Dulse
Alla fine dell’estate, Lydia prese il battello per un’isola al largo della costa meridionale del New Brunswick, dove intendeva passare la notte. Le restavano pochi giorni prima di dover tornare in Ontario. Era redattrice per un editore di Toronto. E anche poetessa, ma non ne parlava mai, se non con persone che ne fossero già al corrente. Negli ultimi diciotto mesi era vissuta a Kingston con un uomo. E si era fatta l’idea che la storia fosse finita.
Durante quel viaggio nelle Province marittime aveva notato una cosa sul proprio conto, e cioè che la gente s’interessava meno a lei. Non che in passato facesse faville, ma c’era sempre stato un non so che su cui poteva contare. A quarantacinque anni era divorziata da nove; i suoi figli ormai si facevano la loro vita, anche se capitava qualche marcia indietro, qualche trambusto. Lei non era né piú grassa né piú magra di prima, il fisico non aveva subíto danni irreparabili, eppure aveva smesso di essere un certo tipo di donna per diventare un’altra; ne aveva avuto la piena conferma durante quel viaggio. Del resto la cosa non la sorprendeva, perché stava attraversando un momento insolito, del tutto nuovo. Faceva un’immensa fatica, sempre. Piazzava un mattoncino sopra l’altro e tirava sera. Non era neanche detto che ci riuscisse ogni giorno. Certe volte invece la determinazione e l’apparente arbitrarietà delle sue azioni, del suo modo di vivere, la esaltavano.
Trovò una pensione con vista sul porto: moli ingombri di cataste di nasse da aragosta e un paese fatto di qualche bottega e quattro case sparse. Una donna che poteva avere la sua età faceva da mangiare per la cena. L’accompagnò al piano di sopra, in una stanza modesta, vecchio stile. Altri ospiti non se ne vedevano, anche se la camera accanto aveva la porta aperta e sembrava occupata, forse da un bambino. O comunque da qualcuno che aveva lasciato parecchi giornalini per terra vicino al letto.
Lydia fece una passeggiata per il vicolo in salita dietro la pensione. Per passare il tempo, cercò di ricordare i nomi di erbe e piante. Verga d’oro e aster erano in fiore, mentre il bosso giapponese, che in Ontario era una specie rara, qui sembrava di casa. L’erba era alta e robusta e gli alberi bassi. La costa atlantica, che visitava per la prima volta, era esattamente come si era aspettata. Erba piegata dal vento, costruzioni nude, luce marina. Cominciò a chiedersi come sarebbe stato vivere lí, chissà se le case costavano ancora poco o se invece i forestieri avevano già iniziato a comprarle. Nel corso di quel viaggio le era capitato spesso di perdersi in calcoli del genere, come pure in ipotesi su come avrebbe potuto improvvisare un modo diverso di guadagnarsi da vivere, tagliando di netto con tutto quello che aveva fatto fino ad allora. Campare di poesia non le passava neanche per la testa, non solo perché i guadagni sarebbero stati miseri, ma anche perché, come innumerevoli altre volte in vita sua, pensava che non avrebbe piú scritto un verso. Ora rifletteva che in cucina era troppo scarsa per mantenersi facendo la cuoca, ma le pulizie sapeva farle. C’era come minimo un’altra pensione accanto a quella dove stava e aveva anche visto il cartello di un motel. Quante ore di pulizie poteva fare se l’avessero assunta in tutti e tre i posti, e a quanto ammontava la tariffa oraria di una domestica?
In sala da pranzo c’erano quattro piccoli tavoli, ma un unico cliente, seduto davanti a un succo di pomodoro. Non la guardò. Arrivò dalla cucina un altro tizio, probabilmente il marito della signora incontrata prima. Aveva la barba di un biondo grigiastro e l’aria abbattuta. Chiese a Lydia come si chiamasse e l’accompagnò al tavolo dell’uomo. Quello si alzò con una certa fatica e si presentarono. Faceva Stanley di cognome; a giudizio di Lydia poteva avere una sessantina d’anni. La invitò cortesemente ad accomodarsi.
Entrarono tre uomini in tenuta da lavoro e si sistemarono a un altro tavolo. Non che fossero chiassosi in modo maleducato o invadente, ma solo entrando e prendendo posto crearono un gradevole trambusto. Loro, quantomeno, lo gradivano e avevano l’aria di credere che valesse per tutti. Mr Stanley si piegò in un inchino. Sí, proprio un piccolo inchino, non un semplice cenno del capo. Li salutò. Gli chiesero che c’era per cena: scaloppine, pensava lui, e torta di zucca come dessert.
– Questi signori lavorano per la Compagnia telefonica del New Brunswick, – spiegò a Lydia. – Stanno collegando una delle isole minori, e pernottano qui durante la settimana.
Era piú vecchio di quanto in un primo tempo avesse creduto. A tradirlo non era la voce dall’accento americano, ancora chiara, e neppure i gesti delle mani, ma i denti piccoli, radi e scuri, e la pellicola lattiginosa che velava le sue iridi nocciola.
Il marito portò i piatti e scambiò qualche parola con gli operai. Come cameriere era in gamba, sebbene un po’ rigido e distaccato; sembrava quasi un sonnambulo, come se quello non fosse il suo mestiere, nella vita vera. Il contorno fu portato in un vassoio dal quale ciascuno si serviva. Lydia notò con piacere l’abbondanza: broccoli, purè di rape, patate, mais. L’americano prese di tutto in porzioni ridotte e si mise a mangiare soppesando ogni boccone, dando l’impressione che il loro ordine non fosse casuale, che ci fosse un motivo preciso per procedere dalle patate alle rape e per tagliare a metà quelle scaloppine già molto piccole. Un paio di volte, alzò lo sguardo, come a dire qualcosa, ma poi cambiò idea. Anche gli operai nel frattempo si erano zittiti, per attaccare il cibo.
Alla fine, Mr Stanley parlò. Disse: – Ha presente la scrittrice Willa Cather?
– Sí –. Lydia era sbigottita, non avendo visto nessuno con un libro in mano da due settimane; anzi, non le era neanche capitato di notare un espositore di tascabili in giro.
– Allora saprà anche che passava sempre qui l’estate.
– Qui?
– Su quest’isola. Aveva una casa di villeggiatura. A poco piú di un chilometro da dove siamo seduti adesso. Ci è venuta per diciotto anni e ha scritto parecchi romanzi qui. Lavorava in una stanza con vista sul mare, anche se ormai gli alberi sono cresciuti e il mare non si vede piú. Stava con la sua grande amica, Edith Lewis. L’ha letto Una signora perduta?
Lydia disse di sí.
– È il mio preferito. Ebbene, l’ha scritto qui. Almeno in larga misura.
