Luigi Pirandello

Quaderni di Serafino Gubbio operatore

Quaderno primo

I

Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch'io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno. In prima, sì, mi sembra che molti l'abbiano, dal modo come tra loro si guardano e si salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o ai loro capricci. Ma poi, se mi fermo a guardarli un po' addentro negli occhi con questi miei occhi intenti e silenziosi, ecco che subito s'aombrano. Taluni anzi si smarriscono in una perplessità così inquieta, che se per poco io seguitassi a scrutarli, m'ingiurierebbero o m'aggredirebbero. No, via, tranquilli. Mi basta questo: sapere, signori, che non è chiaro né certo neanche a voi neppur quel poco che vi viene a mano a mano determinato dalle consuetissime condizioni in cui vivete. C'è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo. Ma appena appena quest'oltre baleni negli occhi d'un ozioso come me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi turbate o irritate. Conosco anch'io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e così; questo e quest'altro da fare; correre qua, con l'orologio alla mano, per essere in tempo là. - No, caro, grazie: non posso! - Ah sì, davvero? Beato te! Debbo scappare... - Alle undici, la colazione. - Il giornale, la borsa, l'ufficio, la scuola... - Bel tempo, peccato! Ma gli affari... - Chi passa? Ah, un carro funebre... Un saluto, di corsa, a chi se n'è andato. - La bottega, la fabbrica, il tribunale... Nessuno ha tempo o modo d'arrestarsi un momento a considerare, se quel che vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopra tutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta vertigine è gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non ci è più possibile raccoglierci un minuto a pensare. Con una mano ci teniamo la testa, con l'altra facciamo un gesto da ubriachi. - Svaghiamoci! Sì. Più faticosi e complicati del lavoro troviamo gli svaghi che ci si offrono; sicché dal riposo non otteniamo altro che un accrescimento di stanchezza. Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che portano in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si dànno, ne ascolto i discorsi, i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile credere alla realtà di quanto vedo e sento, che non potendo d'altra parte credere che tutti facciano per ischerzo, mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si còmplica e s'accèlera, non abbia ridotto l'umanità in tale stato di follia, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin de' conti, tanto di guadagnato. Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo. Qua da noi non siamo ancora arrivati ad assisteRe allo spettacolo, che dicono frequente in America, di uomini che a mezzo d'una qualche faccenda, fra il tumulto della vita, traboccano giù, fulminati. Ma forse, Dio ajutando, ci arriveremo presto. So che tante cose si preparano. Ah, si lavora! E io - modestamente - sono uno degli impiegati a questi lavori per lo svago. Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo io cui vivo e di cui vivo, non vuol mica dire operare. Io non opero nulla. Ecco qua. Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta. Uno o due apparatori, secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o su la piattaforma con una lunga pertica e un lapis turchino i limiti entro i quali gli attori debbono muoversi per tenere in fuoco la scena. Questo si chiama segnare il campo. Lo segnano gli altri; non io: io non faccio altro che prestare i miei occhi alla macchinetta perché possa indicare fin dove arriva a prendere. Apparecchiata la scena, il direttore vi dispone gli attori e suggerisce loro l'azione da svolgere. Io domando al direttore: - Quanti metri? Il direttore, secondo la lunghezza della scena, mi dice approssimativamente il numero dei metri di pellicola che abbisognano, poi grida agli attori: - Attenti, si gira! E io mi metto a girar la manovella. Potrei farmi l'illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli attori, press'a poco come un sonatore d'organetto fa la sonata girando il manubrio. Ma non mi faccio né questa né altra illusione, e séguito a girare finché la scena non è compiuta; poi guardo nella macchinetta e annunzio al direttore: - Diciotto metri, - oppure: - trentacinque. E tutto è qui. Un signore, venuto a curiosare, una volta mi domandò: - Scusi, non si è trovato ancor modo di far girare la macchinetta da sé? Vedo ancora la faccia di questo signore: gracile, pallida, con radi capelli biondi; occhi cilestri, arguti, barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale si nascondeva un sorrisetto, che voleva parer timido e cortese, ma era malizioso. Perché con quella domanda voleva dirmi: - Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la manovella. Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste esser soppresso, sostituito da un qualche meccanismo? Sorrisi e risposi: - Forse col tempo, signore. A dir vero, la qualità precipua che si richiede in uno che faccia la mia professione è l'impassibilità di fronte all'azione che si svolge davanti alla macchina. Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe senza dubbio più adatto e da preferire a un uomo. Ma la difficoltà più grave, per ora, è questa: trovare un meccanismo, che possa regolare il movimento secondo l'azione che si svolge davanti alla macchina. Giacché io, caro signore, non giro sempre allo stesso modo la manovella, ma ora più presto ora più piano, secondo il bisogno. Non dubito però, che col tempo - sissignore - si arriverà a sopprimermi. La macchinetta - anche questa macchinetta, come tante altre macchinette - girerà da sé. Ma che cosa poi farà l'uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere.

II

Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella. Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto! L'uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s'è messo a fabbricar di ferro, d'acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse. Viva la Macchina che meccanizza la vita! Vi resta ancora, o signori, un po' d'anima, un po' di cuore e di mente? Date, date qua alle macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che prodotto di deliziose stupidità ne sapranno cavare. Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto? È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni. La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l'anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d'uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli sù, uno su l'altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Ma che stelle, no, signori! Non ci credete. Neppure all'altezza d'un palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li ròtola giù, e tal altro ingombro, non più dentro ma fuori, ce ne fa, che - Dio, vedete quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline? - non sappiamo più dove mettere i piedi, come muovere un passo. Ecco le produzioni dell'anima nostra, le scatolette della nostra vita! Che volete farci? Io sono qua. Servo la mia macchinetta, in quanto la giro perché possa mangiare. Ma l'anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve alla macchina. L'anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi signori, alla macchinetta ch'io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io. Già i miei occhi, e anche le mie orecchie, per la lunga abitudine, cominciano a vedere e a sentir tutto sotto la specie di questa rapida tremula ticchettante riproduzione meccanica. Non dico di no: l'apparenza è lieve e vivace. Si va, si vola. E il vento della corsa dà un'ansia vigile ilare acuta, e si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avanti perché non s'abbia tempo né modo d'avvertire il peso della tristezza, l'avvilimento della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori, è un balenìo continuo, uno sbarbàglio incessante: tutto guizza e scompare. Che cos'è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è passata. C'è una molestia, però, che non passa. La sentite? Un calabrone che ronza sempre, cupo, fosco, brusco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzìo dei pali telegrafici? lo striscìo continuo della carrùcola lungo il filo dei tram elettrici? il fremito incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello del motore dell'automobile? quello dell'apparecchio cinematografico? Il bàttito del cuore non s'avverte, non s'avverte il pulsar delle arterie. Guaj, se s'avvertisse! Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice che non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d'immagini; ma che c'è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo precipitosamente. Si spezzerà? Ah, non bisogna fissarci l'udito. Darebbe una smania di punto in punto crescente, un'esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire. In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramenìo vertiginoso, che investe e travolge, bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo per attimo, questo rapido passaggio d'aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzìo per ciascuno di noi non cesserà.

III

Non posso levarmi dalla mente l'uomo incontrato un anno fa, la sera stessa che arrivai a Roma. Di novembre, sera rigidissima. M'aggiravo in cerca d'un modesto alloggio, non per me, uso a passar le notti all'aperto, amico delle nottole e delle stelle, quanto per la mia valigetta, ch'era tutta la mia casa, lasciata in deposito alla stazione; allorché m'imbattei per caso in un mio amico di Sassari, da molto tempo perduto di vista: Simone Pau, uomo di costumi singolarissimi e spregiudicati. Udite le mie misere condizioni, egli mi propose d'andare a dormire per quella sera nel suo albergo. Accettai, e ci avviammo a piedi per le vie quasi deserte. Cammin facendo, gli parlavo delle mie molte disgrazie e delle scarse speranze che m'avevano condotto a Roma. Simone Pau alzava di tratto in tratto la testa scoperta, su cui i lunghi capelli grigi, lisci, sono spartiti in mezzo da una scriminatura alla nazzarena, ma a zig-zag, perché fatta con le dita, in mancanza di pettine. Questi capelli, poi, tirati di qua e di là dietro gli orecchi, gli formano una curiosa zazzeretta rada, ineguale. Cacciava via una grossa boccata di fumo e restava un pezzo, ascoltandomi, con l'enorme bocca tumida aperta, come quella di un'antica maschera comica. Gli occhi sorcigni, furbi, vivi vivi, gli guizzavano intanto qua e là come presi in trappola nella faccia larga rude, massiccia, da villano feroce e ingenuo. Credevo rimanesse in quell'atteggiamento, con la bocca aperta, per ridere di me, delle mie disgrazie e delle mie speranze. Ma, a un certo punto, lo vidi fermare in mezzo alla via vegliata lugubremente dai fanali e gli sentii dir forte nel silenzio della notte: - Scusa, e come so io del monte, dell'albero, del mare? Il monte è monte, perché io dico: Quello è un monte. Il che significa: io sono il monte. Che siamo noi? Siamo quello di cui a volta a volta ci accorgiamo. Io sono il monte, io l'albero, io il mare. Io sono anche la stella, che ignora se stessa! Restai sbalordito. Ma per poco. Ho anch'io - inestirpabilmente radicata nel più profondo del mio essere - la stessa malattia dell'amico mio. La quale, a mio credere, dimostra nel modo più chiaro, che tutto quello che avviene, forse avviene perché la terra non è fatta tanto per gli uomini, quanto per le bestie. Perché le bestie hanno in sé da natura solo quel tanto che loro basta ed è necessario per vivere nelle condizioni, a cui furono, ciascuna secondo la propria specie, ordinate; laddove gli uomini hanno in sé un superfluo, che di continuo inutilmente li tormenta, non facendoli mai paghi di nessuna condizione e sempre lasciandoli incerti del loro destino. Superfluo inesplicabile, chi per darsi uno sfogo crea nella natura un mondo fittizio, che ha senso e valore soltanto per essi, ma di cui pur essi medesimi non sanno e non possono mai contentarsi, cosicché senza posa smaniosamente lo mutano e rimutano, come quello che, essendo da loro stessi costruito per il bisogno di spiegare e sfogare un'attività di cui non si vede né il fine né la ragione, accresce e còmplica sempre più il loro tormento, allontanandoli da quelle semplici condizioni poste da natura alla vita su la terra, alle quali soltanto i bruti sanno restar fedeli e obbedienti. L'amico Simone Pau è convinto in buona fede di valere molto più d'un bruto, perché il bruto non sa e si contenta di ripeter sempre le stesse operazioni. Sono anch'io convinto ch'egli valga molto più d'un bruto, ma non per queste ragioni. Che giova all'uomo non contentarsi di ripeter sempre le stesse operazioni? Già, quelle che sono fondamentali e indispensabili alla vita, deve pur compierle e ripeterle anch'egli quotidianamente, come i bruti, se non vuol morire. Tutte le altre, mutate e rimutate di continuo smaniosamente, è assai difficile non gli si scoprano, presto o tardi, illusioni o vanità, frutto come sono di quel tal superfluo, di cui non si vede su la terra né il fine né la ragione. E chi ha detto al mio amico Simone Pau, che il bruto non sa? Sa quello che gli è necessario e non s'impaccia d'altro, perché il bruto non ha in sé alcun superfluo. L'uomo che l'ha, appunto perché l'ha, si pone il tormento di certi problemi, destinati su la terra a rimanere insolubili. Ed ecco in che consiste la sua superiorità! Forse quel tormento è segno e prova (speriamo, non anche caparra!) di un'altra vita oltre la terrena; ma, stando così le cose su la terra, mi par proprio d'aver ragione quando dico ch'essa è fatta più pe' bruti che per gli uomini. Non vorrei esser frainteso. Intendo dire, che su la terra l'uomo è destinato a star male, perché ha in sé più di quanto basta per starci bene, cioè in pace e pago. E che sia veramente un di più, per la terra, questo che l'uomo ha in sé (e per cui è uomo e non bruto), lo dimostra il fatto, ch'esso - questo di più - non riesce a quietarsi mai in nulla, né di nulla ad appagarsi quaggiù, tanto che cerca e chiede altrove, oltre la vita terrena, il perché e il compenso del suo tormento. Tanto peggio poi l'uomo vi sta, quanto più vuole impiegare su la terra stessa in smaniose costruzioni e complicazioni il suo superfluo. Lo so io, che giro una manovella. Quanto al mio amico Simone Pau, il bello è questo: che crede d'essersi liberato d'ogni superfluo riducendo al minimo tutti i suoi bisogni, privandosi di tutte le comodità e vivendo come un lumacone ignudo. E non s'accorge che, proprio all'opposto, egli, così riducendosi, s'è annegato tutto nel superfluo e più non vive d'altro. Quella sera, appena giunto a Roma, io ancora non lo sapevo. Lo conoscevo, ripeto, di costumi singolarissimi e spregiudicati, ma non avrei potuto mai immaginare che la singolarità sua e la sua spregiudicatezza arrivassero fino al punto che dirò.

