1.
In tribunale

Se trasgrediscono le leggi, occorre punirli.

Anonimo, Contro Andocide, 44

Lo storico è nella stessa posizione del giudice.

M. Hansen, The Trial of Sokrates, p. 4

Un processo celebre e un altro processo celebre

Il 399 a.C. fu l’anno di un celebre processo ad Atene, una città che non riusciva a chiudere i conti con il proprio passato. La parola d’ordine era di non rievocare i mali trascorsi: me mnesikakein, si diceva. Per chi avesse osato farlo i rischi non mancavano. Ci aveva provato, ad esempio, un cittadino destinato a rimanere senza nome, di cui parla Aristotele: fu ucciso senza neppure essere giudicato. Nessuno, chiosa il filosofo, si azzardò più1. Ma in realtà, la situazione concreta era ben diversa da quello che suggerisce l’aneddoto: troppe cose erano accadute perché si potesse davvero dimenticare, e ogni occasione era buona per ritornare su vicende vecchie di anni, ma che ancora bruciavano. Senza mai nominare esplicitamente i fatti del passato: bisognava stare attenti a non violare il giuramento. Del resto, non ce n’era bisogno. La guerra, i tradimenti, il conflitto civile, le liste di proscrizione: tutti ricordavano tutto2.

Così si spiega, quell’anno, il processo di Andocide, figlio di Leogora (440-390 a.C. circa). Un episodio apparentemente marginale diventava l’occasione per tornare su uno dei momenti chiave della storia recente di Atene, forse quello decisivo, di sicuro il più discusso. Pochi mesi prima Andocide aveva preso parte ai Misteri, i riti sacri che si tenevano ad Eleusi; si vociferava anche che avesse deposto un ramo da supplice nell’Eleusinion di Atene, un atto proibito durante la celebrazione dei Misteri. Gesti banali, in fondo, che ad alcuni apparvero invece una provocazione intollerabile. Perché Andocide non era una persona qualunque. Rampollo di una delle più prestigiose e ricche casate ateniesi, membro dell’eteria di Eufileto, era rientrato da poco in città, grazie alla recente amnistia del 403, dopo un lungo esilio3. Durante il quale, a differenza di tanti altri, aveva dato prova di un notevole spirito di intraprendenza: aveva fatto fortuna e ora ritornava «nell’indiscriminato grigiore della democrazia restaurata e da tutti accettata, perché ancorata al singolare principio che a nessuno si dovesse chiedere conto di nulla», pronto a godersi l’onore ritrovato e le ricchezze guadagnate4. La partecipazione alla cerimonia dei Misteri voleva significare questo desiderio di normalità da parte di un reduce che era riuscito a superare in modo brillante anni turbolenti. La reazione dei molti che avevano ancora conti aperti con lui fu immediata. Fu rispolverato un vecchio decreto, quasi dimenticato, e fu processato per empietà5.

Il decreto di Isotimide era stato approvato nel 415 (probabilmente per colpire proprio Andocide). Proibiva a chi si fosse macchiato di atti sacrileghi l’ingresso nei templi o la partecipazione ai riti religiosi della città. È vero che nel 403 a.C. era stata votata un’amnistia. Ma non era chiaro se essa riguardasse anche crimini tanto gravi, e su questo avevano giocato gli accusatori6. Perché ad essere fuori di dubbio era che Andocide, anni addietro, si era macchiato di quei crimini7. Quindici anni prima era stato uno dei protagonisti della vicenda della mutilazione delle Erme e della profanazione dei Misteri. Vecchie storie, appunto, che nessuno voleva o riusciva a dimenticare.

La mattina del 7 giugno (Targhelion 29, nel calendario attico) 4158 gli Ateniesi, risvegliandosi, si erano trovati davanti ad uno spettacolo inquietante. Lungo le strade della città erano poste delle colonne a base quadrangolare con la testa e il fallo del dio Hermes. Durante la notte il viso di queste statue era stato sfregiato e gli organi genitali mutilati. Si pensò inizialmente alla bravata di qualche giovane scapestrato: ad Atene abbondavano. Ma con il passare del tempo si fece strada in modo sempre più pressante il sospetto che questo atto di vandalismo fosse in realtà il preludio a qualche cosa di più grande: solo un gruppo organizzato poteva aver operato su un’area così vasta. Un colpo di Stato contro la democrazia? Intanto iniziò anche a circolare la voce che in quello stesso periodo alcune persone – tutte riconducibili ai gruppi oligarchici, guarda caso – avessero parodiato i Misteri di Eleusi, uno dei momenti fondanti della vita religiosa della città9.

A rendere preoccupanti questi episodi era il quadro politico generale. In quelle stesse settimane del 415 ad Atene fervevano i preparativi per una nuova e ambiziosa spedizione, approfittando di un momento di tregua nelle ostilità con Sparta. Da poco era stato deciso di aprire un nuovo fronte, muovendo guerra contro Siracusa. Chi più di tutti si era speso per questa nuova iniziativa era stato il personaggio più in vista di Atene, Alcibiade, l’erede della linea politica periclea, subito eletto tra i generali che avrebbero guidato l’esercito in Sicilia. Voci anonime, fatte circolare ad arte, iniziarono a segnalarlo tra i protagonisti della “bravata”, gettandogli addosso un’ombra di discredito, come se anche lui fosse implicato nelle trame contro la democrazia. «Andavano gridando – scrive Tucidide – che era in vista dell’abbattimento della democrazia che erano state fatte le cerimonie misteriche e la mutilazione delle Erme, e che non uno solo di questi misfatti era stato compiuto senza la partecipazione di Alcibiade»10. A nulla valsero le sue proteste di innocenza, e nessun seguito ebbe la sua richiesta di essere processato subito, prima della partenza della flotta, in modo da poter sgomberare immediatamente il campo da sospetti tanto pericolosi.

