CAPITOLO TERZO

Antonio José Bolívar sapeva leggere, ma non scrivere.

Al massimo riusciva a scarabocchiare il suo nome quando doveva firmare qualche documento, per esempio in periodo di elezioni, ma avvenimenti del genere si presentavano così sporadicamente che lo aveva quasi dimenticato.

Leggeva lentamente, mettendo insieme le sillabe, mormorandole a mezza voce come se le assaporasse, e quando dominava tutta quanta la parola, la ripeteva di seguito. Poi faceva lo stesso con la frase completa, e così si impadroniva dei sentimenti e delle idee plasmati sulle pagine.

Quando un passaggio gli piaceva particolarmente lo ripeteva molte volte, tutte quelle che considerava necessarie per scoprire quanto poteva essere bello anche il linguaggio umano.

Leggeva con l'aiuto della lente d'ingrandimento, il secondo suo più caro avere. Il primo era la dentiera.

Abitava in una capanna di canne di circa dieci metri quadrati in cui aveva sistemato ordinatamente lo scarso mobilio: l'amaca di iuta, la cassa di birra che sosteneva il fornello a cherosene, e un tavolo alto, molto alto, perché quando avvertì per la prima volta dei dolori alla schiena, seppe che gli anni cominciavano a pesare e decise di sedersi il meno possibile.

Allora costruì un tavolo dalle gambe lunghe, che gli serviva per mangiare in piedi e per leggere i suoi romanzi d'amore.

La capanna era protetta da un tetto di paglia intrecciata e aveva una finestra aperta sul fiume, davanti alla quale era piazzato il tavolo alto.

Accanto alla porta era appeso un asciugamano sfilacciato e un pezzo di sapone, che rinnovava due volte l'anno. Si trattava di un buon sapone, con un penetrante odore di grasso, che lavava bene i vestiti, i piatti, i capelli e il corpo.

A una parete, ai piedi dell'amaca, era attaccato un ritratto ritoccato da un artista della sierra, dove si vedeva una giovane coppia.

L'uomo, Antonio José Bolívar Proaño, indossava un rigoroso completo blu, una camicia bianca, e una cravatta a righe che era esistita solo nell'immaginazione del ritrattista.

La donna, Dolores Encarnación del Santísimo Sacramento Estupiñán Otavalo, vestiva invece degli abiti che erano realmente esistiti e che continuavano a esistere nei caparbi angoli della memoria, gli stessi dove si imbosca il tafano della solitudine.

Una mantiglia di velluto blu conferiva dignità al capo senza nascondere del tutto la lucente chioma nera, con la divisa in mezzo, in viaggio vegetale verso la schiena. Dalle orecchie pendevano degli orecchini a cerchio dorati, e il collo era cinto da vari giri di perline, anch'esse dorate.

La parte del busto ritratta nel quadro mostrava una camicetta riccamente ricamata alla maniera di Otavalo, sopra la quale il volto della donna sorrideva con la sua piccola bocca rossa.

Si erano conosciuti da bambini a San Luis, un villaggio della sierra vicino al vulcano Imbabura. Avevano tredici anni quando li fidanzarono, e due anni più tardi, dopo una festa alla quale non parteciparono granché, inibiti all'idea di essersi cacciati in un'avventura troppo grande per loro, risultò che erano sposati.

La coppia bambina passò i primi tre anni di matrimonio in casa del padre della sposa, un vedovo, vecchissimo, che si impegnò a fare testamento in loro favore in cambio di cure e di preghiere.

Quando il vecchio morì avevano circa diciannove anni ed ereditarono pochi metri di terra, insufficienti per mantenere una famiglia, oltre ad alcuni animali domestici che vendettero per affrontare le spese del funerale.

Passava il tempo. L'uomo coltivava la proprietà familiare e lavorava anche su terreni altrui. Vivevano con appena l'indispensabile, l'unica cosa che avevano d'avanzo erano i commenti maligni, che non toccavano lui, ma si accanivano su Dolores Encarnación del Santísimo Sacramento Estupiñán Otavalo.