Lydia era consapevole del fatto che gli operai li ascoltavano, sebbene non alzassero lo sguardo dal piatto. Sentiva che, anche senza guardare Mr Stanley e senza scambiarsi occhiate, erano in grado di comunicarsi un pacato disprezzo. Pensò che non le importava essere inclusa nel loro giudizio sprezzante, ma forse fu per quella ragione che non trovò granché da dire a proposito di Willa Cather, non informò Mr Stanley che lavorava presso un editore e si guardò bene dal rivelargli che lei stessa poteva essere definita una scrittrice. O forse dipese solo dal fatto che Mr Stanley non gliene diede l’occasione.
– Sono un suo ammiratore da piú di sessant’anni, – disse lui. S’interruppe, con coltello e forchetta a mezz’aria sul piatto. – L’ho letta e riletta, con sempre maggiore entusiasmo. Sempre di piú. Qui ci sono persone che se la ricordano. Questa sera devo incontrare una signora che ha conosciuto Willa, che le ha proprio parlato. Ha ottantotto anni ma a quanto dicono non l’ha dimenticata. La gente in zona ormai sa del mio interesse, cosí si ricorda di aver conosciuto qualcuno che l’ha incontrata, e mi mette in contatto.
– Per me è una gioia immensa, – aggiunse in tono solenne.
Mentre lo ascoltava, Lydia cercò di farsi venire in mente che cosa le ricordasse il suo modo di esprimersi. Non c’entrava nessuna persona in particolare, anche se al college un paio di insegnanti che parlassero cosí poteva averli avuti. In realtà le ricordava un’epoca in cui qualcuno, non tanti ma qualcuno, non si faceva scrupolo di poter apparire antidemocratico o superbo; gente che usava frasi formali, ben formulate, un filo compiaciute, pur vivendo in un paese in cui formalità e pedanteria non potevano condurli ad altro che al ridicolo. No, non è esatto. Al ridicolo, sí, ma anche a un’ammirazione imbarazzata. Quello che in realtà le faceva tornare in mente era la cultura superata di certe cittadine di provincia di un tempo (qualcosa che ovviamente non aveva mai conosciuto di persona, ma che aveva annusato nei libri): un decoro, un senso di ufficialità; poltroncine rigide foderate di velluto nella sala da concerto, biblioteche silenziose. Ecco, la sua devozione per la Cather era di quello stampo; anacronistica come il suo eloquio. Lydia pensò che non doveva essere un insegnante; un culto simile non è nello stile di chi insegna, nemmeno a quell’età.
– Lei insegna letteratura?
– No. Oh, no. Non ho mai avuto il privilegio. No. Non ho neppure studiato letteratura. Sono andato a lavorare a sedici anni. Ai miei tempi non avevo molta scelta. Ho lavorato per dei giornali.
Lydia immaginò certe testate del New England, reazionarie fino all’assurdo, e scritte in una prosa ammuffita.
– Oh. Quale giornale? – disse, ma si rese conto che la sua curiosità poteva apparire scortese a una persona tanto circospetta.
– Non un giornale di cui avrà sentito parlare. Giusto il quotidiano di un piccolo centro industriale. E altri giornali, prima. È stata la mia vita.
– E ora, le piacerebbe scrivere un libro su Willa Cather? – La domanda non le sembrava tanto fuori luogo, visto che non faceva che incontrare persone intenzionate a scrivere libri di ogni genere.
– No, – rispose lui, austero. – Con i miei occhi, devo fare attenzione a non leggere né scrivere piú dello stretto necessario.
Ecco perché era cosí prudente a tavola.
– No, – proseguí. – Non dico di non averci mai pensato, a un libro su Willa. Avrei scritto esclusivamente qualcosa sul suo soggiorno qui sull’isola. Di biografie ne sono uscite, ma nessuna approfondisce quella fase della sua vita. Ormai ho rinunciato all’idea. Svolgo le ricerche solo per mio piacere. Mi porto una sedia pieghevole lassú, per potermi sedere sotto la finestra dove lei scriveva guardando il mare. Non c’è mai nessuno.
– Nessuno si occupa del posto? Non è una specie di monumento storico?
– Oh, no, no. Non è curato affatto. Sa com’è la gente di queste parti; certo, Willa fece scalpore, e alcuni ne riconobbero anche il genio – in termini di personalità, perché non sarebbero stati in grado di apprezzarne l’opera. Altri però la trovavano scontrosa e sgradevole. Si offendevano perché lei teneva le distanze, ma era giusto cosí, se voleva scrivere.
– Perché non farlo diventare un progetto? – chiese Lydia. – Forse si potrebbero ottenere dei fondi dai governi, il Canada, le Americhe. Per conservare la casa.
– Beh, non sta a me dirlo –. Sorrise, poi scosse la testa. – Non credo, però. No.
Non gli andava l’idea di frotte di ammiratori che venivano a disturbarlo mentre se ne stava sulla sua sedia pieghevole. Come aveva fatto a non capirlo. Che senso avrebbe ancora avuto quel pellegrinaggio personale se ci si fossero messi di mezzo altri, se fossero comparsi cartelli, opuscoli; se quella pensione che ora si chiamava Miramare all’improvviso fosse diventata Ombre sugli scogli? Meglio lasciarla diroccare e invadere dalle erbacce, quella casa, piuttosto che assistere a uno scempio simile.
Dopo aver tentato un’ultima volta di chiamare Duncan, l’uomo con cui abitava a Kingston, Lydia aveva vagato per le strade di Toronto, sapendo che doveva passare in banca, fare la spesa, scendere a prendere la metropolitana. Era costretta a fare mente locale sulla meta e sull’ordine con cui eseguire ogni operazione: aprire il libretto degli assegni, fare un passo avanti nella fila quando arrivava il suo turno, scegliere un tipo di pane, inserire il gettone nell’apposita scanalatura. Le parevano le cose piú complicate del mondo. Trovava difficilissimo decifrare i nomi delle stazioni della metropolitana, scendere a quella giusta, in modo da raggiungere l’appartamento in affitto. Non le sarebbe stato semplice descrivere quella difficoltà, perché sapeva benissimo quale fosse la sua fermata, nonché da quale fosse preceduta; sapeva benissimo dove si trovava. Solo, non le riusciva di operare il collegamento tra sé e la realtà esterna, sicché alzarsi, scendere dalla macchina, salire i gradini, camminare, ciascuno di questi gesti comportava una fatica inaudita. In seguito si definí mentalmente «grippata», come si dice del motore di una macchina. Ma già al tempo si era formata un’immagine di se stessa. Si vedeva come un cartone da uova, con l’interno tutto svuotato.
Una volta a casa, sprofondava in poltrona nell’ingresso. E restava lí, magari un’ora, prima di andare in bagno, spogliarsi, mettere la camicia da notte e infilarsi a letto. Allora finalmente provava il trionfante sollievo di essere riuscita a superare tutte le difficoltà e di essere arrivata a destinazione senza piú l’obbligo di ricordare alcunché.
Di suicidarsi non aveva nessuna voglia. Mai e poi mai sarebbe riuscita a utilizzare gli strumenti necessari allo scopo, forse neppure a sceglierne uno. La strabiliava già constatare di aver saputo acquistare quel tipo di pane e quel formaggio che ora stavano per terra all’ingresso. Come aveva potuto contemplare l’ipotesi di masticare e trangugiare bocconi?
