La giara

di Luigi Pirandello

 

INDICE

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La giara

La cattura

Guardando una stampa

La paura del sonno

La Lega disciolta

La morta e la viva

Un'altra allodola

Richiamo all'obbligo

Pensaci, Giacomino!

Non è una cosa seria

Tirocinio

L'illustre estinto

Il guardaroba dell'eloquenza

Pallottoline!

Due letti a due

 

LA GIARA

 

Piena anche per gli olivi quell'annata. Piante massaje, cariche l'anno avanti, avevano raffermato tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire.

Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l'olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d'uomo, bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa.

Neanche a dirlo, aveva litigato anche col fornaciajo di là per questa giara. E con chi non l'attaccava Don Lollò Zirafa? Per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta dal murello di cinta, anche per una festuca di paglia, gridava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti. Così, a furia di carta bollata e d'onorarii agli avvocati, citando questo, citando quello e pagando sempre le spese per tutti, s'era mezzo rovinato.

Dicevano che il suo consulente legale, stanco di vederselo comparire davanti due o tre volte la settimana, per levarselo di torno, gli aveva regalato un libricino come quelli da messa: il codice, perché ci si scapasse a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti che voleva intentare.

Prima, tutti coloro con cui aveva da dire, per prenderlo in giro gli gridavano: - Sellate la mula! - Ora, invece: - Consultate il calepino! -

E Don Lollò rispondeva:

- Sicuro, e vi fulmino tutti, figli d'un cane!

Quella bella giara nuova, pagata quattr'onze ballanti e sonanti, in attesa del posto da trovarle in cantina, fu allogata provvisoriamente nel palmento. Una giara così non s'era mai veduta. Allogata in quell'antro intanfato di mosto e di quell'odore acre e crudo che cova nei luoghi senz'aria e senza luce, faceva pena.

Da due giorni era cominciata l'abbacchiatura delle olive, e Don Lollò era su tutte le furie perché, tra gli abbacchiatori e i mulattieri venuti con le mule cariche di concime da depositare a mucchi su la costa per la favata della nuova stagione, non sapeva più come spartirsi, a chi badar prima. E bestemmiava come un turco e minacciava di fulminare questi e quelli, se un'oliva, che fosse un'oliva, gli fosse mancata, quasi le avesse prima contate tutte a una a una sugli alberi; o se non fosse ogni mucchio di concime della stessa misura degli altri. Col cappellaccio bianco, in maniche di camicia, spettorato, affocato in volto e tutto sgocciolante di sudore, correva di qua e di là, girando gli occhi lupigni e stropicciandosi con rabbia le guance rase, su cui la barba prepotente rispuntava quasi sotto la raschiatura del rasojo.

Ora, alla fine della terza giornata, tre dei contadini che avevano abbacchiato, entrando nel palmento per deporvi le scale e le canne, restarono alla vista della bella giara nuova, spaccata in due, come se qualcuno, con un taglio netto, prendendo tutta l'ampiezza della pancia, ne avesse staccato tutto il lembo davanti.

- Guardate! guardate!

- Chi sarà stato?

- Oh, mamma mia! E chi lo sente ora Don Lollò? La giara nuova, peccato!

Il primo, più spaurito di tutti, propose di raccostar subito la porta e andare via zitti zitti, lasciando fuori, appoggiate al muro, le scale e le canne.

Ma il secondo:

- Siete pazzi? Con don Lollò? Sarebbe capace di credere che gliel'abbiamo rotta noi. Fermi qua tutti!

Uscì davanti al palmento e, facendosi portavoce delle mani, chiamò:

- Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!

Eccolo là sotto la costa con gli scaricatori del concime: gesticolava al solito furiosamente, dandosi di tratto in tratto con ambo le mani una rincalcata al cappellaccio bianco. Arrivava talvolta, a forza di quelle rincalcate, a non poterselo più strappare dalla nuca e dalla fronte. Già nel cielo si spegnevano gli ultimi fuochi del crepuscolo, e tra la pace che scendeva su la campagna con le ombre della sera e la dolce frescura, avventavano i gesti di quell'uomo sempre infuriato.

- Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!

Quando venne su e vide lo scempio, parve volesse impazzire. Si scagliò prima contro quei tre; ne afferrò uno per la gola e lo impiccò al muro gridando:

- Sangue della Madonna, me la pagherete!

Afferrato a sua volta dagli altri due, stravolti nelle facce terrigne e bestiali, rivolse contro se stesso la rabbia furibonda, sbatacchiò a terra il cappellaccio, si percosse le guance, pestando i piedi e sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto:

- La giara nuova! Quattr'onze di giara! Non incignata ancora!

Voleva sapere chi gliel'avesse rotta! Possibile che si fosse rotta da sé? Qualcuno per forza doveva averla rotta, per infamità o per invidia! Ma quando? Ma come? Non gli si vedeva segno di violenza! Che fosse arrivata rotta dalla fabbrica? Ma che! Sonava come una campana!

Appena i contadini videro che la prima furia gli era caduta, cominciarono ad esortarlo a calmarsi. La giara si poteva sanare. Non era poi rotta malamente. Un pezzo solo. Un bravo conciabrocche l'avrebbe rimessa su, nuova. C'era giusto Zi' Dima Licasi, che aveva scoperto un mastice miracoloso, di cui serbava gelosamente il segreto: un mastice, che neanche il martello ci poteva, quando aveva fatto presa. Ecco, se don Lollò voleva, domani, alla punta dell'alba, Zi' Dima Licasi sarebbe venuto lì e, in quattro e quattr'otto, la giara, meglio di prima.

Don Lollò diceva di no, a quelle esortazioni: ch'era tutto inutile; che non c'era più rimedio; ma alla fine si lasciò persuadere, e il giorno appresso, all'alba, puntuale, si presentò a Primosole Zi' Dima Licasi con la cesta degli attrezzi dietro le spalle.

Era un vecchio sbilenco, dalle giunture storpie e nodose, come un ceppo antico di olivo saraceno. Per cavargli una parola di bocca ci voleva l'uncino. Mutria o tristezza radicate in quel suo corpo deforme; o anche sconfidenza che nessuno potesse capire e apprezzare giustamente il suo merito d'inventore non ancora patentato.

Voleva che parlassero i fatti, Zi' Dima Licasi. Doveva poi guardarsi davanti e dietro, perché non gli rubassero il segreto.

- Fatemi vedere codesto mastice - gli disse per prima cosa Don Lollò, dopo averlo squadrato a lungo con diffidenza.

Zi' Dima negò col capo, pieno di dignità.

- All'opera si vede.

- Ma verrà bene?

Zi' Dima posò a terra la cesta; ne cavò un grosso fazzoletto di cotone rosso, logoro e tutto avvoltolato; prese a svolgerlo pian piano, tra l'attenzione e la curiosità di tutti, e quando alla fine venne fuori un pajo d'occhiali col sellino e le stanghette rotte e legate con lo spago, lui sospirò e gli altri risero. Zi' Dima non se ne curò; si pulì le dita prima di pigliare gli occhiali; se li inforcò; poi si mise a esaminare con molta gravità la giara tratta sull'aja. Disse:

- Verrà bene.

- Col mastice solo però - mise per patto lo Zirafa - non mi fido. Ci voglio anche i punti.

- Me ne vado - rispose senz'altro Zi' Dima, rizzandosi e rimettendosi la cesta dietro le spalle.

Don Lollò lo acchiappò per un braccio.

- Dove? Messere e porco, così trattate? Ma guarda un po' che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d'asino, ci devo metter olio, io, là dentro, e l'olio trasuda! Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglio i punti. Mastice e punti. Comando io.

Zi' Dima chiuse gli occhi, strinse le labbra e scosse il capo. Tutti così! Gli era negato il piacere di fare un lavoro pulito, filato coscienziosamente a regola d'arte, e di dare una prova della virtù del suo mastice.

- Se la giara - disse - non suona di nuovo come una campana...

- Non sento niente, - lo interruppe Don Lollò. - I punti! Pago mastice e punti. Quanto vi debbo dare?

- Se col mastice solo...

- Càzzica che testa! - esclamò lo Zirafa. - Come parlo? V'ho detto che ci voglio i punti. C'intenderemo a lavoro finito: non ho tempo da perdere con voi.

E se ne andò a badare ai suoi uomini.

Zi' Dima si mise all'opera gonfio d'ira e di dispetto. E l'ira e il dispetto gli crebbero ad ogni foro che praticava col trapano nella giara e nel lembo spaccato per farvi passare il fil di ferro della cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a mano a mano più frequenti e più forti; e il viso gli diventava più verde dalla bile e gli occhi più aguzzi e accesi di stizza. Finita quella prima operazione, scagliò con rabbia il trapano nella cesta; applicò il lembo staccato alla giara per provare se i fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro, poi con le tenaglie fece del fil di ferro tanti pezzetti quanti erano i punti che doveva dare, e chiamò per ajuto uno dei contadini che abbacchiavano.

- Coraggio, Zi' Dima! - gli disse quello, vedendogli la faccia alterata.

Zi' Dima alzò la mano a un gesto rabbioso. Aprì la scatola di latta che conteneva il mastice, e lo levò al cielo, scotendolo, come per offrirlo a Dio, visto che gli uomini non volevano riconoscerne le virtù: poi col dito cominciò a spalmarlo tutt'in giro al lembo staccato e lungo la spaccatura; prese le tenaglie e i pezzetti di fil di ferro preparati avanti, e si cacciò dentro la pancia aperta della giara, ordinando al contadino di applicare il lembo alla giara, così come aveva fatto lui poc'anzi. Prima di cominciare a dare i punti:

- Tira! - disse dall'interno della giara al contadino. - Tira con tutta la tua forza! Vedi se si stacca più? Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia! Suona, si o no, come una campana anche con me qua dentro? Va', va' a dirlo al tuo padrone!

- Chi è sopra comanda, Zi' Dima, - sospirò il contadino - e chi è sotto si danna! Date i punti, date i punti.

E Zi' Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attraverso i due fori accanto, l'uno di qua e l'altro di là della saldatura; e con le tanaglie ne attorceva i due capi. Ci volle un'ora a passarli tutti. I sudori, giù a fontana, dentro la giara. Lavorando, si lagnava della sua mala sorte. E il contadino, di fuori, a confortarlo.

- Ora ajutami a uscirne, - disse alla fine Zi' Dima.

Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi' Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, non trovava più il modo di uscirne. E il contadino invece di dargli ajuto, eccolo là, si torceva dalle risa. Imprigionato, imprigionato lì, nella giara da lui stesso sanata e che ora - non c'era via di mezzo - per farlo uscire, doveva essere rotta daccapo e per sempre.

Alle risa, alle grida, sopravvenne Don Lollò. Zi' Dima, dento la giara, era come un gatto inferocito.

Fatemi uscire! - urlava -. Corpo di Dio, voglio uscire! Subito! Datemi ajuto!

Don Lollò rimase dapprima come stordito. Non sapeva crederci.

- Ma come? là dentro? s'è cucito là dentro?

S'accostò alla giara e gridò al vecchio:

- Ajuto? E che ajuto posso darvi io? Vecchiaccio stolido, ma come? non dovevate prender prima le misure? Su, provate: fuori un braccio... così! e la testa... su... no, piano! Che! giù... aspettate! così no! giù, giù... Ma come avete fatto? E la giara, adesso? Calma! Calma! Calma! - si mise a raccomandare tutt'intorno, come se la calma stessero per perderla gli altri e non lui. - Mi fuma la testa! Calma! Questo è caso nuovo... La mula!

Picchiò con le nocche delle dita su la giara. Sonava davvero come una campana.

- Bella! Rimessa a nuovo... Aspettate! - disse al prigioniero. - Va' a sellarmi la mula! - ordinò al contadino; e, grattandosi con tutte le dita la fronte, seguitò a dire tra sé: «Ma vedete un po' che mi capita! Questa non è giara! quest'è ordigno del diavolo! Fermo! Fermo lì!»

E accorse a regger la giara, in cui Zi' Dima, furibondo, si dibatteva come una bestia in trappola.

- Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere l'avvocato! Io non mi fido. La mula! La mula! Vado e torno, abbiate pazienza! Nell'interesse vostro... Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei. E prima di tutto, per salvare il mio diritto, faccio il mio dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la giornata. Cinque lire. Vi bastano?

- Non voglio nulla! - gridò Zi' Dima. - Voglio uscire.

- Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire.

Le cavò dal taschino del panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò, premuroso:

- Avete fatto colazione? Pane e companatico, subito! Non ne volete? Buttatelo ai cani! A me basta che ve l'abbia dato.

Ordinò che gli si désse; montò in sella, e via di galoppo per la città. Chi lo vide, credette che andasse a chiudersi da sé in manicomio, tanto e in così strano modo gesticolava.

Per fortuna, non gli toccò di fare anticamera nello studio dell'avvocato; ma gli toccò d'attendere un bel po', prima che questo finisse di ridere, quando gli ebbe esposto il caso. Delle risa si stizzì.

- Che c'è da ridere, scusi? A vossignoria non brucia! La giara è mia!

Ma quello seguitava a ridere e voleva che gli rinarrasse il caso com'era stato, per farci su altre risate. "Dentro, eh? S'era cucito dentro? E lui, don Lollò che pretendeva? Te... tene... tenerlo là dentro... ah ah ah... ohi ohi ohi... tenerlo là dentro per non perderci la giara?"

- Ce la devo perdere? - domandò lo Zirafa con le pugna serrate. - Il danno e lo scorno?

- Ma sapete come si chiama questo? - gli disse infine l'avvocato. - Si chiama sequestro di persona!

- Sequestro? E chi l'ha sequestrato? - esclamò lo Zirafa. - Si è sequestrato lui da sé! Che colpa ne ho io?

L'avvocato allora gli spiegò che erano due casi. Da un canto, lui, Don Lollò, doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere di sequestro di persona; dall'altro il conciabrocche doveva rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine.

- Ah! - rifiatò lo Zirafa. Pagandomi la giara!

- Piano! - osservò l'avvocato. - Non come se fosse nuova, badiamo!

- E perché?

- Ma perché era rotta, oh bella!

- Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana, lo dice lui stesso! E se ora torno a romperla, non potrò più farla risanare. Giara perduta, signor avvocato!

L'avvocato gli assicurò che se ne sarebbe tenuto conto, facendogliela pagare per quanto valeva nello stato in cui era adesso.

- Anzi - gli consigliò - fatela stimare avanti da lui stesso.

- Bacio le mani - disse Don Lollò, andando via di corsa.

Di ritorno, verso sera, trovò tutti i contadini in festa attorno alla giara abitata. Partecipava alla festa anche il cane di guardia, saltando e abbajando. Zi' Dima s'era calmato, non solo, ma aveva preso gusto anche lui alla sua bizzarra avventura e ne rideva con la gajezza mala dei tristi.

Lo Zirafa scostò tutti e si sporse a guardare dentro la giara.

- Ah! Ci stai bene?

- Benone. Al fresco - rispose quello. - Meglio che a casa mia.

- Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi costò quattr'onze nuova. Quanto credi che possa costare adesso?

- Come me qua dentro? - domandò Zi' Dima.

I villani risero.

- Silenzio! - gridò lo Zirafa. - Delle due l'una: o il tuo mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla: se non serve a nulla tu sei un imbroglione; se serve a qualche cosa, la giara, così com'è, deve avere il suo prezzo. Che prezzo? Stimala tu.

Zi' Dima rimase un pezzo a riflettere, poi disse:

- Rispondo. Se lei me l'avesse fatta conciare col mastice solo, com'io volevo, io, prima di tutto, non mi troverei qua dentro, e la giara avrebbe su per giù lo stesso prezzo di prima. Così conciata con questi puntacci, che ho dovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo di quanto valeva, sì e no.

- Un terzo? - domandò lo Zirafa. - Un'onza e trentatré?

- Meno sì, più no.

- Ebbene, - disse Don Lollò. - Passi la tua parola, e dammi un'onza e trentatré.

- Che? - fece Zi' Dima, come se non avesse inteso.

- Rompo la giara per farti uscire, - rispose Don Lollò - e tu, dice l'avvocato, me la paghi per quanto l'hai stimata: un'onza e trentatré.

- Io pagare? - sghignazzò Zi' Dima. - Vossignoria scherza! Qua dentro ci faccio i vermi.

E, tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita, l'accese e si mise a fumare, cacciando il fumo per il collo della giara.

Don Lollò ci restò brutto. Quest'altro caso, che Zi' Dima ora non volesse più uscire dalla giara, nè lui nè l'avvocato l'avevano previsto. E come si risolveva adesso? Fu lì lì per ordinare di nuovo: «La mula», ma pensò che era già sera.

- Ah, sì - disse. - Tu vuoi domiciliare nella mia giara? Testimonii tutti qua! Non vuole uscirne lui, per non pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché vuole stare lì, domani io lo cito per alloggio abusivo e perché mi impedisce l'uso della giara.

Zi' Dima cacciò prima fuori un'altra boccata di fumo, poi rispose placido:

- Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me ne vado volentieri. Pagare... neanche per ischerzo, vossignoria!

Don Lollò, in un impeto di rabbia, alzò un piede per avventare un calcio alla giara; ma si trattenne; la abbrancò invece con ambo le mani e la scrollò tutta, fremendo.

- Vede che mastice? - gli disse Zi' Dima.

- Pezzo da galera! - ruggì allora lo Zirafa. - Chi l'ha fatto il male, io o tu? E devo pagarlo io? Muori di fame là dentro! Vediamo chi la vince!

E se ne andò, non pensando alle cinque lire che gli aveva buttate la mattina dentro la giara. Con esse, per cominciare, Zi' Dima pensò di far festa quella sera coi contadini che, avendo fatto tardi per quello strano accidente, rimanevano a passare la notte in campagna, all'aperto, su l'aja. Uno andò a far le spese in una taverna lì presso. A farlo apposta, c'era una luna che pareva fosse raggiornato.

A una cert'ora don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un baccano d'inferno. S'affacciò a un balcone della cascina, e vide su l'aja, sotto la luna, tanti diavoli; i contadini ubriachi che, presisi per mano, ballavano attorno alla giara. Zi' Dima, là dentro, cantava a squarciagola.

Questa volta non poté più reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo.

E la vinse Zi' Dima.

 

LA CATTURA

 

Il Guarnotta seguiva col corpo ciondolante l'andatura dell'asinello, come se camminasse anche lui; e per poco veramente le gambe, coi piedi fuori delle staffe, non gli strisciavano sulla polvere dello stradone.

Ritornava, come tutti i giorni a quell'ora, dal suo podere quasi affacciato sul mare, all'orlo dell'altipiano. Più stanca e più triste di lui, la vecchia asinella s'affannava da un pezzo a superare le ultime pettate di quello stradone interminabile, tutto a volte e risvolte, attorno al colle, in cima al quale pareva s'addossassero fitte, una sull'altra, le decrepite case della cittaduzza.

A quell'ora i contadini erano ritornati tutti dalla campagna; lo stradone era deserto. Se qualcuno ancora se ne incontrava, il Guarnotta era sicuro di riceverne il saluto. Perché tutti, grazie a Dio, lo rispettavano.

