Scialle nero

di Luigi Pirandello

 

INDICE

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Scialle nero

Prima notte

Il «fumo»

Il tabernacolo

Difesa del Mèola (<I>Tonache di Montelusa</I>)

I fortunati (<I>Tonache di Montelusa</I>)

Visto che non piove... (<I>Tonache di Montelusa</I>)

Formalità

Il ventaglino

E due!

Amicissimi

Se...

Rimedio: la Geografia

Risposta

Il pipistrello

 

SCIALLE NERO

 

<B>I</B>

 

Aspetta qua, - disse il Bandi al D'Andrea. - Vado a prevenirla. Se s'ostina ancora, entrerai per forza.

Miopi tutti e due, parlavano vicinissimi, in piedi, l'uno di fronte all'altro. Parevano fratelli, della stessa età, della stessa corporatura: alti, magri, rigidi, di quella rigidezza angustiosa di chi fa tutto a puntino, con meticolosità. Ed era raro il caso che, parlando così tra loro, l'uno non aggiustasse all'altro col dito il sellino delle lenti sul naso, o il nodo della cravatta sotto il mento, oppure, non trovando nulla da aggiustare, non toccasse all'altro i bottoni della giacca. Parlavano, del resto, pochissimo. E la tristezza taciturna della loro indole si mostrava chiaramente nello squallore dei volti.

Cresciuti insieme, avevano studiato ajutandosi a vicenda fino all'Università, dove poi l'uno s'era laureato in legge, l'altro in medicina. Divisi ora, durante il giorno, dalle diverse professioni, sul tramonto facevano ancora insieme quotidianamente la loro passeggiata lungo il viale all'uscita del paese.

Si conoscevano così a fondo, che bastava un lieve cenno, uno sguardo, una parola, perché l'uno comprendesse subito il pensiero dell'altro. Dimodoché quella loro passeggiata principiava ogni volta con un breve scambio di frasi e seguitavano poi in silenzio, come se l'uno avesse dato all'altro da ruminare per un pezzo. E andavano a testa bassa, come due cavalli stanchi; entrambi con le mani dietro la schiena. A nessuno dei due veniva mai la tentazione di volgere un po' il capo verso la ringhiera del viale per godere la vista dell'aperta campagna sottostante, svariata di poggi e di valli e di piani, col mare in fondo, che s'accendeva tutto agli ultimi fuochi del tramonto: vista di tanta bellezza, che pareva perfino incredibile che quei due vi potessero passar davanti così, senza neppure voltarsi a guardare.

Giorni addietro il Bandi aveva detto al D'Andrea:

- Eleonora non sta bene.

Il D'Andrea aveva guardato negli occhi l'amico e compreso che il male della sorella doveva esser lieve:

- Vuoi che venga a visitarla?

- Dice di no.

E tutti e due, passeggiando, s'erano messi a pensare con le ciglia aggrottate, quasi per rancore, a quella donna che aveva fatto loro da madre e a cui dovevano tutto.

Il D'Andrea aveva perduto da ragazzo i genitori ed era stato accolto in casa d'uno zio, che non avrebbe potuto in alcun modo provvedere alla riuscita di lui. Eleonora Bandi, rimasta orfana anch'essa a diciotto anni col fratello molto più piccolo di lei, industriandosi dapprima con minute e sagge economie su quel po' che le avevano lasciato i genitori, poi lavorando, dando lezioni di pianoforte e di canto, aveva potuto mantenere agli studii il fratello, e anche l'amico indivisibile di lui.

- In compenso però, - soleva dire ridendo ai due giovani - mi son presa tutta la carne che manca a voi due.

Era infatti un donnone che non finiva mai; ma aveva tuttavia dolcissimi i lineamenti del volto, e l'aria ispirata di quegli angeloni di marmo che si vedono nelle chiese, con le tuniche svolazzanti. E lo sguardo dei begli occhi neri, che le lunghe ciglia quasi vellutavano, e il suono della voce armoniosa pareva volessero anch'essi attenuare, con un certo studio che le dava pena, l'impressione d'alterigia che quel suo corpo così grande poteva destare sulle prime; e ne sorrideva mestamente.

Sonava e cantava, forse non molto correttamente ma con foga appassionata. Se non fosse nata e cresciuta fra i pregiudizii d'una piccola città e non avesse avuto l'impedimento di quel fratellino, si sarebbe forse avventurata alla vita di teatro. Era stato quello, un tempo, il suo sogno; nient'altro che un sogno però. Aveva ormai circa quarant'anni. La considerazione, del resto, di cui godeva in paese per quelle sue doti artistiche la compensavano, almeno in parte, del sogno fallito, e la soddisfazione d'averne invece attuato un altro, quello cioè d'avere schiuso col proprio lavoro l'avvenire a due poveri orfani, la compensavano del lungo sacrifizio di se stessa.

Il dottor D'Andrea attese un buon pezzo nel salotto, che l'amico ritornasse a chiamarlo.

Quel salotto pieno di luce, quantunque dal tetto basso, arredato di mobili già consunti, d'antica foggia, respirava quasi un'aria d'altri tempi e pareva s'appagasse, nella quiete dei due grandi specchi a riscontro, dell'immobile visione della sua antichità scolorita. I vecchi ritratti di famiglia appesi alle pareti erano, là dentro, i veri e soli inquilini. Di nuovo, c'era soltanto il pianoforte a mezzacoda, il pianoforte d'Eleonora, che le figure effigiate in quei ritratti pareva guardassero in cagnesco.

Spazientito, alla fine, dalla lunga attesa, il dottore si alzò, andò fino alla soglia, sporse il capo, udì piangere nella camera di là, attraverso l'uscio chiuso. Allora si mosse e andò a picchiare con le nocche delle dita a quell'uscio.

- Entra, - gli disse il Bandi, aprendo. - Non riesco a capire perché s'ostina così.

- Ma perché non ho nulla! - gridò Eleonora tra le lagrime.

Stava a sedere su un ampio seggiolone di cuojo, vestita come sempre di nero, enorme e pallida; ma sempre con quel suo viso di bambinona, che ora pareva più che mai strano, e forse più ambiguo che strano, per un certo indurimento negli occhi, quasi di folle fissità, ch'ella voleva tuttavia dissimulare.

- Non ho nulla, v'assicuro, - ripeté più pacatamente. - Per carità, lasciatemi in pace: non vi date pensiero di me.

- Va bene! - concluse il fratello, duro e cocciuto. - Intanto, qua c'è Carlo. Lo dirà lui quello che hai. - E uscì dalla camera, richiudendo con furia l'uscio dietro di sé.

Eleonora si recò le mani al volto e scoppiò in violenti singhiozzi. Il D'Andrea rimase un pezzo a guardarla, fra seccato e imbarazzato; poi domandò:

- Perché? Che cos'ha? Non può dirlo neanche a me?

E come Eleonora seguitava a singhiozzare, le s'appressò, provò a scostarle con fredda delicatezza una mano dal volto:

- Si calmi, via; lo dica a me; ci son qua io.

Eleonora scosse il capo; poi, d'un tratto, afferrò con tutt'e due le mani la mano di lui, contrasse il volto, come per un fitto spasimo, e gemette:

- Carlo! Carlo!

Il D'Andrea si chinò su lei, un po' impacciato nel suo rigido contegno.

- Mi dica...

Allora ella gli appoggiò una guancia su la mano e pregò disperatamente, a bassa voce:

- Fammi, fammi morire, Carlo; ajutami tu, per carità! non trovo il modo; mi manca il coraggio, la forza.

- Morire? - domandò il giovane, sorridendo. - Che dice? Perché?

- Morire, sì! - riprese lei, soffocata dai singhiozzi. - Insegnami tu il modo. Tu sei medico. Toglimi da questa agonia, per carità! Debbo morire. Non c'è altro rimedio per me. La morte sola.

Egli la fissò, stupito. Anche lei alzò gli occhi a guardarlo, ma subito li richiuse, contraendo di nuovo il volto e restringendosi in sé, quasi colta da improvviso, vivissimo ribrezzo.

- Sì, sì, - disse poi, risolutamente. - Io, sì, Carlo: perduta! perduta!

Istintivamente il D'Andrea ritrasse la mano, ch'ella teneva ancora tra le sue.

- Come! Che dice? - balbettò.

Senza guardarlo, ella si pose un dito su la bocca, poi indicò la porta:

- Se lo sapesse! Non dirgli nulla, per pietà! Fammi prima morire; dammi, dammi qualche cosa: la prenderò come una medicina; crederò che sia una medicina, che mi dai tu; purché sia subito! Ah, non ho coraggio, non ho coraggio! Da due mesi, vedi, mi dibatto in quest'agonia, senza trovar la forza, il modo di farla finita. Che ajuto puoi darmi, tu, Carlo, che dici?

- Che ajuto? - ripeté il D'Andrea, ancora smarrito nello stupore.

Eleonora stese di nuovo le mani per prendergli un braccio e, guardandolo con occhi supplichevoli, soggiunse:

- Se non vuoi farmi morire, non potresti... in qualche altro modo... salvarmi?

Il D'Andrea, a questa proposta, s'irrigidì più che mai, aggrottando severamente le ciglia.

- Te ne scongiuro, Carlo! - insistette lei. - Non per me, non per me, ma perché Giorgio non sappia. Se tu credi che io abbia fatto qualche cosa per voi, per te, ajutami ora, salvami! Debbo finir così, dopo aver fatto tanto, dopo aver tanto sofferto? così, in questa ignominia, all'età mia? Ah, che miseria! che orrore!

- Ma come, Eleonora? Lei! Com'è stato? Chi è stato? - fece il D'Andrea, non trovando, di fronte alla tremenda ambascia di lei, che questa domanda per la sua curiosità sbigottita.

Di nuovo Eleonora indicò la porta e si coprì il volto con le mani:

- Non mi ci far pensare! Non posso pensarci! Dunque, non vuoi risparmiare a Giorgio questa vergogna?

- E come? - domandò il D'Andrea. - Delitto, sa! Sarebbe un doppio delitto. Piuttosto, mi dica: non si potrebbe in qualche altro modo... rimediare?

- No! - rispose lei, recisamente, infoscandosi. - Basta. Ho capito. Lasciami! Non ne posso più...

Abbandonò il capo su la spalliera del seggiolone, rilassò le membra: sfinita.

Carlo D'Andrea, con gli occhi fissi dietro le grosse lenti da miope, attese un pezzo, senza trovar parole, non sapendo ancor credere a quella rivelazione, né riuscendo a immaginare come mai quella donna, finora esempio, specchio di virtù, d'abnegazione, fosse potuta cadere nella colpa. Possibile? Eleonora Bandi? Ma se aveva in gioventù, per amore del fratello, rifiutato tanti partiti, uno più vantaggioso dell'altro! Come mai ora, ora che la gioventù era tramontata... - Eh! ma forse per questo...

La guardò, e il sospetto, di fronte a quel corpo così voluminoso, assunse all'improvviso, agli occhi di lui magro, un aspetto orribilmente sconcio e osceno.

- Va', dunque, - gli disse a un tratto, irritata, Eleonora, che pur senza guardarlo, in quel silenzio, si sentiva addosso l'inerte orrore di quel sospetto negli occhi di lui. - Va', va', a dirlo a Giorgio, perché faccia subito di me quello che vuole. Va'.

Il D'Andrea uscì, quasi automaticamente. Ella sollevò un poco il capo per vederlo uscire; poi, appena richiuso l'uscio, ricadde nella positura di prima.

 

<B>II</B>

 

Dopo due mesi d'orrenda angoscia, quella confessione del suo stato la sollevò, insperatamente. Le parve che il più, ormai, fosse fatto.

Ora, non avendo più forza di lottare, di resistere a quello strazio, si sarebbe abbandonata, così, alla sorte, qualunque fosse.

Il fratello, tra breve, sarebbe entrato e l'avrebbe uccisa? Ebbene: tanto meglio! Non aveva più diritto a nessuna considerazione, a nessun compatimento. Aveva fatto, sì, per lui e per quell'altro ingrato, più del suo dovere, ma in un momento poi aveva perduto il frutto di tutti i suoi benefizi.

Strizzò gli occhi, colta di nuovo dal ribrezzo.

Nel segreto della propria coscienza, si sentiva pure miseramente responsabile del suo fallo. Sì, lei, lei che per tanti anni aveva avuto la forza di resistere a gli impulsi della gioventù, lei che aveva sempre accolto in sé sentimenti puri e nobili, lei che aveva considerato il proprio sacrifizio come un dovere: in un momento, perduta! Oh miseria! miseria!

L'unica ragione che sentiva di potere addurre in sua discolpa, che valore poteva avere davanti al fratello? Poteva dirgli: «Guarda, Giorgio, che sono forse caduta per te»? Eppure la verità era forse questa.

Gli aveva fatto da madre, è vero? a quel fratello. Ebbene: in premio di tutti i benefizi lietamente prodigati, in premio del sacrifizio della propria vita, non le era stato concesso neanche il piacere di scorgere un sorriso, anche lieve, di soddisfazione su le labbra di lui e dell'amico. Pareva che avessero entrambi l'anima avvelenata di silenzio e di noja, oppressa come da una scimunita angustia. Ottenuta la laurea, s'eran subito buttati al lavoro, come due bestie; con tanto impegno, con tanto accanimento che in poco tempo erano riusciti a bastare a se stessi. Ora, questa fretta di sdebitarsi in qualche modo, come se a entrambi non ne paresse l'ora, l'aveva proprio ferita nel cuore. Quasi d'un tratto, così, s'era trovata senza più scopo nella vita. Che le restava da fare, ora che i due giovani non avevano più bisogno di lei? E aveva perduto, irrimediabilmente, la gioventù.

Neanche coi primi guadagni della professione era tornato il sorriso su le labbra del fratello. Sentiva forse ancora il peso del sacrifizio ch'ella aveva fatto per lui? si sentiva forse vincolato da questo sacrifizio per tutta la vita, condannato a sacrificare a sua volta la propria gioventù, la libertà dei proprii sentimenti alla sorella? E aveva voluto parlargli a cuore aperto:

- Non prenderti nessun pensiero di me, Giorgio! Io voglio soltanto vederti lieto, contento... capisci?

Ma egli le aveva troncato subito in bocca le parole:

- Zitta, zitta! Che dici? So quel che debbo fare. Ora spetta a me.

- Ma come? così? - avrebbe voluto gridargli, lei, che, senza pensarci due volte, s'era sacrificata col sorriso sempre su le labbra e il cuor leggero.

Conoscendo la chiusa, dura ostinazione di lui, non aveva insistito. Ma, intanto, non si sentiva di durare in quella tristezza soffocante.

Egli raddoppiava di giorno in giorno i guadagni della professione; la circondava d'agi; aveva voluto che smettesse di dar lezioni. In quell'ozio forzato, che la avviliva, aveva allora accolto, malauguratamente, un pensiero che, dapprincipio, quasi l'aveva fatta ridere:

«Se trovassi marito!».

Ma aveva già trentanove anni, e poi con quel corpo... oh via! - avrebbe dovuto fabbricarselo apposta, un marito. Eppure, sarebbe stato l'unico mezzo per liberar sé e il fratello da quell'opprimente debito di gratitudine.

Quasi senza volerlo, s'era messa allora a curare insolitamente la persona, assumendo una cert'aria di nubile che prima non s'era mai data.

Quei due o tre che un tempo l'avevano chiesta in matrimonio, avevano ormai moglie e figliuoli. Prima, non se n'era mai curata; ora, a ripensarci, ne provava dispetto; provava invidia di tante sue amiche che erano riuscite a procurarsi uno stato.

Lei sola era rimasta così...

Ma forse era in tempo ancora: chi sa? Doveva proprio chiudersi così la sua vita sempre attiva? in quel vuoto? doveva spegnersi così quella fiamma vigile del suo spirito appassionato? in quell'ombra?

E un profondo rammarico l'aveva invasa, inasprito talvolta da certe smanie, che alteravano le sue grazie spontanee, il suono delle sue parole, delle sue risa. Era divenuta pungente, quasi aggressiva nei discorsi. Si rendeva conto lei stessa del cangiamento della propria indole; provava in certi momenti quasi odio per se stessa, repulsione per quel suo corpo vigoroso, ribrezzo dei desiderii insospettati in cui esso, ora, all'improvviso, le s'accendeva turbandola profondamente.

Il fratello, intanto, coi risparmi, aveva di recente acquistato un podere e vi aveva fatto costruire un bel villino.

Spinta da lui, vi era andata dapprima per un mese in villeggiatura; poi, riflettendo che il fratello aveva forse acquistato quel podere per sbarazzarsi di tanto in tanto di lei, aveva deliberato di ritirarsi colà per sempre. Così, lo avrebbe lasciato libero del tutto: non gli avrebbe più dato la pena della sua compagnia, della sua vista, e anche lei a poco a poco, là, si sarebbe tolta quella strana idea dal capo, di trovar marito all'età sua.

I primi giorni eran trascorsi bene, e aveva creduto che le sarebbe stato facile seguitare così.

Aveva già preso l'abitudine di levarsi ogni giorno all'alba e di fare una lunga passeggiata per i campi, fermandosi di tratto in tratto, incantata, ora per ascoltare nell'attonito silenzio dei piani, ove qualche filo d'erba vicino abbrividiva alla frescura dell'aria, il canto dei galli, che si chiamavano da un'aja all'altra; ora per ammirare qualche masso tigrato di gromme verdi, o il velluto del lichene sul vecchio tronco stravolto di qualche olivo saraceno.

Ah, lì, così vicina alla terra, si sarebbe presto rifatta un'altr'anima, un altro modo di pensare e di sentire; sarebbe divenuta come quella buona moglie del mezzadro che si mostrava così lieta di tenerle compagnia e che già le aveva insegnato tante cose della campagna, tante cose pur così semplici della vita e che ne rivelano tuttavia un nuovo senso profondo, insospettato.

Il mezzadro, invece, era insoffribile: si vantava d'aver idee larghe, lui: aveva girato il mondo, lui; era stato in America, otto anni a <I>Benossarie;</I> e non voleva che il suo unico figliuolo, Gerlando, fosse un vile zappaterra. Da tredici anni, pertanto, lo manteneva alle scuole; voleva dargli «un po' di lettera», diceva, per poi spedirlo in America, là, nel gran paese, dove senza dubbio avrebbe fatto fortuna.

Gerlando aveva diciannove anni e in tredici di scuola era arrivato appena alla terza tecnica. Era un ragazzone rude, tutto d'un pezzo. Quella fissazione del padre costituiva per lui un vero martirio. Praticando coi compagni di scuola, aveva preso, senza volere, una cert'aria di città, che però lo rendeva più goffo.

A forza d'acqua, ogni mattina, riusciva a rassettarsi i capelli ispidi, a tirarvi una riga da un lato; ma poi quei capelli, rasciugati, gli si drizzavan compatti e irsuti di qua e di là, come se gli schizzassero dalla cute del cranio; anche le sopracciglia pareva gli schizzassero poco più giù dalla fronte bassa, e già dal labbro e dal mento cominciavano a schizzare i primi peli dei baffi e della barba, a cespuglietti. Povero Gerlando! faceva compassione, così grosso, così duro, così ispido, con un libro aperto davanti. Il padre doveva sudare una camicia, certe mattine, per scuoterlo dai saporiti sonni profondi, di porcellone satollo e pago, e avviarlo ancora intontito e barcollante, con gli occhi imbambolati, alla vicina città; al suo martirio.

Venuta in campagna la signorina, Gerlando le aveva fatto rivolgere dalla madre la preghiera di persuadere al padre che la smettesse di tormentarlo con questa scuola, con questa scuola, con questa scuola! Non ne poteva più!

E difatti Eleonora s'era provata a intercedere; ma il mezzadro, - ah, nonononò - ossequio, rispetto, tutto il rispetto per la signorina; ma anche preghiera di non immischiarsi. Ed allora essa, un po' per pietà, un po' per ridere, un po' per darsi da fare, s'era messa ad ajutare quel povero giovanotto, fin dove poteva.

Lo faceva, ogni dopo pranzo, venir su coi libri e i quaderni della scuola. Egli saliva impacciato e vergognoso, perché s'accorgeva che la padrona prendeva a goderselo per la sua balordaggine, per la sua durezza di mente; ma che poteva farci? il padre voleva così. Per lo studio, eh, sì: bestia; non aveva difficoltà a riconoscerlo; ma se si fosse trattato d'atterrare un albero, un bue, eh perbacco... - e Gerlando mostrava le braccia nerborute, con certi occhi teneri e un sorriso di denti bianchi e forti...

Improvvisamente, da un giorno all'altro, ella aveva troncato quelle lezioni; non aveva più voluto vederlo; s'era fatto portare dalla città il pianoforte e per parecchi giorni s'era chiusa nella villa a sonare, a cantare, a leggere, smaniosamente. Una sera, in fine, s'era accorta che quel ragazzone, privato così d'un tratto dell'ajuto di lei, della compagnia ch'ella gli concedeva e degli scherzi che si permetteva con lui, s'appostava per spiarla, per sentirla cantare o sonare: e, cedendo a una cattiva ispirazione, aveva voluto sorprenderlo, lasciando d'un tratto il pianoforte e scendendo a precipizio la scala della villa.

- Che fai lì?

- Sto a sentire...

- Ti piace?

- Tanto, sì signora... Mi sento in paradiso.

A questa dichiarazione era scoppiata a ridere; ma, all'improvviso, Gerlando, come sferzato in faccia da quella risata, le era saltato addosso, lì, dietro la villa, nel bujo fitto, oltre la zona di luce che veniva dal balcone aperto lassù.

Così era stato.

Sopraffatta a quel modo, non aveva saputo respingerlo; s'era sentita mancare - non sapeva più come - sotto quell'impeto brutale e s'era abbandonata, sì, cedendo pur senza voler concedere.

Il giorno dopo, aveva fatto ritorno in città.

E ora? come mai Giorgio non entrava a svergognarla? Forse il D'Andrea non gli aveva detto ancor nulla: forse pensava al modo di salvarla. Ma come?

Si nascose il volto tra le mani, quasi per non vedere il vuoto che le s'apriva davanti. Ma era pur dentro di lei quel vuoto. E non c'era rimedio. La morte sola. Quando? come?

L'uscio, a un tratto, s'aprì, e Giorgio apparve su la soglia scontraffatto, pallidissimo, coi capelli scompigliati e gli occhi ancora rossi di pianto. Il D'Andrea lo teneva per un braccio.

- Voglio sapere questo soltanto, - disse alla sorella, a denti stretti, con voce fischiante, quasi scandendo le sillabe: - Voglio sapere <I>chi è stato</I>.

Eleonora, a capo chino, con gli occhi chiusi, scosse lentamente il capo e riprese a singhiozzare.

- Me lo dirai, - gridò il Bandi, appressandosi, trattenuto dall'amico. - E chiunque sia, tu lo sposerai!

- Ma no, Giorgio! - gemette allora lei, raffondando vie più il capo e torcendosi in grembo le mani. - No! non è possibile! non è possibile!

- È ammogliato? - domandò lui, appressandosi di più, coi pugni serrati, terribile.

- No, - s'affrettò a risponder lei. - Ma non è possibile, credi!

- Chi è? - riprese il Bandi, tutto fremente, stringendola da presso. - Chi è? subito, il nome!

Sentendosi addosso la furia del fratello, Eleonora si strinse nelle spalle, si provò a sollevare appena il capo e gemette sotto gli occhi inferociti di lui:

- Non posso dirtelo...

- Il nome, o t'ammazzo! - ruggì allora il Bandi, levando un pugno sul capo di lei.

Ma il D'Andrea s'interpose, scostò l'amico, poi gli disse severamente:

- Tu va'. Lo dirà a me. Va', va'...

E lo fece uscire, a forza, dalla camera.

 

<B>III</B>

 

Il fratello fu irremovibile.

Ne' pochi giorni che occorsero per le pubblicazioni di rito, prima del matrimonio, s'accanì nello scandalo. Per prevenir le beffe che s'aspettava da tutti, prese ferocemente il partito d'andar sbandendo la sua vergogna, con orribili crudezze di linguaggio. Pareva impazzito; e tutti lo commiseravano.

Gli toccò, tuttavia, a combattere un bel po' col mezzadro, per farlo condiscendere alle nozze del figliuolo.