La donna non rimaneva incinta. Ogni mese il sangue arrivava con odiosa puntualità, e dopo ogni mestruazione aumentava l'isolamento.

«È nata sterile», dicevano alcune vecchie.

«Io le ho visto il primo sangue. C'erano dei girini morti», assicurava un'altra.

«È morta dentro. A che serve una donna così?» commentavano.

Antonio José Bolívar Proaño cercava di consolarla e passavano da un curandero all'altro, provando ogni tipo di erbe e di unguenti della fertilità.

Ma tutto era vano. Mese dopo mese la donna si nascondeva in un angolo della casa per accogliere il flusso del disonore.

Decisero di abbandonare la sierra quando al marito proposero una soluzione che lo fece indignare.

«Può darsi che sia tua la colpa. Devi lasciarla sola alle feste di San Luis.»

Gli proponevano di portarla ai festeggiamenti di giugno, e di obbligarla a partecipare al ballo e alla grande ubriacatura collettiva che ci sarebbe stata appena se ne fosse andato il prete. Allora tutti avrebbero continuato a bere sdraiati sul pavimento della chiesa, finché l'acquavite di canna, il

«puro» uscito generoso dai torchi, non avesse creato una confusione di corpi protetta dall'oscurità.

Antonio José Bolívar Proaño rifiutò la possibilità di essere padre del figlio di una baldoria. Aveva sentito parlare di un piano di colonizzazione dell'Amazzonia. Il Governo prometteva grandi estensioni di terreno e aiuto tecnico a chi era disposto a popolare dei territori disputati al Perù. Forse un cambiamento di clima avrebbe guarito l'anormalità di cui uno dei due era vittima.

Poco prima delle festività di San Luis raccolsero i loro pochi averi, chiusero la casa e si misero in viaggio.

Impiegarono due settimane per arrivare fino al porto fluviale di El Dorado. Fecero alcuni tratti in corriera, altri in camion, altri semplicemente a piedi, attraversando città dagli strani costumi, come Zamora o Loja, dove gli indios saragurus insistono a vestire di nero, perpetuando il lutto per la morte di Atahualpa.

Dopo un'altra settimana di viaggio, questa volta in canoa, con le membra irrigidite per la mancanza di movimento, arrivarono a un'ansa del fiume.

L'unica costruzione era un'enorme capanna di lamiere zincate che faceva da ufficio, da magazzino delle sementi, da ferramenta, e anche da abitazione per i coloni appena arrivati. Era El Idilio.

Lì, dopo alcune brevi pratiche, consegnarono loro un documento pomposamente timbrato che li qualificava come coloni. Assegnarono loro due ettari di foresta, un paio di machete, delle vanghe, dei sacchi di sementi divorate dalla calandra, e la promessa di un appoggio tecnico che non sarebbe mai arrivato.

La coppia si dedicò al compito di costruire precariamente una capanna, e subito dopo si lanciò a disboscare il terreno. Lavorando dall'alba al tramonto sradicavano un albero, delle liane, degli arbusti, e all'alba del giorno successivo li vedevano rispuntare con vigore vendicativo.

Quando arrivò la prima stagione delle piogge, finirono le provviste e non seppero più che fare. Alcuni coloni avevano delle armi, vecchi fucili da caccia, ma gli animali della selva erano veloci e astuti. Perfino i pesci del fiume sembravano beffarli saltando sotto il loro naso senza lasciarsi prendere.

Isolati dalle piogge, da quegli uragani che non conoscevano, si consumavano nella disperazione di sapersi condannati a sperare in un miracolo, e contemplavano l'incessante crescita del fiume che al suo passaggio trascinava tronchi e animali gonfi.

Cominciarono a morire i primi coloni. Alcuni per avere mangiato frutti sconosciuti, altri attaccati da febbri rapide e fulminanti, altri ancora scomparivano nella lunga pancia di un boa rompiossa che li avvolgeva, li triturava, e poi li inghiottiva con un prolungato e orrendo processo di ingestione.