Deserto ormai come quello stradone era ai suoi occhi tutto il mondo; e di cenere come quell'aria della prima sera, la sua vita. I rami degli alberi sporgenti senza foglie dai muretti di cinta screpolati, le alte siepi di fichi d'India polverose e, qua e là, i mucchi di brecciale che nessuno pensava di stendere su quello stradone tutto solchi e fosse, se il Guarnotta li guardava, in quella loro immobilità e in quel silenzio e in quell'abbandono, gli parevano oppressi come lui da una vana pena infinita. E a crescere questo senso di vanità, come se il silenzio si fosse fatto polvere, non si sentiva neanche il rumore dei quattro zoccoli dell'asinella.

Quanta di quella polvere dello stradone non si portava a casa ogni sera il Guarnotta! La moglie, tenendo la giacca sospesa e discosta, appena egli se la levava, la mostrava in giro alle seggiole, all'armadio, al letto, al cassettone, come per darsi uno sfogo:

- Guardate, guardate qua! Ci si può scrivere sopra, col dito.

Si fosse lasciato persuadere almeno a non portare l'abito nero, di panno, per la campagna! Gliene aveva ordinati tre - apposta, - tre - di fustagno.

In maniche di camicia, il Guarnotta, quelle tre dita tozze che la moglie veniva a cacciargli, nel gesto rabbioso, quasi negli occhi, gliele avrebbe volentieri addentate. Cane pacifico, si contentava di lanciarle di traverso un'occhiataccia e la lasciava cantare. Quindici anni addietro, alla morte dell'unico figlio, aveva giurato d'andar vestito sempre di nero. Dunque...

- Ma anche per la campagna? Ti faccio mettere il lutto al braccio negli abiti di fustagno. E basterebbe la cravatta nera, ormai, dopo quindici anni!

La lasciava cantare. Non se ne stava forse tutto il santo giorno in quel suo podere al mare? In paese, non si faceva più vedere da nessuno, da anni. - Dunque...

- Che dunque?

Ma dunque, se non lo portava in campagna, dove lo avrebbe portato il lutto per il figliuolo? - Corpo di Dio, riflettere un poco almeno, prima d'aprir bocca e lasciare andare. - Nel cuore, sì: grazie tante! E che non lo portava nel cuore? Ma voleva si vedesse anche fuori... - Che lo vedessero gli alberi, già! o gli uccellini dell'aria; perché, infatti, occhi per vederselo addosso, lui, non ne aveva. E perché poi brontolava tanto la moglie? Doveva forse batterlo e spazzolarlo lei, quell'abito, ogni sera? C'erano le serve. Tre, per due persone sole. Economia? Un abito nero all'anno: ottanta, novanta lire. Eh via! Avrebbe dovuto capire, che non le conveniva far tanti discorsi. Seconda moglie! E il figlio morto era del primo letto! Senz'altri parenti, neppur lontani, alla sua morte, tutto il suo (che non era poco) sarebbe andato a lei e ai suoi nipoti. Zitta, dunque: almeno per prudenza... Ma già, sì! se avesse capito questo, non sarebbe stata quella buona donna che era...

Ed ecco perché lui se ne stava tutto il giorno in campagna. Solo, tra gli alberi e con la distesa sterminata del mare sotto gli occhi, come da un'infinita lontananza, nel fruscio lungo e lieve di quegli alberi, nel borboglio cupo e lento di quel mare s'era abituato a sentire la vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita.

 

Era giunto ormai a meno d'un chilometro dal paese. Dalla chiesetta dell'Addolorata su in cima gli arrivavano lenti e blandi i rintocchi dell'Avemaria, allorché, d'improvviso, a una brusca svoltata dello stradone:

- Faccia a terra!

E dall'ombra si vide saltare addosso tre appostati, con la faccia bendata, armati di fucile. Uno abbrancò l'asina per la cavezza; gli altri due, in un batter d'occhio, lo strapparono di sella, giù a terra; e mentre uno con un ginocchio su le gambe gli legava i polsi, l'altro gli annodava dietro la nuca un fazzoletto ripiegato a fascia, passato sopra gli occhi.

Ebbe appena il tempo di dire:

- Figliuoli, a me?

Fu tirato su, spinto, strappato, trascinato di furia per le braccia, fuori dello stradone, giù per la costa petrosa, verso la vallata.

- Figliuoli...

- Zitto, o sei morto!

Più delle spinte e degli strappi, l'ansito, l'ansito di quei tre per la violenza che commettevano, gl'incuteva terrore. Per avere quell'ansito di belve, doveva esser tremendo ciò che s'erano proposto di fare sopra di lui.

Ma ucciderlo, almeno subito, forse non volevano. Se per mandato o per vendetta, lo avrebbero ucciso là, su lo stradone, dall'ombra dove si tenevano appostati. Dunque, lo catturavano, per ricatto.

- Figliuoli...

Stringendogli più forte le braccia e scrollandolo, gl'intimarono di nuovo di tacere.

- Ma almeno allentatemi un po' la benda! Mi serra troppo gli occhi... non posso...

- Cammina!

Prima giù, poi su, e avanti, e indietro; poi giù di nuovo, e poi di nuovo su e su e su. Dove lo trascinavano?

Nel subbuglio di pensieri e di sentimenti, tra il guizzare d'immagini sinistre e l'affanno di quella corsa cieca, a sbalzi, a spintoni, tra sassi, sterpi (che stranezza!) i lumi, i primi lumi accesi nella cittaduzza ancora illuminata a petrolio, su in cima al colle - lumi delle case, lumi delle strade - come li aveva intraveduti prima che lo assaltassero e come tante volte, ritornando dal podere sempre a quell'ora li aveva intraveduti, ecco, nella strettura di quella benda che gli schiacciava gli occhi, gli apparivano (che stranezza!) precisi, proprio come se li avesse davanti e avesse gli occhi liberi. Andava, così trascinato, strappato, incespicando, con tanto terrore dentro, e se li portava, quei lumetti placidi e tristi, davanti, con sé, con tutto il colle, con tutta la cittaduzza situata lassù, dove nessuno sapeva la violenza che in quel momento si faceva a lui, e tutti attendevano quieti e sicuri ai loro casi consueti.

A un certo punto avvertì anche l'affrettato zoccolare della sua asinella.

- Ah!

Trascinavano via anche la sua vecchia asinella stanca. Ma che ne capiva, povera bestiola? Avvertiva forse una furia insolita, un'insolita violenza, ma andava dove la portavano, senza capir nulla. Se si fossero fermati un momento, se l'avessero lasciato parlare, avrebbe detto loro con calma, ch'era pronto a dare tutto quello che volevano. Poco più gli restava da vivere, e non valeva proprio la pena per un po' di danaro - di quel danaro che non gli dava più nessuna gioja - passare un momento come quello.

- Figliuoli...

- Zitto, cammina!

- Ma non ne posso più! Perché mi fate questo'? Sono pronto...

- Zitto! Parleremo poi... Cammina!

Lo fecero camminare, così, un'eternità. A un certo punto, fu tanta la stanchezza, tanto lo stordimento di quel fazzoletto che gli serrava la testa, che si sentì mancare e non comprese più nulla.

 

Si ritrovò, la mattina appresso, in una grotta bassa, come disfatto in un tanfo di mucido che pareva spirasse dallo stesso squallore della prima luce del giorno.

S'insinuava livida, quella luce, appena appena, di tra gli anfratti cretosi della grotta e gli alleviava l'incubo delle violenze sofferte, che ora gli apparivano come sognate: violenze cieche, da bruti, al suo corpo che non si reggeva più, caricato su le spalle ora dell'uno ora dell'altro, buttato a terra e trascinato o sollevato per le mani e per i piedi.

Dov'era adesso'?

Tese l'orecchio. Gli parve che fosse fuori un silenzio d'altura. E per un momento vi si sentì come sospeso. Ma non poteva muoversi. Giaceva per terra come una bestia morta, mani e piedi legati. E le membra gli pesavano quasi gli fossero diventate di piombo; e anche la testa. Era ferito? Lo avevano lasciato lì per morto?

No: ecco, confabulavano fuori della grotta. La sua sorte non era dunque decisa. Ma il ricordo di ciò che gli era accaduto gli si rappresentava ora, non già come d'una sciagura che gl'incombesse tuttavia e che gli suscitasse dentro qualche moto per tentare di liberarsene. No. Sapeva di non potere e quasi non voleva. La sciagura era compiuta, come avvenuta da gran tempo, quasi in un'altra vita, in una vita che forse gli sarebbe premuto di salvare, quando ancora le membra non gli pesavano così e non gli doleva tanto la testa. Ora non gl'importava più di nulla. Quella vita - pur essa miserabile - l'aveva lasciata laggiù, lontano lontano, dove lo avevano catturato: e qua ora c'era questo silenzio, così alto e vano, così smemorato.

Quand'anche lo avessero lasciato andare, non avrebbe avuto più la forza, fors'anche neppure il desiderio di tornare laggiù a riprendersela, quella sua vita.

Ma no, ecco: una gran tenerezza, di pietà per sé, gli risorse a un tratto e gli s'arruffò tutta dentro come in un brivido d'orrore, appena vide entrare uno di quei tre, carponi nella grotta, col viso nascosto da un fazzoletto rosso, forato all'altezza degli occhi. Gli guardò subito le mani. No, nessun'arma. Una matita nuova, di quelle da un soldo, non ancora temperata. E nell'altra mano, per terra, un rozzo foglietto di carta da lettere tutto brancicato, con la busta in mezzo. Alleggerito, senza volerlo, sorrise; mentre nella grotta entravano gli altri due, anch'essi carponi e bendati. Uno gli s'appressò e gli sciolse le mani soltanto. Il primo disse:

- Giudizio! Scrivete!

Gli parve di riconoscerlo alla voce. Ma sì, <I>Manuzza</I>; detto così perché aveva un braccio più corto dell'altro. Oh, e allora... Ma era proprio lui? Gli guardò il braccio manco. Lui, sì. E certo anche gli altri due avrebbe riconosciuti subito, se si fossero tolta la benda. Conosceva tutta la cittadinanza. Disse allora:

- Io, giudizio? Giudizio voi, figliuoli! A chi volete che scriva? Con che debbo scrivere? con questa?

E mostrò la matita.

- Perché? Non è matita?

- Matita, sì. Ma voi non sapete neppure come s'adopera.

- Perché?

- Ma bisognerà prima temperarla.

- Temperarla?

- Con un temperino, già, qua in punta...

- Temperino, niente!

E Manuzza ripeté:

- Giudizio! giudizio, sacramento!

- Giudizio, sì, Manuzza mio...

- Ah, - gridò questi. - M'avete riconosciuto?

- Abbi pazienza, ti nascondi la faccia e lasci scoperto il braccio? Levati codesto fazzoletto e guardami negli occhi. Fai questo, a me?

- Senza tante chiacchiere, - gridò Manuzza, strappandosi con ira il fazzoletto dalla faccia. - V'ho detto giudizio! Scrivete, o v'ammazzo!

- Ma sì, sono pronto, - si rimise il Guarnotta. - Quand'avrete temperato la matita. Però, se mi lasciate dire... Volete danari, è vero, figliuoli? Quanto?

- Tre mila onze!

- Tre mila? Non volete poco.

- Voi ce l'avete! Non facciamo storie!

- Tre mila onze?

- Più! più!

- Anche più, sì. Ma non a casa, in contanti. Dovrei vendere case, terre. E vi pare che si possa, così, da un giorno all'altro, e senza me?

- Vuol dire che se le faranno prestare!

- Chi?

- Vostra moglie e i vostri nipoti!

Il Guarnotta sorrise amaramente e provò a rizzarsi su un gomito.

- Volevo dirvi questo, appunto, - rispose. - Figliuoli miei, avete sbagliato. Contate su mia moglie e sui suoi nipoti? Se volete ammazzarmi, è un conto: sono qua: ammazzatemi, e non se ne parli più. Ma se volete danari, non potete averli che da me, e a patto di lasciarmi andare a casa.

- Che dite? a casa? Voi? Fossimo matti! Scherzate!

- E allora... - sospirò il Guarnotta.

Manuzza strappò di mano rabbiosamente il foglietto da lettere al compagno e ripeté:

- Senza tante chiacchiere, v'ho detto, scrivete! La matita... Ah già, bisogna temperarla... Come si tempera?

Il Guarnotta spiegò come; e i tre allora, dopo essersi guardati negli occhi, uscirono dalla grotta. Nel vederli uscire, così carponi, come tre bestie, non poté fare a meno di sorridere ancora una volta, il Guarnotta. Pensò che ora di là si sarebbero messi in tre a temperare quella matita, e che forse, a furia di potarla come un ramo d'albero, non ne sarebbero venuti a capo. Già, ma lui ne sorrideva, e forse la sua vita in quel punto dipendeva dalla ridicola difficoltà che quei tre incontravano in quell'operazione per loro nuova: forse, stizziti di vedersi mancare in mano la matita a pezzo a pezzo, sarebbero rientrati a fargli la prova che se i loro coltelli non erano buoni da temperare una matita, erano però buoni da scannarlo. E aveva fatto male, un errore imperdonabile aveva commesso a dichiarare a quel Manuzza d'averlo riconosciuto. - Ecco: si bisticciavano di là, sbuffavano, bestemmiavano... Certo, si passavano dall'uno all'altro quella povera matita da un soldo sempre più corta. Chi sa che coltelli avevano in mano, in quelle loro manacce scabre e cretose.

Eccoli che rientravano a uno a uno, sconfitti.

- Legno lasco, - disse Manuzza. - Una schifezza! Voi che sapete scrivere non ce n'avreste in tasca un'altra bell'e temperata, per combinazione?

- Non ce l'ho, figliuoli, - rispose il Guarnotta. - Ma è inutile, v'assicuro. Avrei scritto, se mi davate da scrivere; ma a chi? A mia moglie e a quei nipoti? Quei nipoti sono suoi e non miei, capite? E nessuno avrebbe risposto, siatene pur certi; avrebbero finto di non aver ricevuto la lettera minatoria, e addio. Se volete danari da loro, non dovevate buttarvi in prima su me: dovevate invece andare da loro e accordarvi: tanto - poniamo mille onze - per ammazzarmi. Non ve l'avrebbero date nemmeno; perché la mia morte, la desiderano sì, ma sono vecchio; se la aspettano dunque da Dio gratis e senza rimorsi, tra quattro giorni. Pretendete sul serio che vi diano un centesimo, un solo centesimo, per la mia vita? Avete sbagliato. La mia vita a me soltanto può premere. Non mi preme, ve lo giuro; ma certo, morire così, di mala morte, non mi piacerebbe; e solo per non morire così, vi prometto e giuro su la sant'anima di mio figlio che appena posso, fra due, tre giorni, verrò io stesso a portarvi il danaro al posto che m'indicherete.

- Dopo averci denunziato?

- Vi giuro di no! Vi giuro che non fiaterò con nessuno! Si tratta della vita!

- Ora. Ma quando sarete libero? Prima di andare a casa, andrete a fare la denunzia.

- Vi giuro di no! Certo, dovete aver fiducia. Pensate ch'io vado ogni giorno in campagna. La mia vita è là, tra voi; e io sono stato sempre come un padre per voi. Mi avete sempre rispettato, santo Dio, e ora... Pensate che vorrei espormi al rischio d'una vendetta? Abbiate fiducia, lasciatemi ritornare a casa e state sicuri che avrete il danaro...

Non risposero più. Tornarono a guardarsi negli occhi, e uscirono di nuovo dalla grotta, carponi.

 

Per tutta la giornata non li rivide più. Li udì un pezzo, dapprima, discutere fuori della grotta; poi non udì più nulla.

Aspettò, rivolgendo in mente tutte le supposizioni intorno a ciò che avessero potuto decidere. Gli parve certo questo: ch'era caduto in mano di tre stupidi, novizii, forse, anzi senza dubbio al loro primo delitto.

Ci s'erano buttati come ciechi, senza considerare prima le sue condizioni di famiglia; solo pensando ai suoi danari. Ora, convinti dello sbaglio commesso, non sapevano più, o non vedevano ancora, come cavarsene. Del giuramento che non sarebbero stati denunziati, nessuno dei tre si sarebbe fidato; meno di tutti Manuzza ch'era stato riconosciuto. E allora?

Allora, non gli restava da augurarsi altro, che a nessuno dei tre sorgesse il pentimento dello stupido atto compiuto invano, e insieme il desiderio di cancellarlo per rimettersi sulla buona via; che tutti e tre, invece, risoluti a vivere fuori d'ogni legge, a commettere altri delitti, non dovessero intanto curarsi di cancellare ogni traccia di questo primo e di gravarsene inutilmente la coscienza. Perché, riconosciuto lo sbaglio e risoluti a restare tre birbaccioni al bando, potevano fargli salva la vita e lasciarlo andare senza curarsi della denunzia; ma, se volevano ritornare sulla buona via, pentiti, allora per forza, a impedire la denunzia di cui si tenevano certi, dovevano assassinarlo.

Ne seguiva, che Dio doveva dunque ajutarlo ad aprir loro la mente; perché riconoscessero che nessun profitto si ricava a voler restare galantuomini. Cosa non difficile con loro, visto che la buona intenzione di gettarsi alla perdizione l'avevano dimostrata, catturandolo. Ma c'era da temere pur troppo del disinganno che avevano dovuto provare così a prima giunta, toccando con mano il grosso sbaglio commesso appena incamminati sulla nuova via. E fa presto un disinganno a cangiarsi in pentimento e in voglia di ritrarsi da un cammino che cominci male. Per tirarsene indietro, cancellandovi ogni orma dei primi passi, la logica, sì, portava a commettere un delitto; ma, a volerlo scansare, la stessa logica non li avrebbe portati ad avventurarsi per quel cammino in cerca d'altri delitti? E allora, meglio quest'uno qua a principio, che poteva restar nascosto e senza traccia, che tanti là allo scoperto e allo sbaraglio. A costo di quest'uno, potevano avere ancora speranza di salvarsi, se non di fronte alla loro coscienza, di fronte agli uomini; a volerlo scansare, si sarebbero certo perduti.

Conclusione di queste tormentose riflessioni: la certezza che oggi o domani, forse quella notte stessa, nel sonno, lo avrebbero assassinato.

 

Attese, fino a tanto che nella grotta non si fece bujo.

Allora, al pensiero che quel silenzio, e la stanchezza potessero su lui più della paura di cedere al sonno, sentì dalla testa ai piedi un fremito di tutto il suo istinto bestiale che lo spingeva, pur così con le mani e i piedi ancora legati, a uscir fuori della grotta a forza di gomiti, strisciando come un verme per terra; e dovette penar tanto a persuadere a quel suo istinto atterrito di fare quanto meno rumore fosse possibile; perché poi, tanto, che sperava sporgendo il capo come una lucertola fuori della tana? Niente! vedere il cielo almeno, e vederla lì fuori, all'aperto, con gli occhi, la morte, senza che gli fosse inflitta a tradimento nel sonno. Questo, almeno.