Quantunque d'idee larghe, il vecchio, dapprima, parve cascasse dalle nuvole: non voleva creder possibile una cosa simile. Poi disse:

- Vossignoria non dubiti: me lo pesterò sotto i piedi; sa come? come si pigia l'uva. O piuttosto, facciamo così: glielo consegno, legato mani e piedi; e Vossignoria si prenderà tutta quella soddisfazione che vuole. Il nerbo, per le nerbate, glielo procuro io, e glielo tengo prima apposta tre giorni in molle, perché picchi più sodo.

Quando però comprese che il padrone non intendeva questo, ma voleva altro, il matrimonio, trasecolò di nuovo:

- Come! Che dice, Vossignoria? Una signorona di quella fatta col figlio d'un vile zappaterra?

E oppose un reciso rifiuto.

- Mi perdoni. Ma la signorina aveva il giudizio e l'età; conosceva il bene e il male; non doveva far mai con mio figlio quello che fece. Debbo parlare? Se lo tirava su in casa tutti i giorni. Vossignoria m'intende... Un ragazzaccio... A quell'età, non si ragiona, non si bada... Ora ci posso perdere così il figlio, che Dio sa quanto mi costa? La signorina. Con rispetto parlando, gli può esser madre...

Il Bandi dovette promettere la cessione in dote del podere e un assegno giornaliero alla sorella.

Così il matrimonio fu stabilito; e, quando ebbe luogo, fu un vero avvenimento per quella cittaduzza.

Parve che tutti provassero un gran piacere nel far pubblicamente strazio dell'ammirazione, del rispetto per tanti anni tributati a quella donna; come se tra l'ammirazione e il rispetto, di cui non la stimavano più degna, e il dileggio, con cui ora la accompagnavano a quelle nozze vergognose, non ci potesse esser posto per un po' di commiserazione.

La commiserazione era tutta per il fratello; il quale, s'intende, non volle prender parte alla cerimonia. Non vi prese parte neanche il D'Andrea, scusandosi che doveva tener compagnia, in quel triste giorno, al suo povero Giorgio.

Un vecchio medico della città, ch'era già stato di casa dei genitori d'Eleonora, e a cui il D'Andrea, venuto di fresco dagli studii, con tutti i fumi e le sofisticherie della novissima terapeutica, aveva tolto gran parte della clientela, si profferse per testimonio e condusse con sé un altro vecchio, suo amico, per secondo testimonio.

Con essi Eleonora si recò in vettura chiusa al Municipio; poi in una chiesetta fuorimano, per la cerimonia religiosa.

In un'altra vettura era lo sposo, Gerlando, torbido e ingrugnato, coi genitori.

Questi, parati a festa, stavano su di sé, gonfi e serii, perché, alla fin fine, il figlio sposava una vera signora, sorella d'un avvocato, e gli recava in dote una campagna con una magnifica villa, e denari per giunta. Gerlando, per rendersi degno del nuovo stato, avrebbe seguitato gli studii. Al podere avrebbe atteso lui, il padre, che se n'intendeva. La sposa era un po' anzianotta? Tanto meglio! L'erede già c'era per via. Per legge di natura ella sarebbe morta prima, e Gerlando allora sarebbe rimasto libero e ricco.

Queste e consimili riflessioni facevano anche, in una terza vettura, i testimonii dello sposo, contadini amici del padre, in compagnia di due vecchi zii materni. Gli altri parenti e amici dello sposo innumerevoli, attendevano nella villa, tutti parati a festa, con gli abiti di panno turchino, gli uomini; con le mantelline nuove e i fazzoletti dai colori più sgargianti, le donne; giacché il mezzadro, d'idee larghe, aveva preparato un trattamento proprio coi fiocchi.

Al Municipio, Eleonora, prima d'entrare nell'aula dello Stato civile, fu assalita da una convulsione di pianto; lo sposo che si teneva discosto, in crocchio coi parenti, fu spinto da questi ad accorrere; ma il vecchio medico lo pregò di non farsi scorgere, di star lontano, per il momento.

Non ben rimessa ancora da quella crisi violenta, Eleonora entrò nell'aula; si vide accanto quel ragazzo, che l'impaccio e la vergogna rendevano più ispido e goffo; ebbe un impeto di ribellione; fu per gridare: «No! No!» e lo guardò come per spingerlo a gridar così anche lui. Ma poco dopo dissero <I>sì</I> tutti e due, come condannati a una pena inevitabile. Sbrigata in gran fretta l'altra funzione nella chiesetta solitaria, il triste corteo s'avviò alla villa. Eleonora non voleva staccarsi dai due vecchi amici; ma le fu forza salire in vettura con lo sposo e coi suoceri.

Strada facendo, non fu scambiata una parola nella vettura.

Il mezzadro e la moglie parevano sbigottiti: alzavano di tanto in tanto gli occhi per guardar di sfuggita la nuora; poi si scambiavano uno sguardo e riabbassavano gli occhi. Lo sposo guardava fuori, tutto ristretto in sé, aggrottato.

In villa, furono accolti con uno strepitoso sparo di mortaretti e grida festose e battimani. Ma l'aspetto e il contegno della sposa raggelarono tutti i convitati, per quanto ella si provasse anche a sorridere a quella buona gente, che intendeva farle festa a suo modo, come usa negli sposalizi.

Chiese presto licenza di ritirarsi sola; ma nella camera in cui aveva dormito durante la villeggiatura, trovando apparecchiato il letto nuziale, s'arrestò di botto, su la soglia: - Lì? con lui? No! Mai! Mai! - E, presa da ribrezzo, scappò in un'altra camera: vi si chiuse a chiave; cadde a sedere su una seggiola, premendosi forte, forte, il volto con tutt'e due le mani.

Le giungevano, attraverso l'uscio, le voci, le risa dei convitati, che aizzavano di là Gerlando, lodandogli, più che la sposa, il buon parentado che aveva fatto e la bella campagna.

Gerlando se ne stava affacciato al balcone e, per tutta risposta, pieno d'onta, scrollava di tratto in tratto le poderose spalle.

Onta sì, provava onta d'esser marito a quel modo, di quella signora: ecco! E tutta la colpa era del padre, il quale, per quella maledetta fissazione della scuola, lo aveva fatto trattare al modo d'un ragazzaccio stupido e inetto dalla signorina, venuta in villeggiatura, abilitandola a certi scherzi che lo avevano ferito. Ed ecco, intanto, quel che n'era venuto. Il padre non pensava che alla bella campagna. Ma lui, come avrebbe vissuto d'ora in poi, con quella donna che gl'incuteva tanta soggezione, e che certo gliene voleva per la vergogna e il disonore? Come avrebbe ardito d'alzar gli occhi in faccia a lei? E, per giunta, il padre pretendeva ch'egli seguitasse a frequentar la scuola! Figurarsi la baja che gli avrebbero data i compagni! Aveva venti anni più di lui, la moglie, e pareva una montagna, pareva...

Mentre Gerlando si travagliava con queste riflessioni, il padre e la madre attendevano a gli ultimi preparativi del pranzo. Finalmente l'uno e l'altra entrarono trionfanti nella sala, dove già la mensa era apparecchiata. Il servizio da tavola era stato fornito per l'avvenimento da un trattore della città che aveva anche inviato un cuoco e due camerieri per servire il pranzo.

Il mezzadro venne a trovar Gerlando al balcone e gli disse:

- Va' ad avvertire tua moglie che a momenti sarà pronto.

- Non ci vado, gnornò! - grugnì Gerlando, pestando un piede. - Andateci voi.

- Spetta a te, somarone! - gli gridò il padre. - Tu sei il marito: va'!

- Grazie tante... Gnornò! non ci vado! - ripeté Gerlando, cocciuto, schermendosi.

Allora il padre, irato, lo tirò per il bavero della giacca e gli diede uno spintone.

- Ti vergogni, bestione? Ti ci sei messo, prima? E ora ti vergogni? Va'! È tua moglie!

I convitati accorsero a metter pace, a persuadere Gerlando a andare.

- Che male c'è? Le dirai che venga a prendere un boccone...

- Ma se non so neppure come debba chiamarla! - gridò Gerlando, esasperato.

Alcuni convitati scoppiarono a ridere, altri furono pronti a trattenere il mezzadro che s'era lanciato per schiaffeggiare il figlio imbecille che gli guastava così la festa preparata con tanta solennità e tanta spesa.

- La chiamerai col suo nome di battesimo, - gli diceva intanto, piano e persuasiva, la madre. - Come si chiama? Eleonora, è vero? e tu chiamala Eleonora. Non è tua moglie? Va', figlio mio, va'... E, così dicendo, lo avviò alla camera nuziale.

Gerlando andò a picchiare all'uscio. Picchiò una prima volta, piano. Attese. Silenzio. Come le avrebbe detto? Doveva proprio darle del tu, così alla prima? Ah, maledetto impiccio! E perché, intanto, ella non rispondeva? Forse non aveva inteso. Ripicchiò più forte. Attese. Silenzio.

Allora, tutto impacciato, si provò a chiamare a bassa voce, come gli aveva suggerito la madre. Ma gli venne fuori un <I>Eneolora</I> così ridicolo, che subito, come per cancellarlo, chiamò forte, franco:

- Eleonora!

Intese alla fine la voce di lei che domandava dietro l'uscio di un'altra stanza:

- Chi è?

S'appressò a quell'uscio, col sangue tutto rimescolato.

- Io, - disse - io Ger... Gerlando... È pronto.

- Non posso, - rispose lei. - Fate senza di me.

Gerlando tornò in sala, sollevato da un gran peso.

- Non viene! Dice che non viene! Non può venire!

- Viva il bestione! - esclamò allora il padre, che non lo chiamava altrimenti. - Le hai detto ch'era in tavola? E perché non l'hai forzata a venire?

La moglie s'interpose: fece intendere al marito che sarebbe stato meglio. forse, lasciare in pace la sposa, per quel giorno. I convitati approvarono.

- L'emozione... il disagio... si sa!

Ma il mezzadro che s'era inteso di dimostrare alla nuora che, all'occorrenza, sapeva far l'obbligo suo, rimase imbronciato e ordinò con mala grazia che il pranzo fosse servito.

C'era il desiderio dei piatti fini, ch'ora sarebbero venuti in tavola, ma c'era anche in tutti quei convitati una seria costernazione per tutto quel superfluo che vedevano luccicar sulla tovaglia nuova, che li abbagliava: quattro bicchieri di diversa forma e forchette e forchettine, coltelli e coltellini, e certi pennini, poi, dentro gl'involtini di cartavelina.

Seduti ben discosti dalla tavola, sudavano anche per i grevi abiti di panno della festa, e si guardavano nelle facce dure, arsicce, svisate dall'insolita pulizia; e non osavano alzar le grosse mani sformate dai lavori della campagna per prendere quelle forchette d'argento (la piccola o la grande?) e quei coltelli, sotto gli occhi dei camerieri che, girando coi serviti, con quei guanti di filo bianco incutevano loro una terribile soggezione.

Il mezzadro, intanto, mangiando, guardava il figlio e scrollava il capo, col volto atteggiato di derisoria commiserazione:

- Guardatelo, guardatelo! - borbottava tra sé. - Che figura ci fa, lì solo, spajato, a capo tavola? Come potrà la sposa aver considerazione per uno scimmione così fatto? Ha ragione, ha ragione di vergognarsi di lui. Ah, se fossi stato io al posto suo!

Finito il pranzo fra la musoneria generale, i convitati, con una scusa o con un'altra, andarono via. Era già quasi sera.

- E ora? - disse il padre a Gerlando, quando i due camerieri finirono di sparecchiar la tavola, e tutto nella villa ritornò tranquillo. - Che farai, ora? Te la sbroglierai tu!

E ordinò alla moglie di seguirlo nella casa colonica, ove abitavano, poco discosto dalla villa.

Rimasto solo, Gerlando si guardò attorno, aggrondato, non sapendo che fare.

Sentì nel silenzio la presenza di quella che se ne stava chiusa di là. Forse, or ora, non sentendo più alcun rumore, sarebbe uscita dalla stanza. Che avrebbe dovuto far lui, allora?

Ah, come volentieri se ne sarebbe scappato a dormire nella casa colonica, presso la madre, o anche giù all'aperto. Sotto un albero, magari!

E se lei intanto s'aspettava d'esser chiamata? Se, rassegnata alla condanna che aveva voluto infliggerle il fratello, si riteneva in potere di lui, suo marito, e aspettava che egli la... sì, la invitasse a...

Tese l'orecchio. Ma no: tutto era silenzio. Forse s'era già addormentata. Era già bujo. Il lume della luna entrava, per il balcone aperto, nella sala.

Senza pensar d'accendere il lume, Gerlando prese una seggiola e si recò a sedere al balcone, che guardava tutt'intorno, dall'alto, l'aperta campagna declinante al mare laggiù in fondo, lontano.

Nella notte chiara splendevano limpide le stelle maggiori; la luna accendeva sul mare una fervida fascia d'argento; dai vasti piani gialli di stoppia si levava tremulo il canto dei grilli, come un fitto, continuo scampanellio. A un tratto, un assiolo, da presso, emise un <I>chiù</I> languido, accorante; da lontano un altro gli rispose, come un'eco, e tutti e due seguitarono per un pezzo a singultar così, nella chiara notte.

Con un braccio appoggiato alla ringhiera del balcone, egli allora, istintivamente, per sottrarsi all'oppressione di quell'incertezza smaniosa, fermò l'udito a quei due <I>chiù</I> che si rispondevano nel silenzio incantato dalla luna; poi, scorgendo laggiù in fondo un tratto del muro che cingeva tutt'intorno il podere, pensò che ora tutta quella terra era sua; suoi quegli alberi: olivi, mandorli, carrubi, fichi, gelsi; sua quella vigna.

Aveva ben ragione d'esserne contento il padre, che d'ora in poi non sarebbe stato più soggetto a nessuno.

Alla fin fine, non era tanto stramba l'idea di fargli seguitare gli studii. Meglio lì, meglio a scuola, che qua tutto il giorno, in compagnia della moglie. A tenere a posto quei compagni che avessero voluto ridere alle sue spalle, ci avrebbe pensato lui. Era un signore, ormai, e non gl'importava più se lo cacciavano via dalla scuola. Ma questo non sarebbe accaduto. Anzi egli si proponeva di studiare d'ora innanzi con impegno, per potere un giorno, tra breve, figurare tra i «galantuomini» del paese, senza più sentirne soggezione, e parlare e trattare con loro, da pari a pari. Gli bastavano altri quattro anni di scuola per aver la licenza dell'Istituto tecnico: e poi, perito agronomo o ragioniere. Suo cognato allora, il signor avvocato, che pareva avesse buttato là, ai cani, la sorella, avrebbe dovuto fargli tanto di cappello. Sissignori. E allora egli avrebbe avuto tutto il diritto di dirgli: «Che mi hai dato? A me, quella vecchia? Io ho studiato, ho una professione da signore e potevo aspirare a una bella giovine, ricca e di buoni natali come lei!».

Così pensando, s'addormentò con la fronte sul braccio appoggiato alla ringhiera.

I due <I>chiù</I> seguitavano, l'uno qua presso, l'altro lontano; il loro alterno lamentio voluttuoso; la notte chiara pareva facesse tremolar su la terra il suo velo di luna sonoro di grilli, e arrivava ora da lontano, come un'oscura rampogna, il borboglio profondo del mare.

A notte avanzata, Eleonora apparve, come un'ombra, su la soglia del balcone.

Non s'aspettava di trovarvi il giovine addormentato. Ne provò pena e timore insieme. Rimase un pezzo a pensare se le convenisse svegliarlo per dirgli quanto aveva tra sé stabilito e toglierlo di lì; ma, sul punto di scuoterlo, di chiamarlo per nome, sentì mancarsi l'animo e si ritrasse pian piano, come un'ombra, nella camera dond'era uscita.

 

<B>IV.</B>

 

L'intesa fu facile.

Eleonora, la mattina dopo, parlò maternamente a Gerlando: lo lasciò padrone di tutto, libero di fare quel che gli sarebbe piaciuto, come se tra loro non ci fosse alcun vincolo. Per sé domandò solo d'esser lasciata lì, da canto, in quella cameretta, insieme con la vecchia serva di casa, che l'aveva vista nascere.

Gerlando, che a notte inoltrata s'era tratto dal balcone tutto indurito dall'umido a dormire sul divano della sala da pranzo, ora, così sorpreso nel sonno, con una gran voglia di stropicciarsi gli occhi coi pugni, aprendo la bocca per lo sforzo d'aggrottar le ciglia, perché voleva mostrare non tanto di capire, quanto d'esser convinto, disse a tutto di sì, di sì, col capo. Ma il padre e la madre, quando seppero di quel patto, montarono su tutte le furie, e invano Gerlando si provò a far intender loro che gli conveniva così, che anzi ne era più che contento.

Per quietare in certo qual modo il padre, dovette promettere formalmente che, ai primi d'ottobre, sarebbe ritornato a scuola. Ma, per ripicco, la madre gl'impose di scegliersi la camera più bella per dormire, la camera più bella per studiare, la camera più bella per mangiare... tutte le camere più belle!

- E comanda tu, a bacchetta, sai! Se no, vengo io a farti ubbidire e rispettare.

Giurò infine che non avrebbe mai più rivolto la parola a quella smorfiosa che le disprezzava così il figlio, un così bel pezzo di giovanotto, che colei non era neanco degna di guardare.

Da quel giorno stesso, Gerlando si mise a studiare, a riprendere la preparazione interrotta per gli esami di riparazione. Era già tardi, veramente: aveva appena ventiquattro giorni innanzi a sé; ma, chi sa! mettendoci un po' d'impegno, forse sarebbe riuscito a prendere finalmente quella licenza tecnica, per cui si torturava da tre anni.

Scosso lo sbalordimento angoscioso dei primi giorni, Eleonora, per consiglio della vecchia serva, si diede a preparare il corredino per il nascituro.

Non ci aveva pensato, e ne pianse.

Gesa, la vecchia serva, la ajutò, la guidò in quel lavoro, per cui era inesperta: le diede la misura per le prime camicine, per le prime cuffiette... Ah, la sorte le serbava questa consolazione, e lei non ci aveva ancora pensato; avrebbe avuto un piccino, una piccina a cui attendere, a cui consacrarsi tutta! Ma Dio doveva farle la grazia di mandarle un maschietto. Era già vecchia, sarebbe morta presto, e come avrebbe lasciato a quel padre una femminuccia, a cui lei avrebbe ispirato i suoi pensieri, i suoi sentimenti? Un maschietto avrebbe sofferto meno di quella condizione d'esistenza, in cui fra poco la mala sorte lo avrebbe messo.

Angosciata da questi pensieri, stanca del lavoro, per distrarsi, prendeva in mano uno di quei libri che l'altra volta s'era fatti spedire dal fratello, e si metteva a leggere. Ogni tanto, accennando col capo, domandava alla serva:

- Che fa?

Gesa si stringeva nelle spalle, sporgeva il labbro. poi rispondeva:

- Uhm! Sta con la testa sul libro. Dorme? Pensa? Chi sa!

Pensava, Gerlando: pensava che, tirate le somme, non era molto allegra la sua vita.

Ecco qua: aveva il podere, ed era come se non lo avesse; la moglie, e come se non l'avesse; in guerra coi parenti; arrabbiato con se stesso, che non riusciva a ritener nulla, nulla, nulla di quanto studiava.

E in quell'ozio smanioso, intanto, si sentiva dentro come un fermento d'acri desiderii; fra gli altri, quello della moglie, perché gli s'era negata. Non era più desiderabile, è vero, quella donna. Ma... che patto era quello? Egli era il marito, e doveva dirlo lui, se mai.

Si alzava; usciva dalla stanza; passava innanzi all'uscio della camera di lei; ma subito, intravedendola, sentiva cadersi ogni proposito di ribellione. Sbuffava e, tanto per non riconoscere che sul punto gliene mancava l'animo, diceva a se stesso che non ne valeva la pena.

Uno di quei giorni, finalmente tornò dalla città sconfitto, bocciato, bocciato ancora una volta agli esami di licenza tecnica. E ora basta! basta davvero! Non voleva più saperne! Prese libri, quaderni, disegni, squadre, astucci, matite e li portò giù, innanzi alla villa per farne un falò. Il padre accorse per impedirglielo; ma Gerlando, imbestialito, si ribellò:

- Lasciatemi fare! Sono il padrone!

Sopravvenne la madre; accorsero anche alcuni contadini che lavoravano nella campagna. Una fumicaja prima rada, poi a mano a mano più densa si sprigionò, tra le grida degli astanti, da quel mucchio di carte; poi un bagliore; poi crepitò la fiamma e si levò. Alle grida, si fecero al balcone Eleonora e la serva.

Gerlando, livido e gonfio come un tacchino, scagliava alle fiamme, scamiciato, furibondo, gli ultimi libri che teneva sotto il braccio, gli strumenti della sua lunga inutile tortura.

Eleonora si tenne a stento di ridere, a quello spettacolo, e si ritrasse in fretta dal balcone. Ma la suocera se ne accorse e disse al figlio:

- Ci prova gusto, sai? la signora; la fai ridere.

- Piangerà! - gridò allora Gerlando, minaccioso, levando il capo verso il balcone.

Eleonora intese la minaccia e impallidì: comprese che la stanca e mesta quiete, di cui aveva goduto finora, era finita per lei. Nient'altro che un momento di tregua le aveva concesso la sorte. Ma che poteva voler da lei quel bruto? Ella era già esausta: un altro colpo, anche lieve, l'avrebbe atterrata.

Poco dopo, si vide innanzi Gerlando, fosco e ansante.

- Si cangia vita da oggi! - le annunziò. - Mi son seccato. Mi metto a fare il contadino, come mio padre; e dunque tu smetterai di far la signora costà. Via, via tutta codesta biancheria! Chi nascerà sarà contadino anche lui, e dunque senza tanti lisci e tante gale. Licenzia la serva: farai tu da mangiare e baderai alla casa, come fa mia madre. Inteso?

Eleonora si levò, pallida e vibrante di sdegno:

- Tua madre è tua madre, - gli disse, guardandolo fieramente negli occhi. - Io sono io, e non posso diventare con te, villano, villana.

- Mia moglie sei! - gridò allora Gerlando, appressandosi violento e afferrandola per un braccio. - E farai ciò che voglio io; qua comando io, capisci?

Poi si volse alla vecchia serva e le indicò l'uscio:

- Via! Voi andate subito via! Non voglio serve per la casa!

- Vengo con te, Gesa! - gridò Eleonora cercando di svincolare il braccio che egli le teneva ancora afferrato.

Ma Gerlando non glielo lasciò; glielo strinse più forte; la costrinse a sedere.

- No! Qua! Tu rimani qua, alla catena, con me! Io per te mi son prese le beffe: ora basta! Vieni via, esci da codesto tuo covo. Non voglio star più solo a piangere la mia pena. Fuori! Fuori!

E la spinse fuori della camera.

- E che hai tu pianto finora? - gli disse lei con le lagrime a gli occhi. - Che ho preteso, io da te?

- Che hai preteso? Di non aver molestie, di non aver contatto con me, quasi che io fossi... che non meritassi confidenza da te, matrona! E m'hai fatto servire a tavola da una salariata, mentre toccava a te a servirmi, di tutto punto, come fanno le mogli.

- Ma che n'hai da fare tu, di me? - gli domandò, avvilita, Eleonora. - Ti servirò, se vuoi, con le mie mani, d'ora in poi. Va bene?

Ruppe, così dicendo, in singhiozzi, poi sentì mancarsi le gambe e s'abbandonò. Gerlando, smarrito, confuso, la sostenne insieme con Gesa, e tutt'e due la adagiarono su una seggiola.

Verso sera, improvvisamente, fu presa dalle doglie. Gerlando, pentito, spaventato, corse a chiamar la madre: un garzone fu spedito in città per una levatrice; mentre il mezzadro, vedendo già in pericolo il podere, se la nuora abortiva, bistrattava il figlio:

- Bestione, bestione, che hai fatto? E se ti muore. adesso? Se non hai più figli? Sei in mezzo a una strada! Che farai? Hai lasciato la scuola e non sai neppur tenere la zappa in mano. Sei rovinato!

- Che me ne importa? - gridò Gerlando. - Purché non abbia nulla lei!