Si sentivano perduti: in sterile lotta con la pioggia che a ogni assalto minacciava di portarsi via la capanna, con le zanzare che in ogni pausa dell'acquazzone attaccavano con ferocia implacabile, impadronendosi di tutto il corpo, mordendo, succhiando, lasciando pinzature ardenti e larve sotto la pelle, che poco dopo avrebbero cercato la luce lasciando ferite infette nel loro cammino verso la libertà verde, e infine con gli animali affamati che vagavano nella selva popolandola di suoni agghiaccianti che impedivano il sonno. Finché la salvezza venne loro con la comparsa di alcuni uomini seminudi, dal volto dipinto di rosso con polpa di bissa e monili multicolori sul capo e sulle braccia.

Erano gli shuar che, impietositi, si avvicinavano per dare una mano.

Da loro impararono a cacciare, a pescare, a innalzare capanne stabili e resistenti agli uragani, a riconoscere i frutti commestibili e quelli velenosi, ma soprattutto, da loro impararono l'arte di convivere con la foresta.

Passata la stagione delle piogge, gli shuar li aiutarono a disboscare alcune pendici, avvertendoli però che sarebbe stato tutto vano.

Nonostante le parole degli indigeni, piantarono le prime sementi, ma presto capirono che la terra era sfibrata. Le piogge continue la lavavano a tal punto, che le piante non trovavano sufficiente alimento e morivano senza fiorire, di debolezza, o divorate dagli insetti.

Quando arrivò la successiva stagione delle piogge, i campi così duramente lavorati scivolarono a valle al primo acquazzone.

Dolores Encarnación del Santísimo Sacramento Estupiñán Otavalo non riuscì a resistere al secondo anno e se ne andò in preda a febbri altissime, consumata fino alle ossa dalla malaria.

Antonio José Bolívar Proaño sapeva di non poter tornare al villaggio sulla sierra. I poveri perdonano tutto, meno il fallimento.

Era obbligato a fermarsi, a rimanere lì in compagnia appena di qualche ricordo. Voleva vendicarsi di quella regione maledetta, di quell'inferno verde che gli aveva strappato l'amore e le speranze. Sognava un gran fuoco che trasformasse tutta quanta l'Amazzonia in una pira.

E nella sua impotenza scoprì che non conosceva abbastanza bene la foresta da poterla odiare.

Imparò la lingua degli shuar andando a caccia con loro. Inseguivano tapiri, roditori, capibara, saínos - piccoli cinghiali dalle carni saporitissime

-, scimmie, uccelli e rettili. Imparò a servirsi della cerbottana, silenziosa ed efficace nella caccia, e della lancia per i veloci pesci.

Con loro abbandonò i suoi pudori di contadino cattolico. Girava seminudo ed evitava il contatto coi nuovi coloni, che lo guardavano come fosse un idiota.

Antonio José Bolívar Proaño non pensò mai alla parola libertà, ma la godeva a suo piacimento nella foresta. Per quanto cercasse di far rivivere il suo progetto di odio, continuava a sentirsi bene in quel mondo, finché pian piano dimenticò, sedotto da quei luoghi senza confini né padroni.

Mangiava quando aveva fame. Sceglieva i frutti più saporiti, rifiutava di prendere certi pesci perché gli sembravano lenti, seguiva le tracce di un animale selvatico e quando l'aveva a tiro di cerbottana il suo appetito cambiava idea.

Al cader della notte, se desiderava stare solo si sdraiava sotto una canoa, se invece aveva bisogno di compagnia cercava gli shuar.

Loro lo accoglievano compiaciuti. Dividevano con lui il loro cibo, i loro sigari fatti di foglie, e chiacchieravano per lunghe ore sputando a profusione intorno all'eterno fuoco a tre pali.

«Come siamo?» gli chiedevano.

«Simpatici come un branco di scimmie, chiacchieroni come dei pappagalli ubriachi e strilloni come dei diavoli.»

Gli shuar accoglievano i paragoni con grasse risate, scoreggiando rumorosamente per la contentezza.

«Là da dove vieni tu, come è?»

«Freddo. La mattina e la sera si gela. Bisogna usare dei poncho lunghi, di lana, e cappelli.»

«Ecco perché puzzate. Cacando insudiciate il poncho.»