Ah, ecco... Zitto! Era lume di luna? Luna nuova, sì, e tante stelle... Che serata! Dov'era? Su una montagna... Che aria e che altro silenzio! Forse era il monte Caltafaraci, quello, o il San Benedetto... E allora, quello là? Il piano di Consòlida, o il piano di Clerici? Sì, e quella là verso ponente doveva essere la montagna di Carapezza. Ma allora quei lumetti là, esitanti, come sprazzi di lucciole nella chiaria opalina della luna? Quelli di Girgenti? Ma dunque... oh Dio, dunque era proprio vicino? E gli pareva che lo avessero fatto camminare tanto... tanto...

Allungò lo sguardo intorno, quasi gl'incutesse paura la speranza che quelli lo avessero lasciato lì e se ne fossero andati.

Nero, immobile, accoccolato come un grosso gufo su un greppo cretoso della montagna, uno dei tre, rimasto a guardia, si stagliava preciso nella chiara soffusione dell'albor lunare. Dormiva?

Fece per sporgersi un po', ma subito lo sforzo gli s'allentò nelle braccia alla voce di colui, che, senza scomporsi, gli diceva:

- Vi sto guardando, don Vicè! Rientrate, o vi sparo.

Non fiatò, come se volesse far nascere in colui il dubbio d'essersi ingannato, rimase lì quatto a spiare. Ma colui ripeté:

- Vi sto guardando.

- Lasciami prendere una boccata d'aria, - gli disse allora. - Qua si soffoca. Mi volete lasciare così? Ho sete.

Colui si scrollò minacciosamente:

- Oh! se volete restare costì, dev'essere a patto di non fiatare. Ho sete anch'io e sono digiuno come voi. Silenzio, o vi faccio rientrare.

Silenzio. E quella luna che rivelava tanta vista di tranquilli piani e di monti... e il sollievo di tutta quell'aria, almeno... e il sospiro lontano di quei lumetti là del suo paese...

Ma dov'erano andati gli altri due? Avevano lasciato a questo terzo l'incarico d'ucciderlo durante la notte? E perché non subito? Che aspettava colui? Aspettava forse nella notte il ritorno degli altri due?

Fu di nuovo tentato di parlare, ma si trattenne. Tanto, se avevano deciso così...

Volse gli occhi al greppo dove colui stava seduto: lo vide ricomposto nel primo atteggiamento. Chi era? Alla voce, poc'anzi, gli era parso uno di Grotte, grosso borgo tra le zolfare. Che fosse Fillicò? Possibile? Buon uomo, tutto d'un pezzo, bestia da lavoro, di poche parole... Se era lui veramente, guaj! Così taciturno e duro, se era riuscito a smuoversi dalla bontà, guaj.

Non poté più reggere; e, con una voce quasi involontaria, vuota d'ogni intenzione, quasi dovesse arrivare a colui come non proferita dalla sua bocca, disse senza domandare:

- Fillicò...

Colui non si mosse.

Il Guarnotta attese un pezzo e ripeté con la stessa voce, come se non fosse lui, con gli occhi intenti a un dito che faceva segni sulla rena:

- Fillicò...

E un brivido, questa volta, gli corse la schiena perché s'immaginò che questa sua ostinazione, di proferire il nome quasi senza volerlo, dovesse costargli, di rimando, una schioppettata.

Ma neanche questa volta colui si mosse; e allora egli esalò in un sospiro d'estrema stanchezza tutto l'orgasmo della disperazione e abbandonò per terra il peso morto della testa come se veramente non avesse più forza né voglia di sorreggerlo. Lì, con la faccia nella rena, con la rena che gli entrava nella bocca come a una bestia morta, senza più curarsi del divieto che colui gli aveva fatto di parlare, né della minaccia d'una schioppettata, si mise allora a parlare, a farneticare senza fine. Parlò della bella luna che ora, addio, sarebbe tramontata; parlò delle stelle che Dio aveva fatto e messo così lontane perché le bestie non sapessero ch'erano tanti mondi più grandi assai della terra; e parlò della terra che soltanto le bestie non sanno che gira come una trottola e disse, come per uno sfogo personale, che in questo momento ci sono uomini che stanno a testa all'ingiù e pure non precipitano nel cielo per ragioni che ogni cristiano che non sia più creta della creta, cretaccia ma proprio di quella vile su cui Dio santo ancora non ha soffiato, dovrebbe almeno curarsi di sapere.

E in mezzo a questo farnetichio si ritrovò d'improvviso che parlava davvero d'astronomia come un professore a colui che, a poco a poco, gli s'era accostato, ch'era anzi venuto a sederglisi accanto, lì presso l'entrata della grotta, e ch'era proprio lui, sì, Fillicò di Grotte, che le voleva sapere da tanto tempo quelle cose, benché non se ne persuadesse bene e non gli paressero vere: lo zodiaco... la via lattea... le nebulose...

Già. Così. Ma perché quando uno non ne può più, che le ha proprio esaurite tutte nella disperazione le sue forze, altro che questo gli può avvenire di buffo! si può mettere come niente, anche sotto la mira di un fucile, a nettarsi le unghie attentamente con un fuscellino, badando che non si spezzi e non si pieghi, o a tastarsi in bocca, sissignori, i denti che gli sono rimasti, tre incisivi e un canino solo; e sissignori, a pensare seriamente se sono tre o quattro i figliuoli del bottajo, suo vicino di casa, a cui da quindici giorni è morta la moglie.

- Parliamo sul serio. Ma dimmi un po': che ti pare che sono, per la Madonna, un filo d'erba?... questo filo d'erba qua che si strappa così, come niente? Toccami! Di carne sono, per la Madonna! e un'anima ho, che me l'ha data Dio come a te! Che mi volete scannare mentre dormo? No... sta' qua... senti... te ne vai? Ah, finché ti parlavo delle stelle... Senti che ti dico: scannami qua a occhi aperti, non mi scannare a tradimento nel sonno... Che dici? Non vuoi rispondere? Ma che aspetti? Che aspettate, si può sapere? Denari, non ne avrete; tenermi qua, non potrete; lasciarmi andare, non volete... Volete ammazzarmi? E ammazzami, corpo di Dio, e non se ne parli più!

A chi diceva? Quello era già andato a riaccoccolarsi sul greppo come un gufo, per dimostrargli che di questo - era inutile - non voleva sentir parlare.

Ma dopo tutto, che bestia anche lui! Non era meglio che lo uccidessero nel sonno, se dovevano ucciderlo? Anzi, più tardi, se ancora non si fosse addormentato, sentendoli entrare carponi nella grotta, avrebbe chiuso gli occhi per fingere di dormire. Ma già, che occhi! al bujo, poteva anche tenerli aperti. Bastava che non si movesse, quando sarebbero venuti a cercargli la gola, a tasto, come a un pecoro.

Disse:

- Buona notte.

E si ritrasse.

 

Ma non lo uccisero.

Riconosciuto lo sbaglio, né liberare lo vollero e neppure uccidere. Lo tennero lì.

Ma come, per sempre?

Finché Dio avrebbe voluto. Si rimettevano a Lui: presto o tardi, a seconda che Egli avrebbe voluto fare più o meno lunga la penitenza per lo sbaglio d'averlo catturato.

O che intendevano insomma? che egli morisse da sé, lassù, di morte naturale? Intendevano questo?

Questo, sì.

- Ma che Dio e Dio, allora! Pezzi d'animali, non m'ucciderà mica Dio, m'ucciderete voi così, tenendomi qua, morto di fame, di sete, di freddo, legato come una bestia, in questa grotta, a dormire per terra, a fare per terra qua stesso, come una bestia, i miei bisogni!

A chi diceva? S'erano rimessi a Dio, tutti e tre; e come se parlasse alle pietre.

Intanto, morto di fame, non era vero; dormire per terra, non era vero. Gli avevano portato lassù tre fasci di paglia per fargliene una lettiera, e anche un loro vecchio cappotto d'albagio, perché si riparasse dal freddo. Poi, pane e companatico ogni giorno. Se lo levavano di bocca, lo levavano di bocca alle loro creature e alle loro mogli per darlo a lui. E pane faticato col sudore della fronte, perché uno, a turno, restava lì di guardia, e gli altri due andavano a lavorare. E in quello ziretto là di terracotta c'era acqua da bere, che Dio solo sapeva che pena a trovarla per quelle terre assetate. Quanto poi a far lì per terra i suoi bisogni, poteva uscire dalla grotta, la sera, e farli all'aperto.

- Ma come? davanti a te?

- Fate. Non vi guardo.

Di fronte a quella durezza stupida e irremovibile si sarebbe messo a pestare i piedi come un bambino. Ma che erano, macigni? che erano?

- Riconoscete d'avere sbagliato, sì o no?

Lo riconoscevano.

- Riconoscete di doverlo scontare, questo sbaglio?

Sì, non uccidendolo, aspettando da Dio la sua morte e sforzandosi d'alleviargli per quanto potevano il martirio che gli davano.

- Benissimo! Ma questo è per voi, pezzi d'animali, per il male che voi stessi riconoscete d'aver commesso! Ma io? che c'entro io? che male ho commesso io? Sono sì o no la vittima del vostro sbaglio? E fate scontare anche a me, che non c'entro, il male che voi avete commesso? Devo patire io così, perché voi avete sbagliato? Così ragionate?

Ma no: non ragionavano affatto, loro. Stavano ad ascoltarlo, impassibili, con gli occhi fermi e vani, nelle dure facce cretose. E qua la paglia... e lì il cappotto... e lo ziretto dell'acqua... e il pane col sudore della fronte... e venite a cacare all'aperto.

Non si sacrificavano forse, uno alla volta, a star lì di guardia e a tenergli compagnia? E lo facevano parlare delle stelle e delle cose della città e della campagna, delle buone annate d'altri tempi, quando c'era più religione, e di certe malattie delle piante che prima, quando c'era più religione, non si conoscevano. E gli avevano portato anche un vecchio <I>Barbanera</I>, trovato chi sa dove, perché ingannasse l'ozio, leggendo; lui che aveva la bella fortuna di saper leggere.

- Che diceva, che diceva quello stampato, con tutte quelle lune e quella bilancia e quei pesci e quello scorpione?

 

Sentendolo parlare, si svegliava in loro un'ingorda curiosità di sapere, piena di meraviglie grugnite e di sbalordimenti bambineschi, a cui egli, a poco a poco, cominciava a prender gusto, come a una cosa viva che nascesse da lui, da tutto ciò che in quei discorsi con loro traeva, come nuovo, anche per sé, dal suo animo ormai da tanti anni addormentato nella pena della sua incresciosa esistenza.

E sentiva, sì, che ormai cominciava a essere una vita anche per lui, quella; una vita a cui aveva preso ad adattarsi, caduta la rabbia davanti a una ineluttabilità che non gliela faceva più pensare precaria, quantunque incerta, strana e come sospesa nel vuoto.

Già per tutti là, al suo podere lontano affacciato sul mare, e nella città di cui nella notte vedeva i lumi, egli era morto. Forse nessuno s'era mosso a far ricerche, dopo la sua scomparsa misteriosa; e seppur lo avevano ricercato, lo avevano fatto senza impegno, non premendo a nessuno di ritrovarlo.

Col cuore ridotto più arido e squallido della creta di quella grotta, che gl'importava ormai di ritornare vivo là, a quella vita di prima? aveva veramente qualche ragione di rimpianto per tutte le cose che qua gli mancavano, se il riaverle là doveva essere a costo dell'amara noja di prima? Non si trascinava là, in quella vita col peso addosso, d'un tedio insopportabile? Qua, almeno, ora stava sdrajato per terra e non si trascinava più.

Le giornate gli passavano, in quel silenzio d'altura, quasi fuori del tempo, vuote d'ogni senso e senza scopo. In quella vacuità sospesa anche la stessa intimità della coscienza gli cessava: guardava la sua spalla e la creta accanto della grotta, come le sole cose che esistessero; e la sua mano, se vi fissava gli occhi, come se esistesse, così solo per se stessa; e quel sasso e quello sterpo, in un isolamento spaventoso.

 

Se non che, avvertendo a mano a mano che quanto gli era occorso non era poi per lui tutta quella sciagura che in principio, per la rabbia dell'ingiustizia, gli era apparsa, cominciò anche ad accorgersi che davvero era una ben dura e grave punizione, a cui da se stessi quei tre s'erano condannati, il tenerlo ancora in vita.

Morto com'era già per tutti, restava vivo solo per essi, vivo e con tutto il peso di quella vita inutile, di cui egli ora, in fondo, si sentiva liberato. Potevano buttarlo via come niente, quel peso che non aveva più valore per nessuno, di cui nessuno più si curava; e invece, no, se lo tenevano addosso, lo sopportavano rassegnati alla pena che da loro stessi s'erano inflitta, e non solo non se ne lagnavano, ma veramente facevano di tutto per rendersela più gravosa con le cure che gli prodigavano. Perché, sissignori, gli s'erano affezionati, tutti e tre, come a qualche cosa che appartenesse a loro, ma proprio a loro soltanto e a nessun altro più, e dalla quale misteriosamente traevano una soddisfazione, di cui, seppur la loro coscienza non sentiva il bisogno, avrebbero per tutta la vita avvertito la mancanza, quando fosse venuta loro a mancare.

Fillicò un giorno portò su alla grotta la moglie, che aveva un bimbo attaccato al petto e una ragazzetta per mano. La ragazzetta recava al <I>nonno</I> una bella corona di pan buccellato.

Con che occhi erano rimaste a mirarlo, madre e figlia! Dovevano essere passati già parecchi mesi dalla cattura, e chi sa come s'era ridotto: la barba a cespugli sulle gote e sul mento; sudicio, strappato... Ma rideva per far loro buona accoglienza, grato della visita e del regalo di quel buon pane buccellato. Forse però era appunto il riso in quella sua faccia da svanito, che faceva tanto spavento alla buona donna e alla ragazzetta.

- No, carinella, vieni qua... vieni qua... Tieni, te ne do un pezzetto; mangia... L'ha fatto mamma?

- Mamma...

- Brava! E fratellini, ne hai? Tre? Eh, povero Fillicò, già quattro figli... Portameli, i maschietti: voglio conoscerli. La settimana ventura, bravo. Ma speriamo che non ci arrivi...

 

Ci arrivò. Altro che! Lunga, proprio lunga volle Dio che fosse la punizione. Per più di altri due mesi la tirò!

Morì di domenica, una bella serata che lassù c'era ancora luce come se fosse giorno. Fillicò aveva condotto i suoi ragazzi, a vedere il nonno, e anche <I>Manuzza</I>, i suoi. Tra quei ragazzi morì, mentre scherzava con loro, come un ragazzino anche lui, mascherato con un fazzoletto rosso sui capelli lanosi.

I tre accorsero a raccoglierlo da terra, appena lo videro cadere all'improvviso, mentre rideva e faceva tanto ridere quei ragazzi.

Morto?

Scostarono i ragazzi; li fecero andar via con le donne. E lo piansero, lo piansero, inginocchiati tutti e tre attorno al cadavere, e pregarono Dio per lui e anche per loro. Poi lo seppellirono dentro la grotta.

Per tutta la vita, se a qualcuno per caso avveniva di ricordare davanti a loro il Guarnotta e la sua scomparsa misteriosa:

- Un santo! - dicevano. - Oh! Andò certo diritto in paradiso con tutte le scarpe, quello!

Perché il purgatorio erano certi d'averglielo dato loro là, su la montagna.

 

GUARDANDO UNA STAMPA

 

Un viale scortato da giganteschi eucalipti. A sinistra, un poggio con su in cima un ricovero notturno. Due mendicanti che confabulano tra loro per quel viale, e che hanno lasciato un po' più giù sulla spalletta una bisaccia e una stampella. Un'alba di luna che si indovina dal giuoco delle ombre e delle luci.

È una vecchia stampa, ingenua e di maniera, che quasi commuove per il piacere manifesto che dovette provare l'ignoto incisore nel far preciso tutto ciò che ci poteva entrare: questa zana qua, per esempio, a piè del poggio, con l'acqua che vi scorre sotto la palancola; e là quella bisaccia e quella stampella sulla spalletta del viale; il cielo dietro il poggio con quel ricovero in cima; e il chiaror lieve e ampio che sfuma nella sera dalla città lontana.

S'immagina che debba arrivare il rombar sordo della vita cittadina, e che qua tra gli sterpi del poggio forse qualche grillo strida di tratto in tratto nel silenzio, e che se la romba lontana cessi per un istante, si debba anche udire il borboglio fresco sommesso dell'acqua che scorre per questa zana sotto la palancola e il tenue stormire di questi alti alberi foschi. La luna che s'indovina e non si vede, quella bisaccia e quella stampella illuminate da essa, l'acqua della zana e questi eucalipti formano per conto loro un concerto a cui i due mendicanti restano estranei.

Certo, per fare da sentinelle alla miseria che va ogni notte a rintanarsi in quel ricovero su in cima al poggio, più bella figura farebbero, lungo questo viale, alberetti gobbi, alberetti nani, dai tronchi ginocchiuti e pieni di giunture storpie e nodose, anziché questi eucalipti che pare si siano levati così alti per non vedere e non sentire.

Ma la pena che fa tutta questa puerile precisione di disegno è tanta che vien voglia di comunicare a tutte le cose qui rappresentate, a questi due mendicanti che confabulano tra loro appoggiati alla spalletta del viale, quella vita che l'ignoto incisore, pur con tutto lo studio e l'amore che ci mise, non riuscì a comunicare. Oh Dio mio, un po' di vita, quanto può averne una vecchia stampa di maniera.

Vogliamo provarci?

 

Per cominciare, questi due mendicanti, uno mi pare che si potrebbe chiamare Alfreduccio e l'altro il Rosso.

La luna è certo che sale di là; da dietro gli alberi. E più volte, scoperti da essa, Alfreduccio e il Rosso si sono tratti più su, nell'ombra, lasciando al posto di prima, sulla spalletta, la bisaccia e la stampella. Parlano tra loro a bassa voce. Il Rosso s'è tirati sulla fronte gli occhialacci affumicati e, parlando, fa girare per aria la corona del rosario e poi se la raccoglie attorno all'indice ritto.

- La corona, sì: santa! ma sgranane pure i chicchi quanto ti pare, se poi non ti dai ajuto da te!

E dice che tutti i signori con l'estate se ne sono andati in villeggiatura, chi qua chi là; per cui l'unica sarebbe d'andare in villeggiatura anche loro.

Alfreduccio però è titubante. Non si fida del Rosso. È cieco da tutt'e due gli occhi, con una barbetta di malato, pallido, gracile. Insomma, civilino. Palpa con le mani giro giro le tese del tubino che gli hanno regalato da poco, e ripete con voce piagnucolosa:

- Ma noi due soli?

- Noi due soli, - miagola il Rosso, rifacendogli il verso. - Ti sto dicendo che bisogna andare da Marco domattina.

(Marco è un mendicante di mia conoscenza, a cui ho pensato subito, guardando questi due mendicanti della stampa. Può stare benissimo in loro compagnia perché, se questi due sono disegno di maniera, quello, pur essendo vivo e vero, come ognuno può andare a vederlo e toccarlo seduto davanti la chiesa di San Giuseppe con una ciotolina di legno in mano, non è meno di maniera di loro, uguale del resto a tanti altri che fanno con arte e coscienza il mestiere di mendicanti.)

Ma Alfreduccio seguita a non fidarsi e domanda:

- E se Marco non vorrà venire?