Sopravvenne la madre, con le braccia per aria:

- Un medico! Ci vuole subito un medico! La vedo male!

- Che ha? - domandò Gerlando, allibito.

Ma il padre lo spinse fuori:

- Corri! Corri!

Per via, Gerlando, tutto tremante, s'avvilì, si mise a piangere, sforzandosi tuttavia di correre. A mezza strada s'imbatté nella levatrice che veniva in vettura col garzone.

- Caccia! caccia! - gridò. - Vado pel medico, muore!

Inciampò, stramazzò; tutto impolverato, riprese a correre, disperatamente, addentandosi la mano che s'era scorticata.

Quando tornò col medico alla villa, Eleonora stava per morire, dissanguata.

- Assassino! assassino! - nicchiava Gesa, attendendo alla padrona. - Lui è stato! Ha osato di metterle le mani addosso.

Eleonora però negava col capo. Si sentiva a mano a mano, col sangue, mancar la vita, a mano a mano le forze raffievolendo scemare; era già fredda... Ebbene: non si doleva di morire; era pur dolce così la morte, un gran sollievo, dopo le atroci sofferenze. E, col volto come di cera, guardando il soffitto, aspettava che gli occhi le si chiudessero da sé, pian piano, per sempre. Già non distingueva più nulla. Come in sogno rivide il vecchio medico che le aveva fatto da testimonio; e gli sorrise.

 

<B>V.</B>

 

Gerlando non si staccò dalla sponda del letto, né giorno né notte, per tutto il tempo che Eleonora vi giacque tra la vita e la morte.

Quando finalmente dal letto poté esser messa a sedere sul seggiolone, parve un'altra donna: diafana, quasi esangue. Si vide innanzi Gerlando, che sembrava uscito anch'esso da una mortale malattia, e premurosi attorno i parenti di lui. Li guardava coi begli occhi neri ingranditi e dolenti nella pallida magrezza, e le pareva che ormai nessuna relazione esistesse più tra essi e lei, come se ella fosse or ora tornata, nuova e diversa, da un luogo remoto, dove ogni vincolo fosse stato infranto, non con essi soltanto, ma con tutta la vita di prima.

Respirava con pena; a ogni menomo rumore il cuore le balzava in petto e le batteva con tumultuosa repenza; una stanchezza greve la opprimeva.

Allora, col capo abbandonato su la spalliera del seggiolone, gli occhi chiusi, si rammaricava dentro di sé di non esser morta. Che stava più a farci, lì? perché ancora quella condanna per gli occhi di veder quei visi attorno e quelle cose, da cui gli si sentiva tanto, tanto lontana? Perché quel ravvicinamento con le apparenze opprimenti e nauseanti della vita passata, ravvicinamento che talvolta le pareva diventasse più brusco, come se qualcuno la spingesse di dietro, per costringerla a vedere, a sentir la presenza, la realtà viva e spirante della vita odiosa, che più non le apparteneva?

Credeva fermamente che non si sarebbe rialzata mai più da quel seggiolone; credeva che da un momento all'altro sarebbe morta di crepacuore. E no, invece; dopo alcuni giorni, poté levarsi in piedi, muovere, sorretta, qualche passo per la camera; poi, col tempo, anche scendere la scala e recarsi all'aperto, a braccio di Gerlando e della serva. Prese infine l'abitudine di recarsi sul tramonto fino all'orlo del ciglione che limitava a mezzogiorno il podere.

S'apriva di là la magnifica vista della piaggia sottostante all'altipiano, fino al mare laggiù. Vi si recò i primi giorni accompagnata, al solito, da Gerlando e da Gesa; poi, senza Gerlando; infine, sola.

Seduta su un masso, all'ombra d'un olivo centenario, guardava tutta la riviera lontana che s'incurvava appena, a lievi lunate, a lievi seni, frastagliandosi sul mare che cangiava secondo lo spirare dei venti; vedeva il sole ora come un disco di fuoco affogarsi lentamente tra le brume muffose sedenti sul mare tutto grigio, a ponente, ora calare in trionfo su le onde infiammate, tra una pompa meravigliosa di nuvole accese; vedeva nell'umido cielo crepuscolare sgorgar liquida e calma la luce di Giove, avvivarsi appena la luna diafana e lieve; beveva con gli occhi la mesta dolcezza della sera imminente, e respirava, beata, sentendosi penetrare fino in fondo all'anima il fresco, la quiete, come un conforto sovrumano.

Intanto, di là, nella casa colonica, il vecchio mezzadro e la moglie riprendevano a congiurare a danno di lei, istigando il figliuolo a provvedere a' suoi casi.

- Perché la lasci sola? - badava a dirgli il padre. - Non t'accorgi che lei, ora, dopo la malattia, t'è grata dell'affezione che le hai dimostrata? Non la lasciare un momento, cerca d'entrarle sempre più nel cuore; e poi... e poi ottieni che la serva non si corichi più nella stessa camera con lei. Ora lei sta bene e non ne ha più bisogno, la notte.

Gerlando, irritato, si scrollava tutto, a questi suggerimenti.

- Ma neanche per sogno! Ma se non le passa più neanche per il capo che io possa... Ma che! Mi tratta come un figliuolo... Bisogna sentire che discorsi mi fa! Si sente già vecchia, passata e finita per questo mondo. Che!

- Vecchia? - interloquiva la madre. - Certo, non è più una bambina; ma vecchia neppure; e tu...

- Ti levano la terra! - incalzava il padre. - Te l'ho già detto: sei rovinato, in mezzo a una strada. Senza figli, morta la moglie, la dote torna ai parenti di lei. E tu avrai fatto questo bel guadagno; avrai perduto la scuola e tutto questo tempo, così, senza nessuna soddisfazione... Neanche un pugno di mosche! Pensaci, pensaci a tempo: già troppo ne hai perduto... Che speri?

- Con le buone, - riprendeva, manierosa, la madre. - Tu devi andarci con le buone, e magari dirglielo: «Vedi? che n'ho avuto io, di te? t'ho rispettato, come tu hai voluto; ma ora pensa un po' a me, tu: come resto io? che farò, se tu mi lasci così?». Alla fin fine, santo Dio, non deve andare alla guerra!

- E puoi soggiungere, - tornava a incalzare il padre. - puoi soggiungere: «Vuoi far contento tuo fratello che t'ha trattata così? farmi cacciar via di qua come un cane, da lui?». È la santa verità, questa, bada! Come un cane sarai cacciato, a pedate, e io e tua madre, poveri vecchi, con te.

Gerlando non rispondeva nulla. Ai consigli della madre provava quasi un sollievo, ma irritante, come una vellicazione; le previsioni del padre gli movevano la bile, lo accendevano d'ira. Che fare? Vedeva la difficoltà dell'impresa e ne vedeva pure la necessità impellente. Bisognava a ogni modo tentare.

Eleonora, adesso, sedeva a tavola con lui. Una sera, a cena, vedendolo con gli occhi fissi su la tovaglia, pensieroso, gli domandò:

- Non mangi? che hai?

Quantunque da alcuni giorni egli s'aspettasse questa domanda provocata dal suo stesso contegno, non seppe sul punto rispondere come aveva deliberato, e fece un gesto vago con la mano.

- Che hai? - insistette Eleonora.

- Nulla, - rispose, impacciato, Gerlando. - Mio padre, al solito...

- Daccapo con la scuola? - domandò lei sorridendo, per spingerlo a parlare.

- No: peggio, - diss'egli. - Mi pone... mi pone davanti tante ombre, m'affligge col... col pensiero del mio avvenire, poiché lui è vecchio, dice, e io così, senza né arte né parte: finché ci sei tu, bene; ma poi... poi, niente, dice...

- Di' a tuo padre, - rispose allora, con gravità, Eleonora, socchiudendo gli occhi, quasi per non vedere il rossore di lui, - di' a tuo padre che non se ne dia pensiero. Ho provveduto io a tutto, digli, e che stia dunque tranquillo. Anzi, giacché siamo a questo discorso, senti: se io venissi a mancare d'un tratto - siamo della vita e della morte - nel secondo cassetto del canterano, nella mia camera, troverai in una busta gialla una carta per te.

- Una carta? - ripeté Gerlando, non sapendo che dire, confuso di vergogna.

Eleonora accennò di sì col capo, e soggiunse:

- Non te ne curare.

Sollevato e contento, Gerlando, la mattina dopo, riferì ai genitori quanto gli aveva detto Eleonora; ma quelli, specialmente il padre, non ne furono per nulla soddisfatti.

- Carta? Imbrogli!

Che poteva essere quella carta? Il testamento: la donazione cioè del podere al marito. E se non era fatta in regola e con tutte le forme? Il sospetto era facile, atteso che si trattava della scrittura privata d'una donna, senza l'assistenza d'un notajo. E poi, non si doveva aver da fare col cognato, domani, uomo di legge, imbroglione?

- Processi, figlio mio? Dio te ne scampi e liberi! La giustizia non è per i poverelli. E quello là, per la rabbia, sarà capace di farti bianco il nero e nero il bianco.

E inoltre, quella carta, c'era davvero, là, nel cassetto del canterano? O glie l'aveva detto per non esser molestata?

- Tu l'hai veduta? No. E allora? Ma, ammesso che te la faccia vedere, che ne capisci tu? che ne capiamo noi? Mentre con un figliuolo... là! Non ti lasciare infinocchiare: da' ascolto a noi! Carne! carne! che carta!

Così un giorno Eleonora, mentre se ne stava sotto a quell'olivo sul ciglione, si vide all'improvviso accanto Gerlando, venuto furtivamente.

Era tutta avvolta in un ampio scialle nero. Sentiva freddo, quantunque il febbrajo fosse così mite, che già pareva primavera. La vasta piaggia, sotto, era tutta verde di biade; il mare, in fondo, placidissimo, riteneva insieme col cielo una tinta rosea un po' sbiadita, ma soavissima, e le campagne in ombra parevano smaltate.

Stanca di mirare, nel silenzio, quella meravigliosa armonia di colori, Eleonora aveva appoggiato il capo al tronco dell'olivo. Dallo scialle nero tirato sul capo si scopriva soltanto il volto, che pareva anche più pallido.

- Che fai? - le domandò Gerlando. - Mi sembri una Madonna Addolorata.

- Guardavo... - gli rispose lei, con un sospiro, socchiudendo gli occhi.

Ma lui riprese:

- Se vedessi come... come stai bene così, con codesto scialle nero...

- Bene? - disse Eleonora, sorridendo mestamente. - Sento freddo!

- No, dico, bene di... di... di figura, - spiegò egli, balbettando, e sedette per terra accanto al masso.

Eleonora, col capo appoggiato al tronco, richiuse gli occhi, sorrise per non piangere, assalita dal rimpianto della sua gioventù perduta così miseramente. A diciott'anni, sì, era stata pur bella, tanto!

A un tratto, mentre se ne stava così assorta, s'intese scuotere leggermente.

- Dammi una mano, - le chiese egli da terra, guardandola con occhi lustri.

Ella comprese; ma finse di non comprendere.

- La mano? Perché? - gli domandò. - Io non posso tirarti su: non ho più forza, neanche per me... È già sera, andiamo.

E si alzò.

- Non dicevo per tirarmi su, - spiegò di nuovo Gerlando, da terra. - Restiamo qua, al bujo; è tanto bello...

Così dicendo, fu lesto ad abbracciarle i ginocchi, sorridendo nervosamente, con le labbra aride.

- No! - gridò lei. - Sei pazzo? Lasciami!

Per non cadere, s'appoggiò con le braccia a gli omeri di lui e lo respinse indietro. Ma lo scialle, a quell'atto, si svolse, e, com'ella se ne stava curva su lui sorto in ginocchio, lo avvolse, lo nascose dentro.

- No: ti voglio! ti voglio! - diss'egli, allora, com'ebbro, stringendola vieppiù con un braccio, mentre con l'altro le cercava, più su, la vita, avvolto nell'odore del corpo di lei.

Ma ella, con uno sforzo supremo, riuscì a svincolarsi; corse fino all'orlo del ciglione; si voltò; gridò:

- Mi butto!

In quella, se lo vide addosso, violento; si piegò indietro, precipitò giù dal ciglione.

Egli si rattenne a stento, allibito, urlando, con le braccia levate. Udì un tonfo terribile, giù. Sporse il capo. Un mucchio di vesti nere, tra il verde della piaggia sottostante. E lo scialle, che s'era aperto al vento, andava a cadere mollemente, così aperto, più in là.

Con le mani tra i capelli, si voltò a guardare verso la casa campestre; ma fu colpito negli occhi improvvisamente dall'ampia faccia pallida della Luna sorta appena dal folto degli olivi lassù; e rimase atterrito a mirarla, come se quella dal cielo avesse veduto e lo accusasse.

 

PRIMA NOTTE

 

quattro camìce,

quattro lenzuola,

quattro sottane,

quattro, insomma, di tutto. E quel corredo della figliuola, messo su, un filo oggi, un filo domani, con la pazienza d'un ragno, non si stancava di mostrarlo alle vicine.

- Roba da poverelli, ma pulita.

Con quelle povere mani sbiancate e raspose, che sapevano ogni fatica, levava dalla vecchia cassapanca d'abete, lunga e stretta che pareva una bara, piano piano, come toccasse l'ostia consacrata, la bella biancheria, capo per capo, e le vesti e gli scialli doppii di lana: quello dello sposalizio, con le punte ricamate e la frangia di seta fino a terra; gli altri tre, pure di lana, ma più modesti; metteva tutto in vista sul letto, ripetendo, umile e sorridente: - Roba da poverelli... - e la gioja le tremava nelle mani e nella voce.

- Mi sono trovata sola sola, - diceva. - Tutto con queste mani, che non me le sento più. Io sotto l'acqua, io sotto il sole; lavare al fiume e in fontana; smallare mandorle, raccogliere ulive, di qua e di là per le campagne; far da serva e da acquajola... Non importa. Dio, che ha contato le mie lagrime e sa la vita mia, m'ha dato forza e salute. Tanto ho fatto, che l'ho spuntata; e ora posso morire. A quel sant'uomo che m'aspetta di là, se mi domanda di nostra figlia, potrò dirglielo: «Sta' in pace, poveretto; non ci pensare: tua figlia l'ho lasciata bene; guaj non ne patirà. Ne ho patiti tanti io per lei...». Piango di gioja, non ve ne fate...

E s'asciugava le lagrime, Mamm'Anto', con una cocca del fazzoletto nero che teneva in capo, annodato sotto il mento.

Quasi quasi non pareva più lei, quel giorno, così tutta vestita di nuovo, e faceva una curiosa impressione a sentirla parlare come sempre.

Le vicine la lodavano, la commiseravano a gara. Ma la figlia Marastella, già parata da sposa con l'abito grigio di raso (una galanteria!) e il fazzoletto di seta celeste al collo, in un angolo della stanzuccia addobbata alla meglio per l'avvenimento della giornata, vedendo pianger la madre, scoppiò in singhiozzi anche lei.

- Maraste', Maraste', che fai?

Le vicine le furono tutte intorno, premurose, ciascuna a dir la sua:

- Allegra! Oh! Che fai? Oggi non si piange... Sai come si dice? Cento lire di malinconia non pagano il debito d'un soldo.

- Penso a mio padre! - disse allora Marastella, con la faccia nascosta tra le mani.

Morto di mala morte, sett'anni addietro! Doganiere del porto, andava coi <I>luntri</I>, di notte, in perlustrazione. Una notte di tempesta, bordeggiando presso le Due Riviere, il <I>luntro</I> s'era capovolto e poi era sparito, coi tre uomini che lo governavano.

Era ancora viva, in tutta la gente di mare, la memoria di questo naufragio. E ricordavano che Marastella, accorse con la madre, tutt'e due urlanti, con le braccia levate, tra il vento e la spruzzaglia dei cavalloni, in capo alla scogliera del nuovo porto, su cui i cadaveri dei tre annegati erano stati tratti dopo due giorni di ricerche disperate, invece di buttarsi ginocchioni presso il cadavere del padre, era rimasta come impietrita davanti a un altro cadavere, mormorando, con le mani incrociate sul petto:

- Ah! Amore mio! amore mio! Ah, come ti sei ridotto...

Mamm'Anto', i parenti del giovane annegato, la gente accorsa, erano restati, a quell'inattesa rivelazione. E la madre dell'annegato che si chiamava Tino Sparti (vero giovane d'oro, poveretto!) sentendola gridar così, le aveva subito buttato le braccia al collo e se l'era stretta al cuore, forte forte, in presenza di tutti, come per farla sua, sua e di lui, del figlio morto, chiamandola con alte grida:

- Figlia! Figlia!

Per questo ora le vicine. sentendo dire a Marastella: «Penso a mio padre», si scambiarono uno sguardo d'intelligenza, commiserandola in silenzio. No, non piangeva per il padre, povera ragazza. O forse piangeva, sì, pensando che il padre, vivo, non avrebbe accettato per lei quel partito, che alla madre, nelle misere condizioni in cui era rimasta, sembrava ora una fortuna.

Quanto aveva dovuto lottare Mammm'Anto' per vincere l'ostinazione della figlia!

- Mi vedi? sono vecchia ormai: più della morte che della vita. Che speri? che farai sola domani, senz'ajuto, in mezzo a una strada?

Sì. La madre aveva ragione. Ma tant'altre considerazioni faceva lei, Marastella, dal suo canto. Brav'uomo, sì, quel don Lisi Chìrico che le volevano dare per marito, - non lo negava - ma quasi vecchio, e vedovo per giunta. Si riammogliava, poveretto, più per forza che per amore, dopo un anno appena di vedovanza, perché aveva bisogno d'una donna lassù, che badasse alla casa e gli cucinasse la sera. Ecco perché si riammogliava.

- E che te n'importa? - le aveva risposto la madre. - Questo anzi deve affidarti: pensa da uomo sennato. Vecchio? Non ha ancora quarant'anni. Non ti farà mancare mai nulla: ha uno stipendio fisso, un buon impiego. Cinque lire al giorno: una fortuna!

- Ah sì, bell'impiego! bell'impiego!

Qui era l'intoppo: Mamm'Anto' lo aveva capito fin da principio: nella qualità dell'impiego del Chìrico.

E una bella giornata di maggio aveva invitato alcune vicine - lei, poveretta! - a una scampagnata lassù, sull'altipiano sovrastante il paese.

Don Lisi Chìrico, dal cancello del piccolo, bianco cimitero che sorge lassù, sopra il paese, col mare davanti e la campagna dietro, scorgendo la comitiva delle donne, le aveva invitate a entrare.

- Vedi? Che cos'è? Pare un giardino, con tanti fiori... - aveva detto Mamm'Anto' a Marastella, dopo la visita al camposanto. - Fiori che non appassiscono mai. E qui, tutt'intorno, campagna. Se sporgi un po' il capo dal cancello, vedi tutto il paese ai tuoi piedi; ne senti il rumore, le voci... E hai visto che bella cameretta bianca, pulita, piena d'aria? Chiudi porta e finestra, la sera; accendi il lume; e sei a casa tua: una casa come un'altra. Che vai pensando?

E le vicine, dal canto loro:

- Ma si sa! E poi, tutto è abitudine; vedrai: dopo un pajo di giorni, non ti farà più impressione. I morti, del resto, figliuola, non fanno male; dai vivi devi guardarti. E tu che sei più piccola di noi, ci avrai tutte qua, a una a una. Questa è la casa grande, e tu sarai la padrona e la buona guardiana.

Quella visita lassù, nella bella giornata di maggio, era rimasta nell'anima di Marastella come una visione consolatrice, durante gli undici mesi del fidanzamento: a essa s'era richiamata col pensiero nelle ore di sconforto, specialmente al sopravvenire della sera, quando l'anima le si oscurava e le tremava di paura.

S'asciugava ancora le lagrime, quando don Lisi Chìrico si presentò su la soglia con due grossi cartocci su le braccia quasi irriconoscibile.

- Madonna! - gridò Mamm'Anto'. - E che avete fatto, santo cristiano?

- Io? Ah sì... La barba... - rispose don Lisi con un sorriso squallido che gli tremava smarrito sulle larghe e livide labbra nude.

Ma non s'era solamente raso, don Lisi: s'era anche tutto incicciato, tanto ispida e forte aveva radicata la barba in quelle gote cave, che or gli davano l'aspetto d'un vecchio capro scorticato.

- Io, io, gliel'ho fatta radere io, - s'affrettò a intromettersi, sopravvenendo tutta scalmanata, donna Nela, la sorella dello sposo, grassa e impetuosa.

Recava sotto lo scialle alcune bottiglie, e parve, entrando, che ingombrasse tutta quanta la stanzuccia, con quell'abito di seta verde pisello, che frusciava come una fontana.

La seguiva il marito, magro come don Lisi, taciturno e imbronciato.

- Ho fatto male? - seguitò quella, liberandosi dello scialle. - Deve dirlo la sposa. Dov'è? Guarda, Lisi: te lo dicevo io? Piange... Hai ragione, figliuola mia. Abbiamo troppo tardato. Colpa sua, di Lisi. «Me la rado? Non me la rado?» Due ore per risolversi. Di' un po', non ti sembra più giovane così? Con quei pelacci bianchi, il giorno delle nozze...

- Me la farò ricrescere, - disse Chìrico interrompendo la sorella e guardando triste la giovane sposa. - Sembro vecchio lo stesso e, per giunta, più brutto.

- L'uomo è uomo, asinaccio, e non è né bello né brutto! - sentenziò allora la sorella stizzita. - Guarda intanto: l'abito nuovo! Lo incigni adesso, peccato!

E cominciò a dargli manacciate su le maniche per scuoterne via la sfarinatura delle paste ch'egli reggeva ancora nei due cartocci.

Era già tardi; si doveva andar prima al Municipio, per non fare aspettar l'assessore, poi in chiesa; e il festino doveva esser finito prima di sera. Don Lisi, zelantissimo del suo ufficio, si raccomandava, tenuto su le spine specialmente dalla sorella intrigante e chiassona, massime dopo il pranzo e le abbondanti libazioni.

- Ci vogliono i suoni! S'è mai sentito uno sposalizio senza suoni? Dobbiamo ballare! Mandate per Sidoro l'orbo... Chitarre e mandolini!

Strillava tanto, che il fratello dovette chiamarsela in disparte.

- Smettila, Nela, smettila! Avresti dovuto capirlo che non voglio tanto chiasso.

La sorella gli sgranò in faccia due occhi così.

- Come? Anzi! Perché?

Don Lisi aggrottò le ciglia e sospirò profondamente:

- Pensa che è appena un anno che quella poveretta...

- Ci pensi ancora davvero? - lo interruppe donna Nela con una sghignazzata. - Se stai riprendendo moglie! Oh povera Nunziata!

- Riprendo moglie, - disse don Lisi socchiudendo gli occhi e impallidendo, - ma non voglio né suoni né balli. Ho tutt'altro nel cuore.

E quando parve a lui che il giorno inchinasse al tramonto, pregò la suocera di disporre tutto per la partenza.

- Lo sapete, debbo sonare l'avemaria, lassù.

Prima di lasciar la casa, Marastella, aggrappata al collo della madre, scoppiò di nuovo a piangere, a piangere, che pareva non la volesse finir più. Non se la sentiva, non se la sentiva di andar lassù, sola con lui...

- T'accompagneremo tutti noi, non piangere, - la confortava la madre. - Non piangere. sciocchina!

- Ma piangeva anche lei e piangevano anche tant'altre vicine:

- Partenza amara!

Solo donna Nela, la sorella del Chìrico, più rubiconda che mai, non era commossa: diceva d'aver assistito a dodici sposalizii e che le lagrime alla fine, come i confetti, non erano mancati mai.

- Piange la figlia nel lasciare la madre; piange la madre nel lasciare la figlia. Si sa! Un altro bicchierotto per sedare la commozione, e andiamo via ché Lisi ha fretta.

Si misero in via. Pareva un mortorio, anziché un corteo nuziale. E nel vederlo passare, la gente, affacciata alle porte, alle finestre, o fermandosi per via, sospirava: - Povera sposa!

Lassù, sul breve spiazzo innanzi al cancello, gl'invitati si trattennero un poco, prima di prender commiato, a esortare Marastella a far buon animo. Il sole tramontava, e il cielo era tutto rosso, di fiamma, e il mare, sotto, ne pareva arroventato. Dal paese sottostante saliva un vocio incessante, indistinto, come d'un tumulto lontano, e quelle onde di voci rissose vanivano contro il muro bianco, grezzo, che cingeva il cimitero perduto lassù nel silenzio.