IV

Pervenuti in fondo al Corso Vittorio Emanuele, passammo il ponte. Ricordo che mirai quasi con religioso sgomento la fosca mole rotonda di Castel Sant'Angelo, alta e solenne sotto lo sfavillìo delle stelle. Le grandi architetture umane, nella notte, e le costellazioni del cielo pare che s'intendano tra loro. Nella frescura umida di quell'immenso sfondo notturno, sentii quel mio sgomento sobbalzare, guizzare come per tanti brividi, che forse mi venivano dai riflessi serpentini dei lumi degli altri ponti e delle dighe, nell'acqua nera, misteriosa, del fiume. Ma Simone Pau mi strappò a quell'ammirazione, volgendo prima verso San Pietro, poi scantonando per il Vicolo del Villano. Incerto della via, incerto di tutto, nel vuoto orrore delle vie deserte, piene di strane ombre vacillanti nei radi rivèrberi rossastri dei fanali, a ogni soffio d'aria, sui muri delle vecchie case, pensavo con terrore e con nausea alla gente che dormiva sicura in quelle case e non sapeva com'esse apparissero di fuori a chi errava sperduto per la notte, senza che per lui ce ne fosse una, ove potesse entrare. Di tratto in tratto, Simone Pau crollava il testone e si picchiava il petto con due dita. Oh sì! Il monte era lui, l'albero era lui, il mare era lui; ma l'albergo dov'era? Là, a Borgo Pio? Sì, là vicino: al Vicolo del Falco. Alzai gli occhi; vidi a destra di quel vicolo un casamento tetro con una lanterna sospesa davanti al portone: una grossa lanterna, ove la fiammella del becco sbadigliava a traverso i vetri sudici. Mi fermai davanti a quel portone mezzo chiuso e mezzo aperto, e lessi su l' arco:

OSPIZIO DI MENDICITÀ

- Tu dormi qua? - E ci mangio anche. Ciotole di minestre squisite. In ottima compagnia. Vieni: sono di casa. Difatti, il vecchio portinajo e due altri addetti alla sorveglianza dell'ospizio, raccolti e curvi tutti e tre attorno a un braciere di rame lo accolsero come un ospite consueto, salutandolo coi gesti e con la voce dalla bacheca dell'androne rintronante: - Buona sera, signor Professore. Simone Pau mi prevenne, cupo, con molta serietà, che non mi facessi illusioni perché in quell'albergo non avrei potuto dormire per oltre sei notti di seguito. Mi spiegò, che ogni sei notti bisognava che ne passassi fuori per lo meno una all'aperto, per poi ripigliare la serie. Io, dormire là? Innanzi a quei tre sorveglianti, ascoltai la spiegazione con un sorriso afflitto, che pur mi nuotava lieve lieve su le labbra, come per tenermi l'anima a galla e impedirle di sprofondare nella vergogna di quel basso fondo. Quantunque in misere condizioni e con poche lire in tasca, ero vestito bene, coi guanti alle mani, le ghette ai piedi. Volevo prendere l'avventura, con quel sorriso, come un capriccio bislacco del mio strano amico. Ma Simone Pau se n'irritò: - Non ti par serio? - No, caro, veramente non mi par serio. - Hai ragione, - disse Simone Pau. - Serio veramente serio, sai chi è? è il dottore senza collo, vestito di nero, con grossa barba nera e occhiali a staffa, che nelle piazze addormenta la sonnambula. Io non sono ancora serio fino a questo punto. Puoi ridere, amico Serafino. E seguitò a spiegarmi, che - tutto gratis, lì. D'inverno, nella branda, due lenzuola di bucato solide e fresche come vele di barca, e due grosse coperte di lana; d'estate, le sole lenzuola e una lucchesina per chi la vuole; poi, un accappatojo e un pajo di pantofole di tela con suola di corda, lavabili. - Bada bene, lavabili. - E perché? - Ti spiego. Con quelle pantofole e con quell'accappatojo ti danno una tessera; tu entri in quello spogliatojo là - quella porta là, a destra - ti spogli e consegni gli abiti, scarpe comprese, per la disinfezione, che si fa nei forni, di là. Quindi... ecco, vieni qua, guarda... Vedi questa bella piscina? Sprofondai gli occhi e guardai. Piscina? Era un antro mùffido, angusto e profondo, una specie di cava da ricettarvi majali, tagliata nella pietra viva per lungo, a cui si scendeva per cinque o sei gradini e da cui esalava un puzzo ardente di lavatojo. Un tubo di latta, tutto a forellini gialli di ruggine, vi correva sopra, in mezzo, da un capo all'altro. - Ebbene? - Ti spogli di là; consegni gli abiti... -...scarpe comprese... -...scarpe comprese, per la disinfezione, e t'introduci nudo qua dentro. - Nudo? - Nudo in compagnia d'altri sei o sette nudi. Uno di questi cari amici qua della bacheca apre la chiavetta dell'acqua, e tu, sotto il tubo, zifff... ti prendi gratis, in piedi, una bellissima doccia. Poi t'asciughi magnificamente con l'accappatojo, ti calzi le pantofole di tela, te ne sali zitto zitto in processione con gli altri incappati per la scala; eccola qua; là c'è la porta del dormitorio, e buona notte. - Imprescindibile? - Che? La doccia? Ah, perché tu hai i guanti e le ghette, amico Serafino? Ma te le puoi levare senza vergogna. Ciascuno qua si leva le proprie vergogne d'addosso, e si presenta nudo al battesimo di questa piscina! Non hai il coraggio di scendere fino a queste nudità? Non ce ne fu bisogno. La doccia è obbligatoria solo per i mendicanti sporchi. Simone Pau non l'aveva mai presa. Egli è lì, veramente, professore. Sono annessi a quell'asilo notturno una cucina economica e un ricovero per i ragazzi senza tetto, d'ambo i sessi, figli di mendicanti, figli di carcerati, figli di tutte le colpe. Sono sotto la custodia di alcune suore di carità, che han trovato modo d'istituire per essi anche una scoletta. Simone Pau, quantunque per professione nimicissimo dell'umanità e di qualsiasi insegnamento, dà lezione con molto piacere a quei ragazzi, per due ore al giorno, la mattina per tempo; e i ragazzi gli vogliono un gran bene. Egli ha là, in compenso, alloggio e vitto: cioè una cameretta, tutta per lui, comoda e decente, e un servizio di cucina particolare, insieme con quattro altri insegnanti, che sono un povero vecchietto pensionato dal Governo pontificio e tre zitellone maestre, amiche delle suore e lì ricoverate. Ma Simone Pau lascia il vitto particolare perché a mezzogiorno non è mai all'ospizio, e soltanto la sera, quando gli va, prende qualche ciotola di minestra dalla cucina comune; tiene la cameretta, ma non ne approfitta mai, perché va a dormire nel dormitorio dell'asilo notturno, per la compagnia che vi trova, e a cui ha preso gusto, di esseri obliqui e randagi. Tolte quelle due ore di lezione, passa tutto il tempo nelle biblioteche e nei caffè; ogni tanto, stampa su qualche rassegna di filosofia uno studio che stordisce tutti per la bizzarra novità delle vedute, la stranezza delle argomentazioni e la copia della dottrina; e si rimpannuccia. Io, allora, ripeto, non sapevo tutto questo. Credevo, e forse in parte era vero, ch'egli mi avesse condotto lì per il piacere di sbalordirmi; e poiché non c'è miglior mezzo di sconcertare chi voglia sbalordirvi con paradossi sbardellati o con le più strane e bislacche proposte, che fingere d'accettar quei paradossi come fossero le verità più ovvie e quelle proposte come naturalissime e del caso; così feci io quella sera, per sconcertare il mio amico Simone Pau. Il quale, capito il mio proposito, mi guardò negli occhi e, vedendomeli perfettamente impassibili, esclamò sorridendo: - Come sei imbecille! Mi profferse la sua cameretta; credetti in principio che scherzasse; ma quando m'assicurò che aveva lì veramente una cameretta per sé non volli accettare e andai con lui nel dormitorio dell'asilo. Non me ne pento, perché al disagio e al ribrezzo che provai in quell'orrido luogo ebbi due compensi: 1° quello di trovare il posto, che occupo al presente, o meglio, l'occasione di entrare come operatore nella grande Casa di cinematografia La Kosmograph; 2° quello di conoscere l'uomo, che per me è rimasto il simbolo della sorte miserabile, a cui il continuo progresso condanna l'umanità. Ecco, prima, l'uomo.

V

Me lo mostrò Simone Pau, la mattina appresso, quando ci levammo dalla branda. Non descriverò quello stanzone del dormitorio appestato da tanti fiati, nella squallida luce dell'alba, né l'esodo di quei ricoverati, che scendevano irti e rabbuffati dal sonno nei lunghi càmici bianchi, con le pantofole di tela ai piedi e la tèssera in mano, giù allo spogliatojo, per ritirare a turno i loro panni. Uno era in mezzo a questi, che fra gli sgonfii del bianco accappatojo teneva stretto sotto il braccio un violino, chiuso nella fodera di panno verde, logora, sudicia, stinta, e se n'andava inarcocchiato e tenebroso, come assorto a guardarsi i peli spioventi delle foltissime sopracciglia aggrottate. - Amico! amico! - lo chiamò Simone Pau. Quegli si fece avanti, tenendo il capo chino e sospeso, come se gli pesasse enormemente il naso rosso e carnuto; e pareva dicesse, avanzandosi: "Fate largo! fate largo! Vedete come la vita può ridurre il naso d'un uomo?" Simone Pau gli s'accostò; amorevolmente con una mano gli sollevò il mento; gli batté l'altra su la spalla, per rinfrancarlo, e ripeté: - Amico mio! Poi, rivolgendosi a me: - Serafino - disse, ti presento un grande artista. Gli hanno appiccicato un nomignolo schifoso; ma non importa: è un grande artista. Ammìralo: qua, col suo Dio sotto il braccio! Potrebbe essere una scopa: è un violino. Mi voltai a osservar l'effetto delle parole di Simone Pau sul viso dello sconosciuto. Impassibile. E Simone Pau seguitò: - Un violino, per davvero. E non lo lascia mai. Anche i custodi qua gli concedono di portarselo a letto, a patto che non suoni di notte e non disturbi gli altri ricoverati. Ma non c'è pericolo. Càvalo fuori amico mio, e mostralo a questo signore, che ti saprà compatire. Quegli mi spiò prima con diffidenza; poi, a un nuovo invito di Simone Pau, trasse dalla custodia il vecchio violino, un violino veramente prezioso, e lo mostrò, come un monco vergognoso può mostrare il suo moncherino. Simone Pau riprese, rivolto a me: - Vedi? Te lo mostra. Grande concessione di cui devi ringraziarlo! Suo padre, molti anni or sono, lo lasciò padrone a Perugia di una tipografia ricca di macchine e di caratteri e bene avviata. Di' tu, amico mio, che ne facesti, per consacrarti al culto del tuo Dio? L'uomo rimase a guardare Simone Pau, come se non avesse compreso la domanda. Simone Pau gliela chiarì: - Che ne facesti della tua tipografia? Quegli allora scattò in un gesto di noncuranza sdegnosa. - La trascurò, - disse, per spiegare quel gesto, Simone Pau. - La trascurò fino al punto di ridursi al lastrico. E allora, col suo violino sotto il braccio, se ne venne a Roma. Ora non suona più da un pezzo, perché crede di non poter più sonare dopo quanto gli è accaduto. Ma fino a qualche tempo fa sonava nelle osterie. Nelle osterie si beve; e lui prima sonava poi beveva. Sonava divinamente; più divinamente sonava, e più beveva; così che spesso era costretto a mettere in pegno il suo Dio, il suo violino. E allora si presentava in qualche tipografia per trovar lavoro: metteva insieme a poco a poco quel tanto che gli bisognava per spegnare il violino e ritornava a sonare nelle osterie. Ma senti che cosa gli capitò una volta, per cui... capisci? gli si è un po' alterata la... La... non diciamo ragione, per carità, diciamo concezione della vita. Insacca, insacca, amico mio, il tuo strumento: so che ti fa male, se io lo dico, mentre tu hai il tuo violino scoperto. L'uomo accennò più volte di sì, gravemente, col capo arruffato, e rinfoderò il violino. - Gli capitò questo - seguitò Simone Pau. - Si presenta in una grande officina tipografica, nella quale è proto uno che, da ragazzotto, lavorava nella sua tipografia a Perugia. "Non c'è posto; mi dispiace," gli dice costui. E l'amico mio fa per andarsene, avvilito, quando si sente richiamare. - "Aspetta, - dice. - Se ti adatti, ci sarebbe da fare un servizio... Non sarebbe per te; ma, se tu hai bisogno..." -. Il mio amico si stringe nelle spalle, e segue il proto. È introdotto in un reparto speciale silenzioso; e lì il proto gli mostra una macchina nuova: un pachiderma piatto, nero, basso; una bestiaccia mostruosa, che mangia piombo e caca libri. È una monotype perfezionata, senza complicazioni d'assi, di ruote, di pulegge, senza il ballo strepitoso della matrice. Ti dico una vera bestia, un pachiderma, che si ruguma quieto quieto il suo lungo nastro di carta traforata. "Fa tutto da sé - dice il proto al mio amico. - Tu non hai che a darle da mangiare di tanto in tanto i suoi pani di piombo, e starla a guardare." Il mio amico si sente cascare il fiato e le braccia. Ridursi a un tale ufficio, un uomo, un artista! Peggio d'un mozzo di stalla... Stare a guardia di quella bestiaccia nera, che fa tutto da sé, e che non vuol da lui altro servizio, che d'aver messo in bocca, di tanto in tanto, il suo cibo, quei pani di piombo! Ma questo è niente, Serafino! Avvilito, mortificato, oppresso di vergogna e avvelenato di bile, il mio amico dura una settimana in quella servitù indegna e, porgendo alla bestia quei pani di piombo, sogna la sua liberazione, il suo violino, la sua arte; giura e promette di non ritornare più a sonare nelle osterie, dov'è forte, veramente forte per lui la tentazione di bere, e vuol trovare altri luoghi più degni per l'esercizio della sua arte, per il culto della sua divinità. Sissignori! Appena spegnato il violino, legge negli avvisi d'un giornale, tra le offerte d'impiego, quella d'un cinematografo, in via tale, numero tale, che ha bisogno d'un violino e d'un clarinetto per la sua orchestrina esterna. Subito il mio amico accorre: si presenta, felice, esultante, col suo violino sotto il braccio. Ebbene: si trova davanti un'altra macchina, un pianoforte automatico, un cosidetto piano-melodico. Gli dicono: - "Tu col tuo violino devi accompagnare quello strumento lì". Capisci? Un violino, nelle mani d'un uomo, accompagnare un rotolo di carta traforata introdotto nella pancia di quell'altra macchina lì. L'anima, che muove e guida le mani di quest'uomo, e che or s'abbandona nelle cavate dell'archetto, or freme nelle dita che premono le corde, costretta a seguire il registro di quello strumento automatico! Il mio amico diede in tali escandescenze, che dovettero accorrere le guardie, e fu tratto in arresto e condannato per oltraggio alla forza pubblica a quindici giorni di carcere. Ne è uscito, come lo vedi. Beve, e non suona più.

