. Silvia, la Pratella,
è brava ed è piuttosto giovane per il ruolo che ricopre: è sulla
cinquantina. Ha un marito e un paio di figli grandi. Quartieri
alti. Un buon capo.»
Sara
sogghignò, beffarda. «Sono informazioni che ho già. Stupiscimi,
Mascolo. Altrimenti decido che non mi servi, e allora ti
accartoccio e ti butto nell’organica.»
Lucio
quasi strillò, la voce vagamente in falsetto:
«Senta,
io non m’impiccio degli affari degli altri, non attiro l’attenzione
su di me. Questo è un ambiente piccolo, si chiacchiera. Posso
raccontarle qualche voce, ma non mi metto certo a cercare le prove
dei pettegolezzi».
«E
allora raccontameli, ’sti pettegolezzi. Non ho tempo da
perdere.»
Mascolo
si passò la lingua sulle labbra:
«Il
dottor Alberti, glielo ripeto, era un bravo ragazzo, sempre gentile
e allegro. Anche un bel ragazzo. La Pratella, be’, si cura molto.
Si mormorava che… Cioè, io non li ho mai visti in atteggiamenti
ambigui, intendiamoci, ma lui era un po’ il preferito, e lei l’ha
infilato in un progetto che curava in prima persona. Restavano in
ufficio fino a tardi».
«Insomma, avevano una relazione?»
L’uomo
fece spallucce:
«Così
si diceva in giro. Ma forse era solo invidia. Lui ha una compagna,
che adesso è pure incinta, poveretta. E il marito di lei è un pezzo
grosso, un industriale farmaceutico, di certo non si mette a
rischio un matrimonio così per un ragazzo carino. Poi lei è stata
male, è mancata per qualche mese, e al suo ritorno sono sembrati
più distanti».
«In che
senso “è stata male”?»
«Nessuno l’ha capito, di preciso. Doveva essere un
problema serio, però. Quando è tornata, era la metà. Comunque si è
ripresa presto e ora è di nuovo come prima.»
Sara
valutò l’informazione:
«E dopo
l’assenza com’era con lui?».
Lucio
scosse il capo:
«Io li
avrò incrociati un paio di volte. Mi parevano più freddi, più…
professionali. Ma è solo un’impressione».
«E
Alberti che umore aveva negli ultimi tempi? Era triste,
depresso?»
Mascolo
sembrò riflettere per qualche istante:
«No,
non mi è sembrato. Certo, uno che aspetta il primo figlio e ha un
carattere estroverso come il suo avrebbe dovuto sorridere di più,
secondo me; ma depresso no».
Prima
che Sara potesse formulare altre domande, le arrivò un messaggio.
Sul display del cellulare il numero era anonimo.
Teresa.
Senza
salutarlo, diede le spalle a Mascolo e se ne andò.
Tracciando la linea che unisce il punto di Mascolo,
diventato Mastrangelo, a quello di Teresa, Sara riflette sulla
strana costante di quelli che, dovendo cambiare nome, finiscono
sempre per conservare le stesse iniziali. Per le camicie, magari:
anche se tende a escludere che un soggetto come Lucio possegga
camicie con un ricamo personalizzato.
Chiusa
nell’abitacolo, in attesa, Sara medita sugli snodi. Perché è vero,
i punti e le linee sono tutti uguali: ma è anche vero che certi
incroci sono rivelatori.
Molto
rivelatori.
Prima
di rivedere Teresa per le informazioni che l’amica aveva trovato,
Sara decise di passare da un’altra parte.
Ricostruire con più particolari il passato di Giorgio le
avrebbe consentito di dare il giusto peso alle notizie, abbreviando
il tempo che le serviva per collegare gli ultimi punti. Ma non era
per quello che Sara voleva incontrare di nuovo la compagna del
figlio.
Si
sistemò più o meno all’altezza del luogo dove era avvenuto
l’incidente. Il traffico era stato riaperto quasi subito, aveva
piovuto un po’, ed erano bastati pochi giorni per cancellare ogni
traccia dell’accaduto. Niente macchia a terra, niente frammenti di
parabrezza, niente di niente. Solo un mazzo di fiori appoggiato
all’albero su un lato della strada, col cellophane inzaccherato di
fanghiglia. Pochi giorni, e nulla più.
Sara
sapeva attendere, e attese. Passò un’ora, ne passò un’altra. Certo,
c’era la possibilità che a uscire non fosse la giovane, ma la
madre; eppure era convinta che sarebbe stata proprio Viola, e lei
avrebbe avuto la sua occasione.