«No. Be', a volte succede. Ma il fatto è che con il freddo non possiamo fare il bagno quando vogliamo, come voi.»

«Anche le vostre scimmie portano il poncho?»

«Non ci sono scimmie sulla sierra. E nemmeno cinghiali. La gente della sierra non va a caccia.»

«E allora che cosa mangiate?»

«Quello che c'è. Patate, mais. A volte un maiale o una gallina, per le feste. O un porcellino d'India nei giorni di mercato.»

«E che fate, se non andate a caccia?»

«Lavoriamo. Da quando si alza il sole a quando va giù.»

«Che stupidi!» sentenziavano gli shuar.

Dopo cinque anni che era lì seppe che non avrebbe più lasciato quei luoghi. Un giorno, denti acuminati si incaricarono di trasmettergli il messaggio.

Dagli shuar imparò a muoversi nella foresta appoggiando tutto il piede, con gli occhi e le orecchie attenti a ogni sussurro, senza smettere un solo istante di far oscillare il machete. Ma una volta, in un attimo di distrazione, lo conficcò nel terreno per sistemarsi meglio il carico di frutta, e quando fece per riprenderlo in mano sentì i denti acuminati e brucianti di una ix, un serpente velenoso, che gli si piantavano nel polso destro.

Riusci a vedere il rettile, lungo un metro, che si allontanava, tracciando delle x sul terreno - da lì il nome -, e agì rapidamente. Saltò, brandendo il machete nella mano ferita, e lo fece a pezzi, finché la nube di veleno non gli oscurò gli occhi.

A tentoni cercò la testa del serpente, e sentendo che la vita gli sfuggiva, si avviò verso un villaggio shuar.

Gli indigeni lo videro arrivare barcollando. Non riusciva più a parlare perché la lingua, gli arti, tutto quanto il corpo si era gonfiato smisuratamente. Sembrava sul punto di esplodere, ma prima di perdere conoscenza riuscì a mostrare loro la testa del rettile.

Si risvegliò dopo vari giorni con il corpo ancora gonfio, rabbrividendo dalla testa ai piedi quando la febbre lo abbandonava.

Uno stregone shuar gli restituì la salute grazie a una cura complessa e prolungata.

Pozioni di erbe mitigarono la potenza del veleno. Bagni di cenere fredda attenuarono le febbri e gli incubi. E una dieta di cervelli, fegati e rognoni di scimmia gli permise di tornare a camminare nel giro di tre settimane.

Durante la convalescenza gli proibirono di allontanarsi dal villaggio, e le donne si mostrarono inflessibili con il trattamento per depurare il corpo.

«Hai ancora veleno dentro. Devi buttarlo fuori quasi tutto lasciando solo la dose che ti difenderà da nuovi morsi.»

Non gli davano tregua, continuavano a propinargli frutti succosi, tisane di erbe e altre pozioni fino a farlo orinare anche se non voleva.

Quando lo videro completamente ristabilito, gli shuar gli si avvicinarono con dei doni. Una nuova cerbottana, una serie di frecce, una collana di perle di fiume, un nastro per capelli con piume di tucano, e lo applaudirono fino a fargli capire che aveva superato una prova di accettazione determinata dal capriccio di divinità giocherellone, divinità minori, spesso nascoste tra gli scarafaggi, o tra le lucciole, quando vogliono confondere gli uomini e si vestono da stelle per indicare false radure nella selva.

Senza smettere di rendergli omaggio, gli dipinsero il corpo con i colori cangianti del boa e gli chiesero di danzare con loro.

Era uno dei rari sopravvissuti a un morso di ix, e questo andava celebrato con la Festa del Serpente.

Alla fine dei festeggiamenti bevve per la prima volta la natema, il dolce liquore allucinogeno preparato facendo bollire le radici della yahuasca, e nel sogno che seguì si vide parte innegabile di quei luoghi in perpetuo cambiamento, uno dei tanti peli di quell'infinito corpo verde, si accorse di pensare e sentire come uno shuar, e improvvisamente si scoprì vestito come un cacciatore esperto, intento a seguire le impronte di un animale inesplicabile, senza forma né dimensioni, senza odore né suoni, ma dotato di due brillanti occhi gialli.