Il seguito è cosa nota. Poco dopo il suo arrivo in Sicilia Alcibiade scelse la fuga e il tradimento, mentre si avvicinava la nave di Stato “Salamina” che avrebbe dovuto riportarlo ad Atene, per processarlo in un clima ben diverso rispetto a quello dei giorni festosi in cui la flotta era salpata dal Pireo. Senza di lui, la spedizione si risolse in una catastrofe assoluta, da cui Atene non sarebbe più riuscita a riprendersi completamente. La sconfitta contro Sparta nella guerra cominciata nel 431 sarebbe arrivata solo nel 404, ma era iniziata in questo momento. L’affare delle Erme e la profanazione dei Misteri avevano contribuito in modo sostanziale a indirizzare il corso degli eventi nel modo peggiore per Atene.

Andocide fu uno dei protagonisti indiscussi di quella vicenda11: subito individuato come uno dei partecipanti, o comunque come uno che sapeva molte cose, fu imprigionato: e se si salvò dal carcere fu grazie a una serie di delazioni mirate, che condussero ad una nutrita serie di condanne. Pur reo confesso (non senza ambiguità e distinguo, comunque), ebbe così salva la vita. Ma, circondato da un’ostilità crescente (e colpito dal già menzionato decreto di Isotimide che di fatto lo escludeva dalla vita della città), finì per scegliere l’esilio. Da cui, come detto, rientrò definitivamente nel 403, dopo la fine della guerra e dopo l’abbattimento del famigerato regime filo-spartano dei Trenta Tiranni, grazie all’amnistia, mentre era in corso una revisione di tutto il corpo delle leggi attiche, con gravi rallentamenti nel lavoro ordinario dei tribunali12. Tra il 401 e il 400 questa opera di revisione terminò e la macchina dei processi tornò a funzionare a pieno regime. E alla prima occasione anche il ricco aristocratico finì nell’ingranaggio.

Il processo, però, si concluse con l’assoluzione. Ancora una volta Andocide era riuscito a spuntarla.

Poco dopo, sempre nel 399, fu celebrato un altro processo, che presentava molti punti di convergenza con quello di Andocide. Anche in questo caso si doveva deliberare su un caso di empietà13. E l’accusato era noto, tra le altre cose, proprio per i suoi rapporti speciali con Alcibiade e numerosi altri aristocratici – gli stessi ambienti e in molti casi le stesse persone coinvolte nelle vicende del 415 e poi nei colpi di Stato del 411 e 404, quando gli oligarchi avevano rovesciato il regime democratico14. Contesto e accuse erano insomma simili a quelle di Andocide: di nuovo, senza che lo si potesse dire espressamente, il passato faceva sentire il suo peso.

L’imputato era Socrate, figlio di Sofronisco, filosofo.

Di Andocide abbiamo il suo discorso di difesa (e forse anche quello di accusa)15. Di Socrate si conservano ben due discorsi di difesa, l’Apologia di Platone e quella di Senofonte, che però presentano non poche differenze, con il risultato che nulla di certo può essere stabilito su quello che fu effettivamente detto in tribunale16. Quello che si sa è che il processo ebbe un esito diverso rispetto a quello di Andocide, forse inatteso.

Socrate fu giudicato colpevole e condannato a morte.

La «questione socratica»

Tra i filosofi antichi uno dei più prolifici fu Clitomaco di Cartagine, che era subentrato a Carneade di Cirene nella direzione dell’Accademia. Scrisse circa 400 volumi, con un obiettivo preciso: rendere chiaro il pensiero del suo maestro, che non aveva mai scritto nulla. Alla fine della sua carriera confessò che non aveva veramente capito quello che Carneade diceva17. Il caso di Socrate è specularmente opposto a quello di Carneade e Clitomaco. Anche lui non aveva scritto nulla (proprio al suo esempio si era del resto rifatto Carneade); ma i suoi allievi e amici, a differenza di Clitomaco, non furono mai sfiorati dall’idea di non aver compreso il suo pensiero: al contrario, tutti si ritennero in dovere di scriverne per perpetuarne la memoria e per accreditarsi come legittimi eredi. Il problema è che ognuno di questi allievi ricostruì in modo diverso la filosofia del maestro, con il risultato che fin dai primi anni dopo la morte di Socrate iniziarono a circolare immagini differenti, in certi casi incompatibili fra loro. Se a questo si aggiungono le interpretazioni e le prese di posizioni da parte di scrittori che non appartenevano alla sua cerchia, ma che comunque con lui ebbero a che fare, sarà facile rendersi conto perché tanti studiosi hanno disperato di poter ricostruire in modo attendibile le coordinate concettuali del pensiero di Socrate. La «questione socratica» è tutta qui.