- Verrà, se andrai a dirglielo tu. È una bella pensata. Tutto sta a sapergliela presentare, là, come se venisse in mente a te: «Marco, che stiamo più a fare in città? Tutti i signori sono andati via in villeggiatura».

- <I>Marco, che stiamo più a fare in città?</I> - prende a recitare sotto sotto Alfreduccio, come un ragazzo che voglia imparare la lezione.

Il Rosso si volta a guardarlo; stende una mano e gli stringe le gote col pollice e il medio, schiacciandogli contemporaneamente con l'indice la punta del naso.

- Bello! - gli grida. - Mi fai il pappagallo?

Alfreduccio si lascia fare lo sfregio senza protestare.

E l'altro soggiunge:

- La carità, caro mio, chi te la fa? La gente allegra per levarti dai piedi. Chi soffre, non te ne fa; non compatisce: pensa a sé. Anche con una piccola sventura, crede alla sua e non vede la tua; e se lo vuoi fare capace, s'indispettisce e ti volta le spalle. Là là, in villeggiatura. Se Marco ti domandasse, come tu a me: «Ma noi due soli?» tu perché non ti fidi di me, lui perché non si fida di te; e tu allora glielo dici: «C'è anche il Rosso che ha tre piedi e sa le vie della campagna». Benché lui, Marco, di' la verità, ci veda un po' meglio di te?

- Meglio di me? - dice Alfreduccio maravigliato, e ride come uno scemo. - Se io non ci vedo niente!

- Eh via, Alfreduccio, tra compagni! Dimmi almeno che ci vedi poco!

- Ti dico niente: parola d'onore! E niente neanche Marco.

- Tanto meglio, allora! - conclude il Rosso. - Vi guiderò io. Ma bisognerebbe concertare qualche cosa. Mi sono morte quelle tre cavie ch'erano la mia ricchezza. Cerco da tanto tempo una bertuccia e non la trovo. Se tu non fossi tanto stupido, potresti almeno fare le veci delle cavie. Ho più di trecento pianete stampate proprio bene, per militari, ragazze da marito, giovani spose, vedove e vecchie. Tutto sta a sapere pescare giusto nelle caselline. Potresti imparare a trovare a tasto, subito, nella casella ch'io t'indicherei con qualche malizia combinata tra noi. Cieco come sei, farebbe effetto. Ma sempre Marco ci vuole. Tu, invece delle cavie; e Marco invece della bertuccia. Poeta; lo sai com'è? si mette a predicare che perfino i cani, oh, gli s'acculano davanti a sentire; noi mungiamo i signori villeggianti e sorteggiamo le pianete ai paesanelli. Più di questo non possiamo fare. Ti va?

- Eh, - sospira Alfreduccio, alzando le spalle. - Se Marco volesse venire...

- Mi secchi, - sbadiglia il Rosso, e si gratta con tutt'e due le mani la testa arruffata. - Ne riparleremo domani. Intanto, guarda: va' a prendermi la stampella che ho lasciato laggiù.

- Dove? - domanda Alfreduccio senza voltarsi.

- Laggiù! Va' rasente alla spalletta, e cerca a tasto; così impari. Guarda che c'è pure la bisaccia.

Alfreduccio si muove, a testa alta, una mano sulla spalletta. Quand'è a un passo dalla stampella si ferma e domanda:

- Ancora?

- Ma costà, non vedi: ci sei! - gli grida il Rosso; poi scoppia a ridere; si dà una rincalcata al cappellaccio e, balzelloni, con quattro gambate lo raggiunge; gli prende la faccia tra le mani; gliela alza verso la luna e gli osserva da vicino gli occhi tumidi, orribili, sghignandogli sul muso:

- Tu ci vedi, cane!

Alfreduccio non si ribella: attende con la faccia volta alla luna che quello gli esamini ben bene gli occhi, poi domanda come un bambino:

- Ci vedo?

- Ma, sai? - dice allora il Rosso, lasciandolo, - dopo tutto, dovendo fare il cieco, è una fortuna.

 

Due giorni dopo, per tempo, eccoli con Marco per lo stradone polveroso, il Rosso in mezzo, Alfreduccio a sinistra, Marco a destra; l'uno a braccetto e l'altro reggendo un lembo della giacca del Rosso.

Marco, il Poeta, ha una dignitosa e serena aria da apostolo, col petto inondato da una solenne barba fluente, un po' brizzolata. La sua cecità non è orribile come quella d'Alfreduccio. Gli occhi gli si sono disseccati; le palpebre, murate. E va come beandosi dell'aria che gli venta sulla bella faccia di cera. Sa d'avere un dono prezioso, il dono della parola; e la vanità di farsi conoscere anche nei paesi vicini lo ha forse indotto ad accompagnarsi con quei due. (Bisogna ch'io supponga così, perché i due mendicanti della stampa so di certo che Marco non se li farebbe compagni per nessun'altra ragione.)

Il Rosso è scaltro. Per entrargli in grazia, a un certo punto gli domanda:

- Sei andato a scuola, tu Marco, da ragazzo?

Marco accenna di sì col capo.

- Anch'io, - vuol far sapere Alfreduccio. - Fino alla terza elementare.

- Zitto tu, bestia! - gli dà sulla voce il Rosso. - Ti vuoi mettere col nostro Marco che mi figuro deve sapere anche il latino?

Marco accenna di sì un'altra volta; poi stropiccia la fronte e dice con gravità:

- Latino, italiano, storia e geografia, storia naturale e matematica. Arrivai fino alla terza del ginnasio.

- Uh, e quasi quasi allora ti potevi far prete!

- Sì, prete! Avrò avuto appena tredici anni quando ammalai d'occhi e mio padre mi levò dalle scuole per mandarmi dalla zia in città a curarmi.

- Già, perché tu nasci bene, lo so,

Gli scaltri però non sempre riescono a valersi a lungo della loro scaltrezza, tenendola nascosta; non resistono alla tentazione di scoprirla, specie quando li obblighi ad avvilirsi e colui su cui la esercitano si mostri soddisfatto del loro avvilimento.

- È vero, - soggiunge infatti il Rosso, - che tuo padre era scrivano in un botteghino del lotto e che si metteva in tasca, dice, le poste dei gonzi che andavano a giocare? Io non ci credo.

- Io, sì, - risponde secco secco Marco.

- Ah sì? Ma faceva bene, sai? Benone! Vedendo tutto quel danaro sprecato, povero galantuomo, lui n'avrà avuto bisogno. Lo capisco. Sicché dunque accecasti in città?

- Vuoi farmi parlare? - dice Marco. - In città, sì. Da quella mia zia, ch'era monaca di casa.

- Che t'insegnò la Bibbia, è vero?

- M'insegnò... La leggeva; l'imparai.

- Sorella di tuo padre?

- Sì. Me la ricordo appena. Tirava certi calci!

- Calci?

- Stentava a leggere; s'arrabbiava...

- ...e tirava calci?

- Perché io le suggerivo le parole che lei stentava a leggere. Non voleva. Le voleva leggere da sé. Ero già accecato. Mi dicevano di no; che m'avrebbero fatto l'operazione, quando... non so, dicevano che si doveva maturare. E aspettavo. Ma mi annojavo lì in casa della zia: volevo ritornare al mio paese, e piangevo. Zia alla fine si seccò e mi disse che al paese non avevo più nessuno, perché mio padre, perduto l'impiego, era partito per l'America. Per l'America? E come? Mi avevano abbandonato là, solo, in casa della zia? Ma seppi poi che cosa significava quell'America. L'altro mondo. Me lo disse la serva, quando mi morì anche la zia. Già due volte avevo cambiato casa, stando con lei e non sapevo dove mi fossi ridotto ad abitare. Vedevo ancora come in sogno casa mia, e mi credevo vestito come quando mio padre m'accompagnava a scuola. Ma la serva, due giorni dopo la morte di zia, mi prese per mano, mi fece scendere una scala che non finiva mai e mi condusse per istrada. Lì si mise a dir forte, mica a me, certe parole che io in prima non compresi: «Fate la carità a questo povero orfanello cieco, abbandonato, solo al mondo!». Mi voltai: «Ma che dici?». E lei: «Zitto bello, di' con me, e stendi la manina, così». La manina? Me la cacciai subito dietro come se avesse voluto farmi toccare il fuoco.

Alfreduccio, commosso, ha un brivido alla schiena che lo fa ridere:

- Allegri!

- Allegri, mannaggia Macometto! - gli fa eco il Rosso. - Dopo tutto, la professione t'è andata sempre bene, no?

- Benone, figurati! - esclama Marco. - Ma sai che potevo entrare in un ospizio, io, dove avrei potuto imparare qualche arte o mestiere da guadagnare: sonare il violino o il flauto, per esempio? Quanto mi sarebbe piaciuto il flauto! Ma anche gli studii avrei potuto seguitare. Quella invece mi sfruttò; mi tenne per più di dieci anni con sé... Quando ci penso!

- Non ci pensare più! - gli consiglia il Rosso. - Pensa piuttosto a svagarti in questi giorni, che ne hai bisogno. Mi sembri un Cristo di cera. Vedessi che bella giornata e che belle campagne!

- Ormai! - sospira Marco, scrollando le spalle. - Del resto, non t illudere, sai? Non c'è niente di niente, neanche per te.

- Come non c'è niente?

- Niente. Gli occhi, caro mio! Qua siamo due ciechi e mezzo. Metti che anche tu sii cieco tutto, e dove se ne va la tua bella giornata e la tua bella campagna?

Il Rosso si ferma un pezzetto a mirarlo, come per vedere se dica sul serio; poi scoppia a ridere,

- Oh, non ti sciupare! - gli dice. - Con me non serve, sai? Aspetta a fare il poeta quando saremo in mezzo alla gente.

- Ignorante! - esclama Marco. - Che c'entra il poeta? Fisica, caro mio.

- Fisica? Non ne mangio.

- Le cose, come sono, nessuno lo può sapere. Così mi consolo io. Tu dici qua. Sì: ci sono tante cose perché tu le vedi; mentre io no. Ma come sono, tu che le vedi, mica lo sai meglio di me. E te lo spiego. Che vedi là?

- Una croce, che ci ammazzarono padron Dodo, l'altro anno.

- Volta; lo so. Di qua che vedi?

- Un pagliajo, con un pentolino in cima per cappello.

- E come ti pare? Giallo?

- Colore di paglia, direi.

- Di paglia, per te. La paglia, poi, per conto suo, chi sa cos'è, chi sa com'è. Sai dove sono i colori? Tu credi nelle cose? Che! Negli occhi sono. E bada, finché vedono la luce. Difatti, ne vedi tu colori di notte, stando al bujo? Sicché gli occhi, caro mio, vedono finto; con la luce.

- Aspetta, - dice il Rosso. - Ora me li cavo. Tanto, sono per finta.

- Ignorante! - ripete Marco. - Non dico questo. Tu vedi la cosa come i tuoi occhi te la fanno vedere. Io la tocco e me la figuro, con le dita. Dimmi un po', se pensi alla morte, che vedi anche tu? Nero più nero di questo mio. Davanti alla morte, ciechi tutti! ciechi tutti!

- E ora comincia la predica! - esclama il Rosso. - Sta' zitto, che qua non c'è nessuno!

Così difatti è solito cominciare le sue prediche Marco, quelle almeno più solenni e terribili. «Ciechi tutti! ciechi tutti!» e leva le braccia, agitando le mani per aria, mentre la faccia, col volume di tutta quella gran barba nera, gli si sbianca di più.

Un cieco che dica ciechi gli altri non è di tutti i giorni. E fa furore.

Ora il Rosso apprezza queste doti di Marco perché sa che gli fruttano bene; ma si può essere certi che stima sciocchi tutti coloro che gli fanno la carità. Vivendo per le campagne come un animale forastico, s'è formata anche lui una sua particolare filosofia, di cui, strada facendo, per non restare indietro a nessuno, vuol dare un saggio ai due compagni. Li pianta lì in mezzo allo stradone dicendo loro d'aspettare un pochino, perché ha riflettuto che Sopri è molto lontana e non potrebbero arrivarci se non dopo il tocco.

- Ragionate tra voi dei colori che non ci sono. Me li arrotolo e me li porto via con me sotto il braccio per cinque minuti. Tanto, a voi non servono!

- E dove vai? - domanda Alfreduccio.

- Qua vicino. Non temete, torno presto. Penso per tutti.

Alfreduccio allunga una mano per toccare Marco e stringersi a lui; non tocca nulla perché Marco gli sta dietro; e allora chiama:

- Marco!

- Eh? - fa questi, protendendo anche lui una mano, nel vuoto.

Ma basta a confortarli la voce, sentendosi almeno vicini.

- Bell'aria!

- Allegri!

Traggono un sospiro di sollievo udendo il tonfo cupo della stampella del Rosso.

- Eccomi, zitti! - dice questi, ansimando e trascinandoli via per lo stradone.

- Andiamo! andiamo!

Marco, costernato, sentendosi strappare avanti con tanta furia, domanda:

- Perché?

E Alfreduccio, arrancando dietro, chiede anche lui:

- Perché?

- Zitti! - impone loro il Rosso di nuovo. E finalmente, fermandosi a una svoltata dello stradone, acchiappa una mano d'Alfreduccio per fargli palpare qualcosa dentro la bisaccia.

- Gallina? - dice subito Alfreduccio.

Marco aggrotta le ciglia:

- L'hai rubata?

- No. Presa, - risponde il Rosso tranquillamente. Marco si ribella:

- Via subito a lasciarla dove l'hai rubata!

- Perché se la mangino i cani? È già morta!

- Non so niente! Buttala via! Se dobbiamo stare insieme, rubare niente! Te lo pongo per patto.

- Ma chi ruba? - dice il Rosso sghignazzando. - Lo chiami rubare tu, questo? Sì, forse in città. Ma qua siamo in campagna. Caro mio! La volpe sì, se le vien fatto, si prende una gallina, e io uomo no? Allarga le idee, all'aria aperta!

- Non allargo niente! - ribatte Marco, pestando un piede. - Me ne torno indietro, bada, a costo di rompermi l'osso del collo. Coi ladri non fo lega!

E si strappa da Alfreduccio che s'è afferrato con una mano al suo braccio.

Il Rosso lo trattiene:

- Eh via, che furia! Vuol dire che non ne mangerai, tu che sei tanto dabbene! Ma se la paglia, scusa, è paglia per me, perché la volpe poi ti deve parer ladra? Sarà ladra per te che hai comprato la gallina. Ma la volpe ha fame, caro mio; non è ladra. Vede una gallina? Se la prende.

- E tu che sei, volpe? - gli domanda Marco.

- No, - risponde il Rosso. - Ma essere uomo per te che vuol dire? Morire di fame?

- Lavorare! - gli urla Marco.

- Bravo, cane! E se non puoi?

- Faccio così!

E Marco stende una mano, in atto di chiedere l'elemosina.

Allora il Rosso, irresistibilmente:

- Puh!

Uno sputo su quella mano. Partito proprio dal fondo dello stomaco.

Marco diventa furibondo:

- Porco! Schifoso! Vigliacco! A me, uno sputo? T'approfitti che sono così?

E con quella mano da cui pende filando lo sputo, levata in aria per schifo, e con l'altra armata del bastone, cerca il Rosso che lo scansa dando indietro e sghignazzando.

Alfreduccio, più là, spaventato, si mette a gridare:

- Ajuto! ajuto!

Ma subito il Rosso gli è sopra e gli tura la bocca.

- Zitto, bestia! Ho fatto per ischerzo!

Marco pesta i piedi, si contorce dalla rabbia, curvo, e grida che vuol tornare indietro. Tra le mani del Rosso Alfreduccio, come un annegato, gli lancia una voce:

- E io con te, Marco!

Allora il Rosso lo caccia a spintoni:

- E andate a rompervi il collo tutt'e due! Voglio vedervi! Andate, andate!

I due si raggiungono, si prendono per mano, e via di furia, tastando coi bastoni la polvere dello stradone. Quella fretta arrabbiata di poveri impotenti che andando ballano dall'ira, provoca di nuovo le risa del Rosso che s'è fermato a guardarli., Se non che, a un certo punto, vedendo che alla svoltata seguitano a tirar via di lungo:

- Ferma! ferma, perdio! - si mette a gridare.

E correndo giunge appena in tempo a strapparli dal pericolo di precipitare giù nel burrone.

- Ecco, tieni, schiaffeggiami, - dice poi a Marco, lasciandosi prendere. - Sono qua.

Marco, ancora rabbioso, gli afferra la camicia sul petto e gli grida in faccia, come in confidenza:

- Ringrazia Dio, carogna, che non ho nulla addosso! Ti ammazzerei!

- Vuoi il coltello? Tieni, ammazzami, - fa il Rosso, cacciandosi una mano in tasca per finta di cercarvi il coltello. Ma scoppia a ridere di nuovo, scoprendo che Alfreduccio lo ha cavato di tasca per davvero, lui, sotto sotto. - Bello! - gli grida, agguantandogli la mano. - Ah, tu lo cacci per davvero? Bravo, rospo! E guarda com'è affilato! E fuori misura! Ma sai che potrei schiaffarti in catorbia come niente? Giù, lascialo, buttalo! Così... E a terra anche tu!

- Per carità! per carità! - geme Alfreduccio, buttandoglisi davanti in ginocchio.

- Che gli fai? - urla Marco.

- Niente, - dice subito il Rosso, raccattando con una mano il coltello e afferrando con l'altra un orecchio ad Alfreduccio. - Gli mozzo per segno quest'orecchio.

- No! - grida Alfreduccio con una strappata di testa e abbracciandogli le gambe, atterrito.

- Eh via, lasciami le gambe! Mi hai fatto ridere, - dice allora il Rosso. - Alzati e andiamo: finiamola! Se no, a Sopri ci arriveremo per l'anno santo. Andiamo, andiamo, E tieni qua il coltello, che ti può servire per il pane. Io ho fatto per ischerzo, Marco. Tu dici chiedere l'elemosina, come se questa non fosse anche la mia professione... Ma scusa, quando sono per le campagne, che ho fame e nessuno mi vede; se vedo una gallina, scusa, mica posso andare a chiederle: «Fammi un ovetto, cocca bella, per carità!». Non me lo fa. E allora io me la prendo, me l'arrosto e me la mangio. Tu dici che rubo; io dico che ho fame. Qua siamo in campagna, caro mio. Gli uccellini fanno così, i topi fanno così, le formiche fanno così... Creaturine di Dio, innocenti. Bisogna allargare le idee. E sta' pur sicuro che non prendo per arricchire, ché allora sì sarei ladro svergognato: prendo per mangiare; e chi muore muore. Sazio, non tocco neppure una mosca. Prova ne sia, che ho una pulce adesso che mi sta a succhiare una gamba. La lascio succhiare. Quantunque, di' un po', ci può essere bestia più stupida di questa pulce? Succhiare il sangue a me, il sangue mio che non può essere dolce, né puro, né nutritivo, e lasciare in pace le gambe dei signori!

Alfreduccio scoppia a ridere e fa ridere anche Marco che non ne ha nessuna voglia. Il sangue gli s'è tutto rimescolato; si sente come un gran fuoco alla testa; stenta a respirare.

Il Rosso se n'accorge e si mette in apprensione.