Fu un segnale che gli ordinò di restare, e lui obbedì.

In seguito scelse un compagno, Nushiño, uno shuar venuto come lui da lontano, tanto che la descrizione del suo luogo di origine si perdeva tra gli affluenti del Gran Marañón. Nushiño era arrivato un giorno con una ferita di pallottola alla schiena, ricordo di una spedizione civilizzatrice di militari peruviani. Giunse svenuto e quasi dissanguato, dopo penosi giorni di navigazione alla deriva.

Gli shuar di Shumbi lo curarono, e una volta guarito, gli concessero di restare, perché la fratellanza di sangue lo permetteva.

Insieme vagavano nel folto della foresta. Nushiño era forte. Aveva vita stretta e spalle larghe, nuotava sfidando i delfini di fiume, ed era sempre di ottimo umore.

Li vedevano seguire insieme le tracce di qualche grossa preda, meditando sul colore degli escrementi lasciati dall'animale, e quando erano sicuri di averla in pugno, Antonio José Bolívar aspettava in una radura della foresta, mentre Nushiño la faceva uscire dal folto della vegetazione costringendola ad andare incontro al dardo avvelenato.

A volte cacciavano qualche cinghialetto per i coloni, e il denaro che ricevevano come ricompensa serviva solo per essere scambiato con un machete nuovo o con un sacco di sale.

Quando non cacciava insieme al suo compagno Nushiño, si dedicava a catturare serpenti velenosi.

Sapeva girare intorno al rettile fischiando in un tono acuto che lo disorientava, in modo da avvicinarsi e averlo faccia a faccia. Lì imitava con il braccio i movimenti del serpente, fino a confonderlo ed effettuare egli stesso i movimenti che il rettile ripeteva, ipnotizzato. Allora l'altro braccio agiva con sicurezza. La mano prendeva per il collo il serpente sorpreso e l'obbligava a liberarsi da ogni goccia di veleno affondando i denti sul bordo di una zucca vuota.

Caduta l'ultima goccia, il rettile allentava le spire, senza più la forza di continuare a odiare, o forse conscio che il suo odio era ormai vano, e Antonio José Bolívar lo gettava con disprezzo tra il fogliame.

Pagavano bene per il veleno. Ogni sei mesi compariva il rappresentante di un laboratorio che preparava siero antiofidico a comprare le boccette mortali.

A volte il serpente si rivelava più rapido di lui, ma non gli importava.

Sapeva che si sarebbe gonfiato come un rospo e che avrebbe delirato qualche giorno per la febbre, ma poi sarebbe venuto il momento della rivincita. Era immune, e si divertiva a vantarsi tra i coloni mostrando le braccia coperte di cicatrici.

La vita nella foresta temprò ogni più piccola parte del suo corpo.

Acquistò muscoli felini che con il passare degli anni diventarono asciutti come nervi. Conosceva la foresta bene quanto uno shuar. Nuotava bene come uno shuar. In definitiva era come uno di loro, ma non era uno di loro.

Così ogni tanto doveva andarsene, perché - gli spiegavano - era un bene che non fosse uno di loro. Desideravano vederlo, averlo accanto, ma volevano anche sentire la sua mancanza, la tristezza di non potergli parlare, e il salto di gioia che il cuore faceva loro in petto quando lo vedevano ricomparire.

La stagione delle piogge e quella della bonaccia si succedevano.

Stagione dopo stagione conobbe i riti e i segreti di quel popolo. Partecipò al quotidiano omaggio alle teste rimpicciolite dei nemici morti, con dignità, da guerrieri, intonando assieme ai suoi anfitrioni gli anents, i poemi cantati, espressione di gratitudine per il coraggio trasmesso e del desiderio di una pace duratura.

Fu invitato al generoso festino offerto dai vecchi quando decidevano che era arrivata l'ora di «andarsene», e dopo che si erano addormentati sotto gli effetti allucinogeni della chicha e della natema, in mezzo a visioni felici che aprivano loro la porta di esistenze future già delineate, aiutò a portarli fino a una capanna lontana e a coprire i loro corpi con un dolcissimo miele di palma.