In breve, le testimonianze principali sono cinque18. La prima, l’unica che risalga al tempo in cui Socrate era ancora vivo, sono le Nuvole di Aristofane (450-385 a.C. circa), messe in scena nel 423 a.C. La commedia fu accolta tiepidamente dal pubblico ateniese, che le preferì la Fiasca di Cratino e il Konnos di Amipsia (dove pure compariva Socrate: Konnos era un musico e fu maestro di Socrate)19. Con grande irritazione del commediografo, che non perse occasione di criticare i suoi spettatori per lo scarso gusto di cui avevano dato prova, ma che successivamente, tra il 420 e il 417, rimise mano al testo, modificandone alcune parti (e complicando dunque l’analisi degli studiosi)20. In questa commedia, Socrate rappresenta il peggio della nuova cultura, responsabile della corruzione della città secondo i tradizionalisti: sostenitore di bizzarre tesi scientifiche che servono in realtà a celare maldestramente il suo ateismo, il filosofo, come i sofisti, insegna a usare le parole per ingannare gli altri21. Indubbiamente è un Socrate sconcertante quello che emerge, e una tendenza diffusa tra gli studiosi è di non prendere troppo sul serio questa testimonianza, in cui ragioni intrinseche (far ridere il pubblico) avrebbero prodotto una deformazione troppo marcata del personaggio storico. In realtà, come emergerà nei capitoli seguenti, la situazione è più complessa, e la commedia di Aristofane è tutt’altro che priva d’interesse. Significativamente, nell’Apologia platonica Socrate attribuirà a questo testo un ruolo importante nella vicenda che aveva condotto al processo22. Si tratterà di capire perché.

Morto Socrate, si scatenò tra chi lo aveva frequentato una competizione accesissima per stabilire chi si potesse legittimamente accreditare come il suo erede. Il risultato, per noi, è così scontato da passare quasi inosservato. L’erede di Socrate è Platone (427-347 a.C.), mentre gli altri allievi, di cui si sono conservati pochi testi e qualche frammento, sono sommariamente raccolti sotto l’etichetta di «socratici minori» (il maggiore essendo ovviamente proprio Platone)23. Non andrebbe però dimenticato che questa è una classificazione in negativo: è vero che questi «socratici minori» ci presentano un Socrate molto diverso da quello dei dialoghi platonici, ma non meno significative sono le differenze che corrono tra questi altri allievi, alcuni dei quali – in particolare Antistene (444-365 a.C.) e Aristippo (435-366 a.C.) – davvero interessanti. La pregiudiziale anti-platonica di questi autori si concretizza nel rifiuto di tutta la struttura metafisica (la teoria delle idee e la difesa dell’immortalità dell’anima in particolare) che a più riprese nei dialoghi è associata al nome di Socrate. La celebre battuta di Antistene contro la teoria delle idee di Platone («vedo il cavallo, non la cavallinità»)24 s’inserisce in questo contesto polemico, in cui il vero oggetto del contendere era l’eredità del maestro. Ma in troppi casi, purtroppo, è difficile ricostruire in modo esatto le dottrine di questi autori, chiarendo così il senso della loro interpretazione. Il poco che sappiamo conferma comunque che non mancavano di spunti degni di attenzione.

Nel caso di Platone, come ben noto, il problema è ancora più complesso. Di solito si ritiene che le fonti più attendibili per ricostruire il pensiero di Socrate sarebbero i cosiddetti dialoghi giovanili o aporetici, nei quali la struttura metafisica, di cui si faceva menzione, manca e Socrate figura prima di tutto come il maestro della confutazione (elenchos, in greco), impegnato nel compito di smantellare tutto il sistema di false credenze su cui poggiava Atene, senza proposte concrete da offrire in alternativa. Ma qui le difficoltà aumentano, anziché diminuire, perché si entra nel campo ancora più incerto dell’interpretazione e della classificazione dei dialoghi: una questione che è stata oggetto di polemiche virulente negli ultimi anni25. Per quanto ragionevole in linea di principio, la divisione tra opere giovanili, in cui Platone ripeterebbe fedelmente gli insegnamenti di Socrate, e opere della maturità, in cui si esprime in prima persona, risulta molto più problematica di quanto non si pensi allorché si affrontano le questioni in dettaglio. Il protagonista, anche nella maggior parte dei dialoghi tardi, resta pur sempre Socrate: rimane difficile allora capire perché e come, in assenza di punti di riferimenti esterni, si potrebbe distinguere all’interno di questi stessi dialoghi posizioni autenticamente socratiche e deformazioni platoniche. Quello che si constata è insomma una proliferazione di diverse immagini in forte tensione reciproca, anche all’interno dei dialoghi. Ad ogni modo, al netto di queste difficoltà, Platone rimane una fonte di cui non si può fare a meno.

Nonostante le differenze appena menzionate, si potrebbe trovare almeno un punto di convergenza tra Platone e gli altri socratici. Per tutti, seppur per ragioni differenti, Socrate è una figura comunque dirompente, che si pone in maniera critica rispetto alla tradizione e in questo senso almeno gioca un ruolo politico all’interno della città. Questo aspetto entra in contraddizione però con la testimonianza fondamentale di un altro autore, che a sua volta frequentò Socrate ma che non fece della filosofia la sua attività principale: Senofonte (430-355 a.C. circa). Conosciuto come uno degli scrittori più eleganti di Atene (l’«ape attica», lo definisce il Lessico Suda), costretto a sua volta ad una vita avventurosa in conseguenza della sua militanza apertamente anti-democratica e filo-oligarchica, Senofonte ha dedicato diverse opere a Socrate: alcuni dialoghi (Economico, Simposio) che lo vedono protagonista, un’Apologia, vale a dire il discorso di difesa che avrebbe tenuto in tribunale al tempo del processo, e soprattutto i Memorabili, una grande raccolta di detti e pensieri del grande filosofo. Il Socrate di Senofonte è l’opposto di un provocatore, come era quello degli altri socratici, e la negazione del cattivo maestro di Aristofane: a emergere è un personaggio così ligio alle regole e fedele alla tradizione che diventa inevitabile chiedersi come mai abbia potuto essere processato. È questa probabilmente la domanda che Senofonte si sarà posto per tutta la vita, e l’unica risposta possibile per lui sarà stata la conferma che altro non ci si può attendere quando ci si affida al popolo e alla democrazia.