Ebbe
ragione.
La
ragazza varcò il portone all’ora di pranzo, quando il transito di
veicoli era scemato sensibilmente. La cagnetta la precedeva
trotterellando, la coda alta, il naso in cerca di novità. Viola
indossava un cappotto col bavero rialzato e portava un cappello di
lana. Teneva in mano la paletta per raccogliere le feci
dell’animale insieme a un mazzo di chiavi.
Riconobbe quasi subito Sara e senza esitare la raggiunse
attraversando la strada, controllando con attenzione a destra e
sinistra se venivano automobili. Gli occhi, tra il bavero e il
copricapo, erano arrossati, cerchiati dal sonno e dal
pianto.
Rimase
in silenzio e, dopo un lungo momento, si incamminò piano dietro
alla bastardina, che procedeva annusando il muro di fianco al
marciapiede.
Sara si
mosse a sua volta, seguendo la giovane a qualche centimetro dalla
sua spalla, dall’altro lato rispetto alla cagnetta.
Dopo un
po’ domandò:
«Quindi
stavate insieme da un paio d’anni, è così?»
La
spalla rispose:
«Sì, e
convivevamo da un anno e due mesi».
«Come
vi siete conosciuti?»
«In
modo banale, a una cena da amici comuni. Era la prima volta che
usciva dopo molto tempo. Almeno, così mi raccontò. Strano, perché
amava stare in mezzo alla gente, ridere, scherzare. Cantava,
perfino, aveva una bellissima voce.»
Sara si
guardò dentro, e vide la sabbia arida della risacca. Dello tsunami
ancora nessuna traccia, eppure avrebbe dovuto essere arrivato,
ormai. «Il padre era così, suonava perfino la
fisarmonica.»
La
spalla ebbe un breve sussultò:
«Me
l’ha raccontato. Trovava impossibile che si potesse lasciare un
uomo come il papà. E un figlio, è chiaro».
Sara
ignorò l’allusione. Era abituata a quelle frecciate. Lei stessa se
ne infliggeva almeno una decina al giorno, i primi anni. «Cosa
conosci del suo passato?»
Viola
si voltò, brusca, e strattonò la bastardina che stava orinando. «In
che senso? Era un chimico, un ragazzo studioso e onesto, che
siccome è stato abbandonato dalla madre quando aveva cinque
anni…»
«Sette»
precisò Sara in maniera meccanica.
«… è
rimasto ad assistere il padre durante i sei anni di
malattia…»
«Quattro.»
«Senti,
che cazzo vuoi da me? Che senso hanno queste domande? Ha ragione
mia madre: io non dovrei scambiare nemmeno una parola con te e
rispettare la volontà di Giorgio.»
L’altra
lasciò vagare lo sguardo lungo la strada, soffermandosi su un
cancello scrostato. «Voglio solo essere certa, tutto qui. Certa di
quello che è capitato. Magari è proprio come sembra, a volte è
così, un caso. Però ho imparato che nella vita le fatalità sono
davvero molto rare.»
Viola
sbatté le palpebre, e d’istinto si passò la mano guantata sul
ventre:
«Ma
perché, pensi che… che non sia stato un incidente?».
«Io non
penso proprio niente. Ho bisogno di capire. Perciò mi servi tu. Non
è il passato remoto che mi interessa, ma quello recente. Sei certa
che non era successo niente? Né litigi né discussioni. Era geloso
di te?»
«Chi,
Giorgio? No. Non gliene davo motivo, nelle mie condizioni, poi… Il
tempo libero lo trascorrevamo insieme. Nessuna
gelosia.»
Sara
annuì con lentezza. Una moto sfrecciò rumorosa, squarciando il
silenzio di quella strada residenziale. «E tu? Eri gelosa di
lui?»
La
ragazza serrò le labbra:
«Giorgio… Insomma, a quanto mi ha raccontato, ha avuto
solo una storia seria. Non toccava l’argomento volentieri, e io non
chiedevo».
«E non
eri curiosa?».
«Non è
questo, magari lo ero anche. Ma avevo un po’… paura, forse. Hai
presente quando temi di scoprire che sei e sarai sempre meno
importante? Quando hai paura di dover combattere contro un
fantasma?»
Sara
rifletté. Sì, aveva presente. Lei con i fantasmi combatteva di
continuo.
