L’avventurosa storia dell’uzbeko muto
Dieci anni fa Ramiro mi raccontò questa vicenda per filo e per segno alla stazione centrale di Ginevra. A una temperatura di dieci gradi sotto zero, la sua storia mi fece ridere e piangere. Quando ci salutammo gli diedi tre anni di tempo per scriverla, altrimenti l’avrei fatto io. Ci abbracciammo: Ramiro, quel peruviano indimenticabile, tornò a gestire la sua libreria e io salii sul treno per Parigi. Quanto segue cerca di essere fedele al racconto del mio amico, senza però riuscire a superarlo.
All’Università dell’Amicizia tra i Popoli Patrice Lumumba, noi latinoamericani arrivavamo per due motivi: una borsa di studio vinta nel paese d’origine come militanti delle Juventudes Comunistas o una borsa di studio ottenuta dai genitori tramite amicizie comuniste il cui scopo principale era distogliere i figli dall’irresistibile richiamo rivoluzionario lanciato da Cuba e dalle lotte guerrigliere nelle selve e nelle città latinoamericane. La maggior parte dei giovani che andavano a Mosca per studiare in una delle due università, la Lumumba e la Lomonosov, erano figli di piccolo-borghesi, progressisti o meno e, paradossale o meno, la patria del socialismo istruiva e proteggeva i piccolo-borghesi di domani.
In ogni modo, i latinoamericani arrivavano decisi ad approfittare della generosa offerta della patria sovietica, con il morale comunista altissimo e lo spirito di emulazione ben radicato nei cuori. Tutti avevano letto il Poema pedagogico di Makarenko ed erano decisi a raggiungere l’obiettivo d’imparare per servire il popolo.
Quando dico tutti mi riferisco ai latinoamericani dall’equatore in giù, perché quelli dall’equatore in su, ragazzi di paesi dal clima caldo, dotati di un’andatura flessuosa e di una grazia che quelli del Sud finivano per invidiare, la pensavano diversamente. Le compagne sovietiche erano molto più attratte dalla prospettiva di imparare a ballare la cumbia, la salsa e il merengue che dai recital di poesia sociale dei gruppi del Sud. Le compagne sovietiche erano impermeabili alle nostalgiche note della quena suonata da uno studente boliviano, alla ricchezza sentimentale di un vals cantato da un peruviano, alle canzoni di Leonardo Favio intonate dagli argentini, alle milonghe innaffiate di mate che passavano di mano in mano nei dormitori degli uruguaiani e alle schitarrate lente e malinconiche di qualche cileno capace di strappare sospiri alle corde. Ma bastava che un dominicano, un cubano, un colombiano della costa, un venezuelano di Maracay prendesse due cucchiai e cominciasse a battere il ritmo gridando sabor! perché le sovietiche ardessero di frenesia tropicale. E che dire dei brasiliani, capaci di creare musiche insinuanti e seducenti perfino con le sopracciglia se necessario.
Niente di tutto questo sfuggì a Ramiro, un peruviano purosangue che quando entrò nel parco di ulitsa Miklukho-Maklaya in cerca del Krest, l’edificio a forma di croce dove gli studenti si iscrivevano appena arrivati a Mosca ricevendo i primi novanta rubli in contanti e l’orario delle lezioni accademiche, si propose subito di evitare quelli dall’equatore in giù, di nascondere il suo talento di virtuoso della quena, del flauto e altri strumenti andini, e di frequentare i briosi ragazzi dei Caraibi.
La prima settimana da lumumbero la dedicò a immatricolarsi al corso intensivo di russo e a girare la città per conoscere una Mosca quasi autunnale in compagnia di un cubano e di un haitiano che suscitava stupore e ammirazione per il colore della sua pelle.
«Bisogna trovare il caffè Puškin e cercare quella Nathalie. Se è andata bene a Gilbert Bécaud, perché non dovrebbe andare bene a noi...» li incoraggiava Ramiro.
Non entrarono mai nel caffè Puškin, perché una semplice tazza di tè costava un decimo della borsa di studio, così si arrangiarono e trovarono un fornitore di vodka casalinga, buona per massaggiarci i piedi quando minacciavano di congelarsi, e da bere a piccoli sorsi fra orribili smorfie rimpiangendo le morbide delizie del buon pisco andino e del rum delle isole dei Caraibi.
Un pomeriggio di freddo implacabile attaccarono a criticare Gilbert Bécaud. Dove li aveva trovati i soldi per invitare quella Nathalie a bere una cioccolata al caffè Puškin? Un latte con il cacao forse, ma una cioccolata no di certo. Comunque, la faccenda di fare l’amore parlando in francese della Rivoluzione d’ottobre doveva essere straordinaria.