Il giorno successivo, intonando anents di saluto a quelle nuove vite, ora sotto forma di pesci, farfalle o animali saggi, prese parte alla raccolta delle ossa bianche, perfettamente pulite, i resti inutili degli anziani trasportati verso le altre vite dalle mandibole implacabili delle formiche añango.

Durante la sua vita tra gli shuar non ebbe bisogno dei romanzi per conoscere l'amore.

Non era uno di loro, e pertanto non poteva avere mogli. Ma era come uno di loro, e quindi lo shuar anfitrione, durante la stagione delle piogge, lo pregava di accettare una delle sue spose per maggiore orgoglio della sua casta e della sua casa.

La donna offertagli lo conduceva fino alla riva del fiume. Lì, intonando anents, lo lavava, lo adornava e lo profumava, per poi tornare alla capanna ad amoreggiare su una stuoia, coi piedi in alto, riscaldati dolcemente da un fuoco, senza mai smettere di intonare anents, poemi nasali che descrivevano la bellezza dei loro corpi e la gioia del piacere, aumentato infinitamente dalla magia della descrizione.

Era amore puro, senza altro fine che l'amore stesso. Senza possesso e senza gelosia.

«Nessuno riesce a legare un tuono, e nessuno riesce ad appropriarsi dei cieli dell'altro nel momento dell'abbandono.»

Così gli spiegò una volta il suo compagno Nushiño.

Vedendo passare il fiume Nangaritza si sarebbe potuto pensare che il tempo schivasse quell'angolo amazzonico, ma gli uccelli sapevano che da occidente avanzavano lingue potenti frugando nel corpo della selva.

Macchine enormi aprivano nuove strade e gli shuar aumentarono la loro mobilità. Non si fermavano più i tre anni abituali nello stesso luogo, per poi spostarsi e permettere il recupero della natura. A ogni cambio di stagione si caricavano sulle spalle le capanne e le ossa dei loro morti e si allontanavano dagli estranei che venivano a occupare le rive del Nangaritza.

Giungevano altri coloni, questa volta richiamati da promesse di sviluppo legate al legname e all'allevamento del bestiame. Con loro arrivava anche l'alcool privo di rituale, e quindi la degenerazione dei più deboli. Ma soprattutto aumentava la peste dei cercatori d'oro, individui senza scrupoli venuti da tutti i confini con il solo scopo di arricchirsi rapidamente.

Gli shuar si spostavano verso oriente cercando l'intimità delle foreste impenetrabili.

Una mattina, sbagliando un tiro di cerbottana, Antonio José Bolívar scoprì che invecchiava. Era arrivato anche per lui il momento di andarsene.

Prese la decisione di installarsi a El Idilio e vivere di caccia. Sapeva di non essere capace di decidere l'istante della propria morte e di lasciarsi divorare dalle formiche. E poi, se anche vi fosse riuscito, sarebbe stata una cerimonia triste.

Era come loro, ma non era uno di loro, e non avrebbe avuto né una festa né un distacco allucinato.

Un giorno, mentre si dedicava alla costruzione di una canoa resistente, duratura, sentì un boato provenire da un braccio del fiume, il segnale che avrebbe dovuto affrettare precipitosamente la sua partenza.

Corse nel luogo dell'esplosione e trovò alcuni shuar piangenti. Gli indicarono una grande quantità di pesci morti sulla superficie dell'acqua e un gruppo di sconosciuti che dalla riva puntava su di loro delle armi da fuoco.

Erano cinque avventurieri, che per aprire una via alla corrente, avevano fatto saltare con la dinamite la diga di contenimento dove deponevano le uova i pesci.

Accadde tutto molto rapidamente. I bianchi, nervosi per l'arrivo di altri shuar, spararono colpendo due indigeni e si dettero alla fuga sulla loro imbarcazione.

Seppe subito che i bianchi erano perduti. Gli shuar presero una scorciatoia: aspettarono gli avventurieri a un passaggio stretto, dove furono facile preda dei dardi avvelenati. Uno di loro, però, nuotò fino alla riva opposta e si perse nel folto degli alberi.