Lo squillo aereo argentino della campanella sonata da don Lisi per annunziar l'<I>ave</I>, fu come il segnale della partenza per gli invitati. A tutti parve più bianco, udendo la campanella, quel muro del camposanto. Forse perché l'aria s'era fatta più scura. Bisognava andar via per non far tardi. E tutti presero a licenziarsi, con molti augurii alla sposa.

Restarono con Marastella, stordita e gelata, la madre e due fra le più intime amiche. Su in alto, le nuvole, prima di fiamma, erano divenute ora fosche, come di fumo.

- Volete entrare? - disse don Lisi alle donne, dalla soglia del cancello.

Ma subito Mamm'Anto' con una mano gli fece segno di star zitto e d'aspettare. Marastella piangeva, scongiurandola tra le lagrime di riportarsela giù in paese con sé.

- Per carità! per carità!

Non gridava; glielo diceva così piano e con tanto tremore nella voce, che la povera mamma si sentiva strappare il cuore. Il tremore della figlia - lei lo capiva - era perché dal cancello aveva intraveduto l'interno del camposanto, tutte quelle croci là, su cui calava l'ombra della sera.

Don Lisi andò ad accendere il lume nella cameretta, a sinistra dell'entrata; volse intorno uno sguardo per vedere se tutto era in ordine, e rimase un po' incerto se andare o aspettare che la sposa si lasciasse persuadere dalla madre a entrare.

Comprendeva e compativa. Aveva coscienza che la sua persona triste, invecchiata, imbruttita, non poteva ispirare alla sposa né affetto né confidenza: si sentiva anche lui il cuore pieno di lagrime.

Fino alla sera avanti s'era buttato ginocchioni a piangere come un bambino davanti a una crocetta di quel camposanto, per licenziarsi dalla sua prima moglie. Non doveva pensarci più. Ora sarebbe stato tutto di quest'altra, padre e marito insieme; ma le nuove cure per la sposa non gli avrebbero fatto trascurare quelle che da tant'anni si prendeva amorosamente di tutti coloro, amici o ignoti, che dormivano lassù sotto la sua custodia.

Lo aveva promesso a tutte le croci in quel giro notturno, la sera avanti.

Alla fine Marastella si lasciò persuadere a entrare. La madre chiuse subito la porta quasi per isolar la figlia nell'intimità della cameretta, lasciando fuori la paura del luogo. E veramente la vista degli oggetti familiari parve confortasse alquanto Marastella.

- Su, levati lo scialle, - disse Mamm'Anto'. - Aspetta, te lo levo io. Ora sei a casa tua...

- La padrona, - aggiunse don Lisi, timidamente, con un sorriso mesto e affettuoso.

- Lo senti? - riprese Mamm'Anto' per incitare il genero a parlare ancora.

- Padrona mia e di tutto, - continuò don Lisi. - Lei deve già saperlo. Avrà qui uno che la rispetterà e le vorrà bene come la sua stessa mamma. E non deve aver paura di niente.

- Di niente, di niente, si sa! - incalzò la madre. - Che è forse una bambina più? Che paura! Le comincerà tanto da fare, adesso... È vero? È vero?

Marastella chinò più volte il capo, affermando; ma appena Mamm'Anto' e le due vicine si mossero per andar via, ruppe di nuovo in pianto, si buttò di nuovo al collo della madre, aggrappandosi. Questa, con dolce violenza si sciolse dalle braccia della figlia, le fece le ultime raccomandazioni d'aver fiducia nello sposo e in Dio, e andò via con le vicine piangendo anche lei.

Marastella restò presso la porta, che la madre, uscendo, aveva raccostata, e con le mani sul volto si sforzava di soffocare i singhiozzi irrompenti, quando un alito d'aria schiuse un poco, silenziosamente, quella porta.

Ancora con le mani sul volto, ella non se n'accorse: le parve invece che tutt'a un tratto - chi sa perché - le si aprisse dentro come un vuoto delizioso, di sogno; sentì un lontano, tremulo scampanellio di grilli, una fresca inebriante fragranza di fiori. Si tolse le mani dagli occhi: intravide nel cimitero un chiarore, più che d'alba, che pareva incantasse ogni cosa, là immobile e precisa.

Don Lisi accorse per richiudere la porta. Ma, subito, allora, Marastella, rabbrividendo e restringendosi nell'angolo tra la porta e il muro, gli gridò:

- Per carità, non mi toccate!

Don Lisi, ferito da quel moto istintivo di ribrezzo, restò.

- Non ti toccavo, - disse. - Volevo richiudere la porta.

- No, no, - riprese subito Marastella, per tenerlo lontano. - Lasciatela pure aperta. Non ho paura!

- E allora?... - balbettò don Lisi, sentendosi cader le braccia.

Nel silenzio, attraverso la porta semichiusa, giunse il canto lontano d'un contadino che ritornava spensierato alla campagna, lassù, sotto la luna, nella frescura tutta impregnata dell'odore del fieno verde, falciato da poco.

- Se vuoi che passi, - riprese don Lisi avvilito, profondamente amareggiato, vado a richiudere il cancello che è rimasto aperto.

Marastella non si mosse dall'angolo in cui s'era ristretta. Lisi Chìrico si recò lentamente a richiudere il cancello; stava per rientrare, quando se la vide venire incontro, come impazzita tutt'a un tratto.

- Dov'è, dov'è mio padre? Ditemelo! Voglio andare da mio padre.

- Eccomi, perché no? è giusto; ti ci conduco, - le rispose egli cupamente. - Ogni sera, io faccio il giro prima d'andare a letto. Obbligo mio. Questa sera non lo facevo per te. Andiamo. Non c'è bisogno di lanternino. C'è la lanterna del cielo.

E andarono per i vialetti inghiajati, tra le siepi di spigo fiorite.

Spiccavano bianche tutt'intorno, nel lume della luna, le tombe gentilizie e nere per terra, con la loro ombra da un lato, come a giacere le croci di ferro dei poveri.

Più distinto, più chiaro, veniva dalle campagne vicine il tremulo canto dei grilli e, da lontano, il borboglio continuo del mare.

- Qua, - disse il Chìrico, indicando una bassa, rustica tomba, su cui era murata una lapide che ricordava il naufragio e le tre vittime del dovere. - C'è anche lo Sparti, - aggiunse, vedendo cader Marastella in ginocchio innanzi alla tomba, singhiozzante. - Tu piangi qua... Io andrò più là; non è lontano...

La luna guardava dal cielo il piccolo camposanto su l'altipiano. Lei sola vide quelle due ombre nere su la ghiaja gialla d'un vialetto presso due tombe, in quella dolce notte d'aprile.

Don Lisi, chino su la fossa della prima moglie, singhiozzava:

- Nunzia', Nunzia', mi senti?

 

IL «FUMO»

 

<B>I.</B>

 

Appena i zolfatari venivan su dal fondo della «buca» col fiato ai denti e le ossa rotte dalla fatica, la prima cosa che cercavano con gli occhi era quel verde là della collina lontana, che chiudeva a ponente l'ampia vallata.

Qua, le coste aride, livide di tufi arsicci, non avevano più da tempo un filo d'erba, sforacchiate dalle zolfare come da tanti enormi formicaj e bruciate tutte dal <I>fumo.</I>

Sul verde di quella collina, gli occhi infiammati, offesi dalla luce dopo tante ore di tenebra laggiù, si riposavano.

A chi attendeva a riempire di minerale grezzo i forni o i «calcheroni», a chi vigilava alla fusione dello zolfo, o s'affaccendava sotto i forni stessi a ricevere dentro ai giornelli che servivan da forme lo zolfo bruciato che vi colava lento come una densa morchia nerastra, la vista di tutto quel verde lontano alleviava anche la pena del respiro, l'agra oppressura del <I>fumo</I> che s'aggrappava alla gola, fino a promuovere gli spasimi più crudeli e le rabbie dell'asfissia.

I <I>carusi</I>, buttando giù il carico dalle spalle peste e scorticate, seduti su i sacchi, per rifiatare un po' all'aria, tutti imbrattati dai cretosi acquitrini lungo le gallerie o lungo la lubrica scala a gradino rotto della «buca», grattandosi la testa e guardando a quella collina attraverso il vitreo fiato sulfureo che tremolava al sole vaporando dai «calcheroni» accesi o dai forni, pensavano alla vita di campagna, vita lieta per loro, senza rischi, senza gravi stenti là all'aperto, sotto il sole, e invidiavano i contadini.

- Beati loro!

Per tutti, infine, era come un paese di sogno quella collina lontana. Di là veniva l'olio alle loro lucerne che a mala pena rompevano il crudo tenebrore della zolfara; di là il pane, quel pane solido e nero che li teneva in piedi per tutta la giornata, alla fatica bestiale; di là il vino, l'unico loro bene, la sera, il vino che dava loro il coraggio, la forza di durare a quella vita maledetta, se pur vita si poteva chiamare: parevano, sottoterra, tanti morti affaccendati.

I contadini della collina, all'incontro, perfino sputavano: - Puh! - guardando a quelle coste della vallata.

Era là il loro nemico: il <I>fumo</I> devastatore.

E quando il vento spirava di là, recando il lezzo asfissiante dello zolfo bruciato, guardavano gli alberi come a difenderli e borbottavano imprecazioni contro quei pazzi che s'ostinavano a scavar la fossa alle loro fortune e che, non contenti d'aver devastato la vallata, quasi invidiosi di quell'unico occhio di verde, avrebbero voluto invadere coi loro picconi e i loro forni anche le belle campagne.

Tutti, infatti, dicevano che anche sotto la collina ci doveva esser lo zolfo. Quelle creste in cima, di calcare siliceo e, più giù, il briscale degli affioramenti lo davano a vedere; gl'ingegneri minerarii avevano più volte confermato la voce.

Ma i proprietarii di quelle campagne, quantunque tentati insistentemente con ricche profferte, non solo non avevan voluto mai cedere in affitto il sottosuolo, ma neanche alla tentazione di praticar loro stessi per curiosità qualche assaggio, così sopra sopra.

La campagna era lì, stesa al sole, che tutti potevano vederla: soggetta sì alle cattive annate, ma compensata poi anche dalle buone; la zolfara, all'incontro, cieca, e guaj a scivolarci dentro. Lasciare il certo per l'incerto sarebbe stata impresa da pazzi.

Queste considerazioni, che ciascuno di quei proprietarii della collina ribadiva di continuo nella mente dell'altro, volevano essere come un impegno per tutti di resistere uniti alle tentazioni, sapendo bene che se uno di loro avesse ceduto e una zolfara fosse sorta là in mezzo, tutti ne avrebbero sofferto; e allora, cominciata la distruzione, altre bocche d'inferno si sarebbero aperte e, in pochi anni, tutti gli alberi, tutte le piante sarebbero morti, attossicati dal <I>fumo</I>, e addio campagne!

 

<B>II.</B>

 

Tra i più tentati era don Mattia Scala che possedeva un poderetto con un bel giro di mandorli e d'olivi a mezza costa della collina, ove, per suo dispetto, affiorava con più ricca promessa il minerale.

Parecchi ingegneri del R. Corpo delle Miniere eran venuti a osservare, a studiare quegli affioramenti e a far rilievi. Lo Scala li aveva accolti come un marito geloso può accogliere un medico, che gli venga in casa a visitare qualche segreto male della moglie.

Chiudere la porta in faccia a quegli ingegneri governativi che venivan per dovere d'ufficio, non poteva. Si sfogava in compenso a maltrattare quegli altri che, o per conto di qualche ricco produttore di zolfo o di qualche società mineraria, venivano a proporgli la cessione o l'affitto del sottosuolo.

- Corna, vi cedo! - gridava. - Neanche se m'offriste i tesori di Creso; neanche se mi diceste: Mattia, raspa qua con un piede, come fanno le galline; ci trovi tanto zolfo, che diventi d'un colpo più ricco di... che dico? di re Fàllari! Non rasperei, parola d'onore.

E se, poco poco, quelli insistevano:

- Insomma, ve n'andate, o chiamo i cani?

Gli avveniva spesso di ripetere questa minaccia dei cani, perché il suo poderetto aveva il cancello su la <I>trazzera</I>, cioè su la via mulattiera che traversava la collina, accavalcandola, e che serviva da scorciatoja agli operai delle zolfare, ai capimastri, a gl'ingegneri direttori, che dalla prossima città si recavano alla vallata o ne tornavano. Ora, quest'ultimi segnatamente pareva avessero preso gusto a farlo stizzire; e, almeno una volta la settimana, si fermavano innanzi al cancello, vedendo don Mattia lì presso, per domandargli:

- Niente, ancora?

- Tè, <I>Scampirro</I>! Tè, <I>Regina</I>!

Don Mattia, per chiasso, chiamava davvero i cani. Aveva avuto anche lui un tempo la mania delle zolfare, per cui s'era ridotto - eccolo là - scannato miserabile! Ora non poteva veder neanche da lontano un pezzo di zolfo che subito, con rispetto parlando, non si sentisse rompere lo stomaco.

- E che è, il diavolo? - gli domandavano.

E lui:

- Peggio! Perché vi danna l'anima, il diavolo, ma vi fa ricchi, se vuole! Mentre lo zolfo vi fa più poveri di Santo Giobbe; e l'anima ve la danna lo stesso!

Parlando, pareva il telegrafo. (Il telegrafo s'intende come usava prima, ad asta.) Lungo lungo, allampanato, sempre col cappellaccio bianco in capo, buttato indietro, a spera; e portava a gli orecchi un pajo di catenaccetti d'oro, che davano a vedere quello che, del resto, egli non si curava di nascondere, come fosse cioè venuto su da una famiglia mezzo popolana e mezzo borghese.

Nel volto raso, pallido, di quel pallore proprio dei biliosi, gli spiccavano stranamente le sopracciglia enormi, spioventi, come un gran pajo di baffi che si fosse sfogato a crescer lì, visto che giù, sul labbro, non gli era nemmen permesso di spuntare. E sotto, all'ombra di quelle sopracciglia, gli lampeggiavano gli occhi chiari, taglienti, vivi vivi, mentre le narici del gran naso aquilino, energico, gli si dilatavano di continuo e fremevano.

Tutti i possidenti della collina gli volevano bene.

Ricordavano com'egli, molto ricco un giorno, fosse venuto lì a pigliar possesso di quei pochi ettari di terra comperati dopo la rovina, col denaro ricavato dalla vendita della casa in città e di tutte le masserizie di essa e delle gioje della moglie morta di crepacuore; ricordavano come si fosse prima rintanato nelle quattro stanze della casa rustica annessa al podere, senza voler vedere nessuno, insieme con una ragazza di circa sedici anni, Jana, che tutti in principio avevano creduto sua figlia e che poi s'era saputo esser la sorella minore d'un tal Dima Chiarenza, cioè proprio di quell'infame che lo aveva tradito e rovinato.

C'era tutta una storia sotto.

Lo Scala aveva conosciuto questo Chiarenza ragazzo, e lo aveva sempre ajutato, sapendolo orfano di padre e di madre, con quella sorellina molto più piccola di lui; se l'era anzi preso con sé per farlo lavorare; poi, avendolo sperimentato veramente esperto e amante del lavoro, aveva voluto averlo anche socio nell'affitto d'una zolfara. Tutte le spese per la lavorazione se l'era accollate lui; Dima Chiarenza doveva soltanto star lì, sul posto, vigilare all'amministrazione e ai lavori.

Intanto Jana (<I>Januzza</I>, come la chiamavano) gli cresceva in casa. Ma don Matria aveva anche un figlio (unico!) quasi della stessa età, che si chiamava Neli. Si sa, presto padre e madre s'erano accorti che i due ragazzi avevano preso a volersi bene, non come fratello e sorella; e per non tener la paglia accanto al fuoco e dare tempo al tempo, avevano pensato giudiziosamente d'allontanare dalla casa Neli, che non aveva ancora diciotto anni, e lo avevano mandato alla zolfara, a tener compagnia e a prestare ajuto al Chiarenza. Fra due, tre anni, li avrebbero sposati, se tutto, come pareva, fosse andato bene.

Poteva mai sospettare don Mattia Scala che Dima Chiarenza, di cui si fidava come di se stesso, Dima Chiarenza, ch'egli aveva raccolto dalla strada, trattato come un figliuolo e messo a parte degli affari, Dima Chiarenza lo dovesse tradire, come Giuda tradì Cristo?

Proprio così! S'era messo d'accordo, l'infame, con l'ingegnere direttore della zolfara, d'accordo coi capimastri, coi pesatori, coi carrettieri, per rubarlo a man salva su le spese d'amministrazione, su lo zolfo estratto, finanche sul carbone che doveva servire ad alimentar le macchine per l'eduzione delle acque sotterranee. E la zolfara, una notte, gli s'era allagata, irreparabilmente, distruggendo l'impianto del piano inclinato, che allo Scala costava più di trecento mila lire.

Neli, che in quella notte d'inferno s'era trovato sul luogo e aveva partecipato a gl'inutili sforzi disperati per impedire il disastro, presentendo l'odio che il padre da quell'ora avrebbe portato al Chiarenza, e in cui forse avrebbe coinvolto Jana, la sorella innocente, la sua Jana; temendo che avrebbe chiamato anche lui, forse, responsabile della rovina per non essersi accorto o per non aver denunziato a tempo il tradimento di quel Giuda che doveva esser tra poco suo cognato; nella stessa notte, era fuggito come un pazzo, in mezzo alla tempesta; e scomparso, senza lasciar nessuna traccia di sé.

Pochi giorni dopo la madre era morta, assistita amorosamente da Jana, e lo Scala s'era trovato solo, in casa, rovinato, senza più la moglie, senza più il figlio, solo con quella ragazza, la quale, come impazzita dall'onta e dal cordoglio, s'era stretta a lui, non aveva voluto lasciarlo, aveva minacciato di buttarsi da una finestra s'egli la avesse respinta in casa del fratello.

Vinto da quella fermezza e reprimendo la repulsione che la sua vista ora gli destava, lo Scala aveva condisceso a condurla con sé, vestita di nero, come una figliuola due volte orfana, là, nel poderetto acquistato allora.

Uscendo a poco a poco, con l'andar del tempo, dal suo lutto, s'era messo a scambiare qualche parola coi vicini e a dar notizie di sé e della ragazza.

- Ah, non è figlia vostra?

- No. Ma come se fosse.

Si vergognava dapprima a dir chi era veramente. Del figlio, non diceva nulla. Era una spina troppo grande. E del resto, che notizie poteva darne? Non ne aveva. Se n'era tanto occupata la questura, ma senza venire a capo di nulla.

Dopo alcuni anni, però, Jana, stanca d'aspettar così senza speranza il ritorno del fidanzato, aveva voluto tornarsene in città, in casa del fratello, il quale, sposata una vecchia di molti denari, famigerata usuraja, s'era messo a far l'usurajo anche lui, ed era adesso tra i più ricchi del paese.

Così lo Scala era restato solo, lì, nel poderetto. Otto anni erano già trascorsi e, almeno apparentemente, aveva ripreso l'umore di prima; era divenuto amico di tutti i proprietarii della collina che, spesso, sul tramonto venivano a trovarlo dai poderi vicini.

Pareva che la campagna avesse voluto compensarlo dei danni della zolfara.

Era pure stata una fortuna l'aver potuto acquistare quei pochi ettari di terra, perché uno dei proprietarii dei sei poderi in cui era frazionata la collina, il Butera, riccone, s'era fitto in capo di diventar col tempo padrone di tutte quelle terre. Prestava denaro e andava a mano a mano allargando i confini del suo fondo. Già s'era annesso quasi metà del podere di un certo Nino Mo; e aveva ridotto un altro proprietario, il Làbiso, a vivere in un pezzettino di terra largo quanto un fazzoletto da naso, anticipandogli la dote per cinque figliuole; teneva da un pezzo gli occhi anche su le terre del Lopes; ma questi, per bizza, dovendo disfarsi dopo una serie di male annate d'una parte della sua tenuta, s'era contentato di venderla, anche a minor prezzo, a un estraneo: allo Scala.

In pochi anni, buttatosi tutto al lavoro, per distrarsi dalle sue sciagure, don Mattia aveva talmente beneficato quei pochi ettari di terra, che ora gli amici, il Lopes stesso, quasi stentavano a riconoscerli; e ne facevano le meraviglie.

Il Lopes, veramente, si rodeva dentro dalla gelosia. Rosso di pelo, dal viso lentigginoso, e tutto sciamannato, teneva di solito il cappello buttato sul naso, come per non veder più niente, né nessuno; ma sotto la falda di quel cappello qualche occhiata obliqua gli sguisciava di tanto in tanto, come nessuno s'aspettava da quei grossi occhi verdastri che pareva covassero il sonno.

Girato il podere, gli amici si riducevano su lo spiazzetto innanzi alla cascina,

Là, lo Scala li invitava a sedere sul murello che limitava giro giro, sul davanti, la scarpata su cui la cascina era edificata. Ai piedi di quella scarpata, dalla parte di dietro, sorgevano, come a proteggere la cascina, certe pioppe nere, alte alte, di cui don Mattia non si sapeva dar pace, perché il Lopes ce l'avesse piantate.

- Che stanno a farci? Me lo dite? Non danno frutto e ingombrano.

- E voi buttatele a terra e fatene carbone, - gli rispondeva, indolente, il Lopes.

Ma il Butera consigliava:

- Vedete un po', prima di buttarle giù, se qualcuno ve le prende.

- E chi volete che le prenda?

- Mah! Quelli che fanno i Santi di legno.

- Ah! I Santi! Guarda, guarda! Ora capisco, - concludeva don Mattia - se li fanno di questo legno, perché non fanno più miracoli i Santi!

Su quelle pioppe, ai vespro, si davano convegno tutti i passeri della collina, e col loro fitto, assordante cinguettio disturbavano gli amici che si trattenevano lì a parlare, al solito, delle zolfare e dei danni delle imprese minerarie.

Moveva quasi sempre il discorso Nocio Butera, il quale, com'era il possidente più ricco, così era anche la più grossa pancia di tutte quelle contrade. Era avvocato, ma una volta sola in vita sua, poco dopo ottenuta la laurea, s'era provato a esercitar la professione: s'era impappinato nel bel meglio della sua prima arringa; smarrito; con le lagrime in pelle, come un bambino, lì, davanti ai giurati e alla Corte aveva levato le braccia, a pugni chiusi, contro la Giustizia raffigurata nella volta con tanto di bilancia in mano, gemendo, esasperato: - Eh che! Santo Dio! - perché, povero giovine, aveva sudato una camicia a cacciarsi l'arringa a memoria e credeva di poterla recitare proprio bene, tutta filata, senza impuntature.

Ogni tanto, ancora, qualcuno gli ricordava quel fiasco famoso:

- Eh che, don No', santo Dio!

E Nocio Butera figurava di sorriderne anche lui, ora, masticando: - Già... già... - mentre si grattava con le mani paffute le fedine nere su le guance rubiconde o s'aggiustava sul naso a gnocco o su gli orecchi il sellino o le staffe degli occhiali d'oro. Veramente avrebbe potuto riderne di cuore, perché, se come avvocato aveva fatto quella pessima prova, come coltivatore di campi e amministratore di beni, via, portava bandiera. Ma l'uomo, si sa, l'uomo non si vuol mai contentare, e Nocio Butera pareva godesse soltanto nel sapere che altri, come lui, aveva fatto cilecca in qualche impresa. Veniva nel fondo dello Scala unicamente per annunziar la rovina prossima o già accaduta di questo o di quello, e per spiegarne le ragioni e dimostrare così, che a lui non sarebbe certo accaduta.

Tino Làbiso, lungo lungo, rinfichito, tirava dalla tasca dei calzoni un pezzolone a dadi rossi e neri, vi strombettava dentro col naso che pareva una buccina marina; poi ripiegava diligentemente il pezzolone, se lo ripassava, così ripiegato, parecchie volte sotto il naso, e se lo rimetteva in tasca; infine, da uomo prudente, che non si lascia mai scappar giudizii avventati, diceva:

- Può essere.

- Può essere? È è è! - scattava Nino Mo, che non poteva soffrire quell'aria flemmatica del Làbiso.