Viola
riprese:
«Credo
fosse qualcuna del vecchio lavoro, magari del periodo in cui era
stato stagista presso un’azienda farmaceutica. Una volta si lasciò
scappare che era una storia senza futuro, che lei era sposata e lui
l’aveva scoperto dopo. Ma ti ripeto, evitava di parlarne. E io non
insistevo».
La
bastardina si mise in posizione, e la giovane preparò la
paletta.
«Che
farai, adesso?» chiese Sara. «Hai come… coi soldi sei a
posto?».
La
ragazza si voltò verso di lei, gli occhi cerchiati colmi di
stupore:
«Perché, vorresti darmi una mano? Per metterti in pace la
coscienza? No, grazie. Noi stiamo bene, io sono figlia unica e mia
madre è ricca. E poi non credi che per rispetto a Giorgio io il tuo
aiuto non potrei mai accettarlo?».
Sara si
mise a osservare la cagnetta intenta a espletare i propri bisogni.
A un tratto mormorò:
«Non lo
so. Non lo so come sarebbe andata, se fossi venuta a cercarlo,
prima o poi. Magari il rancore gli sarebbe passato, o gli era già
passato. Il permanere di certi sentimenti è delle donne, non degli
uomini».
Viola
tacque, assorta. Alla fine domandò:
«Hai
detto che ti sei innamorata. Che significa?».
Sara
rivide davanti agli occhi Massimiliano. Non com’era alla fine, nel
letto dell’ospedale, rinsecchito e annichilito dalla malattia,
quando aveva sentito defluire la vita dalla mano che gli stringeva,
ma quando lo aveva incontrato per la prima volta, seduto alla sua
scrivania, in mezzo a tre assistenti, che sollevava gli occhi su di
lei e con un gesto lento si toglieva gli occhiali per guardarla
meglio. «Significa che certe passioni, se si ha la fortuna di
provarle, si riconoscono. E che si può scegliere se essere sinceri
e seguirle alla luce del sole, o vigliacchi e consumarle in
segreto. Ma a quelle passioni è impossibile rinunciare.» Tolse la
paletta dalle mani della ragazza per impedirle di abbassarsi,
raccolse le feci dell’animale e alla fine estrasse la bustina. Alzò
di nuovo lo sguardo sul viso di Viola e riprese a parlare: «Io non
sono stata capace di essere madre, d’accordo. Chissà, magari potrei
provare a essere un po’ nonna. Se sopravvivo a tutto
questo».
La
giovane aveva negli occhi tutta la malinconia del mondo, ma le
disse, piano:
«Io non
priverei mai mio figlio di una nonna. Mi pare già abbastanza
svantaggiato negli affetti, ti pare?».
Sara
annuì, seria. Quindi accennò un sorriso, così breve che l’altra
dubitò di averlo visto davvero; poi si girò e se ne
andò.
Adesso
che il tempo è quasi concluso, Sara ripensa a Viola. Mentre il
vento sferza la macchina, pensa a Viola. Mentre la mente si danna
per disegnare ogni linea tra i punti, e mentre quasi per magia la
figura nascosta dietro i numeri si compone, Sara pensa a
Viola.
E
allora non può non pensare alle proprie decisioni, alla strada che
ha scelto tanti anni prima. A quanto sia stata giusta, a quanto
possa essere stata sbagliata. Ma, si risponde come sempre, chi è
che stabilisce quello che è giusto e quello che è
sbagliato?
Certo,
la morale comune impone che una madre non volti le spalle a un
figlio di appena sette anni. Certo, se si prende un impegno come il
matrimonio, si dovrebbe mantenerlo. Certo, chi se ne va ha torto.
Sempre.
Ma
anche il defunto padre di Giorgio aveva i suoi torti, per quanto
fosse probabile che il ragazzo non l’avesse mai scoperto. Una
bella, lunga relazione clandestina con una collega sposata, per
esempio. Venuta a conoscenza del tradimento durante
un’intercettazione ambientale, un’agente che lavorava con Sara si
era sentita in dovere di riferirglielo senza la minima
esitazione.
Ognuno
compie i suoi errori, pensa senza distogliere lo sguardo dal
portone, con le foglie che si alzano e cadono a intervalli. E li
paga.
Sara
fantastica sull’ipotesi di futuro, perché alla fine ognuno ha un
futuro. Magari potrebbe provare a essere nonna. Sempre se la notte
finirà nel verso giusto. Questa notte, o una delle successive.