Soltanto allora si preoccupò degli shuar caduti.

Uno era morto con il capo dilaniato dallo sparo a breve distanza, e l'altro agonizzava con il petto squarciato. Era il suo compagno Nushiño.

«Che brutto modo per morire», mormorò con una smorfia di dolore Nushiño, e con la mano tremante gli indicò la sua zucca di curaro.

«Non potrò andarmene tranquillo, compagno. Finché la sua testa non sarà appesa a un ramo secco, mi aggirerò come un povero uccello cieco che sbatte contro gli alberi. Aiutami, compagno.»

Gli shuar lo circondarono. Lui conosceva le abitudini dei bianchi, e le deboli parole di Nushiño gli dicevano che era arrivato il momento di pagare il debito contratto quando lo avevano salvato dal morso del serpente.

Gli parve giusto pagare quel debito, e armato di una cerbottana attraversò a nuoto il fiume, lanciandosi per la prima volta a caccia di un uomo.

Non fece fatica a scoprirne le tracce. Il cercatore d'oro, nella sua disperazione, lasciava impronte così chiare che non ebbe nemmeno bisogno di cercarle.

Dopo pochi minuti lo trovò atterrito davanti a un boa addormentato.

«Perché l'avete fatto? Perché avete sparato?»

L'uomo gli puntò contro il suo fucile da caccia.

«I jíbaros. Dove sono i jíbaros

«Sull'altra riva. Non ti inseguono più.»

Sollevato, il cercatore d'oro abbassò l'arma e lui ne approfittò per colpirlo con la cerbottana.

Lo prese male. Il cercatore d'oro vacillò, ma non cadde, e non ebbe altra scelta che gettarglisi addosso.

Era un uomo forte, ma alla fine, dopo una lunga lotta, riuscì a strappargli il fucile.

Non aveva mai toccato un'arma da fuoco, ma vedendo che l'uomo afferrava il machete intuì il punto esatto in cui doveva mettere il dito, e la detonazione provocò uno svolazzare di uccelli spaventati.

Stupito dalla potenza dello sparo, si avvicinò all'uomo. Aveva ricevuto i due colpi in pieno ventre e si rotolava per il dolore. Senza fare caso alle sue grida, lo legò per le caviglie e lo trascinò fino alla riva del fiume.

Mentre dava le prime bracciate, si accorse che il poveretto era ormai morto.

Sulla riva opposta lo aspettavano gli shuar. Si affrettarono ad aiutarlo a uscire dal fiume, ma vedendo il cadavere del cercatore d'oro proruppero in un pianto sconsolato, che lui non riuscì a capire.

Non piangevano per l'estraneo. Piangevano per lui e per Nushiño.

Lui non era uno di loro, ma era come uno di loro. Di conseguenza avrebbe dovuto ucciderlo con una freccia avvelenata, dandogli prima la possibilità di lottare con coraggio; così, quando il curaro lo avesse paralizzato, tutto il suo valore sarebbe rimasto nella sua espressione, bloccato per sempre nella sua testa rimpicciolita, con le palpebre, le narici e la bocca cucite strette perché non scappasse.

Come ridurre quella testa, quella vita arrestata in una smorfia di spavento e di dolore?

Per colpa sua Nushiño non avrebbe potuto andarsene. Nushiño sarebbe rimasto, come un pappagallo cieco, a sbattere contro gli alberi, a urtare contro i corpi di chi non lo aveva conosciuto guadagnandosi il loro odio, a molestare il sonno dei boa addormentati, a far fuggire le prede ai cacciatori svolazzando senza meta.

Non solo si era disonorato, ma era responsabile della sventura eterna del suo compagno.

Senza smettere di piangere, gli consegnarono la migliore canoa. Senza smettere di piangere lo abbracciarono, gli dettero delle provviste e gli dissero che da quel momento non era più il benvenuto. Poteva passare dai villaggi shuar, ma non aveva diritto a fermarsi.

Gli shuar spinsero la canoa nell'acqua e subito cancellarono le sue impronte dalla riva.