Il Lopes accennava di scuotersi dalla cupa noja e, sotto al cappellaccio buttato sul naso, consigliava con voce sonnolenta:

- Lasciate parlare don Mattia che se n'intende più di voi.

Ma don Mattia, ogni volta, prima di mettersi a parlare, si recava in cantina per offrire a gli amici un buon boccale di vino.

- Aceto, avvelenatevi!

Beveva anche lui, sedeva, s'attortigliava le gambe e domandava:

- Di che si tratta?

- Si tratta, - prorompeva al solito Nino Mo, - che sono tante bestie, tutti, a uno a uno!

- Chi?

- Ma quei figli di cane! I zolfatari. Scavano, scavano, e il prezzo dello zolfo giù, giù, giù! Senza capire che fanno la loro e la nostra rovina; perché tutti i danari vanno a finir là, in quelle buche, in quelle bocche d'inferno sempre affamate, bocche che ci mangiano vivi!

- E il rimedio, scusate? - tornava a domandare lo Scala.

- Limitare, - rispondeva allora placidamente Nocio Butera - limitare la produzione dello zolfo. L'unica, per me, sarebbe questa.

- Madonna, che locco! - esclamava subito don Mattia Scala sorgendo in piedi per gestire più liberamente: - Scusate, don Nocio mio, locco, sì, locco e ve lo provo! Dite un po': quante, tra mille zolfare, credete che siano coltivate direttamente, in economia, dai proprietarii? Duecento appena! Tutte le altre sono date in affitto. Tu, Tino Làbiso, ne convieni?

- Può essere, - ripeteva Tino Làbiso, intento e grave.

E Nino Mo;

- Può essere? È è è!

Don Mattia protendeva le mani per farlo tacere. - Ora, don Nocio mio, quanto vi pare che duri, per l'ingordigia e la prepotenza dei proprietarii panciuti come voi, l'affitto d'una zolfara? Dite su! dite su!

- Dieci anni? - arrischiava, incerto, il Butera, sorridendo con aria di condiscendente superiorità.

- Dodici, - concedeva lo Scala - venti, anzi, qualche volta. Bene, e che ve ne fate? che frutto potete cavarne in così poco tempo? Per quanto lesti e fortunati si sia, in venti anni non c'è modo neanche di rifarsi delle spese che ci vogliono per coltivare come Dio comanda una zolfara. Questo, per dirvi che, data in commercio una minore domanda, se è possibile che il proprietario coltivatore rallenti la produzione per non rinvilire la merce, non sarà mai possibile per l'affittuario a breve scadenza, il quale, facendolo, sacrificherebbe i proprii interessi a beneficio del successore. Dunque l'impegno, l'accanimento dell'affittuario nel produrre quanto più gli sia possibile, mi spiego? Poi, sprovvisto com'è quasi sempre di mezzi, deve per forza smerciar subito il suo prodotto, a qualunque prezzo, per seguitare il lavoro; perché, se non lavora - voi lo sapete - il proprietario gli toglie la zolfara. E, per conseguenza, come dice Nino Mo: lo zolfo giù, giù, giù, come se fosse pietraccia vile. Ma, del resto, voi don Nocio che avete studiato, e tu Tino Làbiso: sapreste dirmi che diavolo sia lo zolfo e a che cosa serva?

Finanche il Lopes, a questa domanda speciosa, si voltava a guardare con gli occhi sbarrati. Nino Mo si cacciava in tasca le mani irrequiete, come se volesse cercarvi rabbiosamente la risposta; mentre Tino Làbiso tirava al solito daccapo il pezzolone per soffiarsi il naso e prender tempo, da uomo prudente.

- Oh bella! - esclamava intanto Nocio Butera, imbarazzato anche lui. - Serve... serve per... per inzolfare le viti, serve.

- E... e anche per... già, per i fiammiferi di legno, mi pare, - aggiungeva Tino Làbiso ripiegando con somma diligenza il fazzoletto.

- Mi pare... mi pare... - si metteva a sghignazzare don Mattia Scala. - Che vi pare? È proprio così! Questi due soli usi ne conosciamo noi. Domandatene a chi volete: nessuno vi saprà dire per che altro serva lo zolfo. E intanto lavoriamo, ci ammazziamo a scavarlo, poi lo trasportiamo giù alle marine, dove tanti vapori inglesi, americani, tedeschi, francesi, perfino greci, stanno pronti con le stive aperte come tante bocche a ingojarselo; ci tirano una bella fischiata, e addio! Che ne faranno, di là, nei loro paesi? Nessuno lo sa; nessuno si cura di saperlo! E la ricchezza nostra, intanto, quella che dovrebbe essere la ricchezza nostra, se ne va via così dalle vene delle nostre montagne sventrate, e noi rimaniamo qua, come tanti ciechi, come tanti allocchi, con le ossa rotte dalla fatica e le tasche vuote. Unico guadagno: le nostre campagne bruciate dal <I>fumo</I>.

I quattro amici, a questa vivace, lampantissima dimostrazione della cecità con cui si esercitava l'industria e il commercio di quel tesoro concesso dalla natura alle loro contrade e intorno a cui pur ferveva tanta briga, tanta guerra di lucro, insidiosa e spietata, restavano muti, come oppressi da una condanna di perpetua miseria.

Allora lo Scala, riprendendo il primo discorso, si metteva a rappresentar loro tutti gli altri pesi, a cui doveva sottostare un povero affittuario di zolfare. Li sapeva tutti, lui, per averli purtroppo sperimentati. Ed ecco, oltre l'affitto breve, <I>l'estaglio</I>, cioè la quota d'affitto che doveva esser pagata in natura, sul prodotto lordo, al proprietario del suolo, il quale non voleva affatto sapere se il giacimento fosse ricco o povero, se le zone sterili fossero rare o frequenti, se il sotterraneo fosse asciutto o invaso dalle acque, se il prezzo fosse alto o basso, se insomma l'industria fosse o no remunerativa. E, oltre l'estaglio, le tasse governative d'ogni sorta; e poi l'obbligo di costruire, non solo le gallerie inclinate per l'accesso alla zolfara e quella per la ventilazione e i pozzi per l'estrazione e l'eduzione delle acque; ma anche i calcheroni, i forni, le strade, i caseggiati e quanto mai potesse occorrere alla superficie per l'esercizio della zolfara. E tutte queste costruzioni, alla fine del contratto, dovevano rimanere al proprietario del suolo, il quale, per giunta, esigeva che tutto gli fosse consegnato in buon ordine e in buono stato. Come se le spese fossero state a suo carico. Né bastava! Neppur dentro le gallerie sotterranee l'affittuario era padrone di lavorare a suo modo, ma ad archi, o a colonne, o a pasture, come il proprietario imponeva, talvolta anche contro le esigenze stesse del terreno.

Si doveva esser pazzi o disperati, no? per accettar siffatte condizioni, per farsi mettere così i piedi sul collo. Chi erano, infatti, per la maggior parte i produttori di zolfo? Poveri diavoli, senza il becco d'un quattrino, costretti a procacciarsi i mezzi, per coltivar la zolfara presa in affitto, dai mercanti di zolfo delle marine, che li assoggettavano ad altre usure, ad altre soperchierie.

Tirati i conti, che cosa restava, dunque, ai produttori? E come avrebbero potuto dare, essi, un men tristo salario a quei disgraziati che faticavano laggiù, esposti continuamente alla morte? Guerra, dunque, odio, fame, miseria per tutti; per i produttori, per i picconieri, per quei poveri ragazzi oppressi, schiacciati da un carico superiore alle loro forze, su e giù per le gallerie e le scale della buca.

Quando lo Scala terminava di parlare e i vicini si alzavano per tornarsene alle loro abitazioni rurali, la luna, alta e come smarrita nel cielo, quasi non fosse di quella notte, ma la luna d'un tempo lontano lontano, dopo il racconto di tante miserie, illuminando le due coste della vallata ne faceva apparir più squallida e più lugubre la desolazione.

E ciascuno, avviandosi, pensava che là, sotto quelle coste così squallidamente rischiarate, cento, duecento metri sottoterra, c'era gente che s'affannava ancora a scavare, a scavare, poveri picconieri sepolti laggiù, a cui non importava se su fosse giorno o notte, poiché notte era sempre per loro.

 

<B>III.</B>

 

Tutti, a sentirlo parlare, credevano che lo Scala avesse già dimenticato i dolori passati e non si curasse più di nulla ormai, tranne di quel suo pezzetto di terra, da cui non si staccava più da anni, nemmeno per un giorno.

Del figliuolo scomparso, sperduto per il mondo, - se qualche volta ne parlava, perché qualcuno gliene moveva il discorso - si sfogava a dir male, per l'ingratitudine che gli aveva dimostrata, per il cuor duro di cui aveva dato prova.

- Se è vivo, - concludeva - è vivo per sé; per me, è morto, e non ci penso più.

Diceva così, ma, intanto, non partiva per l'America da tutti quei dintorni un contadino, dal quale non si recasse di nascosto, alla vigilia della partenza, per consegnargli segretamente una lettera indirizzata a quel suo figliuolo.

- Non per qualche cosa, oh! Se niente niente t'avvenisse di vederlo o d'averne notizia, laggiù.

Molte di quelle lettere gli eran tornate indietro, con gli emigranti rimpatriati dopo quattro o cinque anni, gualcite, ingiallite, quasi illeggibili ormai. Nessuno aveva visto Neli, né era riuscito ad averne notizia, né all'Argentina, né al Brasile, né a gli Stati Uniti.

Egli ascoltava, poi scrollava le spalle:

- E che me n'importa? Da' qua, da' qua. Non mi ricordavo più neanche d'averti dato questa lettera per lui.

Non voleva mostrare a gli estranei la miseria del suo cuore, l'inganno in cui sentiva il bisogno di persistere ancora: che il figlio, cioè, fosse là, in America, in qualche luogo remoto, e che dovesse un giorno o l'altro ritornare, venendo a sapere ch'egli s'era adattato alla nuova condizione e possedeva una campagna, dove viveva tranquillo, aspettandolo.

Era poca, veramente, quella terra; ma da parecchi anni don Mattia covava, di nascosto al Butera, il disegno d'ingrandirla, acquistando la terra d'un suo vicino, col quale già s'era messo a prezzo e accordato. Quante privazioni, quanti sacrifizii non s'era imposti, per metter da parte quanto gli bisognava per attuare quel suo disegno! Era poca, sì, la sua terra; ma da un pezzo egli, affacciandosi al balcone della cascina, s'era abituato a saltar con gli occhi il muro di cinta tra il suo podere e quello del vicino e a considerar come sua tutta quanta quella terra. Raccolta la somma convenuta, aspettava solamente che il vicino si risolvesse a firmare il contratto e a sloggiare di là.

Gli sapeva mill'anni, allo Scala; ma, per disgrazia, gli era toccato ad aver da fare con un benedett'uomo! Buono, badiamo, quieto, garbato, remissivo, don Filippino Lo Cìcero, ma senza dubbio un po' svanito di cervello. Leggeva dalla mattina alla sera certi libracci latini, e viveva solo in campagna con una scimmia che gli avevano regalata.

La scimmia si chiamava Tita; era vecchia e tisica per giunta. Don Filippino la curava come una figliuola, la carezzava, s'assoggettava senza mai ribellarsi a tutti i capricci di lei; con lei parlava tutto il giorno, certissimo d'esser compreso. E quando essa, triste per la malattia, se ne stava arrampicata su la trabacca del letto, ch'era il suo posto preferito, egli, seduto su la poltrona, si metteva a leggerle qualche squarcio delle <I>Georgiche</I> o delle <I>Bucoliche</I>:

- Tityre, tu patulae...

Ma quella lettura era di tratto in tratto interrotta da certi soprassalti d'ammirazione curiosissimi: a qualche frase, a qualche espressione, talvolta anche per una semplice parola, di cui don Filippino comprendeva la squisita proprietà o gustava la dolcezza, posava il libro su le ginocchia, socchiudeva gli occhi e si metteva a dire celerissimamente: - <I>Bello! bello! bello! bello! bello!</I> - abbandonandosi man mano su la spalliera, come se svenisse dal piacere. Tita allora scendeva dalla trabacca e gli montava sul petto, angustiata, costernata; don Filippino la abbracciava e le diceva, al colmo della gioja:

- Senti, Tita, senti... Bello! bello! bello! bello! bello...

Ora don Mattia Scala voleva la campagna: aveva fretta, cominciava a essere stufo, e aveva ragione: la somma convenuta era pronta - e notare che quel denaro a don Filippino avrebbe fatto tanto comodo; ma, Dio benedetto, come avrebbe poi potuto in città gustar la poesia pastorale e campestre del suo divino Virgilio?

- Abbi pazienza, caro Mattia!

La prima volta che lo Scala s'era sentito rispondere così, aveva sbarrato tanto d'occhi:

- Mi burlate, o dite sul serio?

Burlare? Ma neanche per sogno! Diceva proprio sul serio, don Filippino.

Certe cose lo Scala, ecco, non le poteva capire. E poi c'era Tita, Tita ch'era abituata a vivere in campagna, e che forse non avrebbe più saputo farne a meno, poverina.

Nei giorni belli don Filippino la conduceva a passeggio, un po' facendola camminare pian pianino coi suoi piedi, un po' reggendola in braccio, come fosse una bambina; poi sedeva su qualche masso a piè d'un albero; Tita allora s'arrampicava sui rami e, spenzolandosi, afferrata per la coda, tentava di ghermirgli la papalina per il fiocco o di acciuffargli la parrucca o di strappargli il Virgilio dalle mani.

- Bonina, Tita, bonina! Fammi questo piacere, povera Tita!

Povera, povera, sì, perché era condannata, quella cara bestiola. E Mattia Scala, dunque, doveva avere ancora un po' di pazienza.

- Aspetta almeno, - gli diceva don Filippino - che questa povera bestiola se ne vada. Poi la campagna sarà tua. Va bene?

Ma era già passato più d'un anno di comporto, e quella brutta bestiaccia non si risolveva a crepare.

- Vogliamo farla invece guarire? - gli disse un giorno lo Scala. - Ho una ricetta coi fiocchi!

Don Filippino lo guardò sorridente, ma pure con una cert'ansia, e domandò:

- Mi burli?

- No. Sul serio. Me l'ha data un veterinario che ha studiato a Napoli: bravissimo.

- Magari, caro Mattia!

- Dunque fate così. Prendete quanto un litro d'olio fino. Ne avete, olio fino? ma fino, proprio fino?

- Lo compro, anche se dovessi pagarlo sangue di papa.

- Bene. Quanto un litro. Mettetelo a bollire, con tre spicchi d'aglio, dentro.

- Aglio?

- Tre spicchi. Date ascolto a me. Quando l'olio comincerà a muoversi, prima che alzi il bollo, toglietelo dal fuoco. Prendete allora una buona manata di farina di Majorca e buttatecela dentro.

- Farina di Majorca?

- Di Majorca, gnorsì. Mestate; poi, quando si sarà ridotta come una pasta molle, oleosa, applicatela, ancora calda, sul petto e su le spalle di quella brutta bestia; ricopritela ben bene di bambagia, di molta bambagia, capite?

- Benissimo: di bambagia; e poi?

- Poi aprite una finestra e buttatela giù.

- Ohooo! - miaolò don Filippino. - Povera Tita!

- Povera campagna, dico io! Voi non ci badate; io debbo guardarla da lontano, e intanto, pensate: non c'è più vigna; gli alberi aspettano da una diecina d'anni almeno, la rimonda; i frutici crescono senza innesti, coi polloni sparpagliati, che si succhian la vita l'un l'altro e par che chiedano ajuto da tutte le parti; di molti olivi non resta che da far legna. Che debbo comperarmi, alla fine? Possibile seguitare così?

Don Filippino, a queste rimostranze, faceva una faccia talmente afflitta, che don Mattia non si sentiva più l'animo d'aggiunger altro.

Con chi parlava, del resto? Quel pover uomo non era di questo mondo. Il sole, il sole vero, il sole della giornata non era forse mai sorto per lui: per lui sorgevano ancora i soli del tempo di Virgilio.

Aveva vissuto sempre là, in quella campagna, prima insieme con lo zio prete, che, morendo, gliel'aveva lasciata in eredità, poi sempre solo. Orfano a tre anni, era stato accolto e cresciuto da quello zio, appassionato latinista e cacciatore per la vita. Ma di caccia don Filippino non s'era mai dilettato, forse per l'esperienza fatta su lo zio, il quale - quantunque prete - era terribilmente focoso: l'esperienza cioè, di due dita saltate a quella buon'anima, dalla mano sinistra, nel caricare il fucile. Si era dato tutto al latino, lui, invece, con passione quieta, contentandosi di svenire dal piacere, parecchie volte, durante la lettura; mentre l'altro, lo zio prete, si levava in piedi, nei suoi soprassalti d'ammirazione, infocato in volto, con le vene della fronte così gonfie che pareva gli volessero scoppiare, e leggeva ad altissima voce e in fine prorompeva, scaraventando il libro per terra o su la faccia rimminchionita di don Filippino:

- Sublime, santo diavolo!

Morto di colpo questo zio, don Filippino era rimasto padrone della campagna; ma padrone per modo di dire.

In vita, lo zio prete aveva anche posseduto una casa nella vicina città, e questa casa aveva lasciato nel testamento al figliuolo di un'altra sua sorella, il quale si chiamava Saro Trigona. Ora forse, costui, considerando la propria condizione di sfortunato sensale di zolfo, di sfortunatissimo padre di famiglia con una caterva di figliuoli, s'aspettava che lo zio prete lasciasse tutto a lui, la casa e la campagna, con l'obbligo, si capisce, di prendere con sé e di mantenere, vita natural durante, il cugino Lo Cìcero, il quale, cresciuto sempre come un figlio di famiglia, sarebbe stato inetto, per altro, ad amministrar da sé quella campagna. Ma, poiché lo zio non aveva avuto per lui questa considerazione, Saro Trigona, non potendo per diritto, cercava di trar profitto in tutte le maniere anche dell'eredità del cugino, e mungeva spietatamente il povero don Filippino. Quasi tutti i prodotti della campagna andavano a lui: frumento, fave, frutta, vino, ortaggi; e, se don Filippino ne vendeva qualche parte di nascosto, come se non fosse roba sua, il cugino Saro, scoprendo la vendita, gli piombava in campagna su le furie, quasi avesse scoperto una frode a suo danno, e invano don Filippino gli dimostrava umilmente che quel denaro gli serviva per i molti lavori di cui la campagna aveva bisogno. Voleva il denaro:

- O mi uccido! - gli diceva, accennando di cavar la rivoltella dal fodero sotto la giacca. - Mi uccido qua, davanti a te Filippino, ora stesso! Perché non ne posso più, credimi! Nove figliuoli, Cristo sacrato, nove figliuoli che mi piangono per il pane!

E meno male quando veniva solo, in campagna, a far quelle scenate! Certe volte conduceva con sé la moglie e la caterva dei figliuoli. A don Filippino, abituato a vivere sempre solo, gli pareva d'andar via col cervello. Quei nove nipoti, tutti maschi, il maggiore dei quali non aveva ancora quattordici anni, quantunque «piangenti per il pane» prendevano d'assalto, come nove demonii scatenati, la tranquilla casa campestre dello zio; gli mettevano tutto sossopra: ballavano, ballavano proprio quelle stanze, dagli urli, dalle risa, dai pianti, dalle corse sfrenate; poi s'udiva, immancabilmente, il fracasso, il rovinio di qualche grossa rottura, almeno almeno di qualche specchio d'armadio andato in briciole; allora Saro Trigona balzava in piedi, gridando:

- Faccio l'organo! faccio l'organo!

Rincorreva, acciuffava quelle birbe; distribuiva calci, schiaffi, pugni, sculacciate; poi, com'essi si mettevano a strillare in tutti i toni, li disponeva in fila, per ordine d'altezza, e così facevano l'organo.

- Fermi là! Belli... belli davvero, guarda, Filippino! Non sono da dipingere? Che sinfonia!

Don Filippino si turava gli orecchi, chiudeva gli occhi e si metteva a pestare i piedi dalla disperazione.

- Mandali via! Rompano ogni cosa; si portino via casa, alberi, tutto; ma lasciatemi in pace per carità!

Aveva torto, però, don Filippino. Perché la cugina, per esempio, non veniva mai con le mani vuote a trovarlo in campagna: gli portava qualche papalina ricamata, con un bel fiocco di seta: come no? quella che teneva in capo; o un pajo di pantofole gli portava, pur ricamate da lei: quelle che teneva ai piedi. E la parrucca? Dono e attenzione del cugino, per guardarlo dai raffreddori frequenti, a cui andava soggetto, per la calvizie precoce. Parrucca di Francia! Gli era costata un occhio, a Saro Trigona. E la scimmia, Tita? Anch'essa, regalo della cugina: regalo di sorpresa, per rallegrare gli ozii e la solitudine del buon cugino esiliato in campagna. Come no?

- Somarone, scusate, somarone! - gli gridava don Mattia Scala. - O perché mi fate ancora aspettare a pigliar possesso? Firmate il contratto, levatevi da questa schiavitù! Col denaro che vi do io, voi senza vizii, voi con così pochi bisogni, potreste viver tranquillo, in città, gli anni che vi restano. Siete pazzo? Se perdete ancora altro tempo per amore di Tita e di Virgilio, vi ridurrete all'elemosina, vi ridurrete!

Perché don Mattia Scala, non volendo che andasse in malora il podere ch'egli considerava già come suo, s'era messo ad anticipare al Lo Cìcero parte della somma convenuta.

- Tanto, per la potatura; tanto per gl'innesti; tanto per la concimazione... Don Filippino, diffalchiamo!

- Diffalchiamo! - sospirava don Filippino. - Ma lasciami stare qui. In città, vicino a quei demonii, morirei dopo due giorni. Tanto a te non do ombra. Non sei tu qua il padrone, caro Mattia? Puoi far quello che ti pare e piace. Io non ti dico niente. Basta che tu mi lasci star tranquillo...

- Sì. Ma intanto, - gli rispondeva lo Scala - i beneficii se li gode vostro cugino!

- Che te ne importa? - gli faceva osservare il Lo Cìcero. - Questo denaro tu dovresti darmelo tutto in una volta, è vero? Me lo dai invece così, a spizzico; e ci perdo io, in fondo, perché, diffalcando oggi, diffalcando domani, mi verrà un giorno a mancare, mentre tu lo avrai speso qua, a beneficar la terra che allora sarà tua.

 

<B>IV.</B>

 

Il ragionamento di don Filippino era senza dubbio convincente; ma che sicuro aveva intanto lo Scala di quei denari spesi nel fondo di lui? E se don Filippino fosse venuto a mancare d'un colpo, Dio liberi! senza aver tempo e modo di firmar l'atto di vendita, per quel tanto che oramai gli toccava, Saro Trigona, suo unico erede, avrebbe poi riconosciuto quelle spese e il precedente accordo col cugino?

Questo dubbio sorgeva di tanto in tanto nell'animo di don Mattia; ma poi pensava che, a voler forzare don Filippino a cedergli il possesso del fondo, a volerlo mettere alle strette per quei denari anticipati, poteva correre il rischio di sentirsi rispondere: «O infine, chi t'ha costretto ad anticiparmeli? Per me, il fondo poteva restar bene com'era e andar anche in malora: non me ne sono mai curato. Non puoi mica, ora, cacciarmi di casa mia, se io non voglio». Pensava inoltre lo Scala che aveva da fare con un vero galantuomo, incapace di far male, neanche a una mosca. Quanto al pericolo che morisse d'un colpo, questo pericolo non c'era: senza vizii, e viveva così morigeratamente, sempre sano e vegeto, che prometteva anzi di campar cent'anni. Del resto, il termine del comporto era già fissato: alla morte della scimmia, che poco più ormai si sarebbe fatta aspettare.

Era tal fortuna, infine, per lui, il potere acquistar quella terra a così modico prezzo, che gli conveniva star zitto e fidare; gli conveniva tenervi così, anzi, la mano sopra, con quei denari che ci veniva spendendo a mano a mano, quietamente, e come gli pareva e piaceva. Il vero padrone, lì, era lui; stava più lì, si può dire, che nel suo podere.

- Fate questo; fate quest'altro.