- Bisogna che tu ti riposi un poco, - gli dice. - Lascia fare a me. Lassù all'ombra.

Ajuta, prima l'uno e poi l'altro, a montare sul ciglio dello stradone e li pone a sedere all'ombra d'un grande platano; siede anche lui e dice all'orecchio d'Alfreduccio:

- Ho paura che non regga al cammino.

- Ho paura anch'io, - fa Alfreduccio. - Toccagli la mano. Scotta.

Il Rosso ha uno scatto d'ira:

- E che vorresti fare?

- Mah! Io direi...

- Di tornare indietro? Bel negozio ho fatto io a mettermi con vojaltri due! Lascialo riposare; vedrai che gli passerà tutto. Domando e dico che ci state a fare su la faccia della terra l'uno e l'altro! Neanche buoni a fare tre miglia a piedi! E ammazzatevi! Che vita è la vostra! Guarda che faccia, oh! Guarda che occhi! Fortuna che non ti vedi, caro mio!

Alfreduccio ascolta con un sorriso da scemo sulle labbra, appoggiato al tronco dell'albero.

- Ah tu ridi?

- Eh, - risponde Alfreduccio, - che vuoi che faccia?

- Ti vorrei mettere un fiore in bocca, - riprende il Rosso, - lavare, pettinare e vestire come un signore: poi condurti per le fiere: «Guardate, signori, che belle cose fa il buon Dio!». Chiudi codesta bocca, mannaggia! o te la muro con un pugno di terra! Non te la posso vedere così aperta.

Alfreduccio chiude subito la bocca; e allora il Rosso ripiglia con altro tono:

- Se arriveremo a Sopri, vedrai che raccoglieremo bene. Avendo poi qualche cosa da parte, non saremo forzati a trottar sempre. Potremo prendercela anche comoda e far davvero la villeggiatura anche noi. Sopri è un bel paese, sai? grande; e ci conosco parecchia gente, uomini e anche... anche donne, sì.

Sghignazza e soggiunge:

- Donne, tu... niente?

Alfreduccio gli mostra la faccia squallida, con la bocca di nuovo aperta a un ineffabile sorriso:

- Mai, - dice.

- E come hai fatto? Non ci hai mai pensato?

- Sì, sempre, anzi. Ma...

- Capisco. Ma i ciechi, sai (chiudi la bocca!), i ciechi con le donne oneste possono aver fortuna. Guarda, scommetterei che Marco, bell'uomo, avrà avuto le sue avventure. Perché la donna, capisci? tutto sta che possa farlo senza esser veduta. Un cieco, che non può sapere né dire domani con chi sia stato, è proprio quello che ci vuole per lei. E io so di tanti ciechi che sono ricercati e mandati a prendere fino a casa da certe vecchie... Ah, ma non brutti come te, però. Di', ti piacerebbe?

- Eh, - fa di nuovo Alfreduccio, stringendosi nelle spalle.

- Ebbene, a Sopri, se ci arriveremo, - promette il Rosso. - Ma tu persuadi Marco a seguirci.

- Sì sì, non dubitare, - s'affretta a dire Alfreduccio, con tale impegno che il Rosso scoppia a ridere forte.

Alla risata Marco, che s'è steso tutto per terra e addormentato, si sveglia di soprassalto e domanda spaventato:

- Chi è?

Il Rosso allunga una mano; gli tocca la fronte, e fa una smusata.

- Stai lì, stai lì, - gli dice, - dormi tranquillo.

Poi, volgendosi ad Alfreduccio:

- Ha la febbre per davvero, oh! e forte. Sai che faccio? Ti lascio qua di guardia e vado a vedere se mi riesce far cuocere in qualche posto la gallina. So bene come sono i galantuomini: la gallina no, non se la mangerà perché l'ho rubata; ma inzupperà certo il pane nel brodo che ne caveremo. Aspettami. Torno presto. E pensa intanto alle donne, tu; così starai allegro.

Alfreduccio riapre la bocca al suo riso da scemo. Il Rosso, scendendo, si volta a guardarlo, per un'idea che gli balena: strappa uno dei papaveri che avvampano al sole, lì sul ciglio, e va a ficcarne il gambo amaro in bocca ad Alfreduccio che subito stolza, facendo boccacce e sputando.

- Sciocco, sta' fermo! È un fiore. Apri la bocca. Ti voglio lasciare così, come uno sposino.

Torna a sghignazzare, e se ne va.

Alfreduccio resta fermo un pezzo con quel papavero in bocca. Ode dallo stradone ancora una risata del Rosso. Poi, più nulla.

- Marco!

Gli risponde un lamento.

- Ti senti molto male?

E Marco:

- Passa un carro. Buttamici sopra.

- Un carro? - fa Alfreduccio, tendendo l'orecchio. - No, sai. Non passa nessun carro. Vorresti tornare indietro? Appena verrà il Rosso, glielo diremo. Siamo nelle sue mani.

Marco scuote la testa su la terra. L'altro attende ancora un poco; poi, non sentendosi dire più nulla, rimane zitto anche lui. Tutt'intorno è un gran silenzio.

A un tratto Marco ha un sussulto e ritrae la mano dalla mano del compagno.

- Ch'è stato?

- Non so. M'è passata qualche cosa su la faccia.

- Foglia?

- Non so. Dormivo.

- Dormi, dormi. Ti farà bene.

Una voce lontana, di donna che passa cantando. Il vuoto s'allarga intorno ad Alfreduccio, di quanto è lontana quella voce. Con tutta l'anima nell'orecchio, egli cerca d'avvicinarsi a quella voce. Ma la voce tutt'a un tratto si spegne. E Alfreduccio rimane in ansia, costernato, non potendo più indovinare se quella donna si avvicini o si allontani. Si rimette in bocca il fiore.

- Le donne...

 

(Forse è meglio finire qui. Non val la pena stare ancora a far spreco di fantasia su questa vecchia stampa di maniera.)

 

LA PAURA DEL SONNO

 

I Florindi e i Lindori, dalle teste di creta dipinte di fresco, appesi in fila ad asciugare su uno dei cinque cordini di ferro tesi da una parete all'altra nella penombra della stanzaccia, che aveva sì due finestroni, ma più con impannate che con vetri, chiamavano la moglie del fabbricante di burattini, la quale si era appisolata con l'ago sospeso in una mano che pian pianino le si abbassava in grembo, davanti a un gran canestro tutto pieno di berrettini, di brachette, di giubboncini variopinti.

- <I>Parona bela!</I>

E l'appisolata si scoteva di soprassalto; si stropicciava gli occhi; si rimetteva a cucire. Uno - due - tre punti e, a poco a poco, di nuovo, ecco le palpebre socchiudersi e il capo pian pianino reclinarsi sul seno, come se volesse, un po' tardi veramente e con molto languore, dir di sì ai Florindi e ai Lindori: un sì che voleva dir no, perché le parrucchine, dormendo, non le faceva davvero quella buona signora Fana.

- <I>Neh, signo'!</I>, - chiamavano allora i Pulcinelli, dal secondo cordino.

L'appisolata tornava a scuotersi di soprassalto; si stropicciava gli occhi; si rimetteva a cucire. Uno - due - tre punti... ed ecco, di nuovo, le palpebre socchiudersi, il capo reclinarsi pian pianino, come se volesse dir di sì anche ai Pulcinelli. Ma, ahimè, non faceva neanche le casacche e i berrettoncini la buona signora Fana, così.

E aspettavano pure tocchi e toghe, maglie e brachette e manti reali, su gli altri cordoncini di ferro, giudici, pagliaccetti, contadinotti e Carlimagni e Ferraù di Spagna: tutto, insomma, un popolo vario di burattini e marionette.

Saverio Càrzara, marito della signora Fana, per questa sua svariata e ingegnosa produzione s'era acquistato il nome e la fama di <I>Mago delle fiere.</I> Realmente aveva la passione del suo mestiere, e tanto impegno, tanto studio e tanto amore poneva nel fabbricare le sue creaturine, quanto forse il Signore Iddio nel crear gli uomini non ne mise.

- Ah, quante cose storte hai tu fatte, Signore Iddio! - soleva infatti ripetere il <I>Mago.</I> - Ci hai dato i denti, e a uno a uno ce li levi; la vista, e ce la levi; la forza, e ce la levi. Ora guardami, Signore iddio, come m'hai ridotto! Di tante cose belle che ci hai date, nessuna dunque dobbiamo riportarne a te? Bel gusto, di qui a cent'anni, vedersi comparire davanti figure come la mia!

Egli, il <I>Mago</I>, ogni sera, vincendo lo stento con la pazienza, leggeva ogni sorta di libri: dai <I>Reali di Francia</I> alle commedie del Goldoni, per arricchirsi vieppiù la mente di nuove cognizioni utili al suo mestiere.

Gli era di conforto a quello studio un buon fiasco di vino. E leggeva ad alta voce, magnificamente spropositando. Spesso rileggeva tre e quattro volte di seguito lo stesso periodo, o per il gusto di ripeterselo, o per capirne meglio il senso. Talvolta, nei punti più drammatici e commoventi, a qualche frase d'effetto, chiudeva furiosamente il libro, balzava in piedi e ripeteva la frase ad altissima voce, accompagnandola con un largo ed energico gesto:

- <I>E lo bollò con due palle in fronte!</I>

Si raccoglieva, ci ripensava un po', e poi di nuovo:

- <I>E lo bollò con due palle in fronte!</I>

La moglie dormiva quietamente, seduta all'altro capo del tavolino, affagottata in un ampio scialle di lana. Di tanto in tanto il suo ronfo crescente infastidiva il marito, il quale allora interrompeva la lettura per mettersi a fare con le labbra il verso con cui si chiamano i gatti. La moglie si destava; ma, poco dopo, ripigliava a dormire.

Saverio Càrzara e la <I>signora</I> Fana (come ella si faceva chiamare: - Perché io veramente, di nascita e d'educazione, sono signora! -) erano da dodici anni uniti in matrimonio, e mai una lite, mai un malinteso avevano turbato la quiete laboriosa della loro casetta.

Da giovanotto, il Càrzara, sì, era stato un po' focoso, tanto che portava ancora i calzoni a campana a modo dei <I>guappi:</I> e forse avrebbe voluto pettinarsi ancora coi fiaccagote; ma i capelli, eh! gli erano caduti precocemente; avrebbe voluto fors'anche parlare con l'enfasi d'un tempo; ma la voce aveva adesso certi improvvisi ridicolissimi cangiamenti di tono, che don Saverio preferiva star zitto, e parlava solo quando non poteva farne a meno; e lo faceva ogni volta in fretta e arrossendo.

Al guasto dei capelli, all'infermità della voce s'era poi unita, a finir d'estinguere il giovanile fervore del <I>Mago</I>, l'indole placidissima della moglie.

Piccola di statura, stecchita, come di legno, la signora Fana pareva avesse lo spirito avvelenato di sonno: dormiva sempre, infusa come in un'aura spessa e greve di letargo; o si rintanava in un cupo, oscuro silenzio, rifuggendo in tutti i modi da ogni sensazione della vita.

Aveva accolto i primi impeti d'amore del marito come un lenzuolo bagnato un febbricitante. E così gli ardori del Càrzara a poco a poco si erano raffreddati.

Attendeva ora assiduamente al lavoro, senza mai stancarsi. Qualche volta, dimentico della infermità della voce, si provava a canticchiare, lavorando; smetteva però subito, non appena la dolorosa coscienza di quella ridicola infermità gli si ridestava; sbuffava, e continuava (come per ingannar se stesso) a modulare il motivo fischiando. S'intratteneva qualche sera un po' di soverchio col fiasco del vino; ma la placida moglie ci passava sopra, purché egli la lasciasse dormire.

Questa del continuo sonno della moglie era una spina che di giorno in giorno si faceva più pungente per il <I>Mago</I>. I burattini, è vero, esposti ignudi su i cordini di ferro non erano capaci di soffrire il freddo o la vergogna; ma, andando a lungo di questo passo, don Saverio si vedeva minacciato d'avere tra breve tutte le stanze invase dalle sue creaturine ignude e supplicanti la signora Fana di fornir loro, alla fine, la tanto attesa opera dell'ago. Senza contare che quattrini in casa non ne entravano davvero, seguitando così.

- Fana! - chiamava egli pertanto, dalla stanza attigua, in cui lavorava, e - Fana! - di lì a poco, se ella non rispondeva, e - Fana! Fana! - di mezz'ora in mezz'ora, per quanto era lunga la giornata. Finché stanco, per farla breve, di quella continua sorveglianza, prese un giorno il partito di lasciar dormire in pace la moglie e di dare a cucir fuori i varii indumenti delle sue creaturine. Era il meglio che potesse fare, perché la signora Fana, imbestiata nel sonno, infastidita dai continui richiami, cominciava a rispondere con poco garbo al marito.

- Questo sonno è la mia croce, - diceva il <I>Mago</I> a gli amici, di cui ascoltava ora con compiacimento le commiserazioni, e in ispecie quelle della vicina, a cui aveva rimesso l'incarico della fornitura del vestiario per i suoi burattini.

Con gli occhi bassi questa vicina parlava sospirando al Càrzara del marito defunto, «buon uomo, ma pigro, sant'anima!».

- Per il sonno e per il caldo del letto, vedete, ci siamo ridotti in questo stato... Lui, no, ormai: dorme in pace per sempre, poverino! ma io... mi vedete! Perciò vi dico che nessuno può compatirvi più di me...

E chi sa quanto e fino a qual punto avrebbe voluto davvero compatirlo, se il <I>Mago</I> col suo onesto contegno non avesse imposto fin da principio un limite alla vedova vicina.

- Badate se quel sonno non provenga da qualche malattia che cova! - gli suggeriva intanto qualche amico.

Il <I>Mago</I> si stizziva, scrollava le spalle.

- Non mi fate ridere! Mangia per due, dorme per quattro! Vorrei essere malato io, com'è malata lei!

 

Così, in quel tratto di via, non si parlava d'altro che del continuo sonno della signora Fana, passato quasi in proverbio.

Quand'ecco una mattina, poco prima di mezzogiorno, partire dalla casa del Càrzara grida e pianti disperati.

Tutto il vicinato e altra gente che si trovava a passare per via accorrono e trovano la signora Fana stesa immobile sul pavimento e il <I>Mago</I> che grida in ginocchio e piange davanti a lei:

- Fana! Fana! Fana mia! Non mi senti più? Perdono! Fana mia...

Poi, alla vista di tanta gente, comincia a percuotersi le guance:

- Assassino! Assassino! L'ho ammazzata io! Non l'ho curata! Io che credevo...

- Coraggio, su! coraggio... - gli ripetono attorno tante voci, nella confusione del momento. - Coraggio! Avete ragione, poveretto!

E alcune braccia lo strappano dalla morta, lo sollevano, lo trascinano in un'altra stanza, sorreggendolo; mentr'egli, con l'escandescenza del primo dolore, interrotto da singhiozzi, narra com'è avvenuta la disgrazia:

- Su la seggiola, là... Credevo che dormisse... «Fana! Fana!», la chiamo... - Ah Fana mia! Io t'ho ammazzata... - La chiamavo... Chi poteva supporre? - E lei, come poteva rispondermi? Morta, capite? Così, su la seggiola! Me le accosto per scuoterla, pian piano... e lei... oh Dio! me la vedo traboccare a testa giù, sotto gli occhi... Morta! morta! Oh Fana mia!

Il Càrzara siede inconsolabile, tra un crocchio d'amici; mentre la signora Fana è sollevata da terra e messa a giacere sul letto, subito assiepato da curiosi che si sporgono a guardare di su le spalle dei più vicini. Ha gli occhi chiusi, la buona signora Fana, e pare che dorma placidamente; ma è fredda e pallida, come di cera. E c'è chi vuol sentire quanto le pesi il braccio; chi le tasta la fronte, vincendo il ribrezzo, con paurosa curiosità; chi la rassetta addosso qualche piega della veste.

Il popolo delle marionette, appeso su i cordini di ferro, par che assista atterrito dall'alto a questa scena, con gli occhi immobili nell'ombra della camera. I pulcinelli, senza berrettoncini, par che se li siano levati dal capo per rispetto verso la morta: i Florindi e i Lindori, senza parrucchine, pare che se le sieno strappate nella disperazione del dolore; soltanto i paladini di Francia, chiusi nelle loro armature di latta o di cartone indorato, ostentano un fiero disdegno per quell'umile morte non avvenuta in campo di battaglia; e i piccoli Pasquini, dalle folte sopracciglia dipinte e il codino arguto sulla nuca, conservano la smorfia furbesca del sorriso che scontorce loro la faccia, come se volessero dire: «Ma che! ma che! La padrona fa per burla!».

Intanto, chi va, chi corre per un medico? - Un medico? Perché? - Povera signora Fana! Morta senza conforti religiosi! Le torce! - Quattro torce! - Sì, ma... il danaro? - Eccolo qua! - (una vicina lo appronta). Si va per il medico. - Ma è inutile! - Vestirla piuttosto! Bisogna vestirla! Dove saranno gli abiti? - Le vicine più premurose girano per la casa in cerca dell'armadio; ficcano il naso da per tutto. - Dov'è l'armadio? - E intanto a piè del letto c'è chi strappa le scarpe alla morta, mentre gli altri raccomandano: - Piano! Piano! - come se la piccola buona signora Fana si possa ancora far male. Arriva il medico, osserva, tra quella confusione, la giacente; poi domanda ai vicini: - Perché m'avete chiamato? -. Nessuno sa o attende a rispondergli, e il medico se ne va. Allora le vicine fanno sgomberare la stanza, e poco dopo la signora Fana è vestita e coperta da un lenzuolo.

Il <I>Mago</I>, sorretto per le ascelle, viene condotto davanti al letto di morte. La signora Fana su l'ampio letto è così esile e piccina, che s'indovina appena sotto il lenzuolo: due, tre lievi pieghe soltanto accusano il cadavere al lume giallognolo dei grandi ceri.

È già sopravvenuta la sera. Tre vicine veglieranno la morta tutta la notte. Quattro amici terranno in un'altra stanza compagnia al <I>Mago</I>.

- Ah, che spasimo qua... - si lamenta questi a tarda notte.

- Nel cuore? Eh, poveretto!

- No. - Don Saverio accenna alla guancia. - Come se ci avessi un cane addentato.

- Scherzi del dolore... - gli risponde uno degli amici.

E un altro gli propone, con esitanza:

- Per stordirlo, una fumatina...

Il terzo gli offre un sigaro.

- Ma che! No! - si schermisce il <I>Mago</I>, quasi offeso: - Fana è lì, morta; come faccio a fumare io qua?

Un quarto si stringe nelle spalle e osserva:

- Non vedo che male ci sarebbe, se non fumate per piacere...

E quell'altro gli offre di nuovo il sigaro (tentazione).

- Grazie, no... se mai, la pipa... - dice don Saverio, cavando, esitante, dalla tasca una vecchia pipa intartarita.

I quattro amici lo imitano.

- Come vi sentite adesso? - gli domanda uno, di lì a poco.

- Ma che! lo stesso... - risponde il <I>Mago</I>. - Arrabbio dal dolore.

- Forse, date ascolto a me, un goccetto di vino... - suggerisce il primo, rattristato e premuroso.