VI

Tutte le considerazioni da me fatte in principio sulla mia sorte miserabile e su quella di tanti altri condannati come me a non esser altro che una mano che gira una manovella, hanno per punto di partenza quest'uomo incontrato la prima sera del mio arrivo a Roma. Certamente ho potuto farle, perché anch'io mi sono ridotto a quest'ufficio di servitore d'una macchina; ma son venute dopo. Lo dico, perché quest'uomo, presentato qui, dopo quelle considerazioni, potrebbe parere a qualcuno una mia grottesca invenzione. Ma si badi ch'io forse non avrei mai pensato di fare quelle considerazioni, se in parte non me le avesse suggerite Simone Pau nel presentarmi quel disgraziato; e che, del resto, grottesca è tutta la mia prima avventura, e tale perché grottesco è, e vuol essere, quasi per professione, Simone Pau, il quale, per darmene un saggio fin dalla prima sera, volle condurmi a dormire in un ospizio di mendicità. Io non feci allora nessunissima considerazione; prima, perché non potevo pensare neppur lontanamente che mi sarei ridotto a quest'ufficio; poi, perché me l'avrebbe impedito un gran tramestìo sù per la scala del dormitorio e un irrompere confuso e festante di tutti quei ricoverati già scesi allo spogliatojo per ritirare i loro panni. Che era accaduto? Ritornavano sù, insaccati di nuovo nei bianchi accappatoj, e con le pantofole ai piedi. Tra loro, e insieme coi custodi e le suore di carità addette al ricovero e alla cucina economica, eran parecchi signori e qualche signora, tutti ben vestiti e sorridenti, con un'aria curiosa e nuova. Due di quei signori avevano in mano una macchinetta, che ora conosco bene, avvolta in una coperta nera, e sotto il braccio il treppiedi a gambe rientranti. Erano attori e operatori d'una Casa cinematografica, e venivano per un film a cogliere dal vero una scena d'asilo notturno. La Casa cinematografica, che mandava quegli attori, era la Kosmograph, nella quale io da otto mesi ho il posto d'operatore; e il direttore di scena, che li guidava, era Nicola Polacco, o, come tutti lo chiamano, Cocò Polacco, mio amico d'infanzia e compagno di studii a Napoli nella prima giovinezza. Debbo a lui il posto e alla fortunata congiuntura d'essermi trovato quella notte con Simone Pau in quell'asilo notturno. Ma né a me, ripeto, venne in mente, quella mattina, che mi sarei ridotto a collocar sul treppiedi una macchina di presa, come vedevo fare a quei due signori, né a Cocò Polacco di propormi un tale ufficio. Egli, da quel buon figliuolo che è, non stentò molto a riconoscermi, quantunque io - riconosciutolo subito - facessi di tutto per non essere scorto da lui in quel luogo miserabile, vedendolo raggiante d'eleganza parigina e con un'aria e un'impostatura di condottiero invincibile, tra quegli attori, quelle attrici e tutte quelle reclute della miseria, che non capivano più nei loro bianchi càmici dalla gioja d'un guadagno insperato. Si mostrò sorpreso di trovarmi là, ma soltanto per l'ora mattutina, e mi domandò come avessi saputo ch'egli con la sua compagnia dovesse venire quella mattina nell'asilo per un interno dal vero. Lo lasciai nell'inganno, che mi trovassi lì per caso come un curioso; gli presentai Simone Pau (l'uomo dal violino, nella confusione, era sgattajolato via); e rimasi ad assistere disgustato alla sconcia contaminazione di quella triste realtà, di cui avevo nella notte assaporato l'orrore, con la stupida finzione che il Polacco era venuto a iscenarvi. Ma il disgusto, forse, lo sento adesso. Quella mattina, dovevo avere più che altro curiosità d'assistere per la prima volta all'iscenatura d'una cinematografia. Pure la curiosità, a un certo punto, mi fu distratta da una di quelle attrici, la quale, appena intravista, me ne suscitò un'altra assai più viva. La Nestoroff... Possibile? Mi pareva lei e non mi pareva. Quei capelli d'uno strano color fulvo quasi cùpreo, il modo di vestire, sobrio, quasi rigido, non erano suoi. Ma l'incesso dell'esile elegantissima persona, con un che di felino nella mossa dei fianchi; il capo alto, un po' inclinato da una parte, e quel sorriso dolcissimo su le labbra fresche come due foglie di rosa, appena qualcuno le rivolgeva la parola; quegli occhi stranamente aperti, glauchi, fissi, e vani a un tempo, e freddi nell'ombra delle lunghissime ciglia, erano suoi, ben suoi, con quella sicurezza tutta sua, che ciascuno, qualunque cosa ella fosse per dire o per chiedere, le avrebbe risposto di sì. Varia Nestoroff... Possibile? Attrice d'una Casa di cinematografia? Mi balenarono in mente Capri, la Colonia russa, Napoli, tanti rumorosi convegni di giovani artisti, pittori, scultori, in strani ridotti eccentrici, pieni di sole e di colore, e una casa, una dolce casa di campagna, presso Sorrento, dove quella donna aveva portato lo scompiglio e la morte. Quando, ripetuta per due volte la scena per cui la compagnia era venuta in quell'asilo, Cocò Polacco m'invitò ad andarlo a trovare alla Kosmograph, io, ancora in dubbio gli domandai se quell'attrice fosse proprio la Nestoroff. - Sì, caro, - mi rispose, sbuffando. - Ne sai forse la storia? Gli accennai di sì col capo. - Ah, ma non puoi saperne il seguito - riprese il Polacco. - Vieni, vieni a trovarmi alla Kosmograph; te ne dirò di belle. Gubbio, pagherei non so che cosa per levarmi dai piedi questa donna. Ma, guarda, è più facile che... - Polacco! Polacco! - chiamò a questo punto colei. E dalla premura con cui Cocò Polacco accorse alla chiamata, compresi bene qual potere ella avesse nella Casa, ov'era scritturata quale prima attrice con uno dei più lauti stipendii. Alcuni giorni dopo mi recai alla Kosmograph, non per altro, per conoscere il seguito della storia, purtroppo a me nota, di quella donna.

Quaderno secondo

I

Dolce casa di campagna, Casa dei nonni, piena del sapore ineffabile dei più antichi ricordi familiari, ove tutti i mobili di vecchio stile, animati da questi ricordi, non erano più cose ma quasi intime parti di coloro che v'abitavano, perché in essi toccavano e sentivano la realtà cara, tranquilla, sicura della loro esistenza. Covava davvero in quelle stanze un alito particolare, che a me pare di sentire ancora, mentre scrivo: alito d'antica vita, che aveva dato un odore a tutte le cose che vi erano custodite. Rivedo la sala, un po' tetra veramente, dalle pareti stuccate, a riquadri che volevan sembrare di marmo antico: uno rosso, uno verde; e ogni riquadro aveva la sua brava cornice, anch'essa di stucco, a fogliami; se non che, col tempo, quei finti marmi antichi s'erano stancati della loro ingenua finzione, s'erano un po' gonfiati qua e là, e si vedeva qualche piccola crepacchiatura. La quale mi diceva benignamente: - Tu sei povero; hai l'abito sdrucito; ma vedi bene che pure nelle case dei signori... Eh sì! Bastava mi voltassi a guardare quelle mensole curiose, che pareva avessero schifo di toccare la terra con le loro zampe dorate, di ragno... Il piano di marmo era un po' ingiallito, e nello specchio inclinato si rivedevano precisi nell'immobilità i due cestelli posati sul piano: cestelli di frutta, anch'esse di marmo, colorate: fichi, pesche, cedri, a riscontro, di qua e di là, proprio precise, nel riflesso come se fossero quattro e non due. In quella immobilità di lucido riflesso era tutta la calma limpida, che regnava in quella casa. Pareva che nulla vi potesse accadere. E lo diceva anche l'orologetto di bronzo, tra i due cestelli, di cui nello specchio si vedeva il dietro soltanto. Figurava una fontanella, e aveva un cristallo di rocca a spirale, che girava e girava col moto della macchina. Quant'acqua aveva versato quella fontanella? Ma la conchetta non s'era riempita mai. Ed ecco la sala, da cui si scende nel giardino. (Da una stanza all'altra si passa a traverso uscioli bassi che pajon compresi del loro ufficio, e ciascuno sappia le cose che ha in custodia nella stanza.) Questa, da cui si scende nel giardino, è la preferita, in tutte le stagioni. Ha il pavimento di mattoni laghi, quadrati, di terracotta, un po' logorati dall'uso. La carta da parato, a roselline, è un po' sbiadita, come le tende di velo, pure a roselline della finestra e della porta a vetri, da cui si scorge il pianerottolo della breve scala di legno, a collo, e la ringhierina verde e il pergolato del giardinetto incantato di luce e di silenzio. La luce filtra verde e fervida a traverso le stecche della piccola persiana della finestra, e non si soffonde nella stanza, che rimane in una fresca, deliziosa penombra, imbalsamata dalle fragranze del giardino. Che felicità, che bagno di purezza per l'anima, a stare un po' distesi su quel divano antico, dalle testate alte, coi rulli di stoffa verde, anch'essa un po' scolorita. - Giorgio! Giorgio! Chi chiama dal giardino? È nonna Rosa, che non arriva a cogliere neppure con l'ajuto della sua cannuccia i gelsomini di bella notte, or che la pianta, crescendo, s'è rampicata alta sù sù per il muretto. Piacciono tanto a nonna Rosa quei gelsomini di bella notte! Ha sù, nell'armadio a muro, una cassettina piena di spighe a ombrello di rizòmolo, seccate; ne prende una ogni mattina, prima di scendere in giardino; e quando ha raccolto i gelsomini con la sua cannuccia, siede all'ombra del pergolato, inforca gli occhiali e infilza a uno a uno quei gelsomini negli esili gambi di quella spiga a ombrello, finché non ne forma una bella rosa bianca, piena, dal profumo intenso e soave che va a deporre religiosamente in un vasetto sul piano del cassettone nella sua camera, innanzi all'immagine del suo unico figliuolo, morto da tant'anni. È così intima e raccolta, quella casetta, e paga della vita che racchiude in sé, e senz'alcun desiderio di quella che si svolge rumorosa fuori, lontano! Sta lì, come rannicchiata dietro il poggio verde, e non ha voluto neanche la vista del mare e del golfo meraviglioso. Voleva rimanere appartata, ignorata da tutti, quasi nascosta lì in quel cantuccio verde e solitario, fuori e lontana dalle vicende del mondo. C'era una volta sul pilastrino del cancello una targhetta di marmo, che recava il nome del proprietario: Carlo Mirelli. Nonno Carlo pensò di levarla, quando la morte trovò la via, la prima volta, per entrare in quella schiva casetta perduta in campagna, e si portò via il figliuolo di appena trent'anni, già padre a sua volta di due piccini. Credette forse nonno Carlo che, tolta dal pilastrino la targhetta, la morte non avrebbe trovato più la via per ritornare? Nonno Carlo era di quei vecchi, che portavano la papalina di velluto col fiocco di seta, ma sapevano leggere Orazio. Sapeva dunque che la morte, aequo pede, picchia a tutte le porte, abbiano o non abbiano il nome inciso sulla targhetta. Se non che, ciascuno, accecato da quelle che stima ingiustizie delle sorte, prova il bisogno irragionevole di rovesciar le furie del proprio cordoglio su qualcuno o su qualche cosa. Le furie di nonno Carlo, quella volta, s'abbatterono su l'innocente targhetta del pilastrino. Se la morte si lasciasse afferrare, io la avrei afferrata per un braccio e condotta davanti a quello specchio, ove con tanta limpida precisione si riflettevano nell'immobilità i due cestelli di frutta e il dietro dell'orologetto di bronzo, e le avrei detto: - Vedi? Vàttene ora! Qua deve restar tutto così com'è! Ma la morte non si lascia afferrare. Abbattendo quella targhetta, forse nonno Carlo volle significare che - morto il figliuolo - lì, di vivi, non restava più nessuno! La morte ritornò poco dopo. C'era una viva, che perdutamente ogni notte la invocava: la nuora vedova, che, appena morto il marito, si sentì come staccata dalla famiglia, straniera nella casa. Così, i due piccini orfani: Lidia, la maggiore di appena cinque anni, e Giorgetto di tre, restarono del tutto affidati ai due nonni non ancora tanto vecchi. Riprendere daccapo la vita quando già comincia a mancare, e ritrovare in sé le prime maraviglie dell'infanzia; ricomporre attorno a due rosei bimbi gli affetti più ingenui, i sogni più adatti, e ricacciare come importuna e fastidiosa l'esperienza, che di tratto in tratto sporge il viso di vecchia appassita per dire, ammiccando dietro gli occhiali: avverrà questo, avverrà quest'altro, quando ancora non è avvenuto niente, ed è così bello che non sia avvenuto niente; e fare e pensare e dire come se veramente non si sapesse altro fuor di quello che per ora sanno i due piccini che non sanno nulla: fare come se le cose non fossero riviste in un ritorno, ma con gli occhi di chi va innanzi per la prima volta e per la prima volta vede e sente: questo miracolo operarono nonno Carlo e nonna Rosa; fecero cioè per i due piccini assai più di quel che avrebbero fatto il padre e la madre, i quali, se fossero vissuti, giovani com'erano entrambi, avrebbero pur voluto godersi la vita ancora un po' per sé. Né il non averne più da godere per loro rese più facile il compito ai due vecchi, perché ai vecchi si sa che è grave il peso d'ogni cosa, che non abbia più né senso né valore per essi. I due nonni accettarono quel senso e quel valore, che i due nipotini a mano a mano, crescendo, cominciarono a dare alle cose, e tutto il mondo si ricolorò di giovinezza per loro e la vita riebbe candore e freschezza d'ingenuità. Ma che potevano sapere del mondo tanto grande, della vita tanto diversa, che s'agitava fuori, lontano, quei due giovinetti nati e cresciuti nella casa di campagna? I vecchi, quel mondo e quella vita, li avevano dimenticati, tutto per essi era ridiventato nuovo, il cielo, la campagna, il canto degli uccelli, il sapor delle vivande. Di là dal cancello, non c'era più vita. La vita partiva di qua e nuova s'irraggiava tutt'intorno; e niente s'immaginavano i vecchi che potesse venirne da fuori; e anche la morte, anche la morte avevano quasi dimenticata, che pure già due volte era venuta. Ebbene, pazienza, la morte, a cui nessuna casa, per quanto lontana e nascosta, può restare ignota! Ma come mai, partita da mille e mille miglia lontano, sospinta, o trascinata, sbattuta qua e là dal turbine di tante vicende misteriose, poté trovar la via di quella casetta schiva, lì rannicchiata dietro il poggio verde, una donna, a cui la pace e gli affetti, che quivi regnavano dovevano essere, nonché incomprensibili, ma neppur concepibili? Io non ho le tracce, né forse le ha nessuno, del cammino seguìto da questa donna per arrivare alla dolce casetta di campagna, presso Sorrento. Lì, proprio lì, davanti al pilastrino del cancello, da cui nonno Carlo da gran tempo aveva fatto strappare la targhetta, ella non arrivò da sé, veramente; non alzò lei la mano, la prima volta, a sonare la campanella per farsi aprire il cancello. Ma non molto lontano di lì ella si fermò ad aspettare, che un giovanetto, fin allora custodito con l'anima e col fiato da due vecchi nonni, bello, ingenuo, fervido, con l'anima tutta alata di sogni, da quel cancello uscisse fiducioso verso la vita. O nonna Rosa, e voi lo chiamate ancora dal giardinetto, perché egli vi ajuti a cogliere con la cannuccia i vostri gelsomini di bella notte? - Giorgio! Giorgio! Ho ancora negli orecchi, nonna Rosa, la vostra voce. E provo una dolcezza accorata, che non so dire, nell'immaginarvi ancora lì, nella vostra casetta, che rivedo come se vi fossi tuttora e tuttora ne respirassi l'alito che vi cova, d'antica vita; nell'immaginarvi ignara di quanto è accaduto, com'eravate prima, quand'io, nelle vacanze estive, venivo da Sorrento ogni mattina a preparare per gli esami d'ottobre il vostro nipote Giorgio, che non voleva sapere né di latino né di greco, e imbrattava invece tutti i pezzi di carta che gli capitavano sotto mano, i margini dei libri, il piano del tavolino da studio, di schizzi a penna e a matita, di caricature. Ci dev'essere anche la mia, ancora, sul piano di quel tavolino tutto scombiccherato. - Eh, signor Serafino, - sospirate voi, nonna Rosa, porgendomi in una tazza antica il solito caffè con l'essenza di cannella, come quello che offrono le zie monache nelle badìe, - eh, signor Serafino, Giorgio ha comprato i colori; ci vuol lasciare; vuol farsi pittore... E dietro le vostre spalle sgrana i dolci, limpidi occhi cilestri e si fa rossa rossa Lidiuccia, la vostra nipote; Duccella, come voi la chiamate. Perché? Ah, perché... È venuto già tre volte da Napoli un signorino, un bel signorino tutto profumato, col panciotto di velluto, i guanti canarini scamosciati, la caramella a l'occhio destro e lo stemma baronale nel fazzoletto e nel portafogli. L'ha mandato il nonno, barone Nuti, amico di nonno Carlo, amico da fratello, prima che nonno Carlo, stanco del mondo, si ritirasse da Napoli, qua, nella villetta sorrentina. Voi lo sapete, nonna Rosa. Ma non sapete che il signorino di Napoli incoraggia fervorosamente Giorgio a darsi all'arte e ad andarsene a Napoli con lui. Lo sa Duccella, perché il signorino Aldo Nuti (che stranezza!), con tanto fervore dell'arte, non guarda mica Giorgio, guarda lei, negli occhi, come se dovesse incoraggiare lei e non Giorgio; sì, sì, lei a venirsene a Napoli per star sempre sempre accanto a lui. Ecco perché Duccella si fa rossa rossa, dietro le vostre spalle, nonna Rosa, appena vi sente dire che Giorgio vuol fare il pittore. Anche lui, il signorino di Napoli, se il nonno permettesse... No, pittore no... Vorrebbe darsi al teatro, lui, far l'attore. Quanto gli piacerebbe! Ma il nonno non vuole... Scommettiamo, nonna Rosa, che non vuole neanche Duccella?