Comandava; s'abbelliva la campagna, e non pagava tasse. Che voleva di più?

Tutto poteva aspettarsi il povero don Mattia, tranne che quella scimmia maledetta, che tanto lo aveva fatto penare, gli dovesse far l'ultima!

Era solito lo Scala di levarsi prima dell'alba, per vigilare ai preparativi del lavoro prestabilito la sera avanti col garzone; non voleva che questi, dovendo, per esempio, attendere alla rimonda, tornasse due o tre volte dalla costa alla cascina o per la scala, o per la pietra d'affilare la ronca o l'accetta, o per l'acqua o per la colazione: doveva andarsene munito e provvisto di tutto punto, per non perder tempo inutilmente.

- Lo ziro, ce l'hai? Il companatico? Tieni, ti do una cipolla. E svelto, mi raccomando.

Passava quindi, prima che il sole spuntasse, nel podere del Lo Cìcero.

Quel giorno, a causa d'una carbonaja a cui si doveva dar fuoco, lo Scala fece tardi. Erano già passate le dieci. Intanto, la porta della cascina di don Filippino era ancora chiusa, insolitamente. Don Mattia picchiò: nessuno gli rispose: picchiò di nuovo, invano; guardò su ai balconi e alle finestre: chiusi per notte, ancora.

«Che novità?» pensò, avviandosi alla casa colonica lì vicino, per aver notizie dalla moglie del garzone.

Ma anche lì trovò chiuso. Il podere pareva abbandonato.

Lo Scala allora si portò le mani alla bocca per farsene portavoce e, rivolto verso la campagna, chiamò forte il garzone. Come questi, poco dopo, dal fondo della piaggia, gli diede la voce, don Mattia gli domandò se don Filippino fosse là con lui. Il garzone gli rispose che non s'era visto. Allora, già con un po' d'apprensione, lo Scala tornò a picchiare alla cascina; chiamò più volte: - Don Filippino! Don Filippino! - e, non avendo risposta, né sapendo che pensarne, si mise a stirarsi con una mano quel suo nasone palpitante.

La sera avanti egli aveva lasciato l'amico in buona salute. Malato, dunque, non poteva essere, almeno fino al punto di non poter lasciare il letto per un minuto. Ma forse, ecco, s'era dimenticato di aprir le finestre delle camere poste sul davanti, ed era uscito per la campagna con la scimmia: il portone forse lo aveva chiuso, vedendo che nella casa colonica non c'era alcuno di guardia.

Tranquillatosi con questa riflessione, si mise a cercarlo per la campagna, ma fermandosi di tratto in tratto qua e là, dove con l'occhio esperto e previdente dell'agricoltore scorgeva a volo il bisogno di qualche riparo; di tratto in tratto chiamando:

- Don Filippino, oh don Filippììì...

Si ridusse così in fondo alla piaggia, dove il garzone attendeva con tre giornanti a zappare la vigna.

- E don Filippino? Che se n'è fatto? Io non lo trovo.

Ripreso dalla costernazione, di fronte all'incertezza di quegli uomini, a cui pareva strano ch'egli avesse trovata chiusa la villa com'essi la avevano lasciata nell'avviarsi al lavoro, lo Scala propose di ritornar su tutti insieme a vedere che fosse accaduto.

- Ho bell'e capito! Questa mattina è infilata male!

- Quando mai, lui! - badava a dire il garzone. - Di solito così mattiniero...

- Ma gli starà male la scimmia, vedrete! - disse uno dei giornanti. - La terrà in braccio, e non vorrà muoversi per non disturbarla.

- Neanche a sentirsi chiamato, come l'ho chiamato io, non so più quante volte? - osservò don Mattia. - Va' là! Qualcosa dev'essergli accaduto!

Pervenuti su lo spiazzo innanzi alla cascina, tutti e cinque, ora l'uno ora l'altro, si provarono a chiamarlo, inutilmente; fecero il giro della cascina; dal lato di tramontana, trovarono una finestra con gli scuri aperti; si rincorarono:

- Ah! esclamò il garzone. - Ha aperto, finalmente! È la finestra della cucina.

- Don Filippino! - gridò lo Scala. - Mannaggia a voi! Non ci fate disperare!

Attesero un pezzo coi nasi per aria; tornarono a chiamarlo in tutti i modi; alla fine, don Mattia, ormai costernatissimo e infuriato, prese una risoluzione.

- Una scala!

Il garzone corse alla casa colonica e ritornò poco dopo con la scala.

- Monto io! - disse don Mattia, pallido e fremente al solito, scostando tutti.

Pervenuto all'altezza della finestra, si tolse il cappellaccio bianco, vi cacciò il pugno e infranse il vetro, poi aprì la finestra e saltò dentro.

Il focolare, lì, in cucina, era spento. Non s'udiva nella casa alcun rumore. Tutto, là dentro, era ancora come se fosse notte: soltanto dalle fessure delle imposte traspariva il giorno.

- Don Filippino! - chiamò ancora una volta lo Scala: ma il suono della sua stessa voce, in quel silenzio strano, gli suscitò un brivido, dai capelli alla schiena.

Attraversò, a tentoni, alcune stanze; giunse alla camera da letto, anch'essa al bujo. Appena entrato, s'arrestò di botto. Al tenue barlume che filtrava dalle imposte, gli parve di scernere qualcosa, come un'ombra, che si moveva sul letto, strisciando, e dileguava. I capelli gli si drizzarono su la fronte; gli mancò la voce per gridare. Con un salto fu al balcone, lo aprì, si voltò e spalancò gli occhi e la bocca, dal raccapriccio, scotendo le mani per aria. Senza fiato, senza voce, tutto tremante e ristretto in sé dal terrore, corse alla finestra della cucina.

- Su... su, salite! Ammazzato! Assassinato!

- Assassinato? Come! Che dice? - esclamarono quelli che attendevano ansiosamente, slanciandosi tutti e quattro insieme per montare. Il garzone volle andare innanzi agli altri, gridando:

- Piano per la scala! A uno a uno!

Sbalordito, allibito, don Mattia si teneva con tutt'e due le mani la testa, ancora con la bocca aperta e gli occhi pieni di quell'orrenda vista.

Don Filippino giaceva sul letto col capo rovesciato indietro, affondato nel guanciale, come per uno stiramento spasmodico, e mostrava la gola squarciata e sanguinante: teneva ancora alzate le mani, quelle manine che non gli parevano nemmeno, orrende ora a vederle, così scompostamente irrigidite e livide.

Don Mattia e i quattro contadini lo mirarono un pezzo, atterriti; a un tratto, trabalzarono tutt'e cinque, a un rumore che venne di sotto al letto: si guardarono negli occhi; poi, uno di loro si chinò a guardare.

- La scimmia! - disse con un sospiro di sollievo, e quasi gli venne di ridere.

Gli altri quattro, allora, si chinarono anch'essi a guardare.

Tita, accoccolata sotto il letto, con la testa bassa e le braccia incrociate sul petto, vedendo quei cinque che la esaminavano, giro giro, così chinati e stravolti, tese le mani alle tavole del letto e saltò più volte a balziculi, poi accomodò la bocca ad o, ed emise un suono minaccioso:

- <I>Chhhh...</I>

- Guardate! - gridò allora lo Scala. - Sangue... Ha le mani... il petto insanguinati... essa lo ha ucciso!

Si ricordò di ciò che gli era parso di scernere, entrando, e raffermò, convinto:

- Essa, sì! l'ho veduta io, con gli occhi miei! Stava sul letto...

E mostrò ai quattro contadini inorriditi le scigrigne su le gote e sul mento del povero morto:

- Guardate!

Ma come mai? La scimmia? Possibile? Quella bestia ch'egli teneva da tanti anni con sé, notte e giorno?

- Fosse arrabbiata? - osservò uno dei giornanti, spaventato.

Tutt'e cinque, a un tempo, con lo stesso pensiero si scostarono dal letto.

- Aspettate! Un bastone... - disse don Mattia.

E cercò con gli occhi nella camera, se ce ne fosse qualcuno, o se ci fosse almeno qualche oggetto che potesse farne le veci.

Il garzone prese per la spalliera una seggiola e si chinò; ma gli altri, così inermi, senza riparo, ebbero paura e gli gridarono:

- Aspetta! Aspetta!

Si munirono di seggiole anche loro. Il garzone allora spinse la sua più volte sotto il letto: Tita balzò fuori dall'altra parte, s'arrampicò con meravigliosa agilità su per la trabacca del letto, andò ad accoccolarsi in cima al padiglione, e lassù, pacificamente, come se nulla fosse, si mise a grattarsi il ventre, poi a scherzar con le cocche d'un fazzoletto che il povero don Filippino le aveva legato alla gola.

I cinque uomini stettero a mirare quell'indifferenza bestiale, rimbecilliti.

- Che fare, intanto? - domandò lo Scala, abbassando gli occhi sul cadavere; ma subito alla vista di quella gola squarciata, voltò la faccia. - Se lo coprissimo con lo stesso lenzuolo?

- Nossignore! - disse subito il garzone. - Vossignoria dia ascolto a me. Bisogna lasciarlo così come si trova. Io sono qua, di casa, e non voglio impicci con la giustizia, io. Anzi mi siete tutti testimoni.

- Che c'entra adesso! - esclamò don Mattia, dando una spallata.

Ma il garzone riprese ponendo avanti le mani:

- Non si sa mai, con la giustizia, padrone mio! Siamo poveretti, nojaltri, e con noi... so io quel che mi dico...

- Io penso, invece, - gridò don Mattia, esasperato, - penso che lui, là, povero pazzo, è morto come un minchione, per la sua stolidaggine, e che io, intanto, più pazzo e più stolido di lui, son bell'e rovinato! Oh, ma - tutti testimoni davvero, voi qua - che in questa campagna io ho speso i miei denari, il sangue mio: lo direte... Ora andate ad avvertire quel bel galantuomo di Saro Trigona e il pretore e il delegato, che vengano a vedere le prodezze di questa... Maledetta! - urlò, con uno scatto improvviso, strappandosi dal capo il cappellaccio e lanciandolo contro la scimmia.

Tita lo colse al volo, lo esaminò attentamente, vi stropicciò la faccia, come per soffiarsi il naso, poi se lo cacciò sotto e vi si pose a sedere. I quattro contadini scoppiarono a ridere, senza volerlo.

 

<B>V.</B>

 

Niente: né un rigo di testamento, né un appunto pur che fosse in qualche registro o in qualche pezzetto di carta volante.

E non bastava il danno: toccavano per giunta a don Mattia Scala le beffe degli amici. Eh già, perché infatti, Nocio Butera, per esempio, avrebbe facilmente immaginato, che don Filippino Lo Cìcero sarebbe morto a quel modo, ucciso dalla scimmia.

- Tu, Tino Làbiso, che ne dici, eh? <I>Può essere</I>, è vero? Che bestia! che bestia! che bestia!

E don Mattia si calcava fin sopra gli occhi con le mani afferrate alla tesa il cappellaccio bianco, e pestava i piedi dalla rabbia.

Saro Trigona, finché il cugino non fu sotterrato, dopo gli accertamenti del medico e del pretore, non gli volle dare ascolto, protestando che la disgrazia non gli consentiva di parlar d'affari.

- Sì! Come se la scimmia non gliel'avesse regalata lui, apposta! - si sfogava a dire lo Scala, di nascosto.

Avrebbe dovuto farle coniare una medaglia d'oro, a quella scimmia, e invece - ingrato, - l'aveva fatta fucilare: proprio così, fu-ci-la-re, il giorno dopo, non ostante che il giovane medico, venuto in campagna insieme col pretore, avesse trovato una graziosa spiegazione del delitto incosciente della bestia. Tita, malata di tisi, si sentiva forse mancare il respiro, anche a causa, probabilmente, di quel fazzoletto che il povero don Filippino le aveva legato al collo, forse un po' troppo stretto, o perché se lo fosse stretto lei stessa tentando di slegarselo. Ebbene: forse era saltata sul letto per indicare al padrone dove si sentiva mancare il respiro, lì, al collo, e gliel'aveva preso con le mani; poi, nell'oppressura, non riuscendo a tirare il fiato, esasperata, forse s'era messa a scavare con le unghie, lì, nella gola del padrone. Ecco fatto! Bestia era, infine. Che capiva?

E il pretore, serio serio, accigliato, col testone calvo, rosso, sudato, aveva fatto ripetuti segni d'approvazione alla rara perspicacia del giovine medico - tanto carino!

Basta. Sotterrato il cugino, fucilata la scimmia, Saro Trigona si mise a disposizione di don Mattia Scala.

- Caro don Mattia, discorriamo.

C'era poco da discorrere. Lo Scala, con quel suo fare a scatti, gli espose brevemente il suo accordo col Lo Cìcero, e come, aspettando di giorno in giorno che quella maledetta bestiaccia morisse per pigliar possesso, avesse speso nel podere, in più stagioni, col consenso del Lo Cìcero stesso, beninteso, parecchie migliaja di lire, che dovevano per conseguenza detrarsi dalla somma convenuta. Chiaro, eh?

- Chiarissimo! - rispose il Trigona, che aveva ascoltato con molta attenzione il racconto dello Scala, approvando col capo, serio serio, come il pretore. - Chiarissimo! E io, dal canto mio, caro don Mattia, sono disposto a rispettare l'accordo. Fo il sensale; e, voi lo sapete: tempacci! Per collocare una partita di zolfo ci vuol la mano di Dio: la senseria se ne va in francobolli e in telegrammi. Questo, per dirvi che io, con la mia professione, non potrei attendere alla campagna, di cui non so proprio che farmi. Ho poi, come sapete, caro don Mattia, nove figliuoli maschi, che debbono andare a scuola: bestie, uno più dell'altro: ma vanno a scuola. Debbo, dunque, per forza stare in città. Veniamo a noi. C'è un guajo, c'è. Eh, caro don Mattia, pur troppo! Guajo grosso. Nove figliuoli, dicevamo, e voi non sapete, non potete farvi un'idea di quanto mi costino: di scarpe soltanto... ma già, è inutile che stia a farvi il conto! Impazzireste. Per dirvi, caro don Mattia...

- Non me lo dite più, per carità, <I>caro don Mattia</I>, - proruppe lo scala, irritato di quell'interminabile discorso che non veniva a capo di nulla. - <I>Caro don Mattia... caro don Mattia...</I> basta! concludiamo! Ho già perso troppo tempo con la scimmia e con don Filippino!

- Ecco, - riprese il Trigona, senza scomporsi. - Volevo dirvi che ho avuto sempre bisogno di ricorrere a certi messeri, che Dio ne scampi e liberi, per... mi spiego? e, si capisce, mi hanno messo i piedi sul collo. Voi sapete chi porta la bandiera, nel nostro paese, in questa specie d'operazioni...

- Dima Chiarenza? - esclamò subito lo Scala scattando in piedi, pallidissimo. Scaraventò il cappello per terra, si passò furiosamente una mano sui capelli; poi, rimanendo con la mano dietro la nuca, sbarrando gli occhi e appuntando l'indice dell'altra mano, come un'arma, verso il Trigona:

- Voi? - aggiunse. - Voi, da quel boja? da quell'assassino, che mi ha mangiato vivo? Quanto avete preso?

- Aspettate, vi dirò, - rispose il Trigona, con calma dolente, ponendo innanzi una mano. - Non io! perché quel boja, come voi dite benissimo, della mia firma non ha mai voluto saperne...

- E allora... don Filippino? - domandò lo Scala coprendosi il volto con le mani, come per non veder le parole che gli uscivano di bocca.

- L'avallo... - sospirò il Trigona, tentennando il capo amaramente.

Don Mattia si mise a girar per la stanza, esclamando, con le mani per aria:

- Rovinato! Rovinato! Rovinato!

- Aspettate, - ripeté il Trigona. - Non vi disperate. Vediamo di rimediarla. Quanto intendevate di dare voi, a Filippino, per la terra?

- Io? - gridò lo Scala, fermandosi di botto, con le mani sul petto. - Diciotto mila lire, io: contanti! Son circa sei ettari di terra: tre salme giuste, con la nostra misura: sei mila lire a salma, contanti! Dio sa quel che ho penato per metterle insieme: e ora, ora mi vedo sfuggir l'affare, la terra sotto i piedi, la terra che già consideravo mia!

Mentre don Mattia si sfogava così, Saro Trigona si toccava le dita, accigliato, per farsi i conti:

- Diciotto mila... oh, dunque, si dice...

- Piano, - lo interruppe lo Scala. - Diciotto mila, se la buon'anima m'avesse lasciato subito il possesso del fondo. Ma più di sei mila già ce l'ho spese. E questo è conto che si può far subito, sul luogo. Ho i testimoni: quest'anno stesso, ho piantato due migliaja di vitigni americani, spaventosi! e poi...

Saro Trigona si levò in piedi per troncare quella discussione, dichiarando:

- Ma dodici mila non bastano, caro don Mattia. Gliene debbo più di venti mila a quel boja, figuratevi!

- Venti mila lire? - esclamò lo Scala, trasecolando. - E che avete mangiato, denari, voi e i vostri figliuoli?

Il Trigona trasse un lunghissimo sospiro e, battendo una mano sul braccio dello Scala, disse:

- E le mie disgrazie, don Mattia? Non è ancora un mese, che mi è toccato a pagar nove mila lire a un negoziante di Licata, per differenza di prezzo su una partita di zolfo. Lasciatemi stare! Furono le ultime cambiali che mi avallò il povero Filippino, Dio l'abbia in gloria!

Dopo altre inutili rimostranze, convennero di recarsi quel giorno stesso, con le dodici mila lire in mano, dal Chiarenza, per tentare un accordo.

 

<B>VI.</B>

 

La casa di Dima Chiarenza sorgeva su la piazza principale del paese.

Era una casa antica, a due piani, annerita dal tempo, innanzi alla quale solevano fermarsi con le loro macchinette fotografiche i forestieri, inglesi e tedeschi che si recavano a veder le zolfare, destando una certa meraviglia mista di dileggio o di commiserazione negli abitanti del paese, per i quali quella casa non era altro che una cupa decrepita stamberga, che guastava l'armonia della piazza, col palazzo comunale di fronte, stuccato e lucido, che pareva di marmo, e maestoso anche, con quel loggiato a otto colonne; la Matrice di qua, il Palazzo della Banca Commerciale di là, che aveva a pianterreno uno splendido Caffè da una parte, dall'altra il Circolo di Compagnia.

Il Municipio, secondo i soci di questo Circolo, avrebbe dovuto provvedere a quello sconcio, obbligando il Chiarenza a dare almeno un intonaco decente alla sua casa. Avrebbe fatto bene anche a lui, dicevano: gli si sarebbe forse schiarita un po' la faccia che, da quando era entrato in quella casa, gli era diventata dello stesso colore. - Però - soggiungevano - volendo esser giusti, gliel'aveva recata in dote la moglie, quella casa, ed egli, proferendo il <I>sì</I> sacramentale, s'era forse obbligato a rispettare la doppia antichità.

Don Mattia Scala e Saro Trigona trovarono nella vasta anticamera quasi buja una ventina di contadini, vestiti tutti, su per giù, allo stesso modo, con un greve abito di panno turchino scuro; scarponi di cuojo grezzo imbullettati, ai piedi; in capo, una berretta nera a calza con la nappina in punta: alcuni portavano gli orecchini; tutti, essendo domenica, rasi di fresco.

- Annunziami, - disse il Trigona al servo che se ne stava seduto presso la porta, innanzi a un tavolinetto, il cui piano era tutto segnato di cifre e di nomi.

- Abbiano pazienza un momento, - rispose il servo, che guardava stupito lo Scala, conoscendo l'antica inimicizia di lui per il suo padrone. - C'è dentro don Tino Làbiso.

- Anche lui? Disgraziato! - borbottò don Mattia, guardando i contadini in attesa, stupiti come il servo della presenza di lui in quella casa.

Poco dopo, dall'espressione dei loro volti lo Scala poté facilmente argomentare chi fra essi veniva a saldare il suo debito, chi recava soltanto una parte della somma tolta in prestito e aveva già negli occhi la preghiera che avrebbe rivolta all'usurajo perché avesse pazienza per il resto fino al mese venturo; chi non portava nulla e pareva schiacciato sotto la minaccia della fame, perché il Chiarenza lo avrebbe senza misericordia spogliato di tutto e buttato in mezzo a una strada.

A un tratto, l'uscio del banco s'aprì, e Tino Làbiso, col volto infocato, quasi paonazzo, con gli occhi lustri, come se avesse pianto, scappò via senza veder nessuno, tenendo in mano il suo pezzolone a dadi rossi e neri: l'emblema della sua sfortunata prudenza.

Lo Scala e il Trigona entrarono nella sala del banco.

Era anch'essa quasi buja, con una sola finestra ferrata, che dava su un angusto vicoletto. Di pieno giorno, il Chiarenza doveva tenere su la scrivania il lume acceso, riparato da un mantino verde.

Seduto su un vecchio seggiolone di cuojo innanzi alla scrivania, il cui palchetto a casellario era pieno zeppo di carte, il Chiarenza teneva su le spalle uno scialletto, in capo una papalina, e un pajo di mezzi guanti di lana alle mani orribilmente deformate dall'artritide. Quantunque non avesse ancora quarant'anni, ne mostrava più di cinquanta, la faccia gialla, itterica, i capelli grigi, fitti, aridi che gli si allungavano come a un malato su le tempie. Aveva, in quel momento, gli occhiali a staffa rialzati su la fronte stretta, rugosa, e guardava innanzi a sé con gli occhi torbidi, quasi spenti sotto le grosse palpebre gravi. Evidentemente, si sforzava di dominare l'interna agitazione e di apparir calmo di fronte allo Scala.

La coscienza della propria infamità, non gl'ispirava ora che odio, odio cupo e duro, contro tutti e segnatamente contro il suo antico benefattore, sua prima vittima. Non sapeva ancora che cosa lo Scala volesse da lui; ma era risoluto a non concedergli nulla, per non apparire pentito d'una colpa ch'egli aveva sempre sdegnosamente negata, rappresentando lo Scala come un pazzo.

Questi, che da anni e anni non lo aveva più riveduto, neanche da lontano, rimase dapprima stupito, a mirarlo. Non lo avrebbe riconosciuto, ridotto in quello stato, se lo avesse incontrato per via.

«Il castigo di Dio» pensò; e aggrottò le ciglia, comprendendo subito che, così ridotto, quell'uomo doveva credere d'aver già scontato il delitto e di non dovergli più, perciò, nessuna riparazione.

Dima Chiarenza, con gli occhi bassi, si pose una mano dietro le reni per tirarsi su, pian piano, dal seggiolone di cuojo, col volto atteggiato di spasimo; ma Saro Trigona lo costrinse a rimaner seduto e, subito, col suo solito opprimente garbuglio di frasi, cominciò a esporre lo scopo della visita: egli, vendendo la campagna ereditata dal cugino al caro don Mattia lì presente, avrebbe pagato, subito, dodici mila lire, a scomputo del suo debito, al carissimo don Dima, il quale, dal canto suo, doveva obbligarsi di non muovere nessuna azione giudiziaria contro l'eredità Lo Cìcero, aspettando...

- Piano, piano, figliuolo, - lo interruppe a questo punto il Chiarenza, riponendosi gli occhiali sul naso. - Già l'ho mossa oggi stesso, protestando le cambiali a firma di vostro cugino, scadute da un pezzo. Le mani avanti!

- E il mio denaro? - scattò allora lo Scala. - Il fondo del Lo Cìcero non valeva più di diciotto mila lire; ma ora io ce ne ho spese più di sei mila; dunque, facendolo stimare onestamente, tu non potresti averlo per meno di ventiquattro mila.

- Bene - rispose, calmissimo, il Chiarenza. - Siccome il Trigona me ne deve venticinque mila, vuol dire che io, prendendomi il podere, vengo a perdercene mille, oltre gl'interessi.

- Dunque... venticinque? - esclamò allora don Mattia, rivolto al Trigona, con gli occhi sbarrati.

Questi si agitò su la seggiola, come su un arnese di tortura, balbettando:

- Ma... co... come?

- Ecco, figlio mio: ve lo faccio vedere, - rispose senza scomporsi il Chiarenza, ponendosi di nuovo la mano dietro le reni e tirandosi su con pena. - Ci sono i registri. Parlano chiaro.