Quando tutti i punti saranno stati collegati, e la figura
complessiva non avrà più segreti.
Ma
adesso c’è da ultimare la ricostruzione.
Con
calma e senza fretta, la mente unisce il punto precedente a quello
successivo.
E il
punto successivo non può che essere Teresa.
Attese
al tavolino del bar, ma era certa che non si sarebbe fermata. Se le
informazioni erano parecchie, se non si trattava di un “Non ho
trovato niente”, allora Teresa avrebbe proseguito sicura, sul suo
lato della via, senza nemmeno accertarsi che Sara fosse al solito
posto.
Lei
però c’era, e scorse l’amica uscire dal palazzo grigio e imboccare
la traversa con passo tranquillo ma non troppo lento, come chi ha
una commissione da sbrigare e sa esattamente quanto ci
vorrà.
Aspettò
qualche secondo, poi uscì mettendo i soldi per il caffè sul ripiano
del banco.
Il
proprietario non sollevò nemmeno lo sguardo dal bicchiere che stava
asciugando. Sara considerò che avrebbero dovuto assumerlo, prima o
poi.
L’aria
era umida, e stava venendo sera. Lasciò sempre che almeno una
decina di persone si frapponesse tra lei e Teresa, che camminava
dall’altra parte della via. Quindi la vide infilarsi in un negozio
di abbigliamento a più piani. Sorrise, era la scelta più saggia, il
posto migliore per non essere notate: merce di valore troppo basso
per giustificare la presenza di telecamere di sorveglianza, e un
grosso bodyguard nero all’ingresso a scoraggiare i
curiosi.
Sara
non credeva che quelle cautele fossero necessarie, ma certe
abitudini erano difficili da perdere e la diffidenza rientrava tra
queste.
Il
reparto femminile era al secondo piano, affollato da una schiera di
galline alla ricerca di una gonna sexy a basso costo. Teresa non
c’era. Borse e valigie, terzo piano. Troppo silenzio tra gli
scaffali, e Teresa non c’era. Biancheria per la casa, quarto piano,
ed ecco l’amica intenta a rovistare tra le lenzuola.
Sara si
avvicinò, e finse di scegliere un plaid in pile.
Senza
alzare gli occhi dalla merce, la bionda disse:
«Notevole, il contenuto della scheda».
«Che
intendi?»
Un
sorriso fugace, a occhi bassi. «Cazzo, sessanta euro queste. E sono
pure brutte, ma la gente che gusti ha? Insomma, chiamate senza
interesse perlopiù: Viola, la madre di Viola, un tizio con cui
giocava a calcetto, pare. Poi c’erano i due messaggi».
Sara
rifletté:
«I due
messaggi… Quindi erano ricorrenti».
Teresa
sollevò la tela in controluce:
«Brava
la mia ragazza. Molto ricorrenti. Per la precisione uno di mattina
e uno a mezzanotte, da circa diciotto mesi».
«E a
chi?»
«Al
tempo, Sari’. Al tempo. Ti ho preparato un po’ di documentazione,
lascio la busta qui tra i coordinati, prendila dopo che me ne sarò
andata. Ed è inutile ricordarti che noi senza un mandato mica
possiamo leggere i messaggi o ascoltare le conversazioni. I tempi
sono cambiati. E magari adesso nemmeno vale la pena.»
Sara
sbuffò, continuando a esaminare perplessa una coperta
scozzese:
«Non
uscirtene con queste stronzate, Tere’. Mai avuto bisogno di un
mandato per sentire quello che si dice la gente».
«Vero.
Ma questo quando li intercettiamo in diretta, non quando si tratta
di roba già successa. Certo, se tuo figlio o la persona a cui
scriveva ogni mattina e ogni notte fossero stati sotto controllo,
esisterebbero le trascrizioni. Non è così, però. Il che da un lato
può intralciarti, ma dall’altro ti deve pure rassicurare,
no?»
Sara
comprese che era così. «Quindi, che c’è nella busta?»
«Proprio i dati di quella persona con la quale Giorgio
scambiava poche ma intense parole, fingendo di portare il cane a
spasso, all’insaputa della piccola, ingenua Violetta. Buon sangue
non mente. E mi riferisco al padre, non a te.»
La voce
di Teresa le arrivava in un sussurro, come se l’amica non stesse
muovendo le labbra. Che strana magia, che potere occulto il tempo e
il lavoro avevano conferito alle due donne: quello di sentire, di
interpretare i segni, di distinguere le parole in un ronzio
sommesso che il resto della gente non avrebbe nemmeno riconosciuto
come una conversazione.