II

I fatti che seguirono a questa tenue, ingenua vita d'idillio, circa quattr'anni dopo, io li conosco sommariamente. Facevo a Giorgio Mirelli da ripetitore, ma ero anch'io studente, un povero studente invecchiato nell'attesa di proseguir gli studii e a cui i sacrifizi durati dai parenti per mantenerlo alle scuole avevano spontaneamente persuaso il massimo zelo, la massima diligenza, una timida umiltà accorata, una soggezione che tuttavia non si stancava, benché quell'attesa si prolungasse ormai da molti e molti anni. Ma forse non fu tempo perduto. Studiai da me e meditai, in quell'attesa, molto più e con profitto di gran lunga maggiore, che non avessi fatto negli anni di scuola; e da me imparai il latino e il greco, per tentare il passaggio dagli studii tecnici a cui ero stato avviato, ai classici, con la speranza che mi fosse più facile entrare per questa via all'Università. Certo, questo genere di studii si confaceva assai più alla mia intelligenza. M'affondai in essi con passione così intensa e viva, che, a ventisei anni, quando per una insperata modestissima eredità di uno zio prete (morto nelle Puglie e da un pezzo quasi dimenticato dalla mia famiglia) potei finalmente entrare all'Università, rimasi a lungo perplesso, se non mi convenisse lasciar lì nel cassetto, ove da tant'anni dormiva, il diploma di licenza dall'istituto tecnico, e di procurarmi quella dal liceo, per iscrivermi nella facoltà di filosofia e lettere. Prevalsero i consigli dei parenti, e partii per Liegi, dove, con questo baco in corpo della filosofia, feci intima e tormentosa conoscenza con tutte le macchine inventate dall'uomo per la sua felicità. Ne ho cavato, come si vede, un gran profitto. Mi sono allontanato con orrore istintivo dalla realtà, quale gli altri la vedono e la toccano, senza tuttavia poterne affermare una mia, dentro e attorno a me, poiché i miei sentimenti distratti e fuorviati non riescono a dare né valore né senso a questa mia vita inetta e senz'amore. Guardo ormai tutto, e anche me stesso, come da lontano; e da nessuna cosa mai mi viene un cenno amoroso ad accostarmi con fiducia o con speranza d'averne qualche conforto. Cenni, sì, pietosi, mi sembra di scorgere negli occhi di tanta gente, negli aspetti di tanti luoghi che mi spingono non a ricevere né a dare conforto, che non può darne chi non può riceverne; ma pietà. Eh, pietà, sì... Ma so che la pietà, a dare e a ricevere, è così difficile. Per parecchi anni, ritornato a Napoli, non trovai da far nulla; feci vita da scapigliato con giovani artisti, finché durarono gli ultimi resti di quella piccola eredità. Devo al caso, com'ho detto, e all'amicizia d'un mio antico compagno di studii il posto che occupo. Lo tengo - diciamolo, sì - con onore, e del mio lavoro sono ben remunerato. Oh, mi stimano tutti qua, un ottimo operatore: vigile, preciso e d'una perfetta impassibilità. Se debbo esser grato al Polacco, anche Polacco dev'esser grato a me della benemerenza che s'è acquistata presso il commendator Borgalli, direttore generale e consigliere delegato della Kosmograph, per l'acquisto che la Casa ha fatto d'un operatore come me. Il signor Gubbio non è addetto propriamente a nessuna delle quattro compagnie del reparto artistico, ma è chiamato or qua or là da tutte, per la confezione dei films di più lungo metraggio e più difficili. Il signor Gubbio lavora molto di più degli altri cinque operatori della Casa; ma per ogni film ben riuscito ha un ricco dono e frequenti gratificazioni. Dovrei esser lieto e soddisfatto. Rimpiango invece il tempo della magrezza e delle follie a Napoli tra i giovani artisti. Appena ritornato da Liegi, rividi Giorgio Mirelli, già colà da due anni. Aveva di recente esposto in una mostra d'arte due strani quadri, che avevano suscitato nella critica e nel pubblico lunghe e violente discussioni. Conservava l'ingenuità e il fervore dei sedici anni; non aveva occhi per vedere la trascuratezza del suo vestire, i suoi capelli arruffati, i primi peli radi che gli s'arricciavano lunghi sul mento e su le gote magre, come a un malato: e malato era d'una divina malattia; in preda a un'ansia continua, che non gli faceva né scorgere né toccare quella che per gli altri era la realtà della vita; sempre sul punto di lanciarsi con impeto a qualche richiamo misterioso, lontano, che lui solo intendeva. Gli domandai de' suoi. Mi disse che nonno Carlo era morto da poco. Lo guardai maravigliato del modo con cui mi dava quella notizia; pareva non avesse provato alcuna pena di quella morte. Ma, richiamato da quel mio sguardo al suo dolore, disse: - Povero nonno... - con tanto rimpianto e con un tal sorriso, che subito mi ricredetti e compresi ch'egli, nel tumulto di tanta vita che gli ferveva dentro, non aveva né modo né tempo di pensare a' suoi dolori. E nonna Rosa? Nonna Rosa stava bene... sì, benino... come poteva, povera vecchietta, dopo quella morte. Due spighe di rizòmolo, adesso, da riempir di gelsomini, ogni mattina, una per il morto recente, l'altra per il morto lontano. E Duccella, Duccella? Ah come risero gli occhi del fratello alla mia domanda! - Vermiglia! vermiglia! E mi disse che già da un anno era fidanzata al baronello Aldo Nuti. Le nozze si sarebbero dovute celebrare tra poco; erano state rimandate per la morte di nonno Carlo. Ma non si mostrò lieto di quelle nozze; mi disse anzi che Aldo Nuti non gli pareva un compagno adatto per Duccella; e, agitando in aria le dita delle due mani, uscì in quell'esclamazione di nausea, che soleva usare quand'io m'affannavo a fargli capire le regole e le partizioni della seconda declinazione greca: - Complicato! complicato! complicato! Non era più possibile tenerlo fermo, dopo questa esclamazione. E come scappava allora dal tavolino da studio, mi scappò davanti quella volta. Lo perdetti di vista per più d'un anno. Seppi da' suoi compagni d'arte, che se n'era andato a Capri, a dipingere. Trovò lì Varia Nestoroff.

III

Conosco bene adesso questa donna, o almeno quanto è possibile conoscerla, e mi spiego tante cose rimaste lungo tempo per me incomprensibili. Se non che, la spiegazione ch'io ora me ne faccio, rischierà forse di parere incomprensibile agli altri. Ma io me la faccio per me e non per gli altri; e non intendo minimamente di scusare con essa la Nestoroff. Scusarla davanti a chi? Io mi guardo dalla gente di professione perbene, come dalla peste. Sembra impossibile che non debba godere della propria malvagità chi per calcolo e con freddezza la eserciti. Ma se questa infelicità (e dev'esser tremenda) esiste, dico di non poter godere della propria malvagità, lo sprezzo per questi malvagi, come per tanti altri infelici, forse può esser vinto, o almeno attenuato, da una certa pietà. Parlo, per non offendere, quasi come una persona discretamente perbene. Ma dovremmo, buon Dio, riconoscere questo: che siamo tutti - chi più, chi meno - malvagi; ma che non ne godiamo, e siamo infelici. È possibile? Tutti riconosciamo volentieri la nostra infelicità; nessuno, la propria malvagità; e quella vogliamo vedere senz'alcuna ragione o colpa nostra; mentre cento ragioni, cento scuse e giustificazioni ci affanniamo a trovare per ogni piccolo atto malvagio da noi compiuto, che ci sia messo innanzi dagli altri o dalla nostra stessa coscienza. Volete vedere come subito ci ribelliamo e neghiamo sdegnati un atto di malvagità, pure innegabile, e del quale pure innegabilmente abbiamo goduto? Sono avvenuti questi due fatti. (Non divago, perché la Nestoroff è stata paragonata da qualcuno alla bella tigre comperata, qualche giorno fa, dalla Kosmograph.) Sono avvenuti dunque, questi due fatti. Uno stormo d'uccelli di passo - beccacce e beccaccini - sono calati per riposarsi un po' dal lungo volo e rifocillarsi, su la campagna romana. Hanno scelto male il posto. Un beccaccino, più ardito degli altri, dice ai compagni: - Voi state qua, riparati in questa fratta. Io andrò a esplorare intorno e, se trovo di meglio, vi chiamerò. Un vostro amico ingegnere, d'animo avventuroso, membro della Società Geografica, ha accettato l'incarico di recarsi in Africa, non so bene (perché bene non lo sapete neppur voi) per quale esplorazione scientifica. Egli è ancora lontano dalla mèta; avete ricevuto da lui qualche notizia, l'ultima v'ha lasciato in una certa costernazione, perché il vostro amico v'esponeva i rischi a cui sarebbe andato incontro accingendosi a traversare non so che remote plaghe selvagge e deserte. Oggi è domenica. Voi vi alzate presto per andare a caccia. Avete fatto i preparativi jeri sera, ripromettendovi un gran piacere. Scendete dal treno, àlacre e lieto; vi allontanate per la campagna fresca, verde, un po' nebbiosa, in cerca d'un buon posto per gli uccelli di passo. State all'aspetto mezz'ora, un'ora; cominciate a stancarvi e togliete di tasca il giornale comperato prima di partire, alla stazione. A un certo punto, avvertite come un frullo d'ali fra l'intrico dei rami nella macchia; lasciate il giornale; vi avvicinate cheto e chinato; prendete la mira; sparate. Oh gioja! Un beccaccino! Sì, proprio un beccaccino. Proprio quel beccaccino esploratore, che aveva lasciato i compagni nella fratta. So che voi non mangiate la caccia: la regalate agli amici: per voi tutto è qui, nel piacere d'uccidere quella che chiamate selvaggina. La giornata non promette bene. Ma voi, come tutti i cacciatori, siete un po' superstizioso: credete che la lettura del giornale vi abbia portato fortuna e ritornate a leggere il giornale al posto di prima. Nella seconda pagina trovate la notizia, che il vostro amico ingegnere, andato in Africa per conto della Società Geografica, attraversando quelle tali plaghe selvagge e deserte, è morto sciaguratamente: assaltato, sbranato e divorato da una belva. Leggendo con raccapriccio la narrazione del giornale, non vi passa neanche lontanamente per il capo di porre il paragone tra la belva, che ha ucciso il vostro amico, e voi, che avete ucciso il beccaccino, esploratore come lui. Eppure, starebbe perfettamente nei termini, e temo anzi con qualche vantaggio per la belva, perché voi avete ucciso per piacere e senz'alcun rischio per voi d'essere ucciso; mentre la belva, per fame, cioè per bisogno, e col rischio d'essere uccisa dal vostro amico, che certamente era armato. Retorica, è vero? Eh sì, caro; non vi sdegnate troppo; lo riconosco anch'io: retorica, perché noi, per grazia di Dio, siamo uomini e non beccaccini. Il beccaccino, lui, senza timore di far della retorica, potrebbe sì porre il paragone e chiedere che almeno gli uomini che vanno per piacere a caccia, non chiamino feroci le bestie. Noi, no. Noi non possiamo ammettere il paragone perché qua abbiamo un uomo che ha ucciso una bestia, e là una bestia che ha ucciso un uomo. Tutt'al più, caro beccaccino, per farti qualche concessione, possiamo dire, che tu eri una povera bestiolina innocua, ecco! Ti basta? Ma tu da questo non infierire, che la nostra malvagità sia perciò appunto maggiore; e, sopra tutto, non dire che, chiamandoti bestiolina innocua e uccidendoti, non abbiamo più il diritto di chiamar feroce la bestia che ha ucciso per fame e non per piacere un uomo. Ma quando poi un uomo, tu dici, si riduce peggio d'una bestia? Ecco, sì; bisogna stare attenti, veramente, alle conseguenze della logica. Tante volte si sdrucciola, e non si sa più dove si vada a parare.