- Lascia stare i registri! - gridò lo Scala, facendosi avanti. - Qua ora si tratta de' miei denari: quelli spesi da me nel podere...

- E che ne so io? - fece il Chiarenza, stringendosi nelle spalle e chiudendo gli occhi. - Chi ve li ha fatti spendere?

Don Mattia Scala ripeté, su le furie, al Chiarenza il suo accordo col Lo Cìcero.

- Male, - soggiunse, richiudendo gli occhi, il Chiarenza, per la pena che gli costava la calma che voleva dimostrare; ma quasi non tirava più fiato. - Male. Vedo che voi, al solito, non sapete trattare gli affari.

- E me lo rinfacci tu? - gridò lo Scala, - tu!

- Non rinfaccio nulla; ma, santo Dio, avreste dovuto almeno sapere, prima di spendere codesti denari che voi dite, che il Lo Cìcero non poteva più vendere a nessuno il podere, perché aveva firmato a me tante cambiali per un valore che sorpassava quello del podere stesso.

- E così, - riprese lo Scala - tu ti approfitterai anche del mio denaro?

- Non mi approfitto di nulla, io, - rispose, pronto, il Chiarenza. - Mi pare di avervi dimostrato che, anche secondo la stima che voi fate della terra, io vengo a perderci più di mille lire.

Saro Trigona cercò d'interporsi, facendo balenare al Chiarenza le dodici mila lire contanti che don Mattia aveva nel portafogli.

- Il denaro è denaro!

- E vola! - aggiunse subito il Chiarenza. - Il meglio impiego del denaro oggi è su terre, sappiatelo, caro mio. Le cambiali, armi da guerra, a doppio taglio: la rendita sale e scende; la terra, invece, è là, che non si muove.

Don Mattia ne convenne e, cangiando tono e maniera, parlò al Chiarenza del suo lungo amore per quella campagna contigua, soggiungendo che non avrebbe saputo acconciarsi mai a vedersela tolta, dopo tanti stenti durati per essa. Si contentasse, dunque, il Chiarenza, per il momento, del denaro ch'egli aveva con sé; avrebbe avuto il resto, fino all'ultimo centesimo, da lui, non più dal Trigona, tenendo anche ferma la stima di ventiquattro mila lire, come se quelle sei mila lui non ce le avesse spese, e anche fino al saldo delle venticinque mila, se voleva, cioè dell'intero debito del Trigona.

- Che posso dirti di più?

Dima Chiarenza ascoltò, con gli occhi chiusi, impassibile, il discorso appassionato dello Scala. Poi gli disse, assumendo anche lui un altro tono, più funebre e più grave:

- Sentite, don Mattia. Vedo che vi sta molto a cuore quella terra, e volentieri ve la lascerei, per farvi piacere, se non mi trovassi in queste condizioni di salute. Vedete come sto? I medici mi hanno consigliato riposo e aria di campagna...

- Ah! - esclamò lo Scala fremente. - Te ne verresti là, dunque, accanto a me?

- Per altro, - riprese il Chiarenza - voi ora non mi dareste neanche la metà di quanto io debbo avere. Chi sa dunque fino a quando dovrei aspettare per esser pagato; mentre ora, con un lieve sacrificio, prendendomi quella terra, posso riavere subito il mio e provvedere alla mia salute. Voglio lasciar tutto in regola, io, ai miei eredi.

- Non dir così! - proruppe lo Scala, indignato e furente. - Tu pensi agli eredi? Non hai figli, tu! Pensi ai nipoti? Giusto ora? Non ci hai mai pensato. Di' franco: Voglio nuocerti, come t'ho sempre nociuto! Ah non t'è bastato d'avermi distrutta la casa, d'avermi quasi uccisa la moglie e messo in fuga per disperazione l'unico figlio, non t'è bastato d'avermi ridotto là, misero, in ricompensa del bene ricevuto; anche la terra ora vuoi levarmi, la terra dove io ho buttato il sangue mio? Ma perché, perché così feroce contro di me? Che t'ho fatto io? Non ho nemmeno fiatato dopo il tuo tradimento da Giuda: avevo da pensare alla moglie che mi moriva per causa tua, al figlio scomparso per causa tua: prove, prove materiali del furto non ne avevo, per mandarti in galera; e dunque, zitto; me ne sono andato là, in quei tre palmi di terra; mentre qua tutto il paese, a una voce, t'accusava, ti gridava: Ladro! Giuda! Non io, non io! Ma Dio c'è, sai? e t'ha punito: guarda le tue mani ladre come sono ridotte... Te le nascondi? Sei morto! sei morto! e ti ostini ancora a farmi del male? Oh ma, sai? questa volta, no: tu non ci arrivi! Io t'ho detto i sacrificii che sarei disposto a fare per quella terra. Alle corte, dunque, rispondi: - Vuoi lasciarmela?

- No! - gridò, pronto, rabbiosamente, il Chiarenza, torvo, stravolto.

- E allora, né io né tu!

E lo Scala s'avviò per uscire.

- Che farete? - domandò il Chiarenza, rimanendo seduto e aprendo le labbra a un ghigno squallido.

Lo Scala si voltò, alzò la mano a un violento gesto di minaccia e rispose, guardandolo fieramente negli occhi:

- Ti brucio!

 

<B>VII.</B>

 

Uscito dalla casa del Chiarenza e sbarazzatosi con una furiosa scrollata di spalle del Trigona che voleva dimostrargli, tutto dolente, la sua buona intenzione, don Mattia Scala si recò prima in casa d'un suo amico avvocato per esporgli il caso di cui era vittima e domandargli se, potendo agire giudiziariamente per il riconoscimento del suo credito, sarebbe riuscito a impedire al Chiarenza di pigliar possesso del podere.

L'avvocato non comprese nulla in principio, sopraffatto dalla concitazione con cui lo Scala aveva parlato. Si provò a calmarlo, ma invano.

- Insomma, prove, documenti, ne avete?

- Non ho un corno!

- E allora andate a farvi benedire! Che volete da me?

- Aspettate, - gli disse don Mattia, prima d'andarsene. - Sapreste, per caso, indicarmi dove sta di casa l'ingegnere Scelzi, della Società delle Zolfare di Comitini?

L'avvocato gl'indicò la via e il numero della casa, e don Mattia Scala, ormai deciso, vi andò difilato.

Lo Scelzi era uno di quegli ingegneri che, passando ogni mattina per la via mulattiera innanzi al cancello della villa per recarsi alle zolfare della vallata, lo avevano con maggior insistenza sollecitato per la cessione del sottosuolo. Quante volte lo Scala, per chiasso, non lo aveva minacciato di chiamare i cani per farlo scappare!

Quantunque di domenica lo Scelzi non ricevesse per affari, si affrettò a lasciar passare nello studio l'insolito visitatore.

- Voi, don Mattia? Qual buon vento?

Lo Scala con le enormi sopracciglia aggrottate si piantò di fronte al giovine ingegnere sorridente, lo guardò negli occhi, e rispose:

- Sono pronto.

- Ah! benissimo! Cedete?

- Non cedo. Voglio contrattare. Sentiamo i patti.

- E non li sapete? - esclamò lo Scelzi. - Ve li ho ripetuti tante volte...

- Avete bisogno di far altri rilievi lassù? - domandò don Mattia, cupo, impetuoso.

- Eh no! Guardate... - rispose l'ingegnere indicando la grande carta geologica appesa alla parete, ov'era tracciato per cura del R. Corpo delle Miniere tutto il campo minerale della regione. Fissò col dito un punto nella carta e aggiunse: - È qui: non c'è bisogno d'altro...

- E allora possiamo contrattare subito?

- Subito?... Domani. Domattina stesso io ne parlerò al Consiglio d'Amministrazione. Intanto, se volete, qua, ora, possiamo stendere insieme la proposta, che sarà senza dubbio accettata, se voi non ponete avanti altri patti.

- Ho bisogno di legarmi subito! - scattò lo Scala. - Tutto, tutto distrutto, è vero?... sarà tutto distrutto lassù?

Lo Scelzi lo guardò meravigliato: conosceva da un pezzo l'indole strana, impulsiva, dello Scala; ma non ricordava d'averlo mai veduto così.

- Ma i danni del fumo, - disse saranno previsti nel contratto e compensati...

- Lo so! Non me n'importa! - soggiunse lo Scala. - Le campagne, dico, le campagne, tutte distrutte... è vero?

- Eh... - fece lo Scelzi, stringendosi nelle spalle.

- Questo, questo cerco! questo voglio! - esclamò allora don Mattia, battendo un pugno sulla scrivania. - Qua, ingegnere: scrivete, scrivete! Né io né lui! Lo brucio... Scrivete. Non vi curate di quello che dico.

Lo Scelzi sedette innanzi alla scrivania e si mise a scrivere la proposta, esponendo prima, man mano, i patti vantaggiosi, tante volte già respinti sdegnosamente dallo Scala, che ora, invece, cupo, accigliato, annuiva col capo, a ognuno.

Stesa finalmente la proposta, l'ingegnere Scelzi non seppe resistere al desiderio di conoscere il perché di quella risoluzione improvvisa, inattesa.

- Mal'annata?

- Ma che mal'annata! Quella che verrà, - gli rispose lo Scala - quando avrete aperto la zolfara!

Sospettò allora lo Scelzi che don Mattia Scala avesse ricevuto tristi notizie del figliuolo scomparso: sapeva che, alcuni mesi addietro, egli aveva rivolto una supplica a Roma perché, per mezzo degli agenti consolari, fossero fatte ricerche dovunque. Ma non volle toccar quel tasto doloroso.

Lo Scala, prima d'andarsene, raccomandò di nuovo allo Scelzi di sbrigar la faccenda con la massima sollecitudine.

- A tamburo battente, e legatemi bene!

Ma dovettero passar due giorni per la deliberazione del Consiglio della Società delle zolfare, per la scrittura dell'atto presso il notajo, per la registrazione dell'atto stesso: due giorni tremendi per don Mattia Scala. Non mangiò, non dormì, fu come in un continuo delirio, andando di qua e di là dietro allo Scelzi, a cui ripeteva di continuo:

- Legatemi bene! Legatemi bene!

- Non dubiti, - gli rispondeva sorridendo l'ingegnere. - Adesso non ci scappa più!

Firmato alla fine e registrato il contratto di cessione, don Mattia Scala uscì come un pazzo dallo studio notarile; corse al fondaco, all'uscita del paese, dove, nel venire, tre giorni addietro, aveva lasciato la giumenta; cavalcò e via.

Il sole era al tramonto. Per lo stradone polveroso don Mattia s'imbatté in una lunga fila di carri carichi di zolfo, i quali dalle lontane zolfare della vallata, di là dalla collina che ancora non si scorgeva, si recavano, lenti e pesanti, alla stazione ferroviaria sotto il paese.

Dall'alto della giumenta, lo Scala lanciò uno sguardo d'odio a tutto quello zolfo che cigolava e scricchiolava continuamente a gli urti, ai sobbalzi dei carri senza molle.

Lo stradone era fiancheggiato da due interminabili siepi di fichidindia, le cui pale, per il continuo transito di quei carri, eran tutte impolverate di zolfo.

Alla loro vista, la nausea di don Mattia si accrebbe. Non si vedeva che zolfo, da per tutto, in quel paese! Lo zolfo era anche nell'aria che si respirava, e tagliava il respiro, e bruciava gli occhi.

Finalmente, a una svolta dello stradone, apparve la collina tutta verde. Il sole la investiva con gli ultimi raggi.

Lo Scala vi fissò gli occhi e strinse nel pugno le briglie fino a farsi male. Gli parve che il sole salutasse per l'ultima volta il verde della collina. Forse egli, dall'alto di quello stradone, non avrebbe mai più riveduto la collina, come ora la vedeva. Fra vent'anni, quelli che sarebbero venuti dopo di lui, da quel punto dello stradone, avrebbero veduto là un colle calvo, arsiccio, livido, sforacchiato dalle zolfare.

«E dove sarò io, allora?» pensò, provando un senso di vuoto, che subito lo richiamò al pensiero del figlio lontano, sperduto, randagio per il mondo, se pure era ancor vivo. Un impeto di commozione lo vinse, e gli occhi gli s'empirono di lagrime. Per lui, per lui egli aveva trovato la forza di rialzarsi dalla miseria in cui lo aveva gettato il Chiarenza, quel ladro infame che ora gli toglieva la campagna.

- No, no! - ruggì, tra i denti, al pensiero del Chiarenza. - Né io né lui!

E spronò la giumenta, come per volare là a distruggere d'un colpo la campagna che non poteva più esser sua.

Era già sera, quando pervenne ai piedi della collina. Dové girarla per un tratto, prima d'imboccar la via mulattiera. Ma era sorta la luna, e pareva che a mano a mano raggiornasse. I grilli, tutt'intorno, salutavano freneticamente quell'alba lunare.

Attraversando le campagne, lo Scala si sentì pungere da un acuto rimorso, pensando ai proprietarii di quelle terre, tutti suoi amici, i quali in quel momento non sospettavano certo il tradimento ch'egli aveva fatto loro.

Ah, tutte quelle campagne sarebbero scomparse tra breve: neppure un filo d'erba sarebbe più cresciuto lassù; e lui, lui sarebbe stato il devastatore della verde collina! Si riportò col pensiero al balcone della sua prossima cascina, rivide il limite della sua angusta terra, pensò che gli occhi suoi ora avrebbero dovuto arrestarsi là, senza più scavalcare quel muro di cinta e spaziar lo sguardo nella terra accanto: e si sentì come in prigione, quasi più senz'aria, senza più libertà in quel campicello suo, col suo nemico che sarebbe venuto ad abitare là. No! No!

- Distruzione! distruzione! Né io né lui! Brucino!

E guardò attorno gli alberi, con la gola stretta d'angoscia: quegli olivi centenarii, dal grigio poderoso tronco stravolto, immobili, come assorti in un sogno misterioso nel chiarore lunare. Immaginò come tutte quelle foglie, ora vive, si sarebbero aggricciate ai primi fiati agri della zolfara, aperta lì come una bocca d'inferno; poi sarebbero cadute; poi gli alberi nudi si sarebbero anneriti, poi sarebbero morti, attossicati dal fumo dei forni. L'accetta, lì, allora. Legna da ardere, tutti quegli alberi...

Una brezza lieve si levò, salendo la luna. E allora le foglie di tutti quegli alberi, come se avessero sentito la loro condanna di morte, si scossero quasi in un brivido lungo, che si ripercosse su la schiena di don Mattia Scala, curvo su la giumenta bianca.

 

IL TABERNACOLO

 

<B>I.</B>

 

Coricatosi accanto alla moglie, che già dormiva, voltata verso il lettuccio, su cui giacevano insieme i due figliuoli, Spatolino disse prima le consuete orazioni, s'intrecciò poi le mani dietro la nuca; strizzò gli occhi, e - senza badare a quello che faceva - si mise a fischiettare, com'era solito ogni qual volta un dubbio o un pensiero lo rodevano dentro.

- <I>Fififì... fififì... fififì...</I>

Non era propriamente un fischio, ma uno zufolio sordo, piuttosto; a fior di labbra, sempre con la medesima cadenza.

A un certo punto, la moglie si destò:

- Ah! ci siamo? Che t'è accaduto?

- Niente. Dormi. Buona notte.

Si tirò giù, voltò le spalle alla moglie e si raggricchiò anche lui da fianco, per dormire. Ma che dormire!

- <I>Fififì... fififì... fififì...</I>

La moglie allora gli allungò un braccio sulla schiena, a pugno chiuso.

- Ohé, la smetti? Bada che mi svegli i piccini!

- Hai ragione. Sta' zitta! M'addormento.

Si sforzò davvero di scacciare dalla mente quel pensiero tormentoso che diventava così, dentro di lui, come sempre, un grillo canterino. Ma, quando già credeva d'averlo scacciato:

- <I>Fififì... fififì... fififì...</I>

Questa volta non aspettò neppure che la moglie gli allungasse un altro pugno più forte del primo; saltò dal letto, esasperato.

- Che fai? dove vai? - gli domandò quella.

E lui:

- Mi rivesto, mannaggia! Non posso dormire. Mi metterò a sedere qua davanti la porta, su la strada. Aria! Aria!

- Insomma, - riprese la moglie - si può sapere che diavolo t'è accaduto?

- Che? Quella canaglia, - proruppe allora Spatolino, sforzandosi di parlar basso, - quel farabutto, quel nemico di Dio...

- Chi? chi?

- Ciancarella.

- Il notajo?

- Lui. M'ha fatto dire che mi vuole domani alla villa.

- Ebbene?

- Ma che può volere da me un uomo come quello, me lo dici? Porco, salvo il santo battesimo! porco, e dico poco! Aria! aria!

Afferrò, così dicendo, una seggiola, riaprì la porta, la riaccostò dietro di sé e si pose a sedere sul vicoletto addormentato, con le spalle appoggiate al muro del suo casalino.

Un lampione a petrolio, lì presso, sonnecchiava languido, verberando del suo lume giallastro l'acqua putrida d'una pozza, seppure era acqua, giù tra l'acciottolato, qua gobbo là avvallato, tutto sconnesso e logoro.

Dall'interno delle casupole in ombra veniva un tanfo grasso di stalla e, a quando a quando, nel silenzio, lo scalpitare di qualche bestia tormentata dalle mosche.

Un gatto, che strisciava lungo il muro, s'arrestò, obliquo, guardingo.

Spatolino si mise a guardare in alto, nella striscia di cielo, le stelle che vi fervevano; e, guardando, si recava alla bocca i peli dell'arida barbetta rossiccia.

Piccolo di statura, quantunque fin da ragazzo avesse impastato terra e calcina, aveva un che di signorile nell'aspetto.

A un tratto, gli occhi chiari rivolti al cielo gli si riempirono di lagrime. Si scosse su la seggiola e, asciugandosi il pianto col dorso della mano, mormorò nel silenzio della notte:

- Ajutatemi voi, Cristo mio!

 

<B>II.</B>

 

Dacché nel paese la consorteria clericale era stata battuta e il partito nuovo, degli scomunicati, aveva invaso i seggi del Comune, Spatolino si sentiva come in mezzo a un campo nemico.

Tutti i suoi compagni di lavoro, come tante pecore, s'erano messi dietro ai nuovi caporioni; e stretti ora in corporazione, spadroneggiavano.

Con pochi altri operai rimasti fedeli alla santa Chiesa, Spatolino aveva fondato una <I>Società Cattolica di Mutuo Soccorso tra gl'Indegni Figli della Madonna Addolorata.</I>

Ma la lotta era impari; e le beffe dei nemici (e anche degli amici) e la rabbia dell'impotenza avevano fatto perdere a Spatolino il lume degli occhi.

S'era intestato, come presidente di quella Società Cattolica, a promuovere processioni e luminarie e girandole, nella ricorrenza delle feste religiose, osservate prima e favorite dall'antico Consiglio Comunale, e tra i fischi, gli urli e le risate del partito avversario ci aveva rimesso le spese, per S. Michele Arcangelo, per S. Francesco di Paola, per il Venerdì Santo, per il Corpus Domini e insomma per tutte le feste principali del calendario ecclesiastico.

Così il capitaluccio, che gli aveva finora permesso d'assumer qualche lavoro in appalto, s'era talmente assottigliato, ch'egli prevedeva non lontano il giorno che da capomastro muratore si sarebbe ridotto a misero giornante.

La moglie, già da un pezzo, non aveva più per lui né rispetto né considerazione: s'era messa a provvedere da sé ai suoi bisogni e a quelli dei figliuoli, lavando, cucendo per conto d'altri, facendo ogni sorta di servizii.

Come se lui stesse in ozio per piacere! Ma se la corporazione di quei figli di cane assumeva tutti i lavori! Che pretendeva la moglie? ch'egli rinunziasse alla fede, rinnegasse Dio, e andasse a iscriversi al partito di quelli? Ma si sarebbe fatto tagliar le mani piuttosto!

L'ozio intanto lo divorava, gli faceva di giorno in giorno crescere l'orgasmo e il puntiglio, e lo inveleniva contro tutti.

Ciancarella, il notajo, non aveva mai parteggiato per nessuno; ma era pur notoriamente nemico di Dio; ne faceva professione, dacché non esercitava più quell'altra del notajo. Una volta, aveva osato finanche d'aizzare i cani contro un santo sacerdote, don Lagàipa, che s'era recato da lui per intercedere in favore d'alcuni parenti poveri, che morivano addirittura di fame, mentr'egli, nella splendida villa che s'era fatta costruire all'uscita del paese, viveva da principe, con la ricchezza accumulata chi sa come e accresciuta da tant'anni d'usura.

Tutta la notte Spatolino (per fortuna era d'estate), un po' seduto, un po' passeggiando per il vicoletto deserto, meditò (<I>fififì... fififì... fififì...</I>) su quell'invito misterioso del Ciancarella.

Poi, sapendo che questi era solito lasciare il letto per tempo, e sentendo che la moglie già s'eralevata, con l'alba, e sfaccendava per casa, pensò d'avviarsi, lasciando lì fuori la seggiola ch'era vecchia, e nessuno se la sarebbe presa.

 

<B>III.</B>

 

La villa del Ciancarella era tutta murata come una fortezza, e aveva il cancello su lo stradone provinciale.

Il vecchio, che pareva un rospaccio calzato e vestito, oppresso da una cisti enorme su la nuca, che lo obbligava a tener sempre giù e piegato da un lato il testone raso, vi abitava solo, con un servitore; ma aveva molta gente di campagna ai suoi ordini, armata, e due mastini che incutevano paura, solo a vederli.

Spatolino sonò la campana. Subito quelle due bestiacce s'avventarono furibonde alle sbarre del cancello, e non si quietarono neppure quando il servitore accorse a rincorare Spatolino che non voleva entrare. Bisognò che il padrone, il quale prendeva il caffè nel chioschetto d'edera, a un lato della villa, in mezzo al giardino, li chiamasse col fischio.

- Ah, Spatolino! Bravo, - disse il Ciancarella. - Siedi lì.

E gl'indicò uno degli sgabelli di ferro disposti, giro giro, nel chioschetto.

Ma Spatolino rimase in piedi, col cappelluccio roccioso e ingessato tra le mani.

- Tu sei un <I>indegno figlio</I>, è vero?

- Sissignore, e me ne vanto: della Madonna Addolorata. Che comandi ha da darmi?

- Ecco, - disse Ciancarella; ma, invece di seguitare, si recò la tazza alle labbra e trasse tre sorsi di caffè. - Un tabernacolo - (e un altro sorso).

- Come dice?

- Vorrei costruito da te un tabernacolo - (ancora un sorso).

- Un tabernacolo, Vossignoria?

- Sì, su lo stradone, di fronte al cancello - (altro sorso, l'ultimo; posò la tazza, e - senza , asciugarsi le labbra - si levò in piedi. Una goccia di caffè gli scese da un angolo della bocca di tra gl'irti peli della barba non rifatta da parecchi giorni). - Un tabernacolo, dunque, non tanto piccolo, perché ci ha da entrare una statua, grande al vero, di Cristo alla colonna. Alle pareti laterali ci voglio allogare due bei quadri, grandi: di qua, un <I>Calvario</I>; di là, una <I>Deposizione</I>. Insomma, come un camerotto agiato, su uno zoccolo alto un metro, col cancelletto di ferro davanti, e la croce su, s'intende. Hai capito?

Spatolino chinò più volte il capo, con gli occhi chiusi; poi, riaprendo gli occhi e traendo un sospiro, disse:

- Ma Vossignoria scherza, è vero?

- Scherzo? Perché?

- Io credo che Vossignoria voglia scherzare. Mi perdoni. Un tabernacolo, Vossignoria, all'<I>Ecce Homo</I>?

Ciancarella si provò ad alzare un po' il testone raso, se lo tenne con una mano e rise in un suo modo speciale, curiosissimo, come se frignasse, per via di quei malanno che gli opprimeva la nuca.

- Eh che! - disse. - Non ne son forse degno, secondo te?

- Ma nossignore, scusi! - s'affrettò a negare Spatolino, stizzito, infiammandosi. - Perché dovrebbe Vossignoria commettere così, senza ragione, un sacrilegio? Si lasci pregare, e mi perdoni se parlo franco. Chi vuol gabbare, Vossignoria? Dio, no; Dio non lo gabba; Dio vede tutto, e non si lascia gabbare da Vossignoria. Gli uomini? Ma vedono anche loro e sanno che Vossignoria...