E gli altri:

- Certo!

- Meglio!

- Stordisce di più! La notte è così fredda!

- Ma vi pare che possa bere? - domanda mestamente don Saverio. - Fana lì morta... Se voi volete, senza cerimonie: di là ce ne dev'essere...

Uno degli amici si alza infreddolito e va a prendere il vino, seguendo le indicazioni del vedovo; non per sé, né per gli amici, ma per quel poveretto che ha mal di denti... Una bottiglia e cinque bicchieri. Man mano la conversazione s'avvia; triste. Resta al <I>Mago</I> il rimorso di non aver dato ascolto a chi gli aveva espresso il dubbio non fosse quel sonno continuo della moglie il segno manifesto d'una malattia che le covava dentro. Sì, così era: adesso, troppo tardi, egli ne aveva la prova nel fatto. Ma intanto... eh già, intanto bisognava pur farsi coraggio, rassegnarsi. Nessuna colpa volontaria, in fin dei conti, da parte sua: aveva lasciato dormire la moglie per non infastidirla più. La moglie invece era malata, dormiva, poverina, quasi per prepararsi all'ultimo sonno! Che ne sapeva don Saverio? Un giorno o l'altro quella disgrazia doveva pure accadere! Non era più vita, ormai! Meglio dunque presto che tardi, e per tante ragioni...

Così, a poco a poco, la bottiglia si votava, ma piano piano, senza glo glo. E finalmente ruppe l'alba.

Ai quattro angoli del letto le torce si erano a metà consumate, non ostante la cura d'una vicina che pazientemente aveva nutrito d'ora in ora le fiammelle coi gocciolotti raccolti dai fusti, perché contava di portarsi via i resti di quelle torce, mentre le altre due compagne dormivano placidamente accanto al letto funebre.

Vennero su le prime ore del giorno i portantini col cataletto.

I morti, al tempo del <I>Mago</I>, non si spedivano belli e incassati all'altro mondo: usavano altri mezzi di spedizione: i cataletti.

Tutto il vicinato era già in attesa, per accompagnare la defunta fino all'uscita del paese.

Don Saverio volle legare lui stesso con le sue mani i polsi della moglie con un nastrino di seta gialla, come usava allora; poi, ajutato da un amico, tolse dal letto la morta per le spalle e l'adagiò sul cataletto, e le pose sul seno un Crocifisso; la baciò in fronte e la contemplò un tratto attraverso le lagrime che gli sgorgavano abbondanti dagli occhi gonfi e rossi.

Un sacerdote, labbreggiando con gli occhi socchiusi un'orazione, benedisse il cadavere, e finalmente i portantini s'introdussero tra le stanghe del cataletto, si disposero su gli omeri le cinghie, e via.

Il Mago ricadde in preda ai quattro amici della veglia.

 

Andava il mortorio silenzioso per le vie della cittaduzza, a quell'ora deserte.

Il freddo era intenso, e andavano gli uomini stretti nelle spalle e con le mani in tasca, guardando il fiato vaporare nell'aria rigida invece del fumo della pipa che non accendevano per rispetto alla morta; andavano le donne avvolte negli scialli neri di lana o nelle mantelline di panno, conversando tra loro a bassa voce; e borbottando orazioni, le vecchie. Di tratto in tratto il mortorio s'arrestava, e i portantini si davano il cambio.

La via che conduceva al camposanto, situato in alto, in cima al colle che sovrasta la cittaduzza, svoltava bruscamente al cominciare dell'erta, fuori dell'abitato. Proprio al gomito sorgeva un vecchio albero di fico dal tronco ginocchiuto e dai rami aspri e stravolti, coi quali sbarrava quasi il passaggio. Quest'albero di fico, guardiano della via del cimitero, non era stato abbattuto, perché, rendendo così, coi suoi rami, difficile il transito ai morti, pareva ai vivi di buon augurio.

Giunto presso all'albero, già il codazzo del mortorio si sbandava, quand'ecco, a un tratto, avendo i portantini nel darsi un ultimo cambio lasciato impigliar le vesti della morta tra i rami del fico più sporgenti, la signora Fana, solleticata alle gambe, alle mani, al volto, dalle foglie dell'albero, tra le grida d'orrore di tutta la gente, sorgere a sedere sul calaletto, coi polsi legati, cerea, sbalordita di trovarsi in quel luogo, all'aria aperta, tra tanto popolo che le urlava intorno raccapricciato.

Per volere di Dio o per mano del diavolo, la piccola signora Fana era risuscitata; e forse il merito spettava più al diavolo, a giudicare almeno dalla prova che della sua resurrezione volle subito dare spezzando il nastro che le legava i polsi per scagliare contro la gente che la intronava il crocifisso trovatosi in grembo. Scesa poi dal cataletto con le mani tra i capelli, fu circondata dalle amiche, dai curiosi che avevano seguito il mortorio. In un baleno si sparse, volò la nuova della resurrezione, e gente accorreva da ogni parte, a vedere il miracolo.

- Miracolo! Miracolo!

E la piccola signora Fana non trovava parole da rispondere; stordita, oppressa, tempestata di domande, di cure, guardava in bocca la gente. - Una sedia! Una sedia! - Non si reggeva in piedi? - I piedi? - Come si sentiva? - Aria! Aria! Largo! - I piedi? - Come! le facevano male i piedi?

- Sì... ho le scarpe strette, che non mettevo più da un anno... - risponde la signora Fana, guardandosi i piedi, seduta.

I più vicini ridono; le tolgono le scarpe.

- Voglio tornare a casa... - riprende la signora Fana.

Sorge allora un contrasto tra la folla raccolta.

- Per carità! Non la fate andare subito a casa! - raccomandano alcuni.

- Subito! Subito! - tempestano altri.

- No! Preparate alla notizia il marito! Potrebbe impazzire!

- È giusto! È giusto! - si grida di qua; ma di là, sollevando in trionfo la sedia su cui la signora Fana sta seduta: - A casa! A casa!

- No! Prima in chiesa! A ringraziare Dio!

- A casa! A casa!

Da quel pandemonio, intanto, tre, quattro vicini di casa del <I>Mago</I> scappano di corsa per prepararlo al fausto avvenimento, prima che arrivi la processione che va gridando in delirio per le vie:

- Miracolo! Miracolo!

- Cose che avvengono... - spiega invece sorridendo un medico mattiniero in una farmacia. - Una sincope cessata a tempo, per fortuna!

Intanto i vicini accorsi a dare l'annunzio, pervenuti in casa di Càrzara, lo trovano tra i quattro amici della veglia, se non del tutto confortato, già quasi calmo. Discorre dei suoi burattini e dell'arte sua, fumando e bevendo con gli altri, a sorsellini, senza aver l'aria di badare a quello che fa. La mestizia, sì, è rimasta nella voce, poiché il discorso è partito dalla disgrazia della moglie che da molto tempo non lo ajutava più nel suo lavoro; ma ne parla come se fosse morta da più d'un anno. Gli amici gli lodano le sue creaturine, e lui se ne compiace; ne ha presa anzi una a caso da un cordino, e la mostra ai quattro ammiratori.

- Guardate... no, vi prego, guardate bene. In coscienza, chi li lavora più così? Questi non si rompono neanche se li sbattete su le corna del Tubba che osa dirsi mio rivale! È facile che un bambino, fattura di Dio, muoja; ma questi che faccio io campano cent'anni, parola d'onore! La ragione c'è: figli non ne ho avuti, mi capite? I miei figli sono stati sempre questi qua.

Ma la strana animazione che è nei volti dei sopravvenuti tutti ansanti, esultanti, sorprende il <I>Mago</I> e i quattro compagni.

- Una buona notizia, don Saverio!

- No, cioè... sì... una notizia che vi farà piacere...

- Che notizia?

- Ma... ecco, dicono... che tante volte... sì, uno si inganna e che poi non è vero... in certe malattie...

- Miracoli della Madonna, ecco! - esclama uno, con gli occhi spiritati, non sapendo più contenersi.

- Che miracoli? che malattie? Parlate - fa il <I>Mago</I> alzandosi, inquieto.

Ma già comincia a farsi sentire dal fondo della via il clamore confuso della processione.

- Vostra moglie, sentite?

- Ebbene?... Ebbene?... - balbetta don Saverio impallidendo, poi, a un tratto, arrossendo.

- Non è morta? - domanda stupito uno dei quattro compagni.

- No, don Saverio, no! sentite? ve la por... Oh Dio, don Saverio! Che avete?

Il <I>Mago</I> si abbandona sulla seggiola, privo di sensi.

- Aceto! Aceto! Fategli vento!

Il clamore della processione cresce, s'avvicina vie più, diviene assordante. La popolazione è già sotto la casa del <I>Mago</I>. E invano i primi accorsi e due dei compagni si sbracciano a far cenni, a zittire dal balconcino: nessuno dà loro retta; e già la signora Fana, calata tra gli evviva dalle spalle dei portatori, si alza dalla seggiola, confusa, imbalordita dai mille rallegramenti che le piovono da tutte le parti.

- Zitti! Zitti, perdio! È svenuto! Lo fate impazzire!

La signora Fana, seguita da gran moltitudine di gente, sale la scala - la casa è inondata - don Saverio non rinviene.

- Saverio! Saverio! Saverio mio! - lo chiama la moglie, abbracciandolo.

- Adesso muore il marito! - esclama la gente qua e là.

Finalmente il Mago si rià. Marito e moglie s'abbracciano piangendo dalla gioja, a lungo a lungo, tra i battimani e gli evviva di tutti. Don Saverio non sa credere ancora ai suoi occhi.

- Ma come? È vero? È vero?

E tocca, stringe, torna ad abbracciare la moglie, piangendo.

- È vero? È vero?

Poi, come impazzito dalla gioja, si mette a trar salti da montone e con le mani scuote, agita, scompiglia su i cordini di ferro i burattini e le marionette, invitando gli altri a far lo stesso.

- Così! Così! facciamoli ballare! Su! su! Ballare! Balliamo tutti, perdio!

E mille braccia minuscole, mille gambette di legno si agitano scompostamente, con furia pazza, in pazzo tripudio, tra le risa e le grida della gente. I più ridicoli di tutti sono i piccoli Pasquini, con la faccia scontorta dalla smorfia furbesca: - «Lo dicevamo noi che la padrona faceva per burla!». E danzano e dondolano allegramente.

A poco a poco, intanto, i curiosi sgombrano la casa: rimangono i più intimi del vicinato: una dozzina di persone.

- A pranzo! a pranzo! Tutti quanti a pranzo con me! - propone il <I>Mago</I>.

E tiene una seconda festa di nozze.

 

Ma, terminata la festa:

- Badate adesso, don Saverio! - gli ricordano gli amici sottovoce, prima di partirsi. - Badate che vostra moglie non si rimetta a dormire come per l'addietro... Badate!

Da quella notte stessa, cominciò per il <I>Mago</I> una vita d'inferno.

Nulla di più naturale che, di notte, santo Dio, la moglie dormisse. Ma egli non poteva più vederla dormire. La toccava leggermente per sentire se non era fredda; si levava su un gomito per discernere al lume del lampadino da notte se la coperta sulla moglie si movesse al ritmo del respiro; e, non contento, accendeva la candela per meglio esaminarla, se non era troppo pallida... Fredda non era, e respirava, sì; ma perché così piano e a lento? perché così placida?

- Fana... Fana... - chiamava allora a bassa voce, per non svegliarla di soprassalto.

- Ah... chi è?... che vuoi?

- Nulla... sono io... Ti senti male?

- No. Perché? Dormivo...

- Bene... dormi, allora, dormi!

- Ma perché mi hai svegliata? Come faccio adesso a riaddormentarmi?

Anche la signora Fana, ora, aveva paura del sonno; smaniava sul letto, con gli occhi sbarrati, angosciata dal terrore, come in attesa che qualcosa a un tratto dovesse mancarle dentro. Ma le notti che era così smaniosa e non dormiva, il <I>Mago</I> era contentone e dormiva lui, invece, fino a tanto però che la moglie, trambasciata dall'insonnia e dalla paura, non lo svegliava a sua volta.

Così, a nessuno dei due recava riposo la notte. Di giorno, poi, era un altro continuo tormento.

Non dormendo la notte, il sonno naturalmente li coglieva spesso durante la giornata. Ma don Saverio lo scacciava per sorvegliare la moglie la quale minacciava d'addormentarsi, come prima, sulla seggiola. Per divagarla, la intratteneva in discorsi sciocchi e senza nesso, poiché la costante costernazione gl'inaridiva la fantasia.

E pretendeva che la moglie stesse ad ascoltarlo!

- Figli miei, ajutatemi voi! - esclamava il <I>Mago</I>, rivolgendosi ai burattini.

Ne toglieva due dai cordini di ferro, e ne dava uno in mano alla moglie.

- Tieni, tu reggi questo...

- Per far che? - domandava sorpresa la signora Fana.

- Sta' a sentire: ti faccio sbellicare dalle risa.

- Oh Dio, Saverio! Ti pare che sia una ragazzina?

- No. Ti rappresento una parte seria: della rotta di Roncisvalle... Sta' a sentire.

E si metteva a declamare, a casaccio, ripetendo le parole del libro, come gli sovvenivano alla memoria, e a far gestire furiosamente la sua marionetta, mentre quella sorretta dalla signora Fana a poco a poco si piegava su le gambette, s'inginocchiava, come se, impaurita dagl'irosi gesti dell'altra, volesse chiederle misericordia.

- Fana! Perdio!

- Sì, parla... parla: ti sento!

- Non mi senti! Cava il brando!

- Cavo... cavo...

- Non cavi un corno! Stai dormendo!

- No...

Come no? - Giù una crollatina di capo! - La signora Fana dormiva.

Ah che disperazione per il <I>Mago</I>! Si sentiva stretto alla gola da una voglia rabbiosa di piangere, d'urlare. E non lavorava più: le schiere dei burattini e delle marionette s'assottigliavano di giorno in giorno, su i cordini di ferro, in ogni stanza della casa.

- <I>Parona bela!</I> - chiamavano i Florindi e i Lindori.

- <I>Neh, signo'!</I> - chiamavano i Pulcinelli.

Invano.

Alcuni di quei cordini parevano tesi ormai per le mosche che, con l'estate, ricominciavano ad abbondare. E quella casa, tanto tranquilla un tempo, rimbombava adesso delle liti tra marito e moglie, a causa del sonno.

Il <I>Mago</I> rovesciava le sue bollenti collere su la mobilia, sconquassava seggiole e tavolini, rompeva contro le pareti tazze, vasetti, boccali.

Questo supplizio durò parecchi mesi. Finalmente la morte ebbe pietà del povero <I>Mago</I>, e venne a togliersi, questa volta sul serio, la piccola signora Fana.

Un colpo apoplettico genuino, di pieno giorno, e mentr'ella non dormiva.

Quasi quasi, in principio, don Saverio non voleva prestarci fede. Ma, accertata da un medico la morte, si mise a piangere e a strillare come la prima volta. E volle vestir lui, con le sue mani, la morta; lui rimetterla sul cataletto e lui annodarle ancora una volta i polsi, mentre i singhiozzi gli rompevano il petto.

Però ai portantini, che già sollevavano il cataletto, non seppe tenersi dal dire, tra le lagrime:

- Ve la raccomando, poveretta! Fate piano. Passando davanti all'albero di fico, state bene attenti. Tenetevi al largo, quanto più potete, per carità!

 

LA LEGA DISCIOLTA

 

Al caffè, dove Bòmbolo stava tutto il giorno, col berretto rosso da turco sul testone ricciuto, un pugno chiuso sul marmo del tavolino in atto d'impero, l'altra mano al fianco, una gamba qua, una gamba là, guardando tutti in giro, senza disprezzo ma con gravità accigliata, quasi per dire: «I conti qua, signori miei, lo sapete, bisogna farli con me», venivano uno dopo l'altro i proprietarii di terre non soltanto di Montelusa, ma anche dei paesi del circondario, anche il vecchio marchese don Nicolino Nigrelli (quello che andava sempre col pomo d'avorio della mazzettina d'ebano sulle labbra appuntite, come se sonasse il flauto), anche il barone don Mauro Ragona, anche il Tavella, tutti insomma, con tanto di cappello in mano.

- Don Zulì, una grazia...

E Bòmbolo, all'atto deferente, subito - bisogna dirlo - balzava in piedi, si cavava il berretto, s'impostava sull'attenti e con la testa alta e gli occhi bassi rispondeva:

- Ai comandi, Eccellenza.

Erano le solite lagnanze e le solite raccomandazioni. Al Nigrelli erano spariti dalla costa quattro capi di bestiame; otto al Ragona dall'addiaccio; cinque al Tavella dalla stalla. E uno veniva a dire che gli avevano legato all'albero il garzone che li badava; e un altro, che gli avevano finanche rubato la vacca appena figliata, lasciando il buccelluzzo che piangeva e sarebbe morto di fame senza dubbio.

In prima Bòmbolo, invariabilmente, per concedere una giusta soddisfazione all'oltraggio patito, esclamava:

- Ah, birbanti!

Poi, giungendo le mani e scotendole in aria:

- Ma, padroni miei, padroni miei... Diciamo birbanti; in coscienza però, a voltar la pagina, quanto tirano al giorno questi birbanti? Tre «tarì» tirano! E che sono tre «tarì»? Oggi com'oggi, un uomo, un figlio di Dio che lavora, povera carne battezzata come Vossignoria, non come me, io sono turco - sissignore - turco... eccolo qua - (e presentava il <I>fez</I>) - dicevamo, un uomo che butta sangue con la zappa in mano dalla punta dell'alba alla calata del sole, senza sedere mai, altro che per mandar giù a mezzogiorno un tozzo di pane con la saliva per companatico; un uomo che le torna all'opera masticando l'ultimo boccone, dico, padrone mio, pagarlo tre «tarì», in coscienza, non è peccato? Guardi don Cosimo Lopes! Dacché s'è messo a pagare gli uomini a tre lire al giorno, ha da lagnarsi più di nulla? Nessuno più s'attenta a levargli... che dico? - (allungava due dita, si tirava dal capo con uno strappo netto un capello e lo mostrava) - è buono questo? neanche questo! Tre lire, signorino, tre lire sono giuste! Faccia come le dico io; e, se domani qualcuno le manca di rispetto, tanto a lei quanto alle bestie, venga a sputarmi in faccia: io sono qua.

In fine, cangiando aria e tono, concludeva: - Quanti capi ha detto? Quattro? Lasci fare a me. Vado a sellare.

E fingeva di mettersi in cerca di quei capi di bestiame per le campagne, due o tre giorni, cavalcando anche di notte sotto la pioggia e sotto lo stellato. Nessuno ci credeva, e nemmeno credeva lui che gli altri ci credessero. Sicché, quando in capo ai tre giorni, si presentava in casa o del marchese Nigrelli o del Ragona o degli altri, e questi lo accoglievano con la solita esclamazione: - «Povero don Zulì, chi sa quanto avete penato!» - egli troncava con un gesto reciso della mano l'esclamazione, chiudeva gli occhi con gravità:

- Lasciamo andare! - diceva. - Ho penato, ma li ho scovati. E prima di tutto le do parte e consolazione che alle bestie hanno dato stalla e cura. Dove stanno, stanno bene. I «picciotti» non sono cattivi. Cattivo è il bisogno. E creda che se non fosse il bisogno, per il modo come sono pagati... Basta, Pronti a restituire le bestie; però, al solito, Vossignoria m'intende... Oh, trattando con Vossignoria, e con me di mezzo, senza né patti né condizioni: la sua buona grazia, quello che il cuore le detta. E stia sicuro che stanotte, puntuali, verranno a riportarle su la costa le bestie, più belle di prima.