Dopo cena, Lydia sedette in veranda con la donna che aveva preparato da mangiare. Il marito si occupò di rigovernare.
– Naturalmente abbiamo la lavastoviglie, – disse la donna. – Abbiamo due congelatori e un frigorifero industriale. Occorre fare investimenti. Vengono a stare da noi le squadre di operai e bisogna sfamarle. Questa pensione succhia soldi come una spugna. L’anno prossimo vogliamo installare la piscina. Ci servono piú attrazioni. Tocca correre anche per stare fermi. La gente crede che siano tutte rose e fiori. Provare per credere.
Aveva una faccia forte, segnata, e capelli lunghi e dritti. Indossava jeans, camicetta ricamata e maglione da uomo.
– Dieci anni fa stavo in una comune negli Stati Uniti. E adesso eccomi qui. Certi giorni mi faccio diciotto ore di lavoro. Stasera, per dire, devo ancora preparare agli operai il pranzo da portar via. Sto sempre tra forno e fornelli. Il resto lo fa John.
– Avete qualcuno per le pulizie?
– Non possiamo permetterci di assumere nessuno. Ci pensa John. Fa lui il bucato, tutto. Ci siamo dovuti prendere un mangano per le lenzuola. E mettere una caldaia nuova. Abbiamo chiesto un prestito. Mi fa ridere, perché prima ero sposata con un direttore di banca. E l’ho lasciato.
– Sono sola anch’io, al momento.
– Ah, sí? Soli per sempre non si può restare. Quando ho conosciuto John, era sulla stessa barca pure lui.
– Io stavo con un tale a Kingston, in Ontario.
– Ah, sí? Sa, io e John stiamo proprio bene insieme. Lui era ministro di chiesa, una volta. Ma quando ci siamo incontrati faceva il falegname. Avevamo lasciato un po’ perdere tutti e due. Ha parlato, con Mr Stanley?
– Sí.
– Aveva mai sentito nominare Willa Cather?
– Sí.
– L’avrà fatto felice, allora. Io in pratica non leggo, non fa per me. A me il cervello funziona piú per immagini. Però mi sembra un personaggio fantastico, il vecchio Stanley. Un erudito d’altri tempi.
– È molto che viene qui?
– No, macché. Questo è il terzo anno. Dice che voleva venirci da una vita. Ma non poteva. Ha dovuto aspettare che morisse un parente stretto di cui si occupava lui. Ma non una moglie. Un fratello, forse. Comunque, ha dovuto aspettare. Lei quanti anni gli dà?
– Settanta? Settantacinque?
– Ne ha ottantuno. Incredibile, no? Io l’ammiro, gente cosí. Dico sul serio. Ammiro quelli che non mollano.
– Un giorno l’uomo con cui stavo, cioè quello con cui stavo una volta, a Kingston, – disse Lydia, – un giorno, caricava degli scatoloni di documenti nel bagagliaio dell’auto in campagna, in una vecchia cascina; si sente toccare da qualcosa e abbassa lo sguardo. Era verso sera di una brutta giornata. Lui ovviamente pensa a un cane, un bel cagnone nero che ha voglia di intrufolarsi. Non ci fa caso. Dice solo: su, su, bravo adesso, cuccia, su. Poi, dopo aver messo a posto tutti gli scatoloni, si volta e vede un orso. Un orso bruno.
Aveva raccontato l’episodio piú tardi, quella stessa sera, in cucina.
– E a quel punto che cosa ha fatto? – chiese Lawrence, il caposquadra della Compagnia telefonica. Lawrence, Lydia, Eugene e Vincent giocavano a carte.
Lydia scoppiò a ridere: – Pardon, ha detto. Almeno, a sentire lui.
– E nelle scatole c’era solo carta? Niente da mangiare?
– Fa lo scrittore. Scrive saggi di storia. Era tutto materiale che gli serviva per lavoro. Gli capita di dover andare a documentarsi da persone molto strambe. L’orso non arrivava dal bosco. Era il cucciolo di casa, in effetti, che qualche spiritoso aveva liberato. Ci abitavano due fratelli anziani, in quella cascina, gli avevano procurato del materiale e cosí, per fargli prendere uno spavento, avevano deciso di liberare l’orso.
– È quello il mestiere che fa? Raccoglie roba vecchia e ci scrive sopra dei libri? – chiese Lawrence. – Chissà com’è interessante.
Lydia si pentí subito di aver raccontato la storia. Le era venuta in mente perché gli operai parlavano di orsi. Ma non valeva granché come aneddoto, se non era Duncan a raccontarlo. Lui riusciva a rappresentare se stesso come un omone garbato e pacifico che chiede cerimoniosamente scusa a un orso. E sapeva far immaginare i due vecchiacci satanici dietro le tende sbrindellate di casa.
«Dovreste conoscere Duncan», fu tentata di dire. Del resto non aveva forse raccontato l’episodio al solo scopo di far sapere che lei invece lo aveva conosciuto, che di recente si era accompagnata a un uomo, e perdipiú interessante, divertente e avventuroso? Voleva assicurare agli interlocutori di non essere sempre stata sola, a girare il mondo senza meta. Sentiva il bisogno di mostrarsi legata a qualcuno. Che sbaglio. Quella non era gente da ritenere avventuroso uno che vada raccattando vecchi documenti da svitati e miserabili, per poter scrivere libri su faccende successe un secolo prima. Non avrebbe dovuto specificare che Duncan era stato suo convivente. Ai loro occhi, quell’informazione si limitava a sottolineare che lei era il tipo di donna che va a letto con un uomo senza averlo sposato.
Lawrence, il caposquadra, non doveva arrivare ai quarant’anni, ma aveva fatto strada nella vita. Gli piaceva raccontare di sé. Si era messo in proprio come impresario, ed era padrone di due case a St Stephen. Aveva due macchine, un furgone e una barca. La moglie era maestra. Stava mettendo su trippa, la tipica pancia da camionista, ma sembrava ancora in gamba ed energico. Si vedeva che, nel suo campo, doveva avere l’abilità che serviva in quasi tutte le circostanze; di certo, aveva la spregiudicatezza che serviva. Vestito bene, c’era da credere che facesse la sua figura. Mentre certi posti e determinate persone potevano renderlo mesto, incerto, litigioso.
Lawrence disse che non erano tutte vere, le storie che si scrivevano sulle Province marittime. Secondo lui lavoro ce n’era, per chiunque non avesse paura di fare fatica. Uomo o donna che fosse. Disse che non aveva niente in contrario alla donna emancipata; il punto era però che certi lavori li avrebbero sempre fatti meglio gli uomini, e certi le donne, e se si fossero messi il cuore in pace sul punto, sarebbero stati tutti meglio.