La testimonianza più importante tra quanti non ebbero l’opportunità di frequentare personalmente Socrate è invece quella di Aristotele (nato nel 384, quindici anni dopo la condanna e la morte di Socrate, dunque), che nei suoi trattati gli attribuisce e discute numerose tesi. Meno coinvolto nelle polemiche degli anni precedenti, Aristotele costituisce senza dubbio un punto di riferimento importante26. Ma è anche evidente che molte delle informazioni di cui dispone gli provengono da uno dei protagonisti di quelle polemiche, vale a dire Platone, con cui ha vissuto e studiato per circa venti anni. Anche la sua testimonianza, dunque, non è di per sé dirimente.

Queste sono le fonti antiche principali.

In riferimento specifico al processo si potrebbero poi aggiungere le testimonianze di Lisia (445-380 a.C.), Demetrio del Falero (345-282 a.C.) e Libanio (314-394 d.C.), autori tutti di un’Apologia, e di Policrate (V-IV sec. a.C.), autore di un’Accusa a Socrate. Purtroppo di questi testi si è conservato solo quello di Libanio (Orazioni 1), un autore vissuto nel quarto secolo d.C., dunque molti secoli dopo il processo, famoso per i suoi interessi retorici ma non molto attendibile come fonte storica, come è stato opportunamente osservato27. Di Lisia, Demetrio e Policrate abbiamo solo qualche frammento28. Non è molto, purtroppo.

La «questione socratica» nasce invece in epoca moderna, nel 1818, quando un filosofo e teologo protestante, Friedrich Schleiermacher, diede alle stampe un saggio dal titolo Über den Werth des Socrates als Philosophen (Sul valore di Socrate come filosofo)29. Fino ad allora si era ritenuto, più o meno pacificamente, che la fonte più attendibile per il Socrate storico fosse Senofonte. Schleiermacher contestò questa convinzione osservando – un’osservazione di per sé evidente, come già rilevato – che da solo Senofonte rendeva un Socrate troppo banale: se Socrate è il Socrate di Senofonte, non si capirebbero le ragioni di tutta l’attenzione che gli è stata riservata. Siccome Socrate è stato anche un filosofo, e non soltanto una persona di buon senso che si preoccupava del bene dei suoi amici, Schleiermacher propose allora di tornare anche a Platone, con l’obiettivo di rendere compatibile la sua testimonianza con i dati storici ricavabili da Senofonte. Un progetto promettente in linea di principio, ma difficile o quasi impossibile da realizzare concretamente, quando si affrontano le questioni specifiche (e reso ancora più difficile quando s’iniziarono a considerare anche le altre testimonianze di cui si è detto). Non è un caso, dunque, se gli studiosi si sono divisi tra chi ha ritenuto utile concentrarsi su Platone (e questa è stata la posizione dominante per un lungo periodo)30, e chi invece su Senofonte (in conseguenza di una rivalutazione dell’interesse filosofico del pensiero di Senofonte)31. Il che significava prendere atto che la proposta di Schleiermacher, per quanto promettente, non poteva essere pienamente sviluppata.

In questi ultimi anni, in effetti, la tendenza più diffusa è lo scetticismo di chi è pronto ad ammettere che manca una soluzione soddisfacente al problema, e che l’unica possibilità ragionevole rimanga quella di limitarsi a ricostruire dettagliatamente le diverse immagini di Socrate, senza pretendere un’impossibile uniformità32. Questa discussione ha riguardato prima di tutto il pensiero filosofico di Socrate. Ma nella misura in cui il suo pensiero filosofico ha giocato un ruolo nel processo e nella condanna, i problemi che complicano la ricostruzione della sua filosofia comportano delle evidenti conseguenze anche in riferimento a quello che accadde in tribunale.

Il sistema della giustizia

Se proprio la volete sapere, state zitti e ve la dico io la malattia del padrone.
Il tribunale è la sua follia: nessuno lo supera,
la sua passione è fare il giudice!

Aristofane, Vespe 86-90

Maggiori informazioni sono invece disponibili a proposito del sistema giudiziario ateniese, una delle colonne portanti del regime democratico, e per questo oggetto di grande attenzione e critiche ripetute33. Per tutti, Ateniesi e non, simpatizzanti e nemici, Atene è la città dei processi, o meglio, come nelle Vespe di Aristofane, una città malata di processi, in cui tutto passa per i tribunali, in modo fin troppo disinvolto: nei processi, scriveva il sofista e retore Antifonte, che di queste cose se ne intendeva, conta la capacità di persuadere e non l’accertamento della verità34. Che non fosse anche così, è difficile negarlo. Ma nel corso del tempo Atene, grazie ad una serie di riforme ben fatte, era comunque riuscita a definire una serie di procedure capaci di garantire il buon funzionamento dell’intero sistema, in un modo molto più serio di quanto non fossero disposti a riconoscere detrattori e avversari politici.