Gli sarebbe sembrata una mancanza di rispetto, così a sé come al signore, accennare anche lontanamente al sospetto, che quei bravi «picciotti» potessero trovare la notte in agguato guardie e carabinieri. Sapeva bene che, se il signore s'era rivolto a lui, era segno che stimava inutile il ricorrere alla forza pubblica per riavere le bestie. Non le avrebbe riavute, di sicuro. Nel riaverle così, mediante quel piccolo salasso di denari, con Bòmbolo di mezzo, ogni idea di tradimento doveva essere esclusa.

E Bòmbolo prendeva il denaro, cinquecento, mille, duemila lire, a seconda del numero delle bestie sequestrate, e questo denaro ogni settimana, il sabato sera, recava intatto ai contadini della Lega, che si raccoglievano in un fondaco su le alture di San Gerlando.

Qua si faceva la «giusta». Cioè, a ogni contadino che durante la settimana aveva lavorato per tre «tarì» al giorno (lire 1,25) veniva secondo giustizia computata la giornata in ragione di tre lire, e gli era dato il rimanente. Quelli che, non per colpa loro, avevano «seduto», cioè non avevano trovato lavoro, ricevevano sette lire, una per giorno; prima però venivano detratte, come per sacro impegno, le pensioncine settimanali assegnate alle famiglie di tre socii, Todisco, Principe e Barrera che, arrestati per caso di notte da una pattuglia in perlustrazione e condannati a tre anni di carcere, avevano saputo tacere; una parte della somma era poi destinata per gli sbruffi ai campieri e ai guardiani di bestiame che, d'intesa, si facevano legare e imbavagliare; il resto, se ne restava, era conservato come fondo di cassa.

Bòmbolo non toccava un centesimo, quel che si dice un centesimo. Erano tutte infamie, tutte calunnie quelle che si spargevano sul conto suo a Montelusa. Già egli non aveva bisogno di quel denaro. Era stato tanti anni nel Levante, e vi aveva fatto fortuna. Non si sapeva dove, precisamente, né come, ma nel Levante aveva fatto fortuna, certo; e non sarebbe andato appresso a quei pochi quattrinucci rimediati a quel modo. Lo dicevano chiaramente quel suo berretto rosso e l'aria del volto e il sapore dei suoi discorsi e quello speciale odore che esalava da tutta la persona, un odor quasi esotico, di spezie levantine, forse per certi sacchettini di cuojo e bossoletti di legno che teneva addosso, o forse per il fumo del suo tabacco turco, di contrabbando, che gli veniva dalle navi che approdavano nel vicino porto di mare, e con le quali egli era in segreti commerci, almeno a detta di molti, che per ore e ore certe mattine lo vedevano con quel fiammante cupolino in capo guardare, come all'aspetto, sospirando, l'indaco del mare lontano, se da Punta Bianca vi brillasse una vela... Aveva poi sposato una dei Dimìno, ch'erano notoriamente tra i più ricchi massari del circondario, massari buoni, di quelli all'antica, che avevano terre che ci si camminava a giornate senza vederne la fine; e zi' Lisciànnaru Dimìno e sua moglie, quantunque la loro figliola dopo appena quattr'anni di matrimonio fosse morta, gli volevano ancora tanto bene, che si sarebbero levata la camicia per lui.

Tutte calunnie. Egli era un apostolo. Egli lavorava per la giustizia. La soddisfazione morale che gli veniva dal rispetto, dall'amore, dalla gratitudine dei contadini che lo consideravano come il loro re, gli bastava. E tutti in un pugno li teneva. L'esperienza gli aveva insegnato che, a raccoglierli apertamente in un fascio perché resistessero con giusta pretesa all'avarizia prepotente dei padroni, il fascio, con una scusa o con un'altra, sarebbe stato sciolto e i caporioni mandati a domicilio coatto. Con la bella giustizia che si amministrava in Sicilia! Non se ne fidavano neanche i signori! Là, là nel fondaco di San Gerlando, amministrava lui, la giustizia, quella vera; in quel modo, ch'era l'unico. I signori proprietarii di terre volevano ostinarsi a pagar tre «tarì» la giornata d'un uomo? Ebbene, quel che non davano per amore, lo avrebbero dato per forza. Pacificamente, ohè. Senza né sangue né violenze. E col dovuto rispetto alle bestie.

Aveva un cartolare, Bòmbolo, ch'era come un decimario di comune, dove, accanto a ogni nome erano segnati i beni e i luoghi e il novero delle bestie grosse e delle minute. Lo apriva, chiamava a consulto i più fidati, e stabiliva con essi quali tra i signori dovessero per quella settimana «pagar la tassa», quali tra i contadini fossero più designati, o per pratica dei luoghi o per amicizia coi guardiani o perché d'animo più sicuro, al sequestro delle bestie. E raccomandava prudenza e discrezione.

- Il poco non fa male!

Questa era una delle sue massime favorite. Diventava terribile, ma proprio col sangue agli occhi e la bava alla bocca, quando s'accorgeva o veniva a sapere che qualcuno della Lega «voleva far la carogna», cioè non lavorare. Lo investiva, lo abbrancava per il petto, gli metteva le unghie nel viso, lo scrollava così furiosamente, che gli faceva cader dal capo il berretto e venir fuori la camicia dai pantaloni.

- Cima di birbante! - gli urlava in faccia. - Chi sono io? per chi mi vuoi far conoscere? per chi mi prendi tu dunque? per un protettore di ladri e di vagabondi? Qua sangue s'ha da buttare, carogna! sangue, sudori di sangue! qua tutti con le ossa rotte dalla fatica dovete presentarvi il sabato sera! O questo diventa un covo di malfattori e di briganti! Io ti mangio la faccia, se tu non lavori; sotto i piedi ti pesto! Il lavoro è la legge! Col lavoro soltanto acquistate il diritto di prendere per le corna una bestia dalla stalla altrui e di gridare in faccia al padrone: «Questa me la tengo, se non mi paghi com'è debito di coscienza i miei sudori di sangue!».

Faceva paura, in quei momenti. Tutti, muti come ombre, stavano ad ascoltarlo nel fondaco nero, mirando la fiamma filante del moccolo di candela ritto tra la colatura su la tavola sudicia come una roccia di cacio. E dopo la fiera invettiva si sentiva l'ansito del suo torace poderoso, a cui pareva rispondessero, dalla tenebra frigida d'una grotta, che vaneggiava in fondo, i cupi tonfi cadenzati delle gocce d'una cert'acqua amara, renosiccia, piombanti entro una conca viscida, dove alle volte qualche ranocchia quacquarava.

Se qualcuno ardiva di levare gli occhi, vedeva in quei momenti, dopo la sfuriata, un luccicore di lagrime, di lagrime vere negli occhi di Bòmbolo. Era vanto supremo per lui la testimonianza che gli stessi proprietarii di terre rendevano unanimi, che mai come in quei tempi i contadini s'erano dimostrati sottomessi al lavoro e obbedienti. Solo da questo riconoscimento poteva venir purificata, santificata l'opera ch'egli metteva per loro. Orbene, in quei momenti, vedeva ignominiosamente compromessa la giustizia che, sul serio, con santità, sentiva d'amministrare; compromesso il suo apostolato, il suo onore, per quell'uno che poteva infamar tutti. Sentiva enorme, allora, il peso della sua responsabilità, e ribrezzo per l'opera sua, e sdegno e dolore, perché gli pareva che i contadini non gli fossero grati abbastanza di quanto aveva loro ottenuto, di quel salario di tre lire che, batti oggi, batti domani, era riuscito a strappare all'avarizia dei padroni.

Per lui erano sacri, e sacri voleva che fossero tutti i socii della Lega, quelli che si erano arresi alla sua costante predicazione, concedendo il giusto salario. Se talvolta mancava il danaro e, cercando e ricercando nel cartolare, non si trovava chi, al solito, per quella settimana dovesse «pagar la tassa», qualcuno tra i consiglieri accennava timidamente a uno di quelli; Bòmbolo si voltava a fulminarlo con gli occhi, bianco d'ira e fremente. Quelli non si dovevano toccare!

Ma, allora?

- Allora, - scattava Bòmbolo, buttando all'aria il cartolare, - allora, piuttosto, salassiamo mio suocero!

E a due o tre contadini era assegnato il compito di recarsi la notte alle terre di Luna, presso la marina, per sequestrare sei o sette bestie grosse a zio Lisciànnaru Dimìno, che pure tra i primi s'era messo a pagare gli uomini a tre lire al giorno.

Poteva bastar questo a turare la bocca ai calunniatori. Salassando il suocero, Bòmbolo rubava a se stesso, perché l'unico erede dei Dimìno sarebbe stato un giorno il suo figliuolo. Ma piuttosto rubare a se stesso, al suo figliuolo, che far offesa alla giustizia. E che strazio ogni qual volta il vecchio suocero, che vestiva ancora all'antica, con le brache a mezza gamba, la berretta nera a calza con la nappina in punta e gli orecchini in forma di catenaccetti agli orecchi, veniva a trovarlo, appoggiato al lungo bastone, dalle terre di Luna, e gli diceva:

- Ma come, Zulì? così ti rispettano i tuoi? e che sei tu allora? broccolo sei?

- Mi sputi in faccia, - rispondeva Bòmbolo, succiando, con gli occhi chiusi, il fiele di quel giusto rimbrotto. - Mi sputi in faccia, che posso dirle?

Gli pareva ormai mill'anni che uscissero dal carcere quei tre socii, Todisco, Principe e Barrera, per sciogliere finalmente quella Lega, ch'era divenuta un incubo per lui.

Fu una gran festa, il giorno di quella scarcerazione, nel fondaco su a San Gerlando: si bevve e si danzò; poi Bòmbolo, raggiante, tenne il discorso di chiusura, e ricordò le imprese e cantò la vittoria, ch'era il premio per quei tre che avevano sofferto il carcere: il premio più degno, quello di trovare mutate le condizioni, onestamente retribuito il lavoro; e disse in fine che egli ora, assolto il compito, si sarebbe ritirato in pace e contento; e fece ridere tutti annunziando che quel giorno stesso avrebbe mandato il suo berretto rosso da turco al suocero, che non aveva saputo mai vederglielo in capo di buon occhio. Deponeva con quel berretto la sovranità, e dichiarava sciolta la Lega.

Non passarono neppure quindici giorni che, dimenandosi al solito di qua e di là, col pomo d'avorio della mazzettina d'ebano su le labbra appuntite, si presentò al caffè il vecchio marchese don Nicolino Nigrelli:

- Don Zulì, una grazia...

Bòmbolo diventò dapprima più bianco del marmo del tavolino e fissò con occhi così terribilmente spalancati il povero marchese, che questi ne tremò di paura e, traendosi indietro, cadde a sedere su una seggiola, mentre l'altro gli si levava sopra furente, ruggendo tra i denti:

- Ancora?

Quasi basito, eppur tentando un sorrisetto a fior di labbra, il marchese gli mostrò quattro dita della sua manina tremicchiante e gli disse:

- 'Gnorsì. Quattro. Al solito. Che c'è di nuovo?

Per tutta risposta Bòmbolo si strappò dal capo il cappelluccio nuovo a pan di zucchero, se lo portò alla bocca e lo stracciò coi denti. Si mosse, tutto in preda a un fremito convulso, tra i tavolini, rovesciando le seggiole, poi si voltò verso il marchese ancora lì seduto in mezzo agli avventori sbalorditi, e gli gridò:

- Non dia un centesimo, per la Madonna! Non s'arrischi a dare un centesimo! Ci penso io!

Ma potevano sul serio quei tre, Todisco, Principe e Barrera, contentarsi di quel tal «premio degno» decantato da Bòmbolo nell'ultima riunione della Lega? Se Bòmbolo stesso, negli ultimi tempi, aveva permesso che fosse salassato il proprio suocero, il quale pure tra i primi aveva accordato il salario di tre lire ai contadini, non potevano essi, per la giustizia, seguitare a salassar gli altri proprietarii?

Quando, alla sera, Bòmbolo, che li aveva cercati invano tutto il giorno da per tutto, li trovò su le alture di San Gerlando, e saltò loro addosso come un tigre, essi si lasciarono percuotere, strappare, mordere, malmenare, e anzi dissero che se egli li voleva uccidere, era padrone, non avrebbero mosso un dito per difendersi, tanto era il rispetto, tanta la gratitudine che avevano per lui. Li avrebbe uccisi però a torto. Essi non sapevano nulla di nulla. Innocenti come l'acqua. Lega? che Lega? Non c'era più Lega! Non la aveva egli disciolta? Ah, minacciava di denunziarli? Perché, per il passato? E allora, tutti dentro, e lui per il primo, come capo! Per quel nuovo sequestro al marchese Nigrelli? Ma se non ne sapevano nulla! Avrebbero potuto tutt'al più chiederne ai «picciotti»; mettersi in cerca per le campagne; già! come lui un tempo, per due e tre giorni, cavalcando anche di notte sotto la pioggia e sotto lo stellato.

Sentendoli parlare così, Bòmbolo si mangiava le mani dalla rabbia. Disse che dava loro tre giorni di tempo. Se in capo a tre giorni, senza il compenso neppure di un centesimo, i quattro capi di bestiame non erano restituiti al marchese Nigrelli... - che avrebbe fatto? Ancora non lo sapeva!

Ma che poteva ormai fare Bòmbolo? Gli stessi proprietarii di terre, il marchese Nigrelli, il Ragona, il Tavella, tutti gli altri, lo persuasero ch'egli non poteva più far nulla. Che c'entrava lui? quando mai c'era entrato? non era stata sempre disinteressata l'opera messa da lui? E dunque, che c'era adesso di nuovo? Perché non voleva più mettere l'opera sua? Rivolgersi alla forza pubblica? Ma sarebbe stato inutile! Che non si sapeva? Non avrebbero ottenuto né la restituzione delle bestie, né l'arresto dei colpevoli. Sperare poi che questi avrebbero ricondotto alle stalle le bestie, così, per amore, senz'averne nulla, via, era da ingenui. Loro stessi, i padroni, glielo dicevano. Una cosellina bisognava pur darla. Sì, al solito... oh, senza né patti né condizioni, essendoci lui, Bòmbolo, di mezzo!

E dal tono con cui gli dicevano queste cose Bòmbolo capiva che quelli ritenevano una commedia, adesso, il suo sdegno, come una commedia avevano prima ritenuta la sua pietà per i contadini.

Si sfogò per alcuni giorni a predicare che, almeno, si fossero rimessi a pagarli tre tarì al giorno, tre tarì, tre tarì, per dare a lui una soddisfazione. Non li meritavano, parola d'onore! neppure quei tre tarì meritavano, ladri svergognati! figli di cane! pezzi da galera! No? Ah, dunque volevano proprio che gli schiattasse nel fegato la vescichetta del fiele?

- Via! puh! paese di carogne!

E mandò dai nonni alle terre di Luna il suo figliuolo, facendo dire al suocero che rivoleva subito subito il suo berretto rosso. Turco, di nuovo turco voleva farsi!

E due giorni dopo, raccolte le sue robe, scese al porto di mare e si rimbarcò su un brigantino greco per il Levante.

 

LA MORTA E LA VIVA

 

La tartana, che padron Nino Mo dal nome della prima moglie aveva chiamata «Filippa», entrava nel piccolo molo di Porto Empedocle tra il fiammeggiar d'uno di quei magnifici tramonti del Mediterraneo che fanno tremolare e palpitare l'infinita distesa delle acque come in un delirio di luci e di colori. Razzano i vetri delle case variopinte; brilla la marna dell'altipiano a cui il grosso borgo è addossato; risplende come oro lo zolfo accatastato su la lunga spiaggia; e solo contrasta l'ombra dell'antico castello a mare, quadrato e fosco, in capo al molo.

Virando per imboccare la via tra le due scogliere che, quasi braccia protettrici, chiudono in mezzo il piccolo Molo Vecchio, sede della capitaneria, la ciurma s'era accorta che tutta la banchina, dal castello alla bianca torretta del faro, era gremita di popolo, che gridava e agitava in aria berretti e fazzoletti.

Né padron Nino né alcuno della ciurma poteva mai supporre che tutto quel popolo fosse adunato lì per l'arrivo della «Filippa», quantunque proprio a loro paressero rivolti le grida e quel continuo furioso sventolio di fazzoletti e di berretti. Supposero che qualche flottiglia di torpediniere si fosse ormeggiata nel piccolo molo e che ora stesse per levar le ancore salutata festosamente dalla popolazione, per cui era una gran novità la vista d'una regia nave da guerra.

Padron Nino Mo per prudenza diede ordine s'allentasse subito la vela, si calasse anzi addirittura, in attesa della barca che doveva rimorchiare la «Filippa» all'ormeggio nel molo.

Calata la vela, mentre la tartana non più spinta seguitava a filare lentamente, rompendo appena le acque che, lì chiuse entro le due scogliere, parevano d'un lago di madreperla, i tre mozzi, incuriositi, s'arrampicarono come scojattoli uno alle sartie, uno all'albero fino al calcese, uno all'antenna.

Ed ecco, a gran furia di remi, la barca che doveva rimorchiarli, seguita da tant'altri calchi neri, che per poco non affondavano dalla troppa gente che vi era salita e che vi stava in piedi, gridando e accennando scompostamente con le braccia.

Dunque proprio per loro? tanto popolo? tutto quel fermento? e perché? Forse una falsa notizia di naufragio?

E la ciurma si tendeva dalla prua, curiosa, ansiosa verso quelle barche accorrenti, per cogliere il senso di quelle grida. Ma distintamente si coglieva soltanto il nome della tartana:

- «Filippa! Filippa!».

Padron Nino Mo se ne stava in disparte, lui solo senza curiosità, col berretto di pelo calcato fin su gli occhi, dei quali teneva sempre chiuso il manco. Quando lo apriva, era strabo. A un certo punto si tolse di bocca la pipetta di radica, sputò e, passandosi il dorso della mano sugl'ispidi peli dei baffetti di rame e della rada barbetta a punta, si voltò brusco al mozzo che s'era arrampicato sulle sartie, gli gridò che scendesse e andasse a poppa a sonare la campanella dell'«Angelus».

Aveva navigato tutta la vita, profondamente compreso dell'infinita potenza di Dio, da rispettare sempre, in tutte le vicende, con imperturbabile rassegnazione; e non poteva soffrire lo schiamazzo degli uomini.

Al suono della campanella di bordo si tolse la berretta e scoprì la pelle bianchissima del cranio velata d'una peluria rossigna vaporosa, quasi di un'ombra di capelli. Si segnò e stava per mettersi a recitare la preghiera, allorché la ciurma gli si precipitò addosso con visi furia risa gridi da matti:

- Zi' Nì! Zi' Nì! la gnà Filippa! vostra moglie! la gnà Filippa! viva! è tornata!