Sara
sussurrò:
«Perché
non hai lasciato la busta da qualche parte, allora? L’avrei trovata
senza problemi. Bastava un accenno, una parola…».
L’altra
scosse il capo, disgustata dal disegno della federa che teneva in
mano, e mormorò:
«Dài
che ci arrivi. Rifletti e ci arrivi. Non deludermi».
Giusto.
«Devi
comunicarmi qualcosa che non vuoi o non puoi
scrivere.»
La
bionda annuì, e infilò la federa nel cestino che aveva al braccio.
Poi si avvicinò allo scaffale degli asciugamani alle spalle di
Sara, che la perse di vista.
La voce
di Teresa risuonò chiara:
«Ascoltami. Alcuni di noi sono stanchi. Stanchi di venire
a conoscenza di certi fatti, di essere testimoni silenziosi di
atrocità, private e pubbliche. Non te lo puoi neanche immaginare,
oggi è molto peggio di prima: la Rete, i social… Accadono eventi
terribili, e dobbiamo stare a guardare senza poter
intervenire».
«E non
è sempre stato così? Non abbiamo sempre sentito cose, che abbiamo
segnalato senza occuparcene più? Non stava mica a
noi…»
L’amica
la interruppe:
«No,
credimi. Oggi il lavoro consiste nello scavare tra foto, messaggi
audio, video… Non puoi capire. È come navigare in un mare di merda,
scandagliando il fondale in continuazione. E siamo
stufi».
«Stufi?
Chi siete?»
«Tu sei
brava, Sara. Sei forte, determinata. E sei sempre stata diversa.
Anche adesso, con questa storia di tuo figlio… Se la porterai a
termine, e io sono certa che ci riuscirai, non sarai più vergine.
Ci servi. Ci servi assai.»
«E che
dovrei fare?»
La
bionda rimase in silenzio. Non aveva ancora lasciato il dossier.
Poteva andarsene senza darle quello che le serviva. Sara pensò che
magari era già successo, e che alle sue spalle non ci fosse più
nessuno.
Poi
avvertì di nuovo la voce:
«Il
braccio. La mano. Il dito che preme il grilletto. Prima che gli
eventi orribili si compiano, oppure dopo, se non siamo in grado di
impedirli. Quella che punisce, insomma».
Pur nel
silenzio della risacca, Sara avvertì un lungo brivido. «Ma perché
io?»
«Perché
sei una di noi, perché sei sola, e perché ne saresti capace».
Quindi Teresa si voltò e con un gesto rapido inserì una busta tra
le lenzuola. «Pensaci, Sari’. Ti cerco io.»
E si
allontanò in fretta.
Ora che
aspetta di tracciare l’ultima linea, Sara ragiona sulle parole
dell’amica.
Chissà,
magari ha ragione. Magari è ora di occupare il tempo, di porre fine
a quel limbo in cui langue dalla morte di
Massimiliano.
Magari
tutte quelle cartelline, classificate con attenzione e rigore nelle
scaffalature della cantina, possono tornare ad avere un
senso.
Per
qualche strano motivo la mente va a Viola, la compagna di Giorgio.
Curioso come la risacca continui a essere silenziosa e arida, e
come lo tsunami di dolore non accenni a manifestarsi; e quanto
poco, per paradosso, stia piangendo il figlio, pur muovendosi, con
assoluta determinazione, per capire ciò che gli è capitato davvero,
al di là delle apparenze.
Viola,
invece, con quegli occhi cerchiati e smarriti, con quella
bastardina al guinzaglio, con la voglia repressa di affrancarsi
dalla madre, le si è piazzata nel cuore. Lei e il suo ventre
arrotondato.
Lo
sguardo fisso davanti a sé, incassata e invisibile al posto di
guida, Sara considera come in qualche modo il ventre di Viola e le
parole di Teresa siano due parentesi che racchiudono il
futuro.
Sempre
se ne avrà uno.
Nel
frattempo la mente torna alla busta aperta sul tavolo della cucina,
sotto la luce bianca del neon. E ai due fogli che
conteneva.
Su uno
c’era quello che le serviva per stabilire quale fosse l’ultimo
puntino da unire. Sull’altro c’era il gentile omaggio di Teresa,
che spiegava tutto.
Tutto
quanto.