Un punto di svolta, in questo come in tanti altri casi, erano state le riforme di Solone (640-560 a.C. circa). In precedenza i processi erano gestiti dal re, e poi dai diversi arconti, quando l’autorità regale si era frammentata. Reagendo alla grave crisi della fine del VII secolo, Solone si era preoccupato di dotare la città di un corpo condiviso di leggi. «Ho scritto leggi ugualmente per l’umile e il nobile / conciliando una retta giustizia per ciascuno»: scriveva in uno dei suoi poemi35. Non meno importante fu l’istituzione di un tribunale popolare, l’Eliea36: composto da 6000 giudici scelti mediante sorteggio tra chi si era offerto volontariamente, questo tribunale venne a costituire il bacino da cui si attingeva per scegliere i giudici che avrebbero partecipato ai processi veri e propri. È difficile immaginare una pratica più democratica: il sorteggio fra un numero così grande di potenziali giurati rendeva difficile che si formassero giurie già orientate in una direzione o nell’altra. L’Eliea divenne il tribunale più importante della città, grazie alla riforma di Efialte nel 462, quando acquisì poteri giudiziari pressoché pieni, con la sola rilevante eccezione dei delitti di sangue (di competenza dell’Areopago, il tribunale di origine aristocratica, e di altri tribunali minori quali il Palladio e il Delfinio). La consacrazione definitiva avvenne poi con l’erede politico di Efialte (assassinato proprio in conseguenza della sua riforma), Pericle, che istituì il misthos heliastikos, un salario per i cittadini giudici, costretti a sacrificare la giornata di lavoro per presenziare ai processi. Nasceva qui l’immagine di Atene malata di processi, la città che manteneva a spese della comunità legioni di perdigiorno. Ma è evidente che si trattava di riforme e scelte obbligate in un mondo in cui anche lavoratori e artigiani, e non più soltanto i possidenti terrieri, contribuivano alla vita della città. L’Eliea divenne in breve una specie di «doppione»37 dell’assemblea. Pubblico e privato ad Atene erano strettamente intrecciati.

Nonostante le accuse ricorrenti di arbitrarietà e disordine, con il passare del tempo le procedure si affinarono sempre di più, garantendo la regolarità del funzionamento. Concretamente, senza pretendere troppa precisione, i processi si dividevano in due categorie: dike era di solito chiamata una causa privata, in cui solo la parte che aveva subito il presunto illecito (o, in caso di omicidio, i parenti stretti della vittima) poteva agire; graphe, invece, quella pubblica: chiunque (ho boulomenos, «chi vuole») poteva promuoverla38. La differenza probabilmente più significativa rispetto ai sistemi moderni riguardava, insomma, l’assenza di pubblici ministeri, incaricati di individuare eventuali violazioni delle leggi, avviando così le pratiche processuali: ad Atene, invece, chiunque poteva farlo, soprattutto quando si trattava di questioni riguardanti l’insieme della comunità civica. Poteva e doveva: di fatto ogni illegalità sarebbe rimasta impunita se un «numero stupefacente»39 di cittadini non si fosse fatto carico di questa situazione, prendendo parte alla vita giudiziaria della città.

Naturalmente, quale che fosse la natura dell’accusa o l’identità degli accusatori, non necessariamente si arrivava a processo. Preliminarmente, le due parti erano convocate davanti a uno degli arconti, che aveva il compito di verificare la correttezza formale dell’accusa o di ascoltare le eventuali ragioni dell’accusato. Dei casi di omicidio e di offese qualificabili come asebeia (vale a dire atti potenzialmente empi) si occupava l’arconte re, presso la Stoa Basileios40. Solo una volta riconosciuta l’ammissibilità dell’accusa, l’arconte avrebbe ufficialmente fissato una data per un’indagine preliminare che avrebbe poi eventualmente condotto al processo vero e proprio, rendendo ufficialmente pubblici i termini dell’imputazione41.

Nel caso specifico del processo di Socrate l’accusatore era Meleto, supportato da altri due personaggi, Anito e Licone (in funzione di synegoroi, per usare la terminologia tecnica)42. Grazie a Favorino di Arelate, che ancora nel II secolo d.C. poteva leggerla nel Metroon di Atene, sede degli archivi ufficiali della città, conosciamo anche l’accusa formale:

La dichiarazione giurata, che si conserva ancora, come dice Favorino, nel Metroon, era così concepita: “Meleto, figlio di Meleto, del demo Pito, contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo Alopece, presentò quest’accusa e la giurò: Socrate è colpevole di non riconoscere gli dèi che la città riconosce, e di introdurre altri nuovi esseri demonici. Inoltre è colpevole di corrompere i giovani. Si richiede dunque la pena di morte”43.

Questo primo passaggio merita qualche riflessione. Deplorata in ogni luogo e tempo per la sua conclamata ingiustizia, la vicenda di Socrate s’iscrive in realtà all’interno di un sistema ben organizzato, molto meno arbitrario o scriteriato di quanto non si ritenga normalmente. Anche questo è un fatto di cui occorre tenere conto, e di cui le fonti ci informano debitamente. Il Teeteto e l’Eutifrone platonici, ad esempio, sono ambientati nel momento in cui Socrate si sta recando dall’arconte re per prendere visione dell’accusa. Non sono ambientazioni casuali, perché esprimono giudizi caustici, nel caso dell’Eutifrone in particolare: in questo dialogo Socrate incontra un indovino e discute con lui della pietà religiosa, dando prova tangibile di quanto questa pietà faccia parte integrante della sua filosofia e della sua vita. Il tutto pochi minuti prima di dover rendere conto davanti alle autorità cittadine delle sue miscredenze: potrebbe darsi contrasto più deciso44? Sarà. Rimane il fatto, però, che la vicenda socratica fu scandita da una serie di passaggi formali, tesi a verificare la legittimità dell’accusa, ma anche a garantire i diritti dell’accusato. Diverse figure, dunque, vi hanno giocato un proprio ruolo. Nell’inverno del 39945 un magistrato, dopo aver parlato con Socrate e i suoi accusatori, ha verificato se si davano i termini per istituire un processo: una graphe asebeias, un processo d’interesse pubblico, che riguardava prima di tutto un’accusa di empietà (ritorneremo più avanti su questo tema). Anche di ciò va tenuto conto per una valutazione complessiva di questa storia.