IV

Il caso di vedere gli uomini ridursi peggio d'una bestia è dovuto accadere molto di frequente a Varia Nestoroff. Eppure ella non li ha uccisi. Cacciatrice, come voi siete cacciatore. Il beccaccino voi lo avete ucciso. Ella non ne ha ucciso nessuno. Uno solo, per lei, si è ucciso, con le sue mani: Giorgio Mirelli; ma non per lei solamente. La belva, intanto, che fa male per un bisogno della sua natura, non è - che si sappia - infelice. La Nestoroff, come per tanti segni si può argomentare, è infelicissima. Non gode della sua malvagità, pure con tanto calcolo e con tanta freddezza esercitata. Se dicessi apertamente questo ch'io penso di lei a' miei compagni operatori, agli attori, alle attrici della Casa, tutti sospetterebbero subito che mi sia anch'io innamorato della Nestoroff. Non mi curo di questo sospetto. La Nestoroff ha per me, come tutti i suoi compagni d'arte, un'avversione quasi istintiva. Non la ricambio affatto perché con lei io non vivo, se non quando sono a servizio della mia macchinetta, e allora, girando la manovella, io sono quale debbo essere, cioè perfettamente impassibile. Non posso né odiare né amare la Nestoroff, come non posso odiare né amare nessuno. Sono una mano che gira la manovella. Quando poi, alla fine, sono reintegrato, cioè quando per me il supplizio d'esser soltanto una mano finisce, e posso riacquistare tutto il mio corpo, e meravigliarmi d'avere ancora su le spalle una testa, e riabbandonarmi a quello sciagurato superfluo che è pure in me e di cui per quasi tutto il giorno la mia professione mi condanna a esser privo; allora... eh, allora gli affetti, i ricordi che mi si ridestano dentro, non sono tali certo, che possano persuadermi ad amare questa donna. Fui amico di Giorgio Mirelli e tra le più care rimembranze della mia vita è la dolce casa di campagna presso Sorrento, ove ancor vivono e soffrono nonna Rosa e la povera Duccella. Io studio. Séguito a studiare, perché questa è forse la mia più forte passione: nutrì nella miseria e sostenne i miei sogni, ed è il solo conforto che io mi abbia, ora che essi sono finiti così miseramente. Studio, dunque, senza passione, ma intentamente questa donna, che se pur mostra di capire quello che fa e il perché lo fa, non ha però in sé affatto quella "sistemazione" tranquilla di concetti, d'affetti, di diritti e di doveri, d'opinioni e d'abitudini, ch'io odio negli altri. Ella non sa di certo, che il male che può fare agli altri; e lo fa, ripeto, per calcolo e con freddezza. Questo, nella stima degli altri, di tutti i "sistemati", la esclude da ogni scusa. Ma credo che non sappia darsene alcuna, ella medesima, del male che pur sa d'aver fatto. Ha in sé qualche cosa, questa donna, che gli altri non riescono a comprendere, perché bene non lo comprende neppure lei stessa. Si indovina però dalle violente espressioni che assume, senza volerlo, senza saperlo, nelle parti che le sono assegnate. Ella sola le prende sul serio, e tanto più quanto più sono illogiche e strampalate, grottescamente eroiche e contraddittorie. E non c'è verso di tenerla in freno, di farle attenuare la violenza di quelle espressioni. Manda a monte ella sola più pellicole, che non tutti gli altri attori delle quattro compagnie presi insieme. Già esce dal campo ogni volta; quando per caso non ne esce, è così scomposta la sua azione, così stranamente alterata e contraffatta la sua figura, che nella sala di prova quasi tutte le scene a cui ella ha preso parte, resultano inaccettabili e da rifare. Qualunque altra attrice, che non avesse goduto e non godesse come lei la benevolenza del magnanimo commendator Borgalli, sarebbe stata già da un pezzo licenziata. - Là là là... - esclama invece il magnanimo commendatore, senza inquietarsi, vedendo sfilar su lo schermo della sala di prova quelle immagini da ossessa - là là là... ma via... ma no... ma com'è possibile?... oh Dio, che orrore... via via via... E se la piglia con Polacco e, in generale, con tutti i direttori di scena, i quali si tengono per sé gli scenarii, contentandosi di suggerire volta per volta agli attori l'azione da svolgere in ogni singola scena, spesso saltuariamente, perché non tutte le scene possono eseguirsi con ordine, una dopo l'altra, in un teatro di posa. Ne viene, che quelli spesso non sanno neppure che parte stieno a rappresentare nell'insieme e che si senta qualche attore domandare a un certo punto: - Ma scusi, Polacco, io sono il marito o l'amante? Invano Polacco protesta d'avere spiegato bene alla Nestoroff tutta intera la parte. Il commendator Borgalli sa che la colpa non è del Polacco; tant'è vero, che gli ha dato un'altra prima attrice, la Sgrelli, per non fargli andare a monte tutti i films affidati alla sua compagnia. Ma la Nestoroff protesta dal canto suo, se Polacco si serve soltanto della Sgrelli o più della Sgrelli che di lei, vera prima attrice della compagnia. I maligni dicono che lo fa per rovinare il Polacco, e il Polacco stesso crede così e lo va dicendo. Non è vero: non c'è altra rovina qua, che di pellicole; e la Nestoroff è veramente disperata di ciò che le avviene; ripeto, senza volerlo e senza saperlo. Resta ella stessa sbalordita e quasi atterrita delle apparizioni della propria immagine su lo schermo, così alterata e scomposta. Vede lì una, che è lei, ma che ella non conosce. Vorrebbe non riconoscersi in quella; ma almeno conoscerla. Forse da anni e anni e anni, a traverso tutte le avventure misteriose della sua vita, ella va inseguendo questa ossessa che è in lei e che le sfugge, per trattenerla, per domandarle che cosa voglia, perché soffra, che cosa ella dovrebbe fare per ammansarla, per placarla, per darle pace. Nessuno, che non abbia gli occhi velati da una passione contraria e l'abbia vista uscire dalla sala di prova dopo l'apparizione di quelle sue immagini, può aver più dubbii su ciò. Ella è veramente tragica: spaventata e rapita, con negli occhi quello stupor tenebroso che si scorge negli agonizzanti e a stento riesce a frenare il fremito convulso di tutta la persona. So la risposta che mi si darebbe, se lo facessi notare a qualcuno: - Ma è la rabbia! freme di rabbia! È la rabbia, sì; ma non quella che tutti suppongono, cioè per un film andato a male. Una rabbia fredda, più fredda d'una lama, è veramente l'arma di questa donna contro tutti i suoi nemici. Ora, Cocò Polacco non è per lei un nemico. Se fosse, ella non fremerebbe così: freddissimamente si vendicherebbe di lui. Nemici per lei diventano tutti gli uomini, a cui ella s'accosta, perché la ajutino ad arrestare ciò che di lei le sfugge: lei stessa, sì, ma quale vive e soffre, per così dire, di là da se stessa. Ebbene, nessuno si è mai curato di questo, che a lei più di tutto preme; tutti, invece, rimangono abbagliati dal suo corpo elegantissimo, e non vogliono aver altro, né saper altro di lei. E allora ella li punisce con fredda rabbia, là dove s'appuntano le loro brame; ed esaspera prima queste brame con la più perfida arte, perché più grande sia poi la sua vendetta. Si vendica, facendo getto, improvvisamente e freddamente, del suo corpo a chi meno essi si aspetterebbero: così, là, per mostrar loro in quanto dispregio tenga ciò che essi sopra tutto pregiano di lei. Non credo che possano spiegarsi in altro modo certi subitanei cangiamenti nelle sue relazioni amorose, che appajono a tutti, a prima giunta, inesplicabili, perché nessuno può negare ch'ella con essi non abbia fatto il suo danno. Se non che gli altri, ripensandoci e considerando da una parte la qualità di coloro con cui ella prima s'era messa, e dall'altra quella di coloro a cui d'improvviso s'è gettata, dicono che questo dipende perché ella coi primi non poteva stare, non poteva respirare; mentre a questi altri si sentiva attratta da un'affinità "canagliesca"; e quel getto di sé improvviso e inopinato lo spiegano come lo sbalzo di chi, a lungo soffocato, voglia prendere alfine, dove può, una boccata d'aria. E se fosse proprio il contrario? Se per respirare, per aver quell'ajuto ch'io ho detto più sù, ella si fosse accostata ai primi, e invece d'averne quel respiro, quell'ajuto che sperava, nessun respiro e nessun ajuto avesse avuto da loro, ma anzi un dispetto e una nausea più forti, perché accresciuti ed esacerbati dal disinganno, e anche da quel certo sprezzo che sente per i bisogni dell'anima altrui chi non vede e non cura se non la propria ANIMA, così, tutta in lettere maiuscole? Nessuno lo sa; ma di queste "canagliate" possono essere ben capaci coloro che più si stimano da sé e son dagli altri stimati superiori. E allora... allora meglio la canaglia che si dà per tale, che se ti attrista, non ti delude; e che può avere, come spesso ha, qualche lato buono e, di tratto in tratto, certe ingenuità, che tanto più ti rallegrano e ti rinfrescano, quanto meno in loro te le aspetti. Il fatto è, che da più d'un anno la Nestoroff è con l'attore siciliano Carlo Ferro, anch'esso qui scritturato alla Kosmograph: ne è dominata e innamoratissima. Sa quello che da un tale uomo ella si può aspettare, e non gli chiede altro. Ma pare che abbia da lui assai più di quanto gli altri possano figurarsi. Ragion per cui, da qualche tempo in qua, mi sono messo a studiare con molto interesse anche lui, Carlo Ferro.