I suoi figli erano viziati, aggiunse. Avevano fatto una vita troppo facile. Quella di chi ha tutto, ma al giorno d’oggi funziona cosí, che ci vuoi fare? Valeva anche per i figli degli altri, pure loro avevano tutto. Vestiti, biciclette, scuola, musica. Lui non aveva mai avuto niente, gratis. Era dovuto andarsene a lavorare, mettersi a guidare camion. Si era trasferito in Ontario, poi nel Saskatchewan. A scuola era rimasto solo alle medie, ma non si era lasciato fermare lo stesso. Certe volte però gli dispiaceva, non avere studiato un po’ di piú.
Eugene e Vincent, che lavoravano per Lawrence, dissero che loro si erano fermati alla quinta elementare, perché non si poteva andare oltre nelle scuole di campagna. Eugene aveva venticinque anni e Vincent cinquantadue. Eugene era un franco-canadese originario del Nord del New Brunswick. Sembrava piú giovane degli anni che aveva. Era roseo, con un’aria mite, sognante, un bel ragazzo virile, nonostante lineamenti e carattere timidi e dolci. Oggigiorno ne sono rimasti pochi di giovanotti o uomini con quel fisico. A volte, li si vede in certe vecchie foto: uno sposo, un giocatore di pallacanestro, con i capelli tirati ad acqua, il viso in fiore, infantile, su un corpo da giovane adulto. Eugene non era molto sveglio, o forse non troppo competitivo. Perdeva soldi alle carte. Gli uomini chiamavano quel gioco «Skat». Lydia ricordava di averci giocato da bambina, ma chiamandolo «Trentuno». Si puntava un quarto di dollaro a mano.
Eugene lasciava che Vincent e Lawrence lo prendessero in giro sulle perdite a carte, sulle donne che gli piacevano, sull’essere riuscito a perdersi a Saint John e sulle sue origini franco-canadesi. Le battute di Lawrence sconfinavano nella deliberata umiliazione dell’altro. Manteneva un’espressione di studiata benevolenza, ma sembrava gli si fosse depositato dentro un sasso pesante: il peso di un amor proprio che lo trascinava in basso, anziché tenerlo ancorato in superficie. Vincent era diverso e, benché spietato nell’elargire battute, nei riguardi di Lawrence come di Eugene, non si mostrava crudele, né minaccioso. Si capiva che quello era il tono naturale del suo discorso: una chiassosa e facile ironia. Era acuto e scaltro ma non insistente; sapeva dire le cose piú truci senza sembrare malevolo.
Vincent aveva una fattoria di famiglia nella quale era cresciuto, nei pressi di St Stephen. Diceva che al giorno d’oggi non si campa piú di solo lavoro agricolo. L’anno prima aveva piantato un terreno a patate. A giugno ancora gelava di notte, a settembre, già nevicava. Decisamente troppo corta come stagione. E chi lo sapeva quando poteva toccare di nuovo un clima del genere, diceva. Senza contare che ormai il mercato era sotto controllo, gestito dai pezzi grossi, dai grandi interessi. Ciascuno si arrangia come può, piuttosto che affidarsi al raccolto. Lavorava anche la moglie di Vincent. Aveva seguito un corso per imparare a fare i capelli. I figli non erano laboriosi come i genitori. Avevano solo voglia di scorrazzare in macchina. Poi si sposavano e la prima cosa che chiedevano le mogli era un gas nuovo. Ne avrebbero voluto uno che in pratica facesse da mangiare da solo e apparecchiasse anche il tavolo.
Una volta non era cosí. I primi scarponi nuovi, mai portati da nessuno, Vincent li aveva avuti arruolandosi. Era talmente soddisfatto che si era messo a camminare all’indietro nel fango per vedere le impronte complete appena fatte. Poi, dopo la guerra, era andato a cercare lavoro a Saint John. Si era fermato un po’ in cascina a dare una mano, cosí l’uniforme era malridotta – gli restava un unico paio di pantaloni decenti. In una birreria di Saint John un tale gli disse: – Ti interessa un paio di calzoni a buon prezzo? – Vincent disse di sí e l’altro ribatté: – Seguimi –. E Vincent lo seguí. E dove si ritrovò? Da un beccamorti! Il fatto è che di solito i parenti del defunto portano l’abito per la cassa, ma al morto serve essere presentabile solo dalla vita in su, perché non si vede altro. Perciò il becchino si vendeva i calzoni. Tutto vero. Il primo paio di scarponi Vincent li ha avuti dall’esercito e i calzoni migliori che abbia mai messo addosso, glieli ha passati un cadavere. Vincent era sdentato. Si notava subito, ma la cosa non lo rendeva brutto; aumentava soltanto il profondo mistero ironico della sua espressione. Aveva la faccia lunga e il mento sfuggente, lo sguardo non aggressivo, ma accorto. Era magro, muscoloso nei punti giusti, con capelli neri e qualche filo grigio. Gli vedevi addosso tutti gli anni di fatica passata e qualcuno a venire, su un fisico che si sarebbe mantenuto scattante fino al giorno in cui Vincent non si sarebbe trasformato in un vecchio inaridito, dalle braccia cordolate di vene, un fatalista affezionato a qualche vecchia battuta.
Mentre giocavano a Skat la conversazione era rumorosa e continuamente interrotta da esclamazioni, minacce scherzose a proposito della partita in corso, risate. Piú tardi i discorsi si fecero piú seri e piú personali. Avevano bevuto birra locale marca Moose ma, a partita conclusa, Lawrence andò al furgone a prenderne dell’altra, dell’Ontario, considerata migliore. La chiamavano di importazione. I coniugi proprietari erano a letto da un pezzo, mentre Lydia e gli operai restavano seduti in cucina, come se fossero a casa loro, a bere birra e masticare dulse che Vincent aveva portato giú dalla sua stanza. La dulse è un’alga marina bruno-verdognola, dal sapore salmastro. Vincent la qualificò come l’ultima cosa che mangiava la sera e la prima, al mattino: insuperabile. Adesso avevano anche scoperto che faceva bene, perciò la vendevano i negozi, confezionata in pacchetti minuscoli, a prezzi vergognosi.
Il giorno dopo era un venerdí, e gli operai avrebbero lasciato l’isola per tornare sulla terraferma. Parlarono della speranza di poter prendere il traghetto delle due e mezza, anziché il solito delle cinque e mezza, perché le previsioni davano tempo brutto: prima di notte, la coda di uno dei tanti uragani tropicali avrebbe colpito la baia di Fundy.
– I traghetti non viaggiano, col mare grosso, giusto? – domandò Lydia. – Non partono, se c’è pericolo –. Pensò che non le sarebbe spiaciuto restare bloccata, non doversi rimettere in viaggio l’indomani mattina.
– Beh, il venerdí sera ci sono parecchi giovanotti che hanno una gran voglia di andarsene, – disse Vincent.