«Francese stronzo» disse Ramiro.
«Francese di merda» intervenne il cubano.
«Io ho più chance di voi: parlo francese» dichiarò l’haitiano.
«Non ci resta altra scelta che andare a Praga» spiegò Ramiro.
Fra i suoi pochi averi c’era una cartina dell’Europa e Ramiro aveva tracciato una linea retta da Mosca a Praga. Non gli interessava Parigi come meta di svago e sollazzo, e non lo seduceva nemmeno l’idea di appurare se davvero a Parigi pioveva ogni giovedì, come sosteneva César Vallejo in una poesia. Voleva andare a Praga, perché nella biblioteca della Universidad San Marcos, a Lima, aveva avuto modo di sentire la registrazione di un colloquio informale tenutosi agli inizi degli anni Sessanta fra due grandissimi poeti e un gruppo di studenti: il salvadoregno Roque Dalton e il peruviano Javier Heraud. Dal nastro che girava, le loro voci elettrizzavano gli studenti parlando di Praga, il paradiso socialista, il cielo proletario, il giardino dell’Eden dei rivoluzionari, perché la Costituzione della Repubblica Socialista della Cecoslovacchia diceva che il peccato non esisteva e le ragazze di Praga seguivano quel principio assolutamente alla lettera.
«Fosse anche l’ultima cosa che fate nella vostra vita, compagni, andate a Praga!» consigliavano i due poeti alla fine della registrazione.
Il viaggio a Praga era d’obbligo e Ramiro se l’era ben studiato. La cosa più difficile era procurarsi i permessi per uscire dall’Unione Sovietica e i visti di Polonia, Repubblica Democratica Tedesca e Cecoslovacchia. Ma niente è impossibile per un peruviano che si propone di andare a Praga. Una volta ottenuti i permessi e i visti, si partiva in treno da Mosca, si cambiava a Minsk, in Bielorussia, si proseguiva fino a Białystok, in Polonia, dove si cambiava di nuovo treno e si continuava fino a Varsavia, da là si raggiungeva Dresda, nella Germania Est, per poi salire finalmente sull’espresso per Praga. Circa duemila chilometri che si coprivano in quattro o cinque giorni di viaggio. E cosa sono duemila chilometri per un sudamericano!
Mentre facevano piani per andare a Praga bevendo vodka direttamente dalla bottiglia furono interrotti da due studentesse russe, due angeli biondi con occhi di lapislazzulo che distribuivano inviti a una festa.
«Non mancate, ci sarà buona musica perché viene il cileno» disse una.
«Sì, il cileno!» ripeté l’altra.
Una festa e un cileno come anima della festa. Come si combina una cosa con l’altra? Dov’è il rapporto dialettico? pensò Ramiro.
«Questa vodka è pericolosa, fa sentire cose strane» commentò il cubano.
Ma una festa è una festa, così Ramiro ci andò e conobbe il cileno, un tizio della nomenklatura, non uno della Lumumba, un vip, uno studente della Lmpimbpih— cmprd‘opqbellz— rlhbeophqeq hkelh L.C. Kmkmlmpmb‘ e cioè della Lomonosov, uno di quelli che studiavano in pieno centro a Mosca e guardavano la città dal grattacielo bianco che si innalzava sulla cima della Vorob’ëvy gory, la collina dei passeri.
Uno studente della Lomonosov non beveva bruciabudella pianificando un viaggio a Praga, e anche se non c’era una rivalità aperta fra le due università, la vox populi attribuiva a quelli della Lumumba una certa fama, ben lontana dal rigore morale che ci si aspettava dagli ospiti dell’Unione Sovietica.
Nel paese dell’uguaglianza alcuni erano più uguali di altri. Gli studenti delle due università ricevevano gli stessi novanta rubli mensili di borsa di studio, solo che quelli della Lomonosov ricevevano anche vestiti, libri, cultura, cibo e alloggio di prima categoria. Quelli della Lumumba, invece, dovevano comprare ogni cosa centellinando i novanta rubli e arrangiandosi con tutto quello che capitava a tiro.
Uno studente della Lomonosov ti offriva un bel bicchiere di Stolichnaya. Uno della Lumumba ti passava una bottiglia, avvolta in fogli di giornale, di «H2O + CH3-CH2OH» cioè acqua ed etanolo appena distillato.