V

Problema per me assai più difficile da risolvere è questo: come mai Giorgio Mirelli, che rifuggiva con tanta insofferenza da ogni complicazione, si sia perduto appresso a questa donna, fino al punto da lasciarci la vita. Mi mancano quasi tutti i dati per risolvere questo problema, e ho già detto che del dramma ho appena una notizia sommaria. So da varie fonti che la Nestoroff, a Capri, quando Giorgio Mirelli la vide per la prima volta, era assai malvista e trattata con molta diffidenza dalla piccola colonia russa, che da parecchi anni ha preso stanza in quell'isola. Finanche c'era chi la sospettava spia, forse perché ella, poco accortamente, s'era presentata come vedova d'un vecchio cospiratore, morto alcuni anni prima del suo arrivo a Capri, fuggiasco a Berlino. Pare che qualcuno abbia domandato notizie tanto a Berlino, quanto a Pietroburgo sul conto di lei e di questo vecchio cospiratore sconosciuto, e che si sia venuti a sapere, che un certo Nicola Nestoroff veramente era stato per alcuni anni spatriato a Berlino, e vi era morto, ma senza che a nessuno mai avesse dato a conoscersi come spatriato per compromissioni politiche. Pare anche si sia saputo, che questo Nicola Nestoroff avesse tolto costei, ragazza, dalla strada, in uno dei quartieri più popolari e malfamati di Pietroburgo e, fattala educare, l'avesse sposata; poi, ridotto per i suoi vizii quasi alla miseria, sfruttata, mandandola a cantare in caffè-concerti d'infimo ordine, finché, ricercato dalla polizia, non era scappato via, solo, in Germania. Ma la Nestoroff, per quello che io ne so, nega sdegnosamente tutto questo. Che si sia lagnata con qualcuno in segreto dei maltrattamenti anzi delle sevizie patite fin da ragazza da quel vecchio, è possibile; ma non dice che egli l'abbia sfruttata; dice anzi che lei, spontaneamente, per seguire la sua passione e un po' anche per sopperire ai bisogni della vita, vincendo l'opposizione di lui, s'era data a recitare in provincia, re-ci-ta-re, in teatri di prosa; e che poi, fuggito dalla Russia il marito per compromissioni politiche e riparato a Berlino, ella, sapendolo infermo e bisognoso di cure, impietosita, lo aveva raggiunto colà e assistito fino alla morte. Che cosa poi abbia fatto a Berlino, da vedova, e quindi a Parigi e a Vienna, di cui spesso parla, dimostrando di conoscerne a fondo la vita e i costumi, né ella dice, né alcuno certo s'arrischia a domandarle. Per certuni, vorrei dire per moltissimi che non sanno vedere se non se stessi, amare l'umanità spesso, anzi quasi sempre, non significa altro, che esser contenti di sé. Molto contento di sé, della sua arte, de' suoi studii di paese, dovette essere in quei giorni a Capri, senza dubbio, Giorgio Mirelli. Veramente - e già mi pare d'averlo detto - il suo stato d'animo abituale era il rapimento e la meraviglia. Dato un tale stato d'animo, è facile immaginare che questa donna egli non vide qual'era, coi bisogni che aveva, offesa, fustigata, invelenita dalla diffidenza e dalle dicerie maligne attorno a lei; ma nella figurazione fantastica, ch'egli subito se ne fece, e illuminata dalla luce che le diede. Per lui i sentimenti dovevano esser colori, e forse, preso tutto dalla sua arte, non aveva più altro sentimento, che dei colori. Tutte le impressioni che ebbe di lei, forse derivarono solamente da quella luce di cui la illuminava: impressioni, dunque, solamente per lui. Ella non dovette - perché non poteva - parteciparne. Ora, nulla irrita più, che il restare esclusi da una gioja, viva e presente davanti a noi, attorno a noi, di cui non si scopra né s'indovini la ragione. Ma se pur Giorgio Mirelli gliel'avesse dichiarata, non avrebbe potuto comunicargliela. Era una gioja soltanto per lui e dimostrava che anch'egli, in fondo, non pregiava e non voleva altro di lei, che il corpo; non come gli altri, è vero, per un basso intento; ma questo anzi, a lungo andare - se ben si consideri - non poteva che irritare di più quella donna. Perché, se il non vedersi ajutata nelle smaniose incertezze dello spirito da quanti non vedevano e non volevano altro di lei che il corpo, per saziar su esso la fame bruta del senso, le faceva dispetto e nausea; il dispetto per uno, che voleva anch'esso il corpo e nient'altro; il corpo, ma solo per trarne una gioja ideale e assolutamente per sé, doveva esser tanto più forte, in quanto mancava appunto ogni motivo di nausea, e più difficile, anzi vana addirittura rendeva quella vendetta, ch'ella almeno soleva prendersi contro gli altri. Un angelo per una donna è sempre più irritante d'una bestia. So da tutti i compagni d'arte di Giorgio Mirelli a Napoli, ch'egli era castissimo, non perché non sapesse farsi valere su le donne, ché timido non era affatto, ma perché istintivamente rifuggiva da ogni distrazione volgare. Per spiegarci il suo suicidio, senz'alcun dubbio dipeso in gran parte dalla Nestoroff, dobbiamo supporre ch'ella, non curata, non ajutata e irritatissima, per potersi vendicare, dovette con le arti più fini e più accorte far sì che il suo corpo a mano a mano davanti a lui cominciasse a vivere, non per la delizia degli occhi soltanto; e che, quando lo vide come tant'altri vinto e schiavo, gli vietò, per meglio assaporare la vendetta, che da lei prendesse altra gioja, che non fosse quella di cui finora s'era contentato come unica ambita, perché unica degna di lui. Dico dobbiamo supporre questo, ma a volere esser maligni. La Nestoroff potrebbe dire, e forse dice, ch'ella non fece nulla per alterare quella relazione di pura amicizia, che s'era stabilita tra lei e il Mirelli: tanto vero che, quand'egli, non più pago di quella pura amicizia, più che mai corrivo per le severe repulse da lei opposte, pur d'ottenere l'intento, le si profferse marito, ella lottò a lungo - e questo è vero; io l'ho saputo - per dissuaderlo, e volle partire da Capri, sparire; e alla fine non si arrese, se non per la violenta disperazione di lui. Ma è vero che, a volere esser maligni, si può anche pensare, che tanto le repulse, quanto la lotta e la minaccia e il tentativo di partire, di sparire, forse furono tante arti ben meditate e attuate per ridurre alla disperazione quel giovine, dopo averlo sedotto, e ottenerne tante e tante cose, ch'egli altrimenti forse non le avrebbe mai accordate. Prima fra queste, che fosse presentata come promessa sposa nella villetta di Sorrento a quella cara nonna, a quella dolce sorellina, di cui egli le aveva parlato, e al fidanzato di lei. Pare che questi, Aldo Nuti, più che le due donne, si sia opposto fieramente a tale pretesa. Autorità e potere da contrastargli e impedirgli quelle nozze non aveva, giacché Giorgio era ormai padrone di sé, delle sue azioni e credeva di non doverne più dar conto a nessuno; ma che conducesse lì quella donna e la ponesse a contatto con la sorella e obbligasse questa ad accoglierla e a trattarla da sorella, a questo sì, perdio, poteva e doveva opporsi e s'opponeva con tutte le forze. Ma sapevano esse, nonna Rosa e Duccella, che razza di donna fosse quella che Giorgio voleva condurre lì e sposare? Un'avventuriera russa, un'attrice, se non qualcosa di peggio! Come permetterlo, come non opporsi con tutte le forze?Ancora con tutte le forze... Eh sì, chi sa quanto dovettero combattere nonna Rosa e Duccella per vincere a poco a poco, con dolce e mesta persuasione, tutte quelle forze di Aldo Nuti. Se avessero potuto immaginare, che cosa dovevano diventare queste forze al cospetto di Varia Nestoroff, appena entrata, timida, aerea e sorridente nella cara villetta di Sorrento! Forse Giorgio, per scusare l'indugio che nonna Rosa e Duccella mettevano a rispondere, avrà detto alla Nestoroff, che quell'indugio dipendeva dall'opposizione con tutte le forze del fidanzato della sorella; dimodoché la Nestoroff si sentì tentata a misurarsi con queste forze, subito, appena entrata nella villetta. Non so nulla! So che Aldo Nuti fu attratto come in un gorgo e subito travolto come un fuscellino di paglia nella passione per questa donna. Io non lo conosco. Lo vidi da ragazzo una volta sola, quando facevo da ripetitore a Giorgio; e mi parve fatuo. Tale mia impressione non s'accorda con ciò che mi disse di lui, al mio ritorno da Liegi, il Mirelli, ch'egli fosse cioè complicato. Ma anche ciò che da altri ho saputo sul suo conto non risponde affatto a quella mia prima impressione, la quale pure irresistibilmente m'ha tratto a parlar di lui, secondo l'idea che per essa me ne sono fatta. Dev'essere, realmente, sbagliata. Duccella poté amarlo! E questo, per me, prova più che altro il mio errore. Ma alle impressioni non si comanda. Sarà, come mi dicono, un giovane serio, per quanto di temperamento ardentissimo; per me, finché non lo rivedo, rimane quel ragazzo fatuo, con lo stemma baronale nei fazzoletti e nel portafogli, il signorino a cui sarebbe tanto piaciuto di far l'attore drammatico. Lo fece, e non per finta, con la Nestoroff, a spese di Giorgio Mirelli. Il dramma si svolse a Napoli, poco dopo la presentazione e il breve soggiorno della Nestoroff là a Sorrento. Pare che il Nuti se ne fosse tornato a Napoli coi due fidanzati, dopo quel breve soggiorno, per ajutar Giorgio inesperto e lei non ancor pratica della città, a metter sù casa, prima delle nozze. Forse il dramma non sarebbe avvenuto o avrebbe avuto una catastrofe diversa, se non ci fosse stata la complicazione del fidanzamento, o meglio, dell'amore di Duccella per il Nuti. Per questo Giorgio Mirelli dovette ritorcere contro se stesso la violenza dell'orrore insostenibile, che gli s'avventò addosso dall'improvvisa scoperta del tradimento. Aldo Nuti scappò da Napoli come un forsennato, prima che da Sorrento sopravvenissero alla notizia del suicidio di Giorgio nonna Rosa e Duccella. Povera Duccella, povera nonna Rosa! La donna che da mille e mille miglia lontano venne a portare lo scompiglio e la morte nella vostra casetta, ove insieme con quei gelsomini di bella notte sbocciava il più ingenuo degli idillii, io la ho qua, adesso, sotto la mia macchinetta, ogni giorno; e, se sono vere le notizie datemi dal Polacco, avrò tra poco anche lui, qua, Aldo Nuti, il quale pare abbia saputo che la Nestoroff è prima attrice alla Kosmograph. Non so perché, mi dice il cuore che, girando la manovella di questa macchinetta di presa, io sono destinato a fare anche la vostra vendetta e del vostro povero Giorgio, cara Duccella, cara nonna Rosa!

Quaderno terzo

I

Un lieve sterzo. C'è una carrozzella che corre davanti. - Pò, pòpòòò, pòòò. Che? La tromba dell'automobile la tira indietro? Ma sì! Ecco pare che la faccia proprio andare indietro, comicamente. Le tre signore dell'automobile ridono, si voltano, alzano le braccia a salutare con molta vivacità, tra un confuso e gajo svolazzìo di veli variopinti; e la povera carrozzella, avvolta in una nuvola alida, nauseante, di fumo e di polvere, per quanto il cavalluccio sfiancato si sforzi di tirarla col suo trotterello stracco, séguita a dare indietro, indietro, con le case, gli alberi, i rari passanti, finché non scompare in fondo al lungo viale fuor di porta. Scompare? No: che! È scomparsa l'automobile, la carrozzella, invece, eccola qua, che va avanti ancora, pian piano, col trotterello stracco, uguale, del suo cavalluccio sfiancato. E tutto il viale par che rivenga avanti, pian piano, con essa. Avete inventato le macchine? E ora godetevi questa e consimili sensazioni di leggiadra vertigine. Le tre signore dell'automobile sono tre attrici della Kosmograph, e hanno salutato con tanta vivacità la carrozzella strappata indietro dalla loro corsa meccanica non perché nella carrozzella ci sia qualcuno molto caro a loro; ma perché l'automobile, il meccanismo le inebria e suscita in loro una così sfrenata vivacità. La hanno a disposizione: servizio gratis; paga la Kosmograph. Nella carrozzella ci sono io. M'han veduto scomparire in un attimo, dando indietro comicamente, in fondo al viale; hanno riso di me; a quest'ora sono già arrivate. Ma ecco che io rivengo avanti, care mie. Pian pianino, sì; ma che avete veduto voi una carrozzella dare indietro, come tirata da un filo, e tutto il viale assaettarsi avanti in uno striscio lungo confuso violento vertiginoso. Io, invece, ecco qua, posso consolarmi della lentezza ammirando a uno a uno, riposatamente, questi grandi platani verdi del viale, non strappati dalla vostra furia, ma ben piantati qua, che volgono a un soffio d'aria nell'oro del sole tra i bigi rami un fresco d'ombra violacea: giganti della strada, in fila, tanti, aprono e reggono con poderose braccia le immense corone palpitanti al cielo. Caccia, sì, ma non forte, vetturino! È così stanco codesto tuo vecchio cavalluccio sfiancato. Tutti gli passano avanti: automobili, biciclette, tram elettrici; e la furia di tanto moto per le strade sospinge anche lui, senza ch'esso lo sappia o lo voglia, gli sforza irresistibilmente le povere gambe anchilosate, affaticate nel trasporto, da un punto all'altro della grande città, di tanta gente afflitta, oppressa e smaniosa, per bisogni, miserie, faccende, aspirazioni, ch'esso non può capire! E forse più di tutti lo stancano quei pochi che montano su la carrozzella con la voglia di divertirsi, e non sanno dove né come. Povero cavalluccio, la testa gli s'abbassa di mano in mano, e non la rialza più-, neanche se tu lo frusti a sangue, vetturino! - Ecco, a destra... volta a destra! La Kosmograph è qua, in questa traversa remota, fuor di porta.

II

Affossata, polverosa, appena tracciata in principio, ha l'aria e la mala grazia di chi, aspettandosi di star tranquillo, si veda, al contrario, seccato di continuo. Ma se non ha diritto a qualche fresco cespuglietto d'erba, a tutti quei fili di suono sottili vaganti, con cui il silenzio nelle solitudini tesse la pace, al quacquà di qualche raganella quando piove e le pozze d'acqua piovana rispecchiano nella notte rasserenata le stelle; insomma a tutte le delizie della natura aperta e deserta, una strada di campagna, parecchi chilometri fuor di porta, non so chi l'abbia, veramente. Invece: automobili, carrozze, carri, biciclette, e tutto il giorno un trànsito ininterrotto d'attori, d'operatori, di macchinisti, d'operaj, di comparse, di fattorini, e frastuono di martelli, di seghe, di pialle, e polverone e puzzo di benzina. Gli edificii, alti e bassi, della grande Casa cinematografica si levano in fondo alla strada, da una parte e dall'altra; ne sorgono alcuni più là, senz'ordine, entro il vastissimo recinto, che si estende e spazia nella campagna: uno, più alto di tutti, è sovrastato come da una torre vetrata, di vetri opachi, che sfòlgorano al sole; e nel muro in vista dalla strada e dal viale, su la bianchezza abbarbagliante della calce, a lettere nere, cubitali, sta scritto: LA "KOSMOGRAPH"