– Per tornare a casa dalla moglie, – aggiunse Lawrence sardonico. – Qui è sempre pieno di squadre al lavoro, uomini lontani da casa –. E si mise a parlare di sesso con pacata insistenza. Di quella che lui chiamava la depravazione locale. Una volta, disse, le autorità avevano anche pensato di mettere in quarantena l’isola intera, a causa delle malattie veneree. Le squadre di uomini arrivavano per lavorare e si piazzavano al motel Onda dell’oceano, e tutte le sere erano festini a base di alcol e ragazze che venivano a vendersi. Bambine di quattordici, quindici anni, se non tredici. Una venticinquenne sull’isola era a un passo dal diventare nonna. Il posto era rinomato. Quelle ragazze erano pronte a tutto per due soldi; o per una birra.
– A volte, per niente, – concluse Lawrence, che si eccitava raccontando.
Sentirono la porta d’ingresso aprirsi.
– Ecco che arriva il suo vecchio moroso, – disse Lawrence a Lydia.
Per un attimo lei restò sconcertata, pensando a Duncan.
– Il vecchietto al tavolo, – disse Vincent.
Mr Stanley non entrò in cucina. Attraversato il soggiorno, si incamminò su per le scale.
– Ehi! Ha fatto un salto al motel? – chiese Lawrence a bassa voce, alzando la testa come se parlasse al soffitto. – Il vecchio manco saprebbe che cosa fare laggiú, – disse. – E cinquant’anni fa ne avrebbe saputo tanto quanto adesso. Personalmente, impedisco ai ragazzi delle mie squadre di bazzicare da quelle parti. Dico bene, Eugene?
Eugene avvampò. Mise su un’espressione serissima, come uno scolaretto redarguito dal maestro.
– Eugene, dài, non c’è mica bisogno, – fece Vincent.
– È vero o no quello che dico? – incalzò Lawrence, come se qualcuno lo avesse contraddetto. – È vero, no?
Si era rivolto a Vincent, che disse: – Sí, sí –. L’argomento non pareva esaltarlo quanto Lawrence.
– Ci si immagina che qua sia tutto casto e puro, – disse Lawrence, rivolto a Lydia. – Casto e puro! Altroché!
Lydia salí a prendere un quarto di dollaro che doveva a Lawrence per l’ultima partita. Quando uscí dalla stanza, trovò Eugene al buio in ingresso, affacciato alla finestra.
– Spero che non venga burrasca, – disse.
Lydia gli si fece accanto e guardò fuori: si vedeva la luna, ma velata di foschia.
– Lei non è cresciuto vicino al mare, giusto? – chiese.
– No.
– Basta che prenda il traghetto delle due e mezza, però.
– Spero proprio di sí –. Era come un bambino; non si vergognava di avere paura. – Se c’è una cosa che non mi va a genio è l’idea di afogare.
Lydia si ricordò che pure lei da piccola diceva «afogare». Quasi tutti i bambini e gli adulti di sua conoscenza al tempo dicevano cosí.
– Ma no, vedrà, – disse in tono materno, sicuro. E scese a pagare il suo debito.
– Dov’è finito Eugene? – chiese Lawrence. – È sopra?
– Sta alla finestra. È in pensiero per la burrasca.
Lawrence scoppiò a ridere. – Gli dica di mettersi a letto e di non pensarci. Ha la stanza proprio di fianco alla sua. Tanto perché lo sappia: non vorrei si mettesse a urlare nel sonno.
Era stato nella libreria dove lavorava il suo amico Warren che Lydia aveva visto Duncan la prima volta. Warren era andato a prendersi la giacca e lei lo aspettava perché dovevano pranzare insieme. Un tale chiese a Shirley, l’altra commessa, se poteva trovargli una copia delle Lettere persiane. Era Duncan. Shirley lo precedette verso lo scaffale giusto e, nel silenzio del negozio, Lydia sentí Duncan commentare che doveva essere difficile sapere dove sistemare le Lettere persiane. Come classificarlo? Come romanzo, o come saggio politico? Lydia pensò che, cosí dicendo, l’uomo rivelava qualcosa di sé. Cioè un bisogno, quello, a suo giudizio abbastanza diffuso tra i clienti di una libreria, di distinguersi, di apparire colti. In seguito sarebbe tornata su quel momento sforzandosi di immaginare Duncan di nuovo disarmato, un po’ a caccia di simpatia, vagamente insicuro. Warren arrivò con la giacca, salutò Duncan e, mentre uscivano, mormorò a Lydia: – Il Boscaiolo di Latta –. Warren e Shirley si rallegravano le giornate inventando soprannomi per i clienti; Lydia aveva già sentito parlare di «Bocca di Marmo», del «Cece» e della «Duchessa delle Colonie». Duncan era il «Boscaiolo di Latta». Lydia pensò che lo chiamassero cosí per il soprabito liscio e grigio che portava e per i capelli, di un bell’argento uniforme, che un tempo dovevano essere stati biondi. Non era magro e spigoloso, e nemmeno dava l’impressione di avere le articolazioni arrugginite. Anzi, era agile e in carne, dignitoso e di bell’aspetto, pelle chiara, curata, luminosa.
Non gli disse mai del soprannome. Non gli disse neanche di averlo visto in libreria. Grossomodo la settimana dopo, lo incontrò a una festa offerta dal suo editore. Lui non si ricordava di lei e Lydia immaginò che non l’avesse notata, impegnato com’era a parlare con Shirley.
Di solito Lydia si fida delle sue impressioni. Si fida di ciò che pensa di Warren e della sua amica Shirley, o delle persone incontrate per caso, come i coniugi della pensione, Mr Stanley e gli uomini con cui ha giocato a carte. Crede di sapere perché la gente si comporta in un certo modo e dà piú peso di quanto sarebbe disposta ad ammettere alle sue teorie non provate e ai suoi ingiustificati sospetti. Eppure, quando si tratta del conflitto tra lei e Duncan, diventa ottusa, inetta.
All’occasione trova molto da dire, al riguardo, avendo la mania di spiegare tutto, però non si fida di ciò che dice, nemmeno tra sé e sé; e non le serve. Tanto varrebbe che si buttasse per terra a piagnucolare, coprendosi la faccia con le mani.
Si chiede che cosa gli abbia dato tanto potere. Chi glielo abbia dato, lo sa. Ma continua a chiedersi cosa, e quando: quando si è verificato il passaggio, quand’è che ha abdicato a ogni suo orgoglio e buonsenso?
Dopo essersi coricata, lesse per una mezz’ora. Poi scese in ingresso, diretta in bagno. Era mezzanotte passata e il resto della casa era al buio. Aveva lasciato la porta socchiusa e, tornando in camera, non accese la luce del corridoio. Anche la porta di Eugene era socchiusa e, passando, Lydia udí un suono basso, prudente. Una specie di gemito che era anche un sussurro. Ricordò di aver sentito Lawrence dire che Eugene gridava nel sonno, ma quello non era un suono emesso dormendo. Eugene era sveglio, ne era sicura. Osservava dal letto nella camera buia e la invitava a entrare. L’invito amoroso era esplicito e disarmante, come la confessione di avere paura, pronunciata accanto alla finestra. Lydia proseguí, e chiuse col gancio la porta di camera sua. Ma sapeva, facendolo, di non averne bisogno. Eugene non avrebbe mai provato a entrare; non c’era la minima prepotenza in lui.