Il processo vero e proprio, nel caso di Socrate, si celebrò circa tre mesi dopo queste fasi di istruttoria preliminare46. Le procedure erano stabilite con grande precisione: a turno, prima l’accusatore e poi l’accusato avrebbero dovuto tenere i loro discorsi, di una durata prestabilita (ma non breve: in certi processi pubblici i discorsi potevano durare fino a tre ore), esponendo le proprie ragioni, davanti a un uditorio spesso ingente. Per quanto ne sappiamo, il numero dei giudici variava da un minimo di 201 a un massimo di 2501 giudici; a costoro andava poi aggiunto il pubblico, in teoria escluso, in realtà sempre accalcato intorno ai giurati, e ben intenzionato a far sentire la propria voce. Non c’era spauracchio più temuto per chi parlava in un processo del boato (thorybos) dei presenti47. Lo avrebbe scoperto a sue spese anche Socrate, che aveva scelto di preparare da solo il proprio discorso di difesa, rifiutando l’aiuto di Lisia, uno degli oratori più apprezzati del momento48: nell’Apologia di Platone, Socrate chiede ripetutamente al suo uditorio, composto da 501 giudici e da un folto pubblico, di non rumoreggiare49. Capitava spesso che il pubblico non stesse tranquillo; ma questa insistenza, in uno scrittore così curato come fu Platone, è certamente voluta e serve a descrivere il clima difficile in cui Socrate parlò. Quando analizzeremo quello che disse, potremo verificare che il pubblico non mancava di qualche ragione (cfr. cap. 5, pp. 139-145).

Più precisamente Socrate, così come il suo accusatore prima di lui, tenne due discorsi. Anche questo nel pieno rispetto delle procedure formali50. Nella prima parte si trattava di stabilire la fondatezza dell’accusa e su questo si sarebbe votato, dopo i discorsi dell’accusatore e dell’accusato. In caso di assoluzione, l’accusatore poteva incorrere in una pena, a ulteriore conferma del fatto che non mancavano strumenti per impedire che s’intentassero processi con troppa disinvoltura. In caso contrario iniziava una seconda tornata di interventi, più brevi, da parte di accusa e difesa, finalizzati a stabilire l’entità della pena51. Ad essi avrebbe fatto seguito una seconda votazione, questa volta definitiva.

La prima votazione, nel processo di Socrate, si risolse in favore dell’accusa con uno scarto tutto sommato ridotto di voti (280/221), al punto che egli non si lascerà scappare – secondo Platone – l’occasione per qualche facile ironia contro i suoi accusatori52. La seconda votazione, in cui si doveva decidere tra la pena di morte e il pagamento di un’ammenda, si concluderà invece con una netta maggioranza in favore della pena proposta dall’accusa53. A questo punto il processo è concluso e Socrate, dopo un terzo discorso, non previsto54, viene portato in carcere, dove rimarrà per qualche tempo, ricevendo numerose visite da parte di amici e allievi, in attesa che la condanna venga eseguita.

Insomma, siamo in grado di ricostruire con una certa accuratezza, tutti i passaggi che hanno scandito il processo di Socrate, fino all’esecuzione della condanna. Quello che resta opaco, e su cui si indagherà nei prossimi capitoli, è perché si arrivò al processo e perché il processo terminò in questo modo.

1 Aristotele, La costituzione degli Ateniesi 40, 2.

2 Per una ricostruzione sintetica della storia di Atene nel V secolo si veda l’Intermezzo 1, pp. 23-26.

3 Andocide era già rientrato ad Atene una prima volta, nel 411, al tempo del primo colpo di Stato oligarchico. Ma era stato subito imprigionato come responsabile degli arresti del 415. Una volta fallito il Putsch, con il regime dei Cinquemila, fu liberato. Restaurata definitivamente la democrazia tentò di ottenere una piena riabilitazione (a questo periodo risale l’orazione Sul proprio ritorno), senza però riuscirci. Lasciò dunque Atene, in cui sarebbe finalmente tornato solo nel 403. Successivamente lo ritroviamo impegnato in un’ambasceria fallimentare a Sparta nel 392-391, che lo portò di nuovo in esilio.

4 Canfora 2001, p. 408.

5 In realtà si discute ancora sulla data esatta di questo processo, che oscilla tra l’autunno del 400 e l’inverno del 399, cfr. MacDowell 1962, pp. 204-205. Questa piccola discrepanza non produce cambiamenti di rilievo per i problemi che verranno qui di seguito discussi: sono gli stessi mesi in cui è progressivamente maturato il processo di Socrate.

6 Per MacDowell 1962, pp. 201-203, il decreto era ancora valido.

7 Cfr. MacDowell 1962, pp. 167-176.

8 Cfr. MacDowell 1962, pp. 187-188.

9 Per una ricostruzione sintetica e ordinata di queste vicende cfr. Kagan 2006, pp. 267-271; per un’analisi più dettagliata, cfr. Ostwald 1986, pp. 322-333 e 537-550, con ulteriore bibliografia, e Canfora 2011, pp. 211-235, con una silloge di documenti.

10 Tucidide VI 28.

11 Una ricostruzione approfondita del ruolo di Andocide nella vicenda della mutilazione delle Erme si legge in Canfora 1998.