L'entrata è a sinistra, da una porticina accanto al cancello, che s'apre di rado. Dirimpetto è un'osteria di campagna, battezzata pomposamente Trattoria della Kosmograph, con una bella pergola su l'incannucciata, che ingabbia tutto il così detto giardino e vi fa dentro un'aria verde. Cinque o sei tavole rustiche, dentro, non molto ferme su i quattro piedi, e seggiole e panchette. Parecchi attori, truccati e parati di strani costumi, vi seggono e discutono animatamente; uno grida più forte di tutti, battendosi con furia una mano su la coscia: - E io vi dico che bisogna prenderla qua, qua, qua! E le manate, su i calzoni di pelle, pajono spari. Parlano certo della tigre, comperata or è poco dalla Kosmograph; del modo come dev'essere uccisa; del punto preciso in cui dev'essere colpita. Se ne son fatta una fissazione. A sentirli, pare che siano tutti di professione cacciatori di bestie feroci. Affollati innanzi all'entrata, stanno ad ascoltarli con visi ridenti gli chauffeurs delle vetturette, automobili, logore, impolverate; i vetturini delle carrozzelle in attesa, là in fondo, ove la traversa è chiusa da una siepe di stecchi e spuntoni; e tant'altra povera gente, la più miserabile ch'io mi conosca, sebbene vestita con una certa decenza. Sono (chiedo scusa, ma qui tutto ha nome francese o inglese) sono i cachets avventizii, coloro cioè che vengono a profferirsi, a un bisogno, per comparse. La loro petulanza è insoffribile, peggio di quella dei mendicanti; perché qua si viene a esibire una miseria, che non chiede la carità d'un soldo, ma cinque lire, per mascherarsi spesso grottescamente. Bisogna vedere che ressa, certi giorni, nel magazzino-vestiario per ghermire e indossar subito qualche straccio vistoso, e con quali arie se lo portano a spasso per le piattaforme e gli sterrati, sapendo bene che, quando riescano a vestirsi, anche se non posano, tiran la mezza paga. Due, tre attori vengono fuori dalla trattoria, facendosi largo tra la ressa. Sono coperti d'una maglia color zafferano, col viso e le braccia impiastricciati di giallo sporco e una specie di cresta di penne colorate in capo. Indiani. Mi salutano: - Ciao, Gubbio. - Ciao, Si gira... Si gira è il mio nomignolo. Già! Càpita a una pacifica tartaruga d'acquattarsi proprio là, dove un ragazzaccio maleducato si china per fare un suo bisogno. Poco dopo, la povera bestiola ignara riprende pacificamente il suo tardo andare con su la scaglia il bisogno di quel ragazzaccio, torre inopinata. Intoppi della vita! Voi ci avete perduto un occhio, e il caso è stato grave. Ma siamo tutti, chi più chi meno, segnati, e non ce n'accorgiamo. La vita ci segna; e a chi attacca un vezzo, a chi una smorfia. No? Ma scusate, voi, proprio voi che dite di no... ecco, magnificamente... non inzeppate di continuo tutti i vostri discorsi di questo avverbio in -mente? "Andai magnificamente dove m'indicarono: lo vidi e gli dissi magnificamente: Ma come, tu, magnificamente..." Abbiate pazienza! Nessuno ancora vi chiama Signor Magnificamente... Serafino Gubbio (Si gira...) è stato più disgraziato. Senza accorgermene, mi sarà avvenuto forse qualche volta, o più volte di seguito, di ripetere, dopo il direttore di scena, la frase sacramentale: - Si gira... -; l'avrò ripetuta con la faccia composta a quell'aria che mi è propria, di professionale impassibilità, ed è bastato questo, perché tutti ora qua, per suggerimento di Fantappiè, mi chiamino Si gira... Tutti i pubblici d'Italia conoscono Fantappiè, l'attore comico della Kosmograph, che s'è specializzato nella caricatura della vita militare: Fantappiè consegnato in caserma e Fantappiè al campo di tiro; Fantappiè alle grandi manovre e Fantappiè areostiere; Fantappiè di sentinella e Fantappiè soldato coloniale... Egli se l'è appiccicato da sé, il nomignolo: un nomignolo che quadra bene alla sua specialità. Allo stato civile si chiama Roberto Chismicò. - Cicchetto, te ne sei avuto a male, che t'ho messo Si gira? - mi domandò, tempo fa. - No, caro - gli risposi sorridendo. - M'hai bollato. - Mi son bollato anch'io, va' là! Tutti bollati, sì. E più di tutti, quelli che meno se ne accorgono, caro Fantappiè.

III

Entro nel vestibolo a sinistra, e riesco nella rampa del cancello, inghiajata e incassata tra i fabbricati del secondo reparto, il Reparto Fotografico o del Positivo. In qualità d'operatore ho il privilegio d'aver un piede in questo reparto e l'altro nel Reparto Artistico o del Negativo. E tutte le meraviglie della complicazione industriale e così detta artistica mi sono familiari. Qua si compie misteriosamente l'opera delle macchine. Quanto di vita le macchine han mangiato con la voracità delle bestie afflitte da un verme solitario, si rovescia qua, nelle ampie stanze sotterranee, stenebrate appena da cupe lanterne rosse, che alluciano sinistramente d'una lieve tinta sanguigna le enormi bacinelle preparate per il bagno. La vita ingojata dalle macchine è lì, in quei vermi solitarii, dico nelle pellicole già avvolte nei telaj. Bisogna fissare questa vita, che non è più vita, perché un'altra macchina possa ridarle il movimento qui in tanti attimi sospeso. Siamo come in un ventre, nel quale si stia sviluppando e formando una mostruosa gestazione meccanica. E quante mani nell'ombra vi lavorano! C'è qui un intero esercito d'uomini e di donne: operatori, tecnici, custodi, addetti alle dinamo e agli altri macchinarii, ai prosciugatoj, all'imbibizione, ai viraggi, alla coloritura, alla perforatura della pellicola, alla legatura dei pezzi. Basta ch'io entri qui, in quest'oscurità appestata dal fiato delle macchine, dalle esalazioni delle sostanze chimiche, perché tutto il mio superfluo svapori. Mani, non vedo altro che mani, in queste camere oscure; mani affaccendate su le bacinelle; mani, cui il tetro lucore delle lanterne rosse dà un'apparenza spettrale. Penso che queste mani appartengono ad uomini che non sono più; che qui sono condannati ad esser mani soltanto: queste mani, strumenti. Hanno un cuore? A che serve? Qua non serve. Solo come strumento anch'esso di macchina, può servire, per muovere queste mani. E così la testa: solo per pensare ciò che a queste mani può servire. E a poco a poco m'invade tutto l'orrore della necessità che mi s'impone, di diventare anch'io una mano e nient'altro. Vado dal magazziniere a provvedermi di pellicola vergine, e preparo per il pasto la mia macchinetta. Assumo subito, con essa in mano, la mia maschera d'impassibilità. Anzi, ecco: non sono più. Cammina lei, adesso, con le mie gambe. Da capo a piedi, son cosa sua: faccio parte del suo congegno. La mia testa è qua, nella macchinetta, e me la porto in mano. Fuori, alla luce, per tutto il vastissimo recinto, è l'animazione gaja delle imprese che prosperano e compensano puntualmente e lautamente ogni lavoro; quello scorrer facile dell'opera nella sicurezza che non ci saranno intoppi e che ogni difficoltà, per la gran copia dei mezzi, sarà agevolmente superata; una febbre anzi di porsi, quasi per sfida, le difficoltà più strane e insolite, senza badare a spese, con la certezza che il danaro, speso adesso senza contarlo, ritornerà tra poco centuplicato. Scenografi, macchinisti, apparatori, falegnami, muratori e stuccatori, elettricisti, sarti e sarte, modiste, fioraj, tant'altri operaj addetti alla calzoleria, alla cappelleria, all'armeria, ai magazzini della mobilia antica e moderna, al guardaroba, son tutti affaccendati, ma non sul serio e neppure per giuoco. Solo i fanciulli han la divina fortuna di prendere sul serio i loro giuochi. La meraviglia è in loro; la rovesciano su le cose con cui giuocano, e se ne lasciano ingannare. Non è più un giuoco; è una realtà meravigliosa. Qui è tutto il contrario. Non si lavora per giuoco, perché nessuno ha voglia di giocare. Ma come prendere sul serio un lavoro, che altro scopo non ha, se non d'ingannare - non se stessi - ma gli altri? E ingannare, mettendo sù le più stupide finzioni, a cui la macchina è incaricata di dare la realtà meravigliosa? Ne vien fuori, per forza e senza possibilità d'inganno, un ibrido giuoco. Ibrido, perché in esso la stupidità della finzione tanto più si scopre e avventa, in quanto si vede attuata appunto col mezzo che meno si presta all'inganno: la riproduzione fotografica. Si dovrebbe capire, che il fantastico non può acquistare realtà, se non per mezzo dell'arte, e che quella realtà, che può dargli una macchina, lo uccide, per il solo fatto che gli è data da una macchina, cioè con un mezzo che ne scopre e dimostra la finzione per il fatto stesso che lo dà e presenta come reale. Ma se è meccanismo, come può esser vita, come può esser arte? È quasi come entrare in uno di quei musei di statue viventi, di cera, vestite e dipinte. Non si prova altro che la sorpresa (che qui può essere anche ribrezzo) del movimento, dove non è possibile l'illusione d'una realtà materiale. E nessuno crede sul serio di poterla creare, quest'illusione. Si fa alla meglio per dar roba da prendere alla macchina, qua nei cantieri, là nei quattro teatri di posa o nelle piattaforme. Il pubblico, come la macchina, prende tutto. Si fan denari a palate, e migliaja e migliaja di lire si possono spendere allegramente per la costruzione d'una scena, che su lo schermo non durerà più di due minuti. Apparatori, macchinisti, attori si dànno tutti l'aria d'ingannare la macchina, che darà apparenza di realtà a tutte le loro finzioni. Che sono io per essi, io che con molta serietà assisto impassibile, girando la manovella, a quel loro stupido giuoco?

IV

Permettete un momento. Vado a vedere la tigre. Dirò, seguiterò a dire, riprenderò il filo del discorso più tardi, non dubitate. Bisogna che vada, per ora, a vedere la tigre. Dacché l'hanno comperata, sono andato ogni giorno a visitarla, prima di mettermi all'opera. Due giorni soli non ho potuto, perché non me n'hanno dato il tempo. Abbiamo avuto qua altre bestie feroci sebbene molto immalinconite: due orsi bianchi, che passavano le giornate, ritti su le zampe di dietro, a picchiarsi il petto, come trinitarii in penitenza: tre leoncini freddolosi, ammucchiati sempre in un canto della gabbia, l'uno su l'altro: anche altre bestie, non propriamente feroci: un povero struzzo spaventato d'ogni rumore come un pulcino, e sempre incerto di posare il piede: parecchie scimmie indiavolate. La Kosmograph è fornita di tutto, e anche d'un serraglio, per quanto gl'inquilini vi durino poco. Nessuna bestia m'ha parlato come questa tigre. Quando noi l'abbiamo avuta, era arrivata da poco, dono di non so quale illustre personaggio straniero, al Giardino Zoologico di Roma. Al Giardino Zoologico non han potuto tenerla, perché assolutamente irriducibile, non dico a farle soffiare il naso col fazzoletto, ma neanche a rispettare le regole più elementari della vita sociale. Tre, quattro volte minacciò di saltare il fosso, si provò anzi a saltarlo, per lanciarsi sui visitatori del Giardino, che stavano pacificamente ad ammirarla da lontano. Ma qual altro pensiero più spontaneo di questo poteva sorgere in mente a una tigre (se non volete in mente, diciamo nelle zampe), che quel fosso cioè fosse fatto appunto perché essa si provasse a saltarlo e che quei signori si fermassero lì davanti per essere divorati da lei, se riusciva a saltare? È certo un pregio sapere stare allo scherzo; ma sappiamo che non tutti l'hanno. Parecchi non sanno neppure tollerare che altri pensi di poter scherzare con loro. Parlo di uomini, i quali pure, in astratto, possono riconoscer tutti che talvolta sia cosa lecita scherzare. La tigre, voi dite, non sta esposta in giardino zoologico per ischerzo. Lo credo. Ma non vi sembra uno scherzo pensare, ch'essa possa supporre che la teniate lì esposta per dare al popolo una "nozione vivente" di storia naturale? Eccoci al punto di prima. Questa - non essendo noi propriamente tigri ma uomini - è retorica. Possiamo aver compatimento per un uomo che non sappia stare allo scherzo; non dobbiamo averne per una bestia; tanto più se questo scherzo a cui l'abbiamo esposta, dico della "nozione vivente", può avere conseguenze funeste: cioè per i visitatori del Giardino Zoologico, una nozione troppo sperimentale della ferocia di essa. Questa tigre fu dunque saggiamente condannata a morte. La Società della Kosmograph riuscì a saperlo in tempo e la comperò. Ora è qui, in una gabbia del nostro serraglio. Dacché è qui, è saggissima. Come si spiega? Il nostro trattamento, senza dubbio, le sembra molto più logico. Qui non le data libertà di provarsi a saltare alcun fosso, nessuna illusione di colore locale, come nel Giardino Zoologico. Qui ha davanti le sbarre della gabbia, che le dicono di continuo: - Tu non puoi scappare; sei prigioniera; - e sta quasi tutto il giorno sdrajata e rassegnata a guardare di tra queste sbarre, in un'attesa tranquilla e attonita. Ahimè, povera bestia, non sa che qui le toccherà ben altro, che quello scherzo della "nozione vivente"! Già è pronto lo scenario, di soggetto indiano, nel quale essa è destinata a rappresentare una delle parti principali. Scenario spettacoloso, per cui si spenderà qualche centinaio di migliaja di lire; ma quanto di più stupido e di più volgare si possa immaginare. Basterà darne il titolo: La donna e la tigre. La solita donna più tigre della tigre. Mi par d'avere inteso, che sarà una miss inglese in viaggio nelle Indie con un codazzo di corteggiatori. L'India sarà finta, la jungla sarà finta, il viaggio sarà finto, finta la miss e finti i corteggiatori: solo la morte di questa povera bestia non sarà finta. Ci pensate? E non vi sentite torcer le viscere dall'indignazione? Ucciderla, per propria difesa o per difesa dell'incolumità altrui, passi! Quantunque non da sé, per suo gusto, la belva sia venuta qua a esporsi in mezzo agli uomini, ma gli uomini stessi, per loro piacere, siano andati a catturarla, a strapparla dal suo covo selvaggio. Ma ucciderla così, in un bosco finto, in una caccia finta, per una stupida finzione, è vera nequizia che passa la parte! Uno dei corteggiatori, a un certo punto, sparerà contro un rivale a bruciapelo. Voi vedrete questo rivale traboccar giù, morto. Sissignori. Finita la scena, eccolo qua che si rialza, scotendosi dall'abito la polvere della piattaforma. Ma non si rialzerà più questa povera bestia, quando le avranno sparato. Porteranno via il bosco finto e anche, come un ingombro, il cadavere di lei. In mezzo a una finzione generale la sua morte sarà vera. E fosse almeno una finzione che con la sua bellezza e la sua nobiltà potesse in qualche modo compensare il sacrificio di questa bestia. No. Stupidissima. L'attore che la ucciderà, non saprà forse nemmeno perché l'avrà uccisa. La scena durerà un minuto, due minuti su lo schermo in projezione, e passerà senza lasciare un ricordo duraturo negli spettatori, che usciranno dalla sala sbadigliando: - Oh, Dio, che stupidaggine! Questo, o bella belva, t'aspetta. Tu non lo sai, e guardi di tra le sbarre della gabbia con codesti occhi spaventevoli, ove la pupilla a spicchio or si restringe or si dilata. Vedo quasi vaporare da tutto il tuo corpo, com'alito di bragia, la tua ferinità, e segnato nelle nere striature del tuo pelame l'impeto elastico degli slanci irrefrenabili. Chiunque t'osservi da vicino, gode della gabbia che t'imprigiona e che arresta anche in lui l'istinto feroce, che la tua vista gli rimuove irresistibilmente nel sangue. Tu qua non puoi stare altrimenti. O così imprigionata, o bisogna che tu sia uccisa; perché la tua ferocia - lo intendiamo - è innocente: la natura l'ha messa in te, e tu, adoprandola, ubbidisci a lei e non puoi avere rimorsi. Noi non possiamo tollerare che tu, dopo un pasto sanguinoso, possa dormir tranquillamente. La tua stessa innocenza fa innocenti noi della tua uccisione, quand'è per nostra difesa. Possiamo ucciderti, e poi, come te, dormir tranquillamente. Ma là, nelle terre selvagge, ove tu non ammetti che altri passi; non qua, non qua ove tu non sia venuta da te, per tuo piacere. La bella innocenza ingenua della tua ferocia rende qua nauseosa l'iniquità della nostra. Vogliamo difenderci da te, dopo averti portata qua, per nostro piacere, e ti teniamo in prigione: questa non è più la tua ferocia; quest'è ferocia perfida! Ma sappiamo, non dubitare, sappiamo anche andare più in là, far di meglio: t'uccideremo per giuoco, stupidamente. Un cacciatore finto, in una caccia finta, tra alberi finti... Saremo degni in tutto, veramente, dello scenario inventato. Tigri, più tigri d'una tigre. E dire che il sentimento che questo film in preparazione vorrà destare negli spettatori, è il disprezzo della ferocia umana. Noi la metteremo in opra, questa ferocia per giuoco, e contiamo anche di guadagnarci, se ci riesce bene, una bella somma. Guardi? Che guardi, bella belva innocente? È proprio così. Non sei qua per altro. E io, che t'amo e t'ammiro, quando t'uccideranno, girerò impassibile la manovella di questa graziosa macchinetta qua, la vedi? L'hanno inventata. Bisogna che agisca; bisogna che mangi. Mangia tutto, qualunque stupidità le mettano davanti. Mangerà anche te; mangia tutto, ti dico! E io la servo. Verrò a collocartela più da presso, quando tu, colpita a morte, darai gli ultimi tratti. Ah, non dubitare, ricaverà dalla tua morte tutto il profitto possibile! Non le accade mica di gustar tutti i giorni un pasto simile. Puoi aver questa consolazione. E, se vuoi, anche un'altra. Viene ogni giorno, come me, qua davanti alla tua gabbia, una donna a studiare come tu ti muovi, come volti la testa, come guardi. La Nestoroff. Ti par poco? T'ha eletto a sua maestra. Fortune come questa non càpitano a tutte le tigri. Al solito, ella prende sul serio la sua parte. Ma ho sentito dire, che la parte della miss "più tigre della tigre" non sarà assegnata a lei. Forse ella ancora non lo sa; crede che le spetti; e viene qui a studiare. Me l'hanno detto, ridendone. Ma io stesso l'altro giorno l'ho sorpresa, mentre veniva, e ho parlato con lei un buon pezzo.