Dopodiché restò sveglia. Le cose per lei erano cambiate: rifiutava l’avventura. Sarebbe potuta entrare da Eugene come, nel corso della serata, lanciare un messaggio a Lawrence. In passato l’avrebbe fatto, forse. Forse sí, o forse no, a seconda dell’umore. Ora invece sembrava impossibile. Si sentiva tutta avviluppata, ben protetta da strati su strati di noiosa consapevolezza. Non che fosse un gran male, in fondo: lasciava la mente libera. I pensieri diventano piú delicati, meno frettolosi, quando a guidarli non è il desiderio.
Si chiese come potessero essere quegli uomini, come amanti. La sua scelta sarebbe di norma caduta su Lawrence. Era piú vicino a lei per età, prevedibile e probabilmente abituato alla riservatezza degli incontri. Aveva un approccio volgare, ma non era detto che questo la scoraggiasse. Lo immaginava scanzonato, caldo, prudente, un po’ compiaciuto, premuroso ma poco romantico, capace magari di far scivolare un avvertimento in mezzo alle sue attenzioni: una battuta, un insulto bonario, un richiamo alla realtà.
Eugene non avrebbe mai sentito il bisogno di comportarsi cosí, pur avendo buone probabilità di scordarla anche piú in fretta di Lawrence (molto piú in fretta, anzi, perché Lawrence, pur non sprecando occasioni, avrebbe conservato il pensiero dell’eventuale spiacevole conseguenza e si sarebbe tenuto pronto una buona strategia difensiva). Eugene non doveva avere niente da invidiare a Lawrence quanto a esperienza; chissà quante donne e ragazze, per anni, avevano accolto il genere di supplica appena udita da Lydia, dopo la sua confessione spontanea. Eugene doveva essere generoso, pensò. Si sarebbe mostrato un amante riconoscente, non egoista, talmente gentile che, alla sua scomparsa, nessuna gli avrebbe piantato grane. Non avrebbero cercato di incastrarlo, non l’avrebbero perseguitato a furia di lamenti. Le donne fanno cosí con gli uomini che non si lasciano andare, che si contraddicono, che promettono, mentono, prendono in giro. Sono quelli, gli uomini di cui si rimane incinte, a cui si spediscono lettere disperate, si riempiono le orecchie della propria superiorità in fatto d’amore, quelli con cui ci si vendica. Eugene invece sarebbe stato libero, un fenomeno amoroso felice e innocente fino al momento in cui avesse stabilito che era ora di sposarsi. Si sarebbe preso una ragazza piuttosto banale, il tipo materno, magari un tantino piú vecchia di lui, un tantino piú scaltra. Le sarebbe stato fedele, l’avrebbe trattata bene e lei avrebbe assunto il comando della famiglia, una numerosa famiglia di stampo cattolico.
E Vincent? Lydia faceva fatica a immaginarlo, a differenza degli altri di cui riusciva a indovinare gesti e rumori, spalle nude e pelle tiepida, punti di forza, difficoltà, momenti di debolezza. La imbarazzava pensare di lui cose simili. Eppure era il solo per il quale potesse provare un interesse sincero. Le tornarono in mente la sua cortesia e l’umorismo e il riserbo, l’incapacità di dare una svolta al proprio destino. Ne era attratta proprio in virtú di ciò che lo rendeva diverso da Lawrence e non lasciava dubbi sul fatto che avrebbe passato la vita a lavorare per Lawrence – o qualcuno come lui – e mai viceversa. Le piaceva anche per ciò che lo rendeva diverso da Eugene: l’ironia, la pazienza e il controllo. Era il genere di uomo che aveva incontrato da piccola, quando abitava in una cascina abbastanza simile a quella, il genere d’uomo che doveva ripresentarsi nella sua famiglia da secoli. Lydia conosceva la sua vita. Con lui sapeva prevedere porte che si aprivano su scenari a lei noti un tempo, e dimenticati; stanze e paesaggi all’improvviso davanti agli occhi: ecco, cosí! Serate piovose, la campagna con le sue rogge e i suoi cimiteri, i ciliegi selvatici, i fringuelli negli angoli degli steccati. Dovette chiedersi se era cosí che accadeva, dopo gli anni di smanie e appetiti: che si ritornasse a fantasticherie sentimentali? O forse quello era davvero ciò che le mancava e di cui sentiva il bisogno: si sarebbe forse dovuta innamorare e sposarsi un uomo come Vincent, anni prima? sarebbe stato meglio concentrarsi su quella parte di lei che avrebbe saputo accontentarsi di una soluzione del genere, e dimenticarsi del resto?
In altre parole, sarebbe dovuta rimanere nel posto dove l’amore è amministrato da altri, anziché andarsene dove bisogna inventarlo e poi reinventarlo, senza mai sapere se i tuoi sforzi sono sufficienti?
Duncan parlava delle sue ex fidanzate. Ruth, donna pratica; Judy, l’impertinente; Diane, tutta pepe; Dolores, la signora elegante; Maxine, il tipo massaia. Lorraine, la bionda, la bellezza dal seno florido; Marian, la poliglotta; Caroline, la nevrastenica; Rosalie, scatenata come una zingara; Louise, malinconica e piena di talento; Jane, serafica e di buona famiglia. E adesso, per Lydia, quale definizione avrebbe adoperato? Lydia la poetessa. Scontrosa, pasticciona, deludente Lydia. La poetessa deludente.
Una domenica, durante una scampagnata in macchina sulle colline di Peterborough, le raccontò gli effetti della bellezza di Lorraine. Forse a ricordargliela era stato il voluttuoso incanto del paesaggio. C’era quasi da ridere, disse. Quasi da sentirsi imbecilli. Si fermò a fare il pieno in un paesino e Lydia entrò nello spaccio di fronte, aperto anche la domenica. Si comprò un fondotinta in crema, preso dall’espositore. Nella toilette lurida e fredda della stazione di servizio tentò una metamorfosi, buttandosi in faccia un liquido rosa-giallastro e spalmandosi pasta verdognola sulle palpebre.
– Che cosa ti sei messa in faccia? – disse lui, quando Lydia tornò in macchina.
– Fondotinta. Mi sono truccata per sembrare piú allegra.
– Si vede il segno delle dita, sul collo.
In quei momenti, si sentiva soffocare, come disse poi al dottore. Era il senso di sconfitta. La differenza tra quello che voleva e quello che riusciva a ottenere. Era convinta che l’amore per lei, Duncan se lo portasse dentro, e che attraverso immensi sforzi per compiacerlo, o crisi di disperazione che annullavano tutti quegli sforzi, o tattiche di indifferenza, sarebbe riuscita, con le buone o con le cattive, a farlo saltare fuori.