Alla festa Ramiro si avvicinò al cileno, che non cantava, non suonava la chitarra né ballava, ma era in possesso di un attrezzo che lo rendeva indispensabile a qualsiasi festa: un giradischi marca Dual, della Germania capitalista, portatile, a forma di valigia, che aprendosi si trasformava nel giradischi vero e proprio più due casse stereo. Era inoltre proprietario di una specie di album che conteneva in bell’ordine gli LP del migliore rock anni Sessanta e Settanta. Da Little Richard a Chubby Checker, da Elvis a The Mamas & the Papas e naturalmente Beatles e Rolling Stones. Tutta la ripudiata decadenza dell’Occidente era appannaggio di questo cileno che la sfruttava prestando i suoi servizi di primo disc jockey della storia del socialismo alle feste di studenti e professori.
Ramiro e il cileno simpatizzarono: mentre bevevano qualcosa insieme il cileno raccontò che alcune settimane prima della sua partenza da Santiago uno zio gli aveva lasciato i propri risparmi, in modo che prima di arrivare a Mosca girasse l’Europa. Quello zio generoso gli aveva spiegato che era una stupidaggine non visitare Parigi, Roma, Amsterdam, e aveva posto come unica condizione che non mettesse piede nella Spagna di Franco. A Francoforte il cileno aveva comprato il giradischi e i dischi. Ad accrescere l’ammirazione di Ramiro, il suo itinerario pre-moscovita aveva toccato anche Praga.
«Oh, le ragazze ceche! Non ci sono parole per descriverle. Non conoscono il peccato, sono sempre innocenti. Ah, le ragazze ceche!» sospirava il cileno, mentre in Ramiro cresceva la determinazione di andare a Praga.
Accompagnando il cileno da una festa all’altra – si davano il cambio a vicenda quando uno dei due doveva allontanarsi per soddisfare le richieste di qualche compagna sovietica con inquietudini musicali – Ramiro finì il corso intensivo di russo e presentò domanda di iscrizione alla facoltà di Geologia e ingegneria mineraria. Il Perù e il proletariato peruviano avevano bisogno di geologi e di ingegneri per sfruttare la loro ricchezza mineraria usurpata dagli interessi imperialisti. Fu questo che scrisse come motivazione nella domanda alla facoltà.
Un giorno di gennaio, con venti gradi sotto zero e uno splendente cielo azzurro, Ramiro ricevette la lettera di ammissione. Due settimane dopo sarebbero iniziate le lezioni alla facoltà di Geologia di Taškent, in Uzbekistan.
Da Mosca a Taškent si poteva andare in aereo, un apparecchio Tupolev degli anni Settanta impiegava otto ore a collegare le due città, ma Ramiro era un lumumbero e la segreteria dell’università gli consegnò dei biglietti di seconda classe per la Transiberiana.
Ramiro si lasciò così alle spalle il bel campus della Miklukho-Maklaya, a Mosca e, sentendosi per tutta la durata del viaggio come il dottor Živago, osservò dal suo sedile di legno il paesaggio bianco, uniforme e soporifero che accompagnò il treno fino a Volgograd, cinque giorni dopo, e poi, sempre identico, a Karakum, in Turkmenistan; in altri due giorni il treno di Ramiro raggiunse la capitale, Aşgabat, dopo di che proseguì per altri tre giorni verso sudest fino a Bukhārā, da lì toccò la mitica città di Samarcanda per poi finalmente fermarsi, quando erano ormai trascorsi quattordici giorni dalla partenza da Mosca, nella stazione di Taškent, capitale dell’Uzbekistan. Praga si era allontanata di altri tremilasettecento chilometri.
Alla facoltà di Geologia di Taškent le priorità di Ramiro cominciarono a cambiare. I professori, tutti uzbeki, parlavano un russo molto difficile da capire per un peruviano che aveva fatto solamente un corso intensivo di tre mesi. Non c’era nemmeno un latinoamericano con cui potesse chiacchierare nella sua lingua madre. Un segretario della facoltà, impietosito dalla situazione, lo informò della presenza di uno spagnolo arrivato lì prima della Seconda guerra mondiale e gli diede i dati necessari per rintracciarlo. Ramiro ci andò, ma quell’ottantenne di origine asturiana aveva dimenticato perfino l’alfabeto spagnolo e passava dall’uzbeko al karapalpako, le due lingue che si parlano in terra uzbeka.
Ramiro smise di sospirare per Praga e per le ragazze ceche. L’unica cosa che voleva era tornare a Mosca e non gli importava se il caffè Puškin non esisteva e se quella Nathalie faceva l’amore parlando della Rivoluzione d’ottobre solo con Gilbert Bécaud.