Silvia
Pratella, la direttrice del dipartimento di Chimica che era stata
il capo di Giorgio, il giovedì sera andava a un cineforum. Fino a
un anno prima, l’appuntamento era stato una copertura per i suoi
incontri col giovane; adesso invece ci andava davvero, e da
sola.
Il
sintetico rapporto di Teresa, redatto col tono asciutto che Sara
ben conosceva e che le aveva perfino strappato un sorriso,
precisava che la donna era intercettata in maniera indiretta perché
il marito, industriale sospettato di finanziare in segreto gruppi
di estrema destra, era sotto controllo. Una piccola, imprevista
fortuna.
Sara
ricordò il dettaglio delle telefonate: il giovedì Giorgio era
impegnato a calcetto. Forse anche lui aveva ripreso a giocare con
regolarità, dopo la fine della relazione col suo capo.
Aspettò
la Pratella all’uscita del cinema, al termine della proiezione di
un film polacco; la donna doveva essere davvero un’appassionata. La
riconobbe subito avendone cercato immagini recenti in Rete. Era
bella, magra e alta, curata ed elegante. La sequenza temporale
delle fotografie che Sara aveva trovato restituiva tuttavia un
impalpabile, sottile degrado del fisico. L’espressione era
diventata triste, c’era stato un lieve dimagrimento e l’ex
poliziotta aveva anche avuto l’impressione di un diradamento della
capigliatura, ben celato da cappelli portati in quasi tutte le
occasioni.
Il
secondo foglio nella busta, d’altronde, spiegava i motivi di quel
deterioramento appena percepibile.
Silvia
Pratella sostò qualche attimo sulla soglia della sala, si guardò
attorno e si chiuse meglio il soprabito sul collo; poi s’incamminò,
lenta, verso il parcheggio.
Sara
l’avvicinò, affiancandola. «La dottoressa Pratella,
vero?»
L’altra
si fermò, sorpresa:
«Ci
conosciamo?».
«No, ma
forse abbiamo qualcosa in comune. Anzi, ne sono
sicura.»
Lo
sguardo di Silvia si piantò in quello di Sara. Una blanda
curiosità, un vago interesse; ma anche un sottofondo di malinconia
e un latente dolore che alla più anziana ricordarono gli occhi di
Viola. Era strano come Giorgio avesse lasciato un cratere
incolmabile in donne così diverse, e come in lei, al contrario, la
sua morte avesse prodotto un deserto. Con più difficoltà di quanto
sarebbe stato immaginabile disse:
«Io
sono la… la madre di Giorgio Alberti».
Sorpresa. Un evidente indurimento dell’espressione, segno
che anche a lei il figlio aveva confidato dell’assenza della madre.
Nessun perdono, nessun oblio.
«Ah.
Allora esiste. E che vuole da me, signora? Io non ho niente da
raccontare di Giorgio che possa interessarle.»
Le
labbra di Sara si piegarono in una smorfia. «Perché non continuiamo
nella sua macchina? Così non prendiamo freddo, qui fuori. E bar
aperti, a quest’ora e da queste parti, non ce ne
sono.»
«E
perché dovrei parlare con lei, scusi? Credo che non abbiamo nulla
di cui conversare. E ora che ci penso, nemmeno mi va la sua
compagnia. Buona serata.»
Sara
era preparata alla reazione, e ribatté in fretta:
«Come
vuole. Magari potrebbe interessare a suo marito, impegnato in
questo momento nel poker settimanale con gli amici politici,
apprendere che quando è stato investito, Giorgio le stava scrivendo
il solito messaggio della buonanotte. E che, secondo quanto
dichiarato dall’uomo alla guida, se si è gettato di proposito, la
decisione può risalire proprio alla fine della vostra relazione.
Nel malaugurato caso in cui, è ovvio, questa vicenda dovesse
diventare di pubblico dominio». Aveva parlato a bassa voce, quasi
un sussurro, tenendo le mani nelle tasche del cappotto, i capelli
grigi appena scompigliati dal vento. Anonima, all’apparenza
fragile. E invece letale.
L’altra
sbatté le palpebre:
«Chi è
lei? Come… come ha scoperto che… E come mi ha
rintracciata?».
«L’importante sono le informazioni che ho, e soprattutto
quelle che voglio. Io le ho spiegato chi sono. Adesso mi dica chi è
lei».
Il bel
viso della professoressa si contrasse in una smorfia indecifrabile.