Come le era venuta un’idea simile? Grazie a lui. Perché Duncan lasciava intendere di poterla amare e che insieme avrebbero potuto trovare la felicità se solo fosse riuscita a rispettare la sua vita privata, a non avere pretese e a modificare tutto ciò che non gli piaceva, della sua persona e del suo comportamento. Le aveva fornito l’elenco dettagliato in proposito. Certe voci erano di natura talmente intima da farla urlare di vergogna, coprirsi le orecchie e supplicarlo di ritirarle e di non dire cosí mai piú.
– Con te non si può discutere, – commentò lui. Aggiunse che niente lo faceva andare in bestia piú delle scene isteriche con gli sfoghi di pianto, eppure a lei sembrava di scorgere in Duncan un brivido di soddisfazione, un lampo di acuto sollievo quando lei finalmente cedeva sotto il peso delle sue obiezioni pacate e precise.
– Non potrebbero stare cosí le cose? – chiese al dottore. – Non potrebbe darsi che voglia una donna vicina, ma abbia anche paura e allora cerchi di allontanarla? Semplifico troppo? – domandò ansiosa.
– E di lei che mi dice? – ribatté il dottore. – Lei, che cosa vuole?
– Che lui mi ami?
– Non viceversa? amarlo?
Lydia pensò all’appartamento di Duncan. Non c’erano tende alle finestre, perché dominava dall’alto gli edifici circostanti. Non si era fatto alcuno sforzo per arredarlo secondo un’idea; ogni pezzo era a sé. E rispondeva a singole esigenze particolari. In un angolo dietro un mobilearchivio, c’era una scultura messa lí perché gli piaceva sdraiarsi a terra a contemplarla nella penombra. Sul letto, sistemato di traverso per godere della brezza della finestra, erano ammucchiati dei libri. Tutto il disordine rispondeva in realtà a un ordine prestabilito e intoccabile. E in fondo al corridoio c’era uno splendido piccolo tappeto. Qui gli piaceva ascoltare musica, seduto su un’unica poltrona mostruosa, un capolavoro tecnologico pieno di dispositivi per testa, gambe e braccia. Lydia s’informò su eventuali ospiti: dove li si faceva accomodare? Duncan rispose che non ne aveva mai. L’appartamento era per lui. Godeva di grande popolarità in veste di ospite, brillante e piacevole com’era, ma il ruolo del padrone di casa non gli apparteneva; del resto era logico, visto che la vita mondana era un’esigenza e un’invenzione che non lo riguardava.
Lydia portò dei fiori e non trovò altro posto per metterli che a terra, in un vaso accanto al letto. Dai viaggi a Toronto tornava carica di regali: dischi, libri, formaggio. Imparò a escogitare percorsi nelle varie stanze e rimediare cantoni in cui si poteva sedere. Scoraggiò tutti gli amici, vecchi come recenti, dal telefonarle o farle visita per le troppe cose che avrebbe dovuto spiegare. Qualche volta si vedevano con gli amici di lui ma Lydia si innervosiva al pensiero che stessero aggiungendo il suo nome all’elenco e facendo congetture. Non le piaceva constatare quanti doni Duncan elargisse anche a loro da quella miniera di aneddoti, battute e complimenti utilizzati per incantare lei. Duncan non sopportava la banalità. Si sentiva quanto disprezzasse le persone poco sagaci. Bisognava essere vispi per tenergli testa; occorreva energia, per conversare con lui. Lydia si vedeva come una ballerina sulle punte, scossa da impercettibili tremiti, preoccupata al pensiero di deluderlo alla piroetta successiva.
– Allora, crede che non lo ami? – chiese al dottore.
– Lei come fa a essere certa del contrario?
– Perché sto malissimo quando è stanco di me. Vorrei sparire dalla faccia della terra. Giuro. Andare a nascondermi. Esco in strada e, in ogni sconosciuto che incontro, leggo un rimprovero per il mio fallimento.
– Per fallimento intende non essere riuscita a farsi amare da lui.
A questo punto a Lydia non resta che accusare se stessa. Il suo egocentrismo è pari a quello di Duncan, ma mascherato meglio. È in competizione con lui su chi dei due sappia amare meglio. In competizione con tutte le altre donne, anche quando esserlo risulta assurdo. Non tollera di sentirle elogiare, né di sapere che Duncan ne conserva un buon ricordo. Come molte donne della sua generazione, ha dell’amore un’idea rovinosa ma in un certo senso anche poco seria, poco rispettosa. E avida. Si esprime con intelligenza e ironia e in questo modo protegge le proprie pretese indifendibili. I sacrifici che ha fatto per Duncan in termini di sistemazione, amici, frequenza di rapporti sessuali e tono della conversazione sono state violazioni flagranti, seppur commesse senza serietà. Ecco dove è mancato il rispetto; ecco in che cosa consiste l’indecenza. Prima, gli ha regalato tutto quel potere e poi ha cominciato a lamentarsi senza sosta con se stessa e con lui del fatto che ce l’avesse. Per sentirsi superiore.
È quello che dice al dottore. Ma è la verità?
– La cosa peggiore è non sapere che cosa ci sia di vero. Passo le mie giornate a cercare di capire qualcosa di lui e di me, e non arrivo mai da nessuna parte. Esprimo desideri. Prego, perfino. Lancio monetine nei pozzi. Sono convinta che una parte di lui si rifiuti tassativamente di cedere. La parte che ha bisogno di liberarsi di me e che cerca a ogni costo un motivo per farlo. Ma lui dice che sono tutte fesserie, che se solo riuscissi a non avere sempre reazioni esagerate, potremmo essere felici. Devo pensare che forse ha ragione, magari dipende tutto da me.
– Lei quando è felice?
– Quando lui è contento di me. Quando scherza e sta bene. Anzi, no, no. Non lo sono mai. Provo soltanto un sollievo, come se avessi superato una sfida; è piú un senso di trionfo che di felicità. Ma lui mi può sempre far mancare la terra da sotto i piedi.
– E come mai lei si accompagna a un uomo che le può sfilare la terra da sotto i piedi?
– Non è sempre cosí? Quando ero sposata, quel ruolo toccava a me. Secondo lei, aiuta fare queste domande? E se fosse soltanto questione di orgoglio? Se volessi semplicemente non restare sola, e che tutti mi pensassero insieme a un uomo tanto desiderabile? Se fosse bisogno di farsi umiliare magari? Che vantaggio ricaverei dal saperlo?
– Non so. Lei cosa crede?
– Credo che questi discorsi funzionino quando i guai sono piccoli, l’interesse modesto; non quando si è disperati. – Lei è disperata?
All’improvviso Lydia si sentí stanca, quasi troppo stanca per parlare. La stanza in cui si svolgeva quella conversazione con il dottore aveva la moquette blu scuro e una tappezzeria a righe verdi e blu. Sulla parete era appeso un quadro di barche e pescatori. Le parve di riconoscere una specie di falsa complicità. Una rassicurazione fasulla, un provvisorio conforto, un inganno voluto.
– No.