- Che sanno, imbecille? - gli gridò il vecchio, interrompendolo. - E che sai tu di Dio, verme di terra? Quello che te n'hanno detto i preti! Ma Dio... Vah, vah, vah, io mi metto a ragionare con te, adesso... Hai fatto colazione?

- Nossignore.

- Brutto vizio, caro mio! dovrei dartela io, ora, eh?

- Nossignore. Non prendo nulla.

- Ah, - esclamò Ciancarella con uno sbadiglio. - Ah! I preti, figliuolo, i preti ti hanno sconcertato il cervello. Vanno predicando, è vero? che io non credo in Dio. Ma sai perché? perché non do loro da mangiare. Ebbene, sta' zitto: ne avranno, quando verranno a consacrare il nostro tabernacolo. Voglio che sia una bella festa, Spatolino. Perché mi guardi così? Non credi? O vuoi sapere come mi sia venuto in mente? In sogno, figliuolo! Ho avuto un sogno, l'altra notte. Ora certo i preti diranno che Dio m'ha toccato il cuore. Dicano pure; non me n'importa nulla! Dunque, siamo intesi, eh? Parla... smuoviti... Sei allocchito?

- Sissignore, - confessò Spatolino, aprendo le braccia.

Ciancarella, questa volta, si prese la testa con tutt'e due le mani, per ridere a lungo.

- Bene, - poi disse. - Tu sai com'io tratto. Non voglio impicci di nessun genere. So che sei un bravo operajo e che fai le cose ammodo e onestamente. Fa' da te, spese e tutto, senza seccarmi. Quando avrai finito, faremo i conti. Il tabernacolo... hai capito come lo voglio?

- Sissignore.

- Quando ti metterai all'opera?

- Per me, anche domani.

- E quando potrà esser finito?

Spatolino stette un po' a pensare.

- Eh, - poi disse, - se dev'essere così grande, ci vorrà almeno..., che so, un mese.

- Sta bene. Andiamo ora a vedere insieme il posto.

La terra, dall'altra parte dello stradone, apparteneva pure al Ciancarella, che la lasciava incolta, in abbandono: l'aveva acquistata per non aver soggezioni lì davanti alla villa; e permetteva che i pecoraj vi conducessero le loro greggiole a pascolare, come se fosse terra senza padrone. Per costruirvi il tabernacolo non si doveva dunque chieder licenza a nessuno. Stabilito il posto, lì, proprio dirimpetto al cancello, il vecchio rientrò nella villa, e Spatolino, rimasto solo, - <I>fififì... fififì... fififì...</I> - non la finì più. Poi s'avviò. Cammina e cammina, si ritrovò, quasi senza saperlo, dinanzi la porta di don Lagàipa, ch'era il suo confessore. Si ricordò, dopo aver bussato, che il prete era da parecchi giorni a letto, infermo: non avrebbe dovuto disturbarlo con quella visita mattutina; ma il caso era grave; entrò.

 

<B>IV.</B>

 

Don Lagàipa era in piedi e, tra la confusione delle sue donne, la serva e la nipote, che non sapevano come obbedire agli ordini ch'egli impartiva, stava, in calzoni e maniche di camicia, in mezzo alla camera a pulire le canne d'un fucile.

Il naso vasto e carnoso, tutto bucherato dal vajuolo come una spugna, pareva gli fosse divenuto, dopo la malattia, più abbondante. Di qua e di là, divergenti quasi per lo spavento di quel naso, gli occhi lucidi, neri, pareva volessero scappargli dalla faccia gialla, disfatta.

- Mi rovinano, Spatolino, mi rovinano! È venuto poco fa il garzone, baccalà, a dirmi che la mia campagna è diventata proprietà comune, già! roba di tutti. I socialisti, capisci? mi rubano l'uva ancora acerba; i fichidindia, tutto! Il tuo è mio, capisci? Il tuo è mio! Gli mando questo fucile. Alle gambe! gli ho detto; tira loro alle gambe: cura di piombo, ci vuole! (Rosina, papera, papera, papera, un altro po' d'aceto t'ho detto, e una pezzuola pulita.) Che volevi dirmi, figliuolo mio?

Spatolino non sapeva più da che parte cominciare. Appena gli uscì di bocca il nome di Ciancarella, una furia di male parole; all'accenno della costruzione del tabernacolo, vide don Lagàipa trasecolare.

- Un tabernacolo?

- Sissignore: all'<I>Ecce Homo</I>. Vorrei sapere da Vostra Reverenza se debbo farglielo.

- Lo domandi a me? Pezzo d'asino, che gli hai risposto?

Spatolino ripeté quanto aveva detto al Ciancarella e altro aggiunse che non aveva detto, infervorandosi alle lodi del prete battagliero.

- Benissimo! E lui? Muso di cane!

- Ha avuto un sogno, dice.

- Imbroglione! Non starci a credere! Imbroglione! Se Dio veramente gli avesse parlato in sogno, gli avrebbe suggerito piuttosto di ajutare un po' quei poveretti dei Lattuga, che non vuol riconoscere per parenti solo perché son divoti e fedeli a noi, mentre protegge i Montoro, capisci? quegli atei socialisti, a cui lascerà tutte le sue ricchezze. Basta. Che vuoi da me? Fagli il tabernacolo. Se non glielo fai tu, glielo farà un altro. Tanto, per noi, sarà sempre bene, che un tal peccatore dia segno di volere in qualche modo riconciliarsi con Dio. Imbroglione! Muso di cane!

Tornato a casa, Spatolino, per tutto quel giorno, disegnò tabernacoli. Verso sera si recò a provvedere i materiali, due manovali, un ragazzo calcinajo. E il giorno appresso, all'alba, si mise all'opera.

 

<B>V.</B>

 

La gente che passava a piedi o a cavallo o coi carri per lo stradone polveroso, si fermava a domandare a Spatolino che cosa facesse.

- Un tabernacolo.

- Chi ve l'ha ordinato?

E lui, cupo, alzando un dito al cielo:

- L'<I>Ecce Homo</I>.

Non rispose altrimenti, per tutto il tempo che durò la fabbrica. La gente rideva o scrollava le spalle.

- Giusto qua? - gli domandava però qualcuno, guardando verso il cancello della villa.

A nessuno veniva in mente che il notajo potesse avere ordinato quel tabernacolo: tutti, invece, ignorando che quel pezzo di terra appartenesse pure al Ciancarella, e conoscendo il fanatismo religioso di Spatolino, pensavano che questi, o per incarico del vescovo o per voto della Società Cattolica, costruisse lì quel tabernacolo, per far dispetto al vecchio usurajo. E ne ridevano.

Intanto, come se Dio veramente fosse sdegnato di quella fabbrica, capitarono a Spatolino, lavorando, tutte le disgrazie. Già, quattro giorni a sterrare, prima di trovare il pancone per le fondamenta; poi liti lassù alla cava, per la pietra; liti per la calce, liti col fornaciajo; e infine, nell'assettar la centina per costruir l'arco, cade la centina e per miracolo non accoppa il ragazzo calcinajo.

All'ultimo, la bomba. Il Ciancarella, proprio nel giorno che Spatolino doveva mostrargli il tabernacolo bell'e finito, un colpo apoplettico, di quelli genuini, e in capo a tre ore, morto.

Nessuno allora poté più levar dal capo a Spatolino che quella morte improvvisa del notajo fosse la punizione di Dio sdegnato. Ma non credette, dapprima, che lo sdegno divino dovesse rovesciarsi anche su lui, che - pur di contraggenio - s'era prestato a innalzare quella fabbrica maledetta.

Lo credette quando, recatosi dai Montoro, eredi del notajo, per aver pagata l'opera sua, s'udì rispondere che nulla essi ne sapevano e che non volevano perciò riconoscere quel debito non comprovato da nessun documento.

- Come! - esclamò Spatolino. - E il tabernacolo dunque per chi l'ho fatto io?

- Per l'<I>Ecce Homo</I>.

- Di testa mia?

- Oh insomma, - gli dissero quelli, per cavarselo di torno. - Noi crederemmo di mancare di rispetto alla memoria di nostro zio supponendo anche per un momento ch'egli abbia potuto davvero darti un incarico così contrario al suo modo di pensare e di sentire. Non risulta da nulla. Che vuoi dunque da noi? Tienti il tabernacolo; e, se non t'accomoda, ricorri al tribunale.

Ma subito, come no? ricorse al tribunale, Spatolino. Poteva forse perdere? Potevano forse credere sul serio i giudici che egli avesse costruito di testa sua un tabernacolo? E poi c'era il servo, per testimonio, il servo del Ciancarella appunto, ch'era venuto a chiamarlo per incarico del padrone; e don Lagàipa c'era, con cui era andato a consigliarsi quel giorno stesso; c'era la moglie poi, a cui egli l'aveva detto, e i manovali che avevano lavorato con lui, tutto quel tempo. Come poteva perdere?

Perdette, perdette, sissignori. Perdette, perché il servo del Ciancarella, passato ora al servizio dei Montoro, andò a deporre che aveva chiamato sì Spatolino per incarico del padrone, sant'anima; ma non certo perché il padrone, sant'anima, avesse in mente di dargli l'incarico di costruire quel tabernacolo lì, bensì perché dal giardiniere, ora morto, (guarda combinazione!) aveva sentito dire che Spatolino aveva lui l'intenzione di costruire un tabernacolo proprio lì, dirimpetto al cancello, e aveva voluto avvertirlo che il pezzo di terra dall'altra parte dello stradone gli apparteneva, e che dunque si fosse guardato bene dal costruirvi una <I>minchioneria</I> di quel genere. Soggiunse che anzi, avendo egli un giorno detto al padrone, sant'anima, che Spatolino, non ostante il divieto, scavava di là con tre manovali, il padrone, sant'anima, gli aveva risposto: - E lascialo scavare, non lo sai ch'è matto? Cerca forse il tesoro per terminare la chiesa di Santa Caterina! - A nulla giovò la testimonianza di don Lagàipa, notoriamente ispiratore a Spatolino di tante altre follie. Che più? Gli stessi manovali deposero che non avevano veduto mai il Ciancarella e che la mercede giornaliera l'avevano ricevuta sempre dal capomastro.

Spatolino scappò via dalla sala del tribunale come levato di cervello; non tanto per la perdita del suo capitaluccio, buttato lì, nella costruzione di quel tabernacolo; non tanto per le spese del processo a cui, per giunta, era stato condannato; quanto per il crollo della sua fede nella giustizia divina.

- Ma dunque, - andava dicendo, - dunque non c'è più Dio?

Istigato da don Lagàipa, s'appellò. Fu il tracollo. Il giorno che gli arrivò la notizia che anche in Corte d'appello aveva perduto, Spatolino non fiatò: con gli ultimi soldi che gli erano rimasti in tasca, comprò un metro e mezzo di tela bambagina rossa, tre sacchi vecchi e ritornò a casa.

- Fammi una tonaca! - disse alla moglie, buttandole i tre sacchi in grembo.

La moglie lo guardò, come se non avesse inteso.

- Che vuoi fare?

- T'ho detto: fammi una tonaca... No? Me la faccio da me.

In men che non si dica, sfondò due sacchi e li cucì insieme, per lungo; fece, a quello di su, uno spacco davanti; col terzo sacco fece le maniche e le cucì intorno a due buchi praticati nel primo sacco, a cui chiuse la bocca per un tratto di qua e di là, per modo che vi restasse il largo per il collo. Ne fece un fagottino, prese la tela bambagina rossa e, senza salutar nessuno, se n'andò.

Circa un'ora dopo, si sparse per tutto il paese la notizia che Spatolino, impazzito, s'era impostato da statua di Cristo alla colonna, là, nel tabernacolo nuovo, su lo stradone, dirimpetto alla villa del Ciancarella.

- Come impostato? che vuol dire?

- Ma sì, lui, da Cristo, là dentro il tabernacolo!

- Dite davvero?

- Davvero!

E tutto un popolo accorse a vederlo, dentro il tabernacolo, dietro il cancello, insaccato in quella tonaca con le marche del droghiere ancora lì stampate, la tela bambagia rossa su le spalle a mo' di mantello, una corona di spine in capo, una canna in mano.

Teneva la testa bassa, inclinata da un lato, e gli occhi a terra. Non si scompose minimamente né alle risa, né ai fischi, né a gli urli indiavolati della folla che cresceva a mano a mano. Più d'un monello gli tirò qualche buccia; parecchi, lì, sotto il naso, gli lanciarono crudelissime ingiurie: lui, sordo, immobile, come una vera statua; solo che sbatteva di tanto in tanto le palpebre.

Né valsero a smuoverlo le preghiere, prima, le imprecazioni, poi, della moglie accorsa con le altre donne del vicinato, né il pianto dei figliuoli. Ci volle l'intervento di due guardie che, per porre fine a quella gazzarra, forzarono il cancelletto del tabernacolo e trassero Spatolino in arresto.

- Lasciatemi stare! Chi più Cristo di me? - si mise allora a strillare Spatolino, divincolandosi. - Non vedete come mi beffano e come m'ingiuriano? Chi più Cristo di me? Lasciatemi! Questa è casa mia! Me la son fatta io, col mio danaro e con le mie mani! Ci ho buttato il sangue mio! Lasciatemi, giudei!

Ma que' giudei non vollero lasciarlo prima di sera.

- A casa! - gli ordinò il delegato. - A casa, e giudizio, bada!

- Sì, signor Pilato, - gli rispose Spatolino, inchinandosi.

E, quatto quatto, se ne ritornò al tabernacolo. Di nuovo, lì, si parò da Cristo; vi passò tutta la notte, e più non se ne mosse.

Lo tentarono con la fame; lo tentarono con la paura, con lo scherno; invano.

Finalmente lo lasciarono tranquillo, come un povero matto che non faceva male a nessuno.

 

<B>VI.</B>

 

Ora c'è chi gli porta l'olio per la lampada; c'è chi gli porta da mangiare e da bere; qualche donnicciola, pian piano, comincia a dirlo santo e va a raccomandarglisi perché preghi per lei e pe' suoi; qualche altra gli ha recato una tonaca nuova, men rozza, e gli ha chiesto in compenso tre numeri da giocare al lotto.

I carrettieri, che passano di notte per lo stradone, si sono abituati a quel lampadino ch'arde nel tabernacolo, e lo vedono da lontano con piacere; si fermano un pezzo lì davanti, a conversare col povero Cristo, che sorride benevolmente a qualche loro lazzo; poi se ne vanno; il rumor dei carri si spegne a poco a poco nel silenzio; e il povero Cristo si riaddormenta, o scende a fare i suoi bisogni dietro al muro, senza più pensare in quel momento che è parato da Cristo, con la tonaca di sacco e il mantello di bambagina rossa.

Spesso però qualche grillo, attirato dal lume, gli schizza addosso e lo sveglia di soprassalto. Allora egli si rimette a pregare; ma non è raro il caso che, durante la preghiera, un altro grillo, l'antico grillo canterino si ridesti ancora in lui. Spatolino si scosta dalla fronte la corona di spine, a cui già s'è abituato, e - grattandosi lì, dove le spine gli han lasciato il segno - con gli occhi invagati, si rimette a fischiettare:

- <I>Fififì... fififì... fififì...</I>

 

DIFESA DEL MÈOLA <I>(Tonache di Montelusa)</I>

 

Ho tanto raccomandato ai miei concittadini di Montelusa di non condannare così a occhi chiusi il Mèola, se non vogliono macchiarsi della più nera ingratitudine.

Il Mèola ha rubato.

Il Mèola s'è arricchito.

Il Mèola probabilmente domani si metterà a far l'usurajo.

Sì. Ma pensiamo, signori miei, a chi e perché ha rubato il Mèola. Pensiamo che è niente il bene che il Mèola ha fatto a se stesso rubando, se lo confrontiamo col bene che da quel suo furto è derivato alla nostra amatissima Montelusa.

Io per me non so tollerare in pace che i miei concittadini, riconoscendo da un canto questo bene, seguitino dall'altro a condannare il Mèola e a rendergli se non proprio impossibile, difficilissima la vita nel nostro paese.

Ragion per cui m'appello al giudizio di quanti sono in Italia liberali equanimi e ben pensanti.

 

Un incubo orrendo gravava su tutti noi Montelusani, da undici anni: dal giorno nefasto che Monsignor Vitangelo Partanna, per istanze e mali uffizii di potenti prelati a Roma, ottenne il nostro vescovado.

Avvezzi com'eravamo da tempo al fasto, alle maniere gioconde e cordiali, alla copiosa munificenza dell'Eccell.mo nostro Monsignor Vivaldi (Dio l'abbia in gloria!), tutti noi Montelusani ci sentimmo stringere il cuore, allorché vedemmo per la prima volta scendere dall'alto e vetusto Palazzo Vescovile, a piedi tra i due segretarii, incontro al sorriso della nostra perenne primavera, lo scheletro intabarrato di questo vescovo nuovo: alto, curvo su la sua trista magrezza, proteso il collo, le tumide e livide labbra in fuori, nello sforzo di tener ritta la faccia incartapecorita, con gli occhialacci neri su l'adunco naso.

I due segretarii, il vecchio don Antonio Sclepis, zio del Mèola, e il giovane don Arturo Filomarino (che durò poco in carica), si tenevano un passo indietro e andavano interiti e come sospesi, consci dell'orribile impressione che Sua Eccellenza destava in tutta la cittadinanza.

E infatti parve a tutti che il cielo, il gajo aspetto della nostra bianca cittadina s'oscurassero a quell'apparizione ispida, lugubre. Un brulichio sommesso, quasi di raccapriccio, si propagò al passaggio di lui per tutti gli alberi del lungo e ridente viale del Paradiso, vanto della nostra Montelusa, terminato laggiù da due azzurri: quello aspro e denso del mare, quello tenue e vano del cielo.

Difetto precipuo di noi Montelusani è senza dubbio l'impressionabilità. Le impressioni, a cui andiamo così facilmente soggetti, possono a lungo su le nostre opinioni, su i nostri sentimenti, e c'inducono nell'animo mutamenti sensibilissimi e durevoli.

Un vescovo a piedi? Da che il Vescovado sedeva lassù come una fortezza in cima al paese, tutti i Montelusani avevan sempre veduto scendere in carrozza i loro vescovi al viale del Paradiso. Ma vescovado, disse Monsignor Partanna fin dal primo giorno, insediandosi, è nome d'opera e non d'onore. E smise la vettura, licenziò cocchieri e lacchè, vendette cavalli e paramenti, inaugurando la più gretta tirchieria.

Pensammo dapprima:

«Vorrà fare economia. Ha molti parenti poveri nella sua nativa Pisanello».

Se non che, venne un giorno da Pisanello a Montelusa uno di questi parenti poveri, un suo fratello appunto, padre di nove figliuoli, a pregarlo in ginocchio a mani giunte, come si pregano i santi, perché gli desse ajuto, tanto almeno da pagare i medici che dovevano operar la moglie moribonda. Non volle dargli nemmeno da pagarsi il ritorno a Pisanello. E lo vedemmo tutti, sentimmo tutti quel che disse il pover uomo con gli occhi gonfi di lagrime e la voce rotta dai singhiozzi nel Caffè di Pedoca, appena sceso dal Vescovado.

Ora, la Diocesi di Montelusa - è bene saperlo - è tra le più ricche d'Italia.

Che voleva fare Monsignor Partanna con le rendite di essa, se negava con tanta durezza un così urgente soccorso a' suoi di Pisanello?

Marco Mèola ci svelò il segreto.

L'ho presente (potrei dipingerlo), quella mattina che ci chiamò tutti, noi liberali di Montelusa, nella piazza innanzi al Caffè Pedoca. Gli tremavano le mani; le ciocche ricciute della testa leonina, rizzandosi, lo costringevano più del solito a rincalcarsi con manate furiose il cappelluccio floscio, che non gli vuol mai sedere in capo. Era pallido e fiero. Un fremito di sdegno gli arricciava il naso di tratto in tratto.

Vive orrenda tuttora negli animi dei vecchi Montelusani la memoria della corruzione seminata nelle campagne e in tutto il paese, con le prediche e la confessione, dei Padri Liguorini, e dello spionaggio, dei tradimenti operati da essi negli anni nefandi della tirannia borbonica, di cui segretamente s'eran fatti strumento.

Ebbene, i Liguorini, i Liguorini voleva far tornare a Montelusa Monsignor Partanna, i Liguorini cacciati a furia di popolo quando scoppiò la rivoluzione.

Per questo egli accumulava le rendite della Diocesi.

Ed era una sfida a noi Montelusani, che il fervido amore della libertà non avevamo potuto dimostrare altrimenti, che con quella cacciata di frati, giacché, al primo annunzio dell'entrata di Garibaldi a Palermo, s'era squagliata la sbirraglia, e con essa la scarsa soldatesca borbonica di presidio a Montelusa.

Quell'unico nostro vanto voleva dunque fiaccare Monsignor Partanna.

Ci guardammo tutti negli occhi, frementi d'ira e di sdegno. Bisognava a ogni costo impedire che un tal proposito si riducesse a effetto. Ma Come impedirlo?

Parve che da quel giorno il cielo s'incavernasse su Montelusa. La città prese il lutto. Il Vescovado lassù, ove colui covava il reo disegno e di giorno in giorno ne avvicinava l'attuazione, ce lo sentimmo tutti come un macigno sul petto.

Nessuno, allora, pur sapendo che Marco Mèola era nipote dello Sclepis, segretario del vescovo, dubitava della sua fede liberale. Tutti anzi ammiravano la sua forza d'animo quasi eroica, comprendendo di quanta amarezza dovesse in fondo esser cagione quella fede per lui, allevato e cresciuto come un figliuolo da quello zio prete.

I miei concittadini di Montelusa mi domandano adesso con aria di scherno: - Ma se veramente gli sapeva di sale il pane dello zio prete, perché non si allibertava lavorando?

E dimenticano che, per esser scappato, giovinetto, dal seminario, lo Sclepis, che lo voleva a ogni costo prete come lui, lo aveva tolto dagli studii; dimenticano che tutti allora compiangevamo amaramente che per la bizza d'una chierica stizzita si dovesse perdere un ingegno di quella sorte.

Io ricordo bene che cori d'approvazione e che applausi e quanta ammirazione, allorché, sfidando i fulmini del Vescovado e l'indignazione e la vendetta dello zio, Marco Mèola, facendosi cattedra d'un tavolino del Caffè Pedoca, si mise per un'ora al giorno a commentare ai Montelusani le opere latine e volgari di Alfonso Maria de' Liguori, segnatamente i <I>Discorsi sacri e morali per tutte le domeniche dell'anno</I> e <I>Il libro delle Glorie di Maria</I>.

Ma noi vogliamo far scontare al Mèola le frodi della nostra illusione, le aberrazioni della nostra deplorabilissima impressionabilità.

Quando il Mèola, un giorno, con aria truce, levando una mano e ponendosela poi sul petto, ci disse: - «Signori, io prometto e giuro che i liguorini non torneranno a Montelusa!» - voi, Montelusani, voleste per forza immaginare non so che diavolerie: mine, bombe, agguati, assalti notturni al Vescovado e Marco Mèola come Pietro Micca con la miccia in mano pronto a far saltare in aria vescovo e Liguorini.

Ora questo, con buona pace e sopportazione vostra, vuol dire avere una concezione dell'eroe alquanto grottesca. Con tali mezzi avrebbe potuto mai il Mèola liberar Montelusa dalla calata dei Liguorini? Il vero eroismo consiste nel sapere attemprare i mezzi all'impresa.

E Marco Mèola seppe.

 

Sonavano nell'aria che inebriava, satura di tutte le fragranze della nuova primavera, le campane delle chiese, tra i gridi festivi delle rondini guizzanti a frotte nel luminoso ardore di quel vespero indimenticabile.

Io e il Mèola passeggiavamo per il nostro viale del Paradiso, muti e assorti nei nostri pensieri.

Il Mèola a un tratto si fermò e sorrise.

- Senti, - mi disse. - queste campane più prossime? Sono della badia di Sant'Anna. Se tu sapessi chi le suona!

- Chi le suona?

- Tre campane, tre colombelle!

Mi voltai a guardarlo, stupito del tono e dell'aria con cui aveva proferito quelle parole.