Poi annuì, e si diresse senza voltarsi verso la propria
auto.
Sara le
andò dietro e salì dalla parte del passeggero.
Silvia
mormorò:
«Vuole
sapere se io e Giorgio abbiamo avuto una relazione, se eravamo
amanti? Immagino di sì, che sia proprio così. Suo figlio, ammesso
che lei sia davvero la madre, è stato il grande amore della mia
vita. E io il suo».
«È
sicura? Perché poi è finita, giusto? I grandi amori si inseguono, e
voi due avete rinunciato.»
La
Pratella rise, beffarda:
«Ah,
ecco. Lei che fa la morale a me. Lei, che ha lasciato un bambino,
e…».
Sara
sibilò:
«Io,
sì. Perché per l’appunto io l’ho inseguito, il grande amore. Contro
tutto, contro il mondo. Per questo posso assicurarle che Giorgio
aveva compiuto altre scelte e…».
Silvia
la interruppe:
«Lei
non sa un cazzo. Sono stata io a chiudere la storia, appena ho
scoperto che… Insomma, sono stata io. Gli ho detto che i miei figli
avevano bisogno di me, che non potevo lasciarli. Che lo amavo,
ma…».
«Ma» la
precedette secca Sara, «non era questo il vero motivo, è
così?»
Silvia
tacque, lo sguardo perso nel vuoto davanti a sé. Le mani le
tremavano. Aprì la borsetta, prese una sigaretta ma non
l’accese.
«Ha
scoperto anche questo, quindi. Sì, la vera ragione era
un’altra.»
Sara
attese qualche attimo, poi aggiunse:
«Quando
le è stata diagnosticata, la malattia?».
La
Pratella accese la sigaretta, le dita tremanti. Soffiò il fumo
aprendo il finestrino di un dito. «Non dovrei fumare, proprio io.
Ma da quando Giorgio è… non mi interessa più sopravvivere. E non
riesco a credere che sia stata una sua scelta deliberata. Non è
possibile. Lui era… era tenace, sereno, sempre positivo. Non ci
credo proprio. Anche se non ci frequentavamo più, in quel senso.»
Aspirò un’altra boccata, scuotendo il capo. Quindi riprese: «Era al
seno destro. Se ne accorse proprio lui. Assurdo, no? Non fui io, e
nemmeno il ginecologo. Fu Giorgio. Sono stata operata, e hanno
scoperto che c’era qualcosa anche all’intestino. Operata ancora. Ho
rotto subito con Giorgio, non potevo sopportare di costringerlo
fuori dall’ospedale, di impedirgli di venire a trovarmi. È giovane…
era giovane. C’erano parecchi anni di differenza tra noi. Meritava
una vita. Lei l’ha conosciuta, Viola? Io no, non l’ho mai voluta
incontrare. Immagino di non essere abbastanza forte, per questo.
Non sono andata nemmeno al funerale. Non sarei riuscita a mantenere
un contegno».
Sara
annuì, pensosa:
«Chi è
di certo a conoscenza di voi due?».
Silvia
spalancò gli occhi, scuotendo il capo:
«Ma sta
scherzando? Nessuno, nessuno mai! Al di là di qualche pettegolezzo
in dipartimento, che posso immaginare, le assicuro che nessuno ha
mai sospettato di noi. Eravamo attenti a livello maniacale. Mio
marito, lui… È un uomo terribile. Potentissimo e terribile. Ci
avrebbe distrutti, e non potevo permetterlo».
«Eppure, come ci sono arrivata io, poteva arrivarci
chiunque. Quindi anche suo marito, non le pare?»
«No,
lei non lo conosce, non sarebbe riuscito a nascondermelo. Avrebbe
reagito con rabbia, sarebbe impazzito, mi avrebbe cacciata di casa.
Lo escludo.»
«Quindi
lo ha lasciato andare. Però poi avete ripreso la
relazione…»
Silvia
gettò il mozzicone dal finestrino, e sorrise con
tristezza:
«No.
Quando mi raccontò di Viola, del figlio in arrivo, decidemmo
insieme che non ci saremmo incontrati più. Mi sentivo svuotata, non
volevo andare avanti. Perfino il mio medico, al quale sto molto a
cuore, mi ha supplicato di spiegargli perché avevo smesso di
combattere».
«E lei
si è confidata?»