Le pareva che, al tempo, lei e Duncan fossero come mostri a piú teste. Dalla bocca di una potevano uscire accuse insulse, gelide o accese, da un’altra, ipocrite scuse, suppliche viscide, da un’altra ancora, semplici chiacchiere a base di luoghi comuni e aut aut, tipo quelle fatte con il dottore. Mai che se ne aprisse una per dire una cosa utile, mai che una avesse il buonsenso di tacere. Al tempo stesso però, pur senza saperlo, era convinta che quelle teste mostruose e le loro parole feroci, insignificanti e superflue, potessero ritirarsi in buon ordine, ripiegare nel sonno. Poco importava che cosa avessero detto; poco importava davvero. A quel punto, lei e Duncan avrebbero potuto ripresentarsi l’uno all’altra carichi di fiducia e speranze e privi di ricordi; per ritrovare intatto il piacere del primo momento, prima che entrambi avessero cominciato a strumentalizzarsi a vicenda.
Dopo una giornata a Toronto, cercò di stabilire un contatto con Duncan, al telefono, e scoprí che non aveva perso tempo: aveva cambiato numero, e quello nuovo non era sulla guida. Lui le scrisse indirizzando sul posto di lavoro, che avrebbe provveduto a imballare le sue cose e spedirgliele.
Lydia fece colazione con Mr Stanley. Gli operai della Compagnia telefonica avevano già mangiato ed erano usciti prima dell’alba.
Chiese a Mr Stanley se era andato a trovare la donna che aveva conosciuto Willa Cather.
– Ah, – disse lui, asciugandosi un angolo delle labbra dopo un boccone di uovo in camicia. – Una signora che in passato gestiva un piccolo locale nei pressi del porto. Ci sapeva fare in cucina, ha detto. E dev’essere cosí, perché Willa e Edith le ordinavano sempre la cena. Si occupava il fratello di recapitargliela in macchina. Certe volte però, Willa non era soddisfatta – magari non era esattamente quello che voleva, o magari non lo giudicava preparato a dovere – e rimandava tutto indietro. Chiedendo che gliene portassero un’altra –. Sorrise, e aggiunse in tono confidenziale: – Willa poteva essere autoritaria. Altroché. Non era perfetta. Tutte le persone di genio sono piuttosto impazienti nella vita di tutti i giorni.
«Fesserie, – aveva voglia di ribattere Lydia. – A sentirne parlare, sembra un’autentica stronza».
Certi giorni svegliarsi era indolore, e certi altri, un tormento. Quella mattina ad esempio aveva provato la netta sensazione dell’errore: una cosa che si sarebbe potuta evitare, ma ormai irreparabile.
– Altre volte invece lei e Edith scendevano al caffè, – proseguí Mr Stanley. – Se volevano un po’ di compagnia, cenavano lí. Fu in una di quelle occasioni che Willa ebbe una lunga conversazione con la signora che sono andato a trovare. Parlarono per piú di un’ora. La donna pensava di sposarsi. Doveva riflettere se accettare o meno una proposta che, a quanto ho capito, si riduceva a una questione di interesse. Di reciproca compagnia. Niente a che fare con il grande amore, lei e il possibile sposo non erano giovani né scriteriati. Willa le parlò per piú di un’ora. Come può immaginare non le diede nessun consiglio esplicito, si espresse in termini di generico buonsenso e cortesia e la donna conserva un vivo ricordo di quella conversazione. Mi ha fatto piacere sentirglielo dire, ma non mi ha sorpreso.
– Ma che ne poteva sapere, lei? – domandò Lydia.
Mr Stanley alzò lo sguardo dal piatto e la scrutò con sbigottita amarezza.
– Willa Cather stava con una donna, – disse Lydia. La risposta di Mr Stanley parve addolorata e vagamente severa.
– Si amavano, – disse.
– Non è mai vissuta con un uomo.
– Conosceva la vita come la conosce un’artista. Non necessariamente per esperienza diretta.
– E se invece non la conoscono, – insistette Lydia. – Che succede se non la conoscono?
Mr Stanley tornò a concentrarsi sull’uovo, come se non l’avesse sentita. Alla fine aggiunse: – La signora trovò quella conversazione utilissima.
Lydia emise un verso di assenso poco convinto. Sapeva di essere stata sgarbata, per non dire cattiva. Sapeva che avrebbe dovuto scusarsi. Raggiunse il buffet e si versò una seconda tazza di caffè.
Dalla cucina spuntò la padrona.
– È ancora caldo? Ne prenderei una tazza anch’io. È proprio decisa a partire oggi? A volte penso che mi piacerebbe montare su un traghetto e andarmene. Per carità, qui è bellissimo, ma sa com’è, a volte...
Bevvero in piedi, senza allontanarsi dal buffet. Lydia non aveva voglia di tornare al tavolo, pur sapendo che le sarebbe toccato prima o poi. Sembrava cosí fragile e solo, Mr Stanley, con le spallucce strette, la testa pelata, la giacca sportiva marrone, una taglia di troppo. Ci teneva ad apparire pulito e in ordine e chissà che fatica, miope com’era. Era l’ultima persona a meritare di essere trattata con scortesia.
– Ah, già, quasi mi dimenticavo, – disse la donna.
Sparí in cucina e tornò con un grosso sacchetto di carta marrone.
– Vincent ha lasciato questo per lei. Ha detto che le piaceva. È vero?
Lydia guardò nel sacchetto e vide dei lunghi ciuffi di foglie scure di dulse; benché essiccati, sembravano oleosi. – Insomma... – disse.
La donna scoppiò a ridere. – Lo so. Bisogna essere nati qui per averci il gusto.
– No, no, mi piace, – disse Lydia. – Stava cominciando a piacermi.
– Deve aver fatto colpo.
Lydia portò il sacchetto al tavolo e lo mostrò a Mr Stanley. Azzardò una battuta in segno di pace.
– Chissà se Willa Cather l’ha mai mangiata, la dulse...
– Dulse, – ripeté Mr Stanley pensoso. Infilò una mano nel sacchetto, estrasse alcune foglie e le guardò. Lydia era certa che vedesse ciò che poteva aver visto anche Willa Cather. – Una cosa è sicura, la conosceva. La conosceva senz’altro.
Ma era stata fortunata o no, era stata felice con quella donna? Com’era vissuta? Era questo che Lydia avrebbe voluto dire. E Mr Stanley avrebbe capito di che cosa parlava? Se gli avesse chiesto com’era vissuta Willa Cather, lui non avrebbe forse risposto che per lei non si trattava di trovare un modo di vivere, come per tutti gli altri, perché lei era Willa Cather?
Che bel rifugio sicuro si era costruito. Poteva portarselo ovunque e nessuno era in grado di disturbarlo. Un giorno o l’altro magari, anche Lydia si sarebbe ritenuta fortunata ad averne uno simile. Nel frattempo, per lei, si sarebbe trattato di alti e bassi. «Alti e bassi» diceva la gente quando lei era piccola, parlando di ammalati che non sarebbero piú guariti. «Ma... ha degli alti e bassi».
Eppure, guarda quanto le aveva insidiosamente scaldato il cuore, quel regalo a distanza.