V

Non si sta invano, capirete, per una mezz'ora a guardare e a considerare una tigre, a vedere in essa un'espressione della terra, ingenua, di là dal bene e dal male, incomparabilmente bella e innocente nella sua potenza feroce. Prima che da questa "originarietà" si scenda e s'arrivi a poter vedere innanzi a noi uno, o una che sia, dei giorni nostri, e a poter riconoscerla e considerarla come un'abitante della stessa terra - almeno per me; non so se anche per voi - ci vuole un bel po'. Rimasi dunque per un pezzo a guardare la signora Nestoroff senza riuscire a intendere ciò che mi diceva. Ma la colpa, in verità, non era soltanto mia e della tigre. Il fatto ch'ella mi rivolgesse la parola era insolito; e facilmente, se ci parli di sorpresa qualcuno con cui non abbiamo avuto relazioni di sorta, stentiamo in prima a cogliere il senso, talvolta anche il suono delle parole più comuni e domandiamo: - Scusi, com'ha detto? In poco più d'otto mesi, che son qui, tra me e lei, oltre i saluti, ci sarà stato lo scambio d'appena una ventina di parole. Poi, ella - sì, ci fu anche questo - appressandosi, cominciò a parlarmi con molta volubilità, come si suol fare quando vogliamo distrarre l'attenzione di qualcuno che ci sorprenda in qualche atto o pensiero che vorremmo tener nascosto. (La Nestoroff parla con meravigliosa facilità e con perfetto accento la nostra lingua, come se fosse in Italia da molti anni: ma salta subito a parlar francese, appena appena, anche momentaneamente, si alteri o si riscaldi.) Voleva saper da me, se mi paresse che la professione dell'attore fosse tale, che una qualsiasi bestia (anche non metaforicamente) si potesse credere atta, senz'altro, a esercitarla. - Dove? - le domandai. Non intese la domanda. - Ecco, - le spiegai, - se si tratta d'esercitarla qui, dove non c'è bisogno della parola, forse anche una bestia, perché no? può esser capace. La vidi infoscarsi in volto. - Sarà per questo - disse misteriosamente. Mi parve dapprima d'indovinare, ch'ella (come tutti gli attori di professione, scritturati qui) parlasse per dispetto di certuni, i quali, senz'averne bisogno, ma pur non sdegnando un guadagno facile, o per vanità, o per diletto, o per altro, trovano modo di farsi accettare dalla Casa e di prender posto tra gli attori, senza molta difficoltà, tolta di mezzo quella, che sarebbe più arduo per loro e forse impossibile superare senza un lungo tirocinio e una vera attitudine, voglio dire la recitazione. Ne abbiamo alla Kosmograph parecchi, che sono veri signori, tutti giovani tra i venti e i trent'anni, o amici di qualche forte caratista nell'Amministrazione della Casa, o caratisti essi stessi, che si dan l'aria d'assumere in qualche film questa o quella parte, che loro piaccia, solo per diporto; e la disimpegnano molto signorilmente, e qualcuno anche in maniera da far invidia a un vero attore. Ma, riflettendo poi sul tono misterioso con cui ella, infoscata all'improvviso, proferì quelle parole: - Sarà per questo, - il dubbio mi sorse, che forse le fosse arrivata la notizia che Aldo Nuti, non so ancora da qual parte, stia cercando la via per entrar qui. Questo dubbio mi turbò non poco. Perché veniva ella a domandare proprio a me, avendo in mente Aldo Nuti, se la professione dell'attore mi paresse tale, che ogni bestia potesse senz'altro credersi atta a esercitarla? Sapeva dunque della mia amicizia per Giorgio Mirelli? Non avevo ancora, e non ho tuttora, alcun motivo di crederlo. Dalle domande che accortamente le rivolsi per chiarirmene, non ho potuto almeno acquistarne la certezza. Non so perché, mi dispiacerebbe molto se ella sapesse che fui amico di Giorgio Mirelli, nella prima giovinezza di lui, e che mi fu familiare la villetta di Sorrento, ov'ella portò lo scompiglio e la morte. Non so perché - ho detto: ma non è vero; il perché lo so e n'ho già fatto anche cenno altrove. Non ho amore, ripeto qua, né potrei averne, per questa donna ma odio, neppure. Qua tutti la odiano; e già questa per me sarebbe ragione fortissima di non odiarla io. Sempre, nel giudicare gli altri, mi sono sforzato di superare il cerchio de' miei affetti, di cogliere nel frastuono della vita, fatto più di pianti che di risa, quante più note mi sia stato possibile fuori dell'accordo de' miei sentimenti. Ho conosciuto Giorgio Mirelli, ma come? ma quale? Qual egli era nelle relazioni che aveva con me. Tale, per me, ch'io l'amavo. Ma chi era egli e com'era nelle relazioni con questa donna? Tale, ch'ella potesse amarlo? Io non lo so! Certo, non era, non poteva essere uno - lo stesso - per me e per lei. E come potrei io dunque giudicare da lui questa donna? Abbiamo tutti un falso concetto dell'unità individuale. Oggi unità nelle relazioni degli elementi tra loro; il che significa che, variando anche minimamente le relazioni, varia per forza l'unità. Si spiega così, come uno, che a ragione sia amato da me, possa con ragione essere odiato da un altro. Io che amo e quell'altro che odia, siamo due: non solo; ma l'uno, ch'io amo, e l'uno che quell'altro odia, non son punto gli stessi; sono uno e uno: sono anche due. E noi stessi non possiamo mai sapere, quale realtà ci sia data dagli altri; chi siamo per questo e per quello. Ora, se la Nestoroff venisse a sapere che fui molto amico di Giorgio Mirelli, forse sospetterebbe in me un odio per lei ch'io non sento: e basterebbe questo sospetto a farla diventare subito un'altra per me, pur rimanendo io nella medesima disposizione d'animo per lei; si vestirebbe per me d'una parte che me ne nasconderebbe tante altre; e non potrei più studiarla, com'ora la studio, intera. Le parlai della tigre, dei sentimenti che la presenza di essa in questo luogo e la sua sorte destano in me; ma mi accorsi subito ch'ella non era in grado d'intenderli, non forse per incapacità, ma perché le relazioni, che tra lei e la belva si sono stabilite, non le consentono né pietà per essa, né sdegno per l'azione che qui sarà compiuta. Mi disse acutamente: - Finzione, sì; anche stupida, se volete; ma quando sarà sollevato lo sportello della gabbia e questa bestia sarà fatta entrare nell'altra gabbia più grande che figurerà un pezzo di bosco, con le sbarre nascoste da fronde, il cacciatore, per quanto finto come il bosco, avrà pur diritto di difendersi da essa, appunto perché essa, come voi dite, non è una bestia finta, ma una bestia vera. - Ma il male è appunto questo, - esclamai: - servirsi d'una bestia vera dove tutto sarà finto. - Chi ve lo dice? - rimbeccò pronta. - Sarà finta la parte del cacciatore; ma di fronte a questa bestia vera sarà pure un uomo vero! E v'assicuro che se egli non la ucciderà al primo colpo, o non la ferirà in modo d'atterrarla, essa, senza tener conto che il cacciatore sarà finto e finta la caccia, gli salterà addosso e sbranerà per davvero un uomo vero. Sorrisi dell'arguzia della sua logica e dissi: - Ma chi l'avrà voluto? Guardatela com'essa è qua! Non sa nulla, questa bella bestia, senza colpa della sua ferocia. Mi guardò con occhi strani, come in sospetto che volessi burlarmi di lei; ma poi sorrise anch'ella, alzò appena appena le spalle e soggiunse: - Vi sta tanto a cuore? Ammaestratela! Fatene una tigre attrice, che sappia fingere di cader morta al finto sparo d'un cacciatore finto, e tutto allora sarà accomodato. A seguitare, non ci saremmo mai intesi; perché se a me stava a cuore la tigre, a lei il cacciatore. Difatti il cacciatore designato a ucciderla è Carlo Ferro. La Nestoroff ne dev'essere molto costernata; e forse non viene qua, come vogliono i maligni, per studiare la sua parte, ma per misurare il pericolo che il suo amante affronterà. Il quale, anche lui, per quanto ostenti una sprezzante indifferenza, dev'esserne, in fondo, in apprensione. So che, parlando col direttore generale, commendator Borgalli, e anche sù negli uffici d'amministrazione, ha messo avanti molte pretese: un'assicurazione su la vita di almeno centomila lire, da dare a' suoi parenti che vivono in Sicilia, in caso di morte, che non sia mai; un'altra assicurazione, più modesta, nel caso d'inabilità al lavoro per qualche eventuale ferita, che non sia mai neppure questa; una grossa gratificazione, se tutto, com'è da augurarsi, andrà bene, e poi - pretesa curiosa, non suggerita certo, come le precedenti, da un avvocato - la pelle della tigre uccisa. La pelle della tigre sarà senza dubbio per la Nestoroff; per i piedini di lei; tappeto prezioso. Oh, ella avrà certo sconsigliato all'amante, pregando, scongiurando, d'assumere quella parte così pericolosa; ma poi, vedendolo deciso e impegnato, avrà suggerito lei, proprio lei, al Ferro, di pretendere almeno la pelle della tigre. Come "almeno"? Ma sì! Ch'ella gli abbia detto "almeno", mi sembra proprio indubitabile. Almeno, cioè in compenso dell'ansia angosciosa che le costerà la prova, a cui egli s'esporrà. Non è possibile che sia venuta in mente a lui, a Carlo Ferro, l'idea d'aver la pelle della belva uccisa per metterla sotto i piedini della sua amante. Non è capace, Carlo Ferro, di tali idee. Basta guardarlo per convincersene: guardare quel suo nero testone villoso e burbanzoso di caprone. Egli sopravvenne, l'altro giorno, a interrompere la mia conversazione con la Nestoroff innanzi alla gabbia. Non si curò nemmeno di sapere di che cosa noi stessimo a parlare, come se per lui non potesse avere alcuna importanza una conversazione con me. Mi guardò appena, accostò appena la cannuccia di bambù al cappello per un cenno di saluto, guardò con la solita sprezzante indifferenza la tigre nella gabbia, dicendo all'amante: - Andiamo: Polacco è pronto; ci aspetta. E voltò le spalle, sicuro d'esser seguito dalla Nestoroff, come un tiranno dalla sua schiava. Nessuno più di lui sente e dimostra quell'istintiva antipatia, ch'io ho detto comune a quasi tutti gli attori per me, e che si spiega, o almeno, io mi spiego come un effetto, a loro stessi non chiaro, della mia professione. Carlo Ferro la sente più di tutti, perché, tra tante altre fortune, ha quella di credersi sul serio un grande attore.

Quaderni di Serafino Gubbio operatore
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