La
Pratella si strinse nelle spalle:
«Sì, ma
senza fare nomi, è chiaro. Gli ho detto che la vita deve avere un
senso, per essere conservata. E che io questo senso non lo trovavo
più. Perciò non volevo altre storie, non mi interessavano altre
relazioni. Aspetto che provveda la malattia, tanto le cure non
riusciranno a guarirmi».
Ecco,
pensò Sara, ecco l’ultimo punto da unire. Ecco cos’è successo in
realtà.
Silvia
continuò a bassa voce:
«Era
rimasta quest’abitudine, dalla quale non riuscivamo a separarci. La
buonanotte e il buongiorno. Il primo e l’ultimo pensiero. L’inizio
e la fine. Ricevevo la buonanotte nel bagno di casa, e il
buongiorno nello studio del dottore dove vado per la terapia, prima
del lavoro. Non ha idea di quanto mi manchi».
Sara
sentì il sordo rumore dello tsunami in arrivo. Finalmente. Aprì lo
sportello per uscire, ma si fermò:
«Un’ultima cosa, signora. Che sa dell’incidente di
Giorgio?».
«Quello
che conoscono tutti, a chi avrei potuto chiedere altre
informazioni? La stampa ha parlato solo dell’incidente, un
trafiletto in cronaca. Perché?»
Sara
accennò un sorriso:
«Così.
Solo per curiosità».
La
donna le prese il braccio, trattenendola:
«Un
attimo, la prego… Giorgio non si è ucciso per me, vero? Io non
potrei reggere se…».
Sara la
fissò; e nei suoi occhi c’erano una nuova durezza e un nuovo
dolore. «No, signora. Non l’ha fatto di proposito. Glielo
assicuro.» Scese dalla macchina e si avviò nella
notte.
Ora che
si trova a chiudere la storia, Sara è sicura che verrà avvolta da
una nebbia. Ha sbagliato, perché il dolore per la perdita del
figlio non era uno tsunami che l’avrebbe sbattuta chissà dove,
sospingendola in una sconosciuta follia, bensì una bruma ignota,
biancastra, melmosa e maleodorante dalla quale non sarebbe uscita
mai più.
Non
sarebbe dovuto servirle il secondo foglio nella busta, per
comprendere. Gli elementi li aveva tutti, eppure non li aveva
collegati. Era arrugginita, forse il coinvolgimento personale
l’aveva confusa, togliendole lucidità.
Io
salvo le vite, aveva detto.
Non ammazzo. Sono un oncologo. Dottor
Terzani, Ludovico Terzani.
Il
povero medico terrorizzato, sconvolto e insignificante. E
innamorato. Perdutamente innamorato della sua bella paziente, a sua
volta innamorata per sempre di un ragazzo che aveva dovuto
lasciare.
Gli
occhi fissi sul cancello, Sara cerchia in rosso nella mente
l’ultimo punto che, unito agli altri, mostra un’immagine molto più
semplice di come sembrava all’inizio.
L’amore
è un inferno, dottore. Quanto devi aver sofferto, vedendo quella
donna, che non avresti mai avuto riservare l’unico sorriso della
giornata al messaggio ricevuto ogni mattina nel tuo
studio?
L’amore
è un inferno.
Devi
aver creduto che toglierlo di mezzo ti avrebbe aperto un mondo di
possibilità. Che l’inconsolabile professoressa si sarebbe
aggrappata a chi l’aiutava a combattere la malattia. Magari alla
lunga avresti vinto. Magari l’avresti persuasa, con un po’ di tempo
a disposizione.
Peccato
che il tempo non ce l’hai, dottore. Perché sul secondo foglio
contenuto nella busta di Teresa c’era l’informazione giusta: cioè
il nome del medico che stava cercando di salvare Silvia
Pratella.
L’amore
è un inferno.
Spaccando il minuto, l’uomo esce dal cancello per recarsi
in ospedale, al turno di notte. Sara apprezza molto la precisione
altrui. È una comodità.
A passo
svelto, Ludovico Terzani, oncologo e assassino, si avvia verso il
garage dall’altra parte della strada che attraverserà in
corrispondenza delle strisce, in un punto fuori dalla portata delle
telecamere di sorveglianza.
Sara
mette in moto.
Stavolta nessuno si fermerà a simulare un inutile
soccorso. Anche stavolta nessuno sentirà una frenata, perché non ci
sarà.
L’amore
è un vero inferno.
Avviandosi silenziosa, Sara pensa a Viola e al suo
bambino.
Chissà
com’è essere nonna.
Chissà
com’è.
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