12 Hansen 1993, pp. 196-200.

13 Non erano, tra l’altro, i soli processi di empietà, visto che andrebbe aggiunto anche il processo contro Nicomaco, a sua volta accusato di empietà in relazione alla revisione delle leggi di Atene: cfr. Connor 1991, pp. 52-53.

14 Cfr. cap. 2, pp. 28-31.

15 È il discorso Sui Misteri, una delle fonti più importanti per ricorstruire i fatti del 415; l’edizione di riferimento rimane MacDowell 1962. Uno dei discorsi di accusa è il discorso Contro Andocide, che si è conservato come sesto nella raccolta delle orazioni di Lisia (anche se non è del retore, a parere unanime degli studiosi).

16 Cfr. cap. 5, pp. 136-145, per un’analisi dei due testi.

17 Cicerone, Lucullo II 19.

18 Per un’analisi dettagliata, ancora valida e meritevole di essere letta, cfr. Maier 1943, pp. 7-159. Un approfondimento delle interpretazioni di Platone e Senofonte, le nostre due fonti principali, si legge nell’Intermezzo 2, pp. 64-69.

19 Cfr. Cratino F193-217 e Amipsia F7-11 Kassel-Austin.

20 Cfr. Nuvole 518-527.

21 Sulla descrizione di Socrate nelle Nuvole, cfr. Nussbaum 1996a e Konstan 2011.

22 Platone, Apologia 18c. Sottolinea correttamente l’importanza di questa testimonianza Derenne 1930, pp. 72-73; cfr. poi infra, pp. 98-102.

23 Utili e sintetiche introduzioni al pensiero di questi filosofi si leggono in Decleva Caizzi 2006, Döring 2011 e Trabattoni 2016. Una raccolta completa delle testimonianze e dei frammenti di questi autori è in Giannantoni 1990.

24 Antistene, SSR V A 149 Giannantoni.

25 Cfr. il punto della situazione in Vegetti 2003, pp. 66-85.

26 Cfr. ora, con particolare riferimento alle dottrine etiche, Burger 2008.

27 Hansen 1995, p. 5.

28 Cfr. fr. 220-224 Sauppe per Lisia e 91-98 Wehrli per Demetrio. Quanto a Policrate, cfr. cap. 2, pp. 48-49. A questi autori si potrebbe anche aggiungere il breve resoconto di Diogene Laerzio nella biografia dedicata a Socrate (II 38-43), un resoconto dipendente in gran parte da Favorino di Arelate, non privo di inesattezze ma comunque interessante (cfr. Giannantoni 1986). Più in generale un’utile raccolta di testimonianze riguardanti il processo è in Brickhouse-Smith 2002b.

29 Per una presentazione ragionata del dibattito storiografico, cfr. Döring 1987 e Dorion 2011a; per un’analisi del testo di Schleiermacher, cfr. Dorion 2013, pp. 1-26.

30 La letteratura critica in proposito è sterminata. Per limitarsi a una serie di studi ormai classici, in favore di questa opzione si possono ricordare i lavori di Robin 1910, Taylor 1911; Burnet 1911 e 1914, e Maier 1943 (ed. or. 1913). Il problema a questo punto divenne quello di stabilire quale Socrate, tra i tanti che emergono dai dialoghi, possa aiutarci a ricostruire quello storico: sebbene non siano mancate posizioni radicali di chi, come Taylor e Burnet, pensava che ci fosse una sostanziale coincidenza tra il Socrate storico e quello di tutti i dialoghi, la maggioranza degli studiosi ha preferito invece concentrarsi su quello dei dialoghi giovanili o aporetici. Lo studio più influente rimane quello di Vlastos 1998.

31 Una rivalutazione del pensiero di Senofonte si deve a Dorion; si vedano in particolare gli studi contenuti in Dorion 2013; cfr. anche O’Connor 2011. Per quanto condotti in modo idiosincratico, ma con spunti molto interessanti, si vedano anche i lavori di Leo Strauss, in particolare Strauss 1970 e 1972.

32 Antecedenti di questa opzione sono Joël 1895-1896, Dupréel 1922, pp. 398, 412-413, 427, e Gigon 1947. Oggi l’esponente più deciso e accreditato è Dorion, cfr. ad es. Dorion 2010. Questa è la tendenza maggioritaria in questi ultimi anni, ma non l’unica. Un nuovo e originale tentativo di risolvere il problema si deve ora a Trabattoni 2016.

33 Due ottime introduzioni sono MacDowell 1978 e Hansen 1993, pp. 213-261. Più sintetici, ma utili per inquadrare il processo di Socrate, sono Mossé 1996, pp. 89-95, e Millet 2005.

34 Cfr. cap. 2, pp. 34-36.

35 Solone, fr. 30, 18-19 Gentili-Prato2 (= 36 West2).

36 Aristotele, La costituzione degli Ateniesi 9, 1.

37 Doublet, la definisce Mossé 1996, p. 92.

38 Ismard 2013, p. 56.

39 Hansen 1993, p. 227.

40 Nel 400-399, anno del processo a Socrate, l’arconte re sarebbe stato un certo Lachete, di cui non sappiamo molto, cfr. Brisson 2001, p. 72 n. 6.

41 Dopo il 403 si stabilì che l’accusato avrebbe potuto rigettare anche la decisione del magistrato, chiedendo al tribunale di esprimersi in proposito. Se la giuria avesse accolto il suo ricorso, la pratica si sarebbe definitivamente bloccata, cfr. Hansen 1993, p. 232. Non sembra però che Socrate abbia cercato di approfittare di questa possibilità; o, se lo fece, non ebbe successo.