Scoprì che gli uzbeki o erano immuni al freddo glaciale e al vento o non li percepivano. Andava a lezione con indosso tutti i vestiti che possedeva, si sforzava di capire qualcosa del russo che parlavano i professori, in aula cercava di evitare il congelamento, ma alla fine cadde preda di una malinconia atroce, finché un giorno, cercando in valigia qualcos’altro con cui coprirsi, trovò la quena comprata in un mercatino di Lima e quasi mai suonata in Unione Sovietica.
Rinchiuso nella sua camera di dimensioni minime alla Casa Internazionale dello Studente, in mezzo a tagiki, turkmeni, kirghisi, kazaki e perfino afghani, imbacuccato fino alle orecchie, Ramiro sulla sua quena si lasciava sfuggire melodie andine nostalgiche e tristi.
Con il novanta per cento della popolazione di religione musulmana trovare alcolici era impossibile, e ancora più difficile era conoscere una donna; Ramiro arrivò a temere per la sua capacità di immaginarsi una donna nuda, capì l’angoscia che aveva portato l’ecuadoriano Jorge Enrique Adoum a scrivere il romanzo Entre Marx y una mujer desnuda, cominciò a odiare lo yogurt e la carne d’agnello, sentì che qualcosa di amato e di latinoamericano si spezzava per sempre in lui e decise di chiedere aiuto.
Per puro caso, mentre vagava intirizzito dal freddo, trovò una piccola chiesa ortodossa. Il pope parlava russo, era un vecchio georgiano esiliato in quelle terre desolate e gelide che si mostrò felice di conoscere un marziano arrivato da un continente della cui esistenza dubitava. Ramiro gli raccontava di Machu Picchu, di Cuzco o semplicemente suonava la quena. E la cosa migliore era che il pope era ben fornito di un liquore discutibile ma che passava con una certa pietà dal gargarozzo.
Ramiro ricorda ancora con affetto le sbronze con il pope e le parole profetiche che lui gli disse verso la fine del suo secondo mese a Taškent: «Se non scappi via da qui finirai per impazzire, come me».
«Non posso. Ho bisogno di un lasciapassare da studente per andare a Mosca, e lo posso chiedere solo alla fine del semestre» rispose Ramiro.
«Ho un’idea. Lasciami fare» lo esortò il pope.
Qualche giorno dopo il pope lo chiamò, gli consegnò dei vestiti e gli disse di cambiarsi tutto, anche le scarpe.
Nella camera del pope c’era uno specchio e Ramiro si guardò: indossava un kuliak, un camiciotto pesante che gli arrivava a metà coscia, chiuso al collo con una dzhiyak, un nastro tricolore, sotto aveva un ishton, un paio di pantaloni senza tasche molto aderenti, e in testa un kuloj di astrakan che gli copriva le orecchie.
Ramiro si era sempre saputo peruviano e latinoamericano e con questo aveva risolto il problema dell’identità, ma guardandosi allo specchio ringraziò il suo lontano antenato, forse un generale del regno Inca o forse un semplice musicista di Cuzco, per l’eredità genetica che si manifestava in quegli occhi dalle pupille scure e dall’innegabile taglio orientale. Il tizio che lo guardava dallo specchio era un uzbeko.
Prima che uscisse diretto alla stazione ferroviaria di Taškent, il pope gli buttò sulle spalle un pesante cappotto di pelle d’agnello, gli consegnò una borsa con pane e frutta secca, una bottiglia dell’intruglio ardente che li aveva uniti in vere sbronze da amici sperduti in culo al mondo, un biglietto di seconda classe per Mosca e, prima di augurargli buona fortuna, gli attaccò al collo un cartello di cartone scritto in russo e in uzbeko. Sopra c’era scritto: sono muto.
Così Ramiro, l’uzbeko muto, intraprese il ritorno a Mosca. Sul treno, lungi dal viaggiare solo, si vide protetto, quasi assediato dalla solidarietà degli uzbeki nei confronti di un povero muto. Lo sfamarono, dormì tredici notti al calduccio di un’uzbeka dai seni generosi che allattava due piccoli uzbeki e gli offriva il suo purissimo latte, e ogni volta che un controllore, ispettore, militare o quello che era gli chiedeva gridando i documenti, gli uzbeki gli rovesciavano addosso una tale quantità di insulti in uzbeko e karapalpako indicando il cartello «Sono muto» che veniva subito lasciato in pace.
«E così sono tornato a Mosca» mi dice Ramiro alla stazione di Ginevra.
«E a Praga? Ci sei andato poi a Praga?» gli domando mentre il mio treno si sta già mettendo in marcia.
«Quella è un’altra storia, amico mio. Un’altra storia» risponde lui, e la distanza si fa presente e dura come l’inverno in Europa.