42 Cfr. ad es. Platone, Apologia 23e-24a e 36a. Non è chiaro invece se anche Socrate si sia fatto affiancare da qualcuno: così lascia intendere Senofonte (Apologia 22), mentre Platone non ne fa cenno: tutta l’Apologia è costruita per esaltare la solitudine del filosofo. Un curioso aneddoto, riportato da Diogene Laerzio (II 41), ci informa che proprio Platone sarebbe salito sulla tribuna durante il processo, venendo poi costretto dalla folla a scendere. È impossibile verificare l’attendibilità di questo episodio.

43 Cfr. Diogene Laerzio II 40 (= Favorino fr. 34 Barigazzi). Per il lettore interessato questo è il testo greco: τάδε ἐγράψατο καὶ ἀντωμόσατο Μέλητος Μελήτου Πιτθεὺς Σωκράτει Σωφρονίσκου Ἀλωπεκῆθεν. ἀδικεῖ Σωκράτης, οὓς μὲν ἡ πόλις νομίζει θεοὺς οὐ νομίζων, ἕτερα δὲ καινὰ δαιμόνια εἰσηγουμένος. ἀδικεῖ δὲ καὶ τοὺς νέους διαφθείρων. Τίμημα θάνατος. Formulazioni analoghe sebbene non identiche, si trovano anche in Platone (Apologia 24b-c) e Senofonte (Apologia 10), a conferma del fatto che questi erano i reati configurati. Cfr. Brisson 2001, pp. 76 n. 24 e pp. 78-81, per una discussione dei problemi di traduzione del passo.

44 Considerazioni analoghe valgono anche per il Teeteto, un dialogo raramente preso in considerazione in riferimento al processo, nonostante la sua ambientazione: il grande tema filosofico che discute, quello del contrasto tra conoscenza e opinione, è in fondo il problema che ha condotto alla condanna ingiusta di Socrate, cfr. ad es. Teeteto 201a-c con Nails 2006, pp. 8-9.

45 Allo stato attuale delle nostre conoscenze non è purtroppo possibile stabilire con esattezza le date che scandiscono il processo di Socrate: le ipotesi più ragionevoli sono o febbraio/marzo (il mese Anthesterion, secondo il calendario attico; cfr. ad es. Hansen 1995, p. 16) o la primavera (il mese di Targhelion o di Mounichion: così ad es. Nails 2006, p. 15; cfr. anche Hughes 2011, p. 433 n. 3).

46 Anche la sede che ospitò il processo è oggetto di discussioni: le due ipotesi più accreditate sono o l’Eliea, vale a dire il tribunale principale, oppure un altro tribunale vicino al tempio di Efesto, e in prossimità della Boule e del tempio di Apollo Phratrios e Atene Phratria, proprio al centro della città (cfr. Intermezzo 3, p. 133).

47 Cfr. Azoulay 2017, pp. 236-237. Tra le varie testimonianze cfr. ad es. Demostene, Contro Misia 13 e Aristofane, Le donne al parlamento (applausi); Eschine, Contro Ctesifonte 224 (proteste); Senofonte, Elleniche VI 5, 49 (fischi); Eschine, Contro Timarco 80-84, e Tucidide, La guerra del Peloponneso IV 27, 5 (risa).

48 Una pratica diffusa era quella di farsi scrivere i discorsi da persone esperte, i cosiddetti logographoi. Soltanto accusatore e accusato, comunque, avrebbero potuto parlare durante il processo. Su Lisia e Socrate, cfr. Diogene Laerzio II 40-41.

49 Cfr. Platone, Apologia 17d, 20e, 21a, 27a-b, 30c, 31e (cfr. anche Senofonte, Apologia 14, 15). Questo comportamento del pubblico è duramente stigmatizzato in Platone, Leggi 876b.

50 Un’altra pratica diffusa era quella di interrogare dei testimoni: l’accusa sembra aver approfittato di questa possibilità (Senofonte, Apologia 24), ma non Socrate (Platone, Apologia 33c-34a): cfr. Ismard 2013, pp. 66-67.

51 La distinzione era tra agones atimetoi (dove era prevista una pena) e timetoi (dove la pena doveva essere stabilita). Il secondo discorso poteva aver luogo anche in alcuni agones atimetoi (per esempio nelle cause per omicidio, ove era sempre data una replica alle due parti), ma di regola era previsto solo negli agones timetoi, qualora l’imputato fosse stato giudicato colpevole: in questo caso era infatti necessario che l’accusa proponesse una pena, e la difesa facesse la sua controproposta. I giudici dovevano necessariamente scegliere tra le due opzioni loro offerte. In caso di assoluzione, infatti, il processo era concluso; l’eventualità che l’accusa non avesse ottenuto un quinto dei voti della giuria era immediatamente sanzionata con le 1000 dracme, senza necessità di un ulteriore secondo discorso.

52 Platone, Apologia 36a-b.

53 Secondo Diogene Laerzio (II 42), durante la seconda votazione, la maggioranza aumentò di 80 voti: si arriverebbe dunque a circa 360 voti in favore della pena di morte. Per quanto non accuratissimi (cfr. Hansen 1995, p. 18), i calcoli di Diogene sono comunque indicativi del deciso cambio di orientamento dei giurati.

54 Che Socrate abbia parlato una terza volta sembrerebbe confermato dalla testimonianza congiunta di Platone (Apologia 38c-42a) e Senofonte (Apologia 24-26).