Padron Nino restò dapprima come perduto tra quelli che così lo assaltavano e cercò, spaventato, negli occhi degli altri quasi l'assicurazione che poteva credere a quella notizia senza impazzire. Il volto gli si scompose passando in un attimo dallo stupore all'incredulità, dall'angoscia rabbiosa alla gioja. Poi, feroce, quasi di fronte a una sopraffazione, scostò tutti, ne abbrancò uno per il petto e lo squassò con violenza, gridando: - Che dite? che dite? -. E con le braccia levate, quasi volesse parare una minaccia, s'avventò alla prua verso quelli delle barche che lo accolsero con un turbine di grida e pressanti inviti delle braccia; si trasse indietro, non reggendo alla conferma della nuova (o alla voglia di precipitarsi giù?) e si volse di nuovo verso la ciurma come per chiedere soccorso o essere trattenuto. Viva? come, viva? tornata? da dove? quando? Non potendo parlare, indicava la paratia, che ne tirassero subito l'alzaja, sì sì; e come il canapo fu preso a calare per il rimorchio, gridò: - Reggete! - lo afferrò con le due mani, scavalcò, e come una scimmia a forza di braccia scese lungo l'alzaja, si buttò tra i rimorchiatori che lo aspettavano con le braccia protese.

La ciurma della tartana restò delusa, in orgasmo, vedendo allontanare la barca con padron Nino e, per non perdere lo spettacolo, cominciò a gridare come indemoniata a quelli dell'altre barchette accorse, perché raccogliessero il canapo e rimorchiassero loro almeno la tartana al molo. Nessuno si voltò a dar retta a quelle grida. Tutti i calchi arrancarono dietro la barca del rimorchio, ove in gran confusione padron Nino Mo veniva intanto ragguagliato su quel miracoloso ritorno della moglie rediviva, che tre anni addietro, nel recarsi a Tunisi a visitare la madre moribonda, tutti ritenevano fosse perita nel naufragio del vaporetto insieme con gli altri passeggeri; - e invece, no, no, non era perita - un giorno e una notte era stata in acqua - affidata a una tavola - poi salvata, raccolta da un piroscafo russo che si recava in America - ma pazza - dal terrore - e due anni e otto mesi era stata pazza in America - a New York, in un manicomio - poi guarita aveva ottenuto il rimpatrio dal Consolato, e da tre giorni era in paese, arrivata da Genova.

Padron Nino Mo, a queste notizie che gli grandinavano da tutte le parti, stordito, batteva di continuo le palpebre su i piccoli occhi strabi; a tratti la palpebra manca gli restava chiusa, come tirata; e tutto il volto gli fremeva, convulso, quasi pinzato da spilli.

Il grido di uno dei calchi e le risa sguajate da cui questo grido fu accolto: - «Due mogli, zi' Nì, allegramente!» - lo riscossero dallo sbalordimento e gli fecero guardare con rabbioso dispetto tutti quegli uomini, vermucci di terra ch'egli ogni volta vedeva sparire come niente, appena s'allontanava un po' dalle coste nelle immensità del mare e del cielo: eccoli là, accorsi in folla al suo arrivo, assiepati là, impazienti e vociferanti nel molo, per godersi lo spettacolo d'un uomo che veniva a trovare a terra due mogli; spettacolo tanto più da ridere per essi, quanto più grave e doloroso era per lui l'impaccio. Perché quelle due mogli erano tra loro sorelle, due sorelle inseparabili, anzi tra loro quasi madre e figlia, avendo sempre la maggiore, Filippa, fatto da madre a Rosa, che anche lui, sposando, aveva dovuto accogliere in casa come una figliola; finché, scomparsa Filippa, dovendo seguitare a vivere insieme con lei e considerando che nessun'altra donna avrebbe potuto far meglio da madre al piccino che quella gli aveva lasciato ancor quasi in fasce, l'aveva sposata, onestamente. E ora? e ora? Filippa era venuta a trovare Rosa maritata con lui e incinta, incinta da quattro mesi! Ah, sì, c'era da ridere veramente: un uomo, così, tra due mogli, tra due sorelle, tra due madri. Eccole, eccole là su la banchina! ecco Filippa! eccola là! viva! con un braccio gli fa cenni, come per dargli coraggio; con l'altro, si regge sul petto Rosa, la povera incinta che trema tutta e piange e si strugge dalla pena e dalla vergogna, tra gli urli, le risa, i battimani, lo sventolio dei berretti di tutta quella folla in attesa.

Padron Nino Mo si scrollò tutto, rabbiosamente; desiderò che la barca sprofondasse e gli sparisse dagli occhi quello spettacolo crudele; pensò per un momento di saltare addosso ai rematori e costringerli a remare indietro, per ritornare alla tartana, per fuggirsene via lontano, lontano, per sempre; ma sentì in pari tempo di non poter ribellarsi a quella violenza orrenda che lo trascinava, degli uomini e del caso; avvertì come uno scoppio interno, un intronamento, per cui le orecchie presero a rombargli e gli s'offuscò la vista. Si ritrovò, poco dopo, tra le braccia sul petto della moglie rediviva, che lo superava di tutta la testa, donnone ossuto, dalla faccia nera e fiera, maschile nei gesti, nella voce, nel passo. Ma quand'essa, scioltolo dall'abbraccio, lì, davanti a tutto il popolo acclamante, lo spinse ad abbracciare anche Rosa, quella poveretta che apriva come due laghi di lagrime i grandi occhi chiari nel viso diafano, egli, alla vista di tanto squallore, di tanta disperazione, di tanta vergogna, si ribellò, si chinò con un singhiozzo nella gola a tôrsi in braccio il bambino di tre anni e s'avviò di furia, gridando:

- A casa! A casa!

Le due donne lo seguirono, e tutto il popolo si mosse dietro, avanti, intorno, schiamazzando, Filippa con un braccio su le spalle di Rosa, la teneva come sotto l'ala, la sorreggeva, la proteggeva, e si voltava a tener testa ai lazzi, ai motteggi, ai commenti della folla, e di tratto in tratto si chinava verso la sorella e le gridava:

- Non piangere, scioccona! Il pianto ti fa male! Su, su, dritta, buona! Che piangi? Se Dio ha voluto così... C'è rimedio a tutto! Su, zitta! A tutto, a tutto c'è rimedio! Dio ci ajuterà...

Lo gridava anche alla folla, e soggiungeva, rivolta a questo e a quello:

- Non abbiate paura! né scandalo, né guerra, né invidia, né gelosia! Quello che Dio vorrà! Siamo gente di Dio.

Giunti al Castello, che già le fiamme del crepuscolo s'erano offuscate e il cielo, prima di porpora, era divenuto quasi fumolento, molti della folla si sbandarono, imboccarono la larga strada del borgo già coi fanali accesi; ma i più vollero accompagnarli fino a casa, dietro al Castello, alle «Balàte», dove quella strada svolta e s'allunga ancora con poche casupole di marinai su un'altra insenatura di spiaggia morta. Qua tutti s'arrestarono davanti all'uscio di padron Nino Mo ad aspettare che cosa quei tre, ora, decidessero di fare. Quasi fosse un problema, quello, da risolvere così, su due piedi!

La casa era a terreno e prendeva luce soltanto dalla porta. Tutta quella folla di curiosi, assiepata lì davanti, addensava l'ombra già cupa e toglieva il respiro. Ma né padron Nino Mo, né la moglie gravida avevano fiato di ribellarsi: l'oppressione di quella folla era per essi l'oppressione stessa delle anime loro, lì presente e tangibile; e non pensavano che, almeno quella, si potesse rimuovere. Ci pensò Filippa, dopo avere acceso il lume sulla tavola già apparecchiata in mezzo alla stanza per la cena: si fece alla porta, gridò:

- Signori miei, ancora? che volete? Avete veduto, avete riso; non vi basta? Lasciateci pensare adesso agli affari nostri! Casa, ne avete?

Così investita, la gente si ritrasse parte di qua, parte di là dalla porta, lanciando gli ultimi lazzi; ma pur molti rimasero a spiare da lontano, nell'ombra della spiaggia.

La curiosità era tanto più viva, in quanto che a tutti eran noti l'onestà fino allo scrupolo, il timore di Dio, gli esemplari costumi di padron Nino Mo e di quelle due sorelle.

Ed ecco, ne davano una prova quella sera stessa, lasciando aperta per tutta la notte la porta della loro casupola. Nell'ombra di quella triste spiaggia morta, che protendeva qua e là nell'acqua stracca, crassa, quasi oleosa, certi gruppi di scogli neri, corrosi dalle maree, certi lastroni viscidi, algosi, ritti, abbattuti, tra cui qualche rara ondata si cacciava sbattendo, rimbalzando e subito s'ingorgava con profondi risucchi, per tutta la notte da quella porta si projettò il giallo riverbero del lume. E quelli che s'attardarono a spiare dall'ombra, passando ora l'uno ora l'altro davanti alla porta e gettando un rapido sguardo obliquo nell'interno della casupola, poterono veder dapprima i tre, seduti a tavola col piccino, a cenare; poi, le due donne, inginocchiate a terra, curve su le seggiole, e padron Nino, seduto, con la fronte su un pugno appoggiato a uno spigolo della tavola già sparecchiata, intenti a recitare il rosario; in fine, il piccino solo, il figlio della prima moglie, coricato sul letto matrimoniale in fondo alla camera, e la seconda moglie, la gravida, seduta a piè del letto, vestita, col capo appoggiato alle materasse, con gli occhi chiusi; mentre gli altri due, padron Nino e la gnà Filippa, conversavano tra loro a bassa voce, pacatamente, ai due capi della tavola; finché non vennero a sedere su l'uscio, a seguitare la conversazione in un mormorio sommesso, a cui pareva rispondesse il lento e lieve sciabordio delle acque sulla spiaggia, sotto le stelle, nel bujo della notte già alta.

Il giorno appresso, padron Nino e la gnà Filippa, senza dar confidenza a nessuno, andarono in cerca d'una cameretta d'affitto; la trovarono quasi in capo al paese, nella via che conduce al cimitero, aereo su l'altipiano, con la campagna dietro e il mare davanti. Vi fecero trasportare un lettuccio, un tavolino, due seggiole, e quando fu la sera vi accompagnarono Rosa, la seconda moglie, col piccino; le fecero chiudere subito la porta, e tutt'e due insieme, taciturni, se ne ritornarono alla casa delle «Balàte».

Si levò allora per tutto il paese un coro di commiserazioni per quella poveretta così sacrificata, messa così da parte, senz'altro, buttata fuori, sola, in quello stato! ma pensate, in quello stato! con che cuore? e che colpa aveva, la poveretta? Sì, così voleva la legge... ma che legge era quella? Legge turca! No, no, perdio, non era giusto! non era giusto!

E tanti e tanti il giorno appresso, risoluti, cercarono di far comprendere quell'acerba disapprovazione di tutto il paese a padron Nino uscito, più che mai cupo, a badare al nuovo carico della tartana per la prossima partenza.

Ma padron Nino, senza fermarsi, senza voltarsi, con la berretta a barca di pelo calcata fin su gli occhi, uno chiuso e l'altro no, e la pipetta di radica tra i denti, troncò in bocca a tutti domande e recriminazioni, scattando:

- Lasciatemi stare! Affari miei!

Né maggiore soddisfazione volle dare a coloro che egli chiamava «principali», commercianti, magazzinieri, sensali di noleggio. Soltanto, con questi, fu meno ispido e reciso.

- Ognuno con la sua coscienza, signore, - rispose. - Cose di famiglia, non c'entra nessuno. Dio solo, e basta.

E due giorni dopo, rimbarcandosi, neanche alla ciurma della sua tartana volle dir nulla.

Durante la sua assenza dal paese, però, le due sorelle tornarono insieme nella casa delle «Balàte», e insieme, quiete, rassegnate e amorose, attesero alle faccende domestiche e al bambino. Alle vicine, a tutti i curiosi che venivano a interrogarle, per tutta risposta aprivano le braccia, alzavano gli occhi al cielo e con un mesto sorriso rispondevano:

- Come vuole Dio, comare.

- Come vuole Dio, compare.

Insieme tutt'e due, col piccino per mano, quando fu il giorno dell'arrivo della tartana, si recarono al molo. Questa volta, su la banchina, c'erano pochi curiosi. Padron Nino, saltando a terra, porse la mano all'una e all'altra, silenzioso, si chinò a baciare il bambino, se lo tolse in braccio e s'avviò avanti come l'altra volta, seguito dalle due donne. Se non che, giunti davanti alla porta, questa volta, nella casa delle «Balàte» rimase con padron Nino Rosa, la seconda moglie; e Filippa col piccino se n'andò quietamente alla cameretta sulla via del cimitero.

E allora tutto il paese, che prima aveva tanto commiserato il sacrifizio della seconda moglie, vedendo ora che non c'era sacrifizio per nessuna delle due, s'indignò, s'irritò fieramente della pacata e semplice ragionevolezza di quella soluzione; e molti gridarono allo scandalo. Veramente, dapprima, tutti rimasero come storditi, poi scoppiarono in una gran risata. L'irritazione, l'indignazione sorsero dopo, e proprio perché tutti in fondo si videro costretti a riconoscere che, non essendoci stato inganno né colpa da nessuna parte, né da pretendere perciò la condanna o il sacrifizio dell'una o dell'altra moglie - mogli tutt'e due davanti a Dio e davanti alla legge - la risoluzione di quei tre poveretti fosse la migliore che si potesse prendere. Irritò sopratutto la pace, l'accordo, la rassegnazione delle due sorelle divote, senz'ombra d'invidia né di gelosia tra loro. Comprendevano che Rosa, la sorella minore, non poteva aver gelosia dell'altra, a cui doveva tutto, a cui - senza volerlo, è vero - aveva preso il marito. Gelosia tutt'al più avrebbe potuto aver Filippa di lei; ma no, comprendevano che neanche Filippa poteva averne, sapendo che Rosa aveva agito senz'inganno e non aveva colpa. E dunque? C'era poi per tutt'e due la santità del matrimonio, inviolabile; la devozione per l'uomo che lavorava, per il padre. Egli era sempre in viaggio; sbarcava per due o tre giorni soltanto al mese; ebbene, poiché Dio aveva permesso il ritorno dell'una, poiché Dio aveva voluto così, una alla volta, in pace e senz'invidia, avrebbero atteso al loro uomo, che ritornava stanco dal mare.

Tutte buone ragioni, sì, e oneste e quiete; ma appunto perché così buone e quiete e oneste, irritarono.

E padron Nino Mo, il giorno dopo il suo secondo arrivo, fu chiamato dal pretore per sentirsi ammonire severamente che la bigamia non era permessa dalla legge.

Aveva parlato poco prima con un forense, padron Nino Mo, e si presentò al pretore al solito suo, serio placido e duro; gli rispose che, nel suo caso, non si poteva parlare di bigamia perché la prima moglie figurava ancora in atti e avrebbe seguitato a figurare sempre come morta, sicché dunque davanti alla legge egli non aveva che una sola moglie, la seconda.

- Sopra la legge degli uomini, poi, - concluse, - signor pretore, c'è quella di Dio, a cui mi sono sempre attenuto, obbediente.

L'imbroglio avvenne all'ufficio dello stato civile, ove d'allora in poi, puntuale, ogni cinque mesi, padron Nino Mo si recò a denunziare la nascita d'un figliuolo. - «Questo è della morta.» - «Questo è della viva.»

La prima volta, alla denunzia del figliuolo, di cui la seconda moglie era incinta all'arrivo di Filippa, non essendosi questa rifatta viva davanti alla legge, tutto andò liscio, e il figliuolo poté regolarmente essere registrato come legittimo. Ma come registrare il secondo, di lì a cinque mesi, nato da Filippa che figurava ancora come morta? O illegittimo il primo, nato dal matrimonio putativo, o illegittimo il secondo. Non c'era via di mezzo.

Padron Nino Mo si portò una mano alla nuca e si fece saltar sul naso la berretta; prese a grattarsi la testa; poi disse all'ufficiale di stato civile:

- E... scusi, non potrebbe registrarlo come legittimo, della seconda?

L'ufficiale sgranò tanto d'occhi:

- Ma come? Della seconda? Se cinque mesi fa...

- Ha ragione, ha ragione, - troncò padron Nino, tornando a grattarsi la testa. - Come si rimedia allora?

- Come si rimedia? - sbuffò l'ufficiale. - Lo domandate a me, come si rimedia? Ma voi che siete, sultano? pascià? bey? che siete? Dovreste aver giudizio, perdio, e non venire a imbrogliarmi le carte, qua!

Padron Nino Mo si trasse un po' indietro e s'appuntò gl'indici delle due mani sul petto:

- Io? - esclamò. - E che ci ho da fare io, se Dio permette così?

Sentendo nominar Dio, l'ufficiale montò su tutte le furie.

- Dio... Dio... Dio... sempre Dio! Uno muore; è Dio! Non muore; è Dio! Nasce un figlio; è Dio! State con due mogli; è Dio! e finitela con questo Dio! Che il diavolo vi porti, venite a ogni nove mesi almeno; salvate la decenza, gabbate la legge; e ve li schiaffo tutti qua legittimi uno dopo l'altro!

Padron Nino Mo ascoltò impassibile la sfuriata. Poi disse:

- Non dipende da me. Lei faccia come crede. Io ho fatto l'obbligo Mio. Bacio le mani.

E tornò puntuale, ogni cinque mesi, a fare l'obbligo suo, sicurissimo che Dio gli comandava così.

 

UN'ALTRA ALLODOLA

 

Luca Pelletta non avrebbe riconosciuto alla stazione di Roma Santi Currao, se questi non gli si fosse fatto avanti chiamandolo ripetutamente:

- Amico Pelletta! Amico Pelletta!

Intontito dal viaggio, tra la ressa e il rimescolio dei passeggeri che gli davano la vertigine, restò a mirarlo, sbalordito:

- Oh, tu Santi? E come mai? Così...

- Che cosa?

- <I>Quantum mutatus ab illo!</I>

- Ma che <I>abillo</I>? Gli anni, amico Pelletta!

Gli anni, sì, ma anche... - Luca lo squadrò alla luce delle lampade elettriche. Gli anni? E quel vestito? Un gran maestro di musica, con quella camicia, con quella giacca, con quei calzoni e quelle scarpe? Dunque, nella miseria? E quella barba incolta, già quasi grigia, cresciuta più sulle gote che sul mento? e quella faccia pallida e grassa? e quelle occhiaje gonfie intorno agli occhi acquosi? Come mai? Era divenuto anche più corto di statura?

Sotto gli occhi di Luca Pelletta pieni di tanto stupore, le labbra del Currao si allargarono a un ghigno muto:

- Tu sei ricco, amico Pelletta e il tempo non ti deteriora. Andiamo, andiamo! Ma ti pongo questo patto: non una parola sul paesaccio in cui io e tu abbiamo avuto la sciagura di nascere. Chi è vivo è vivo, chi è morto è morto: non voglio saperne nulla. Non c'è bisogno di prendere la vettura: sto qua in fondo al viale. Da' a me la valigia o la cassetta.

- No, grazie: me le porto da me; non pesano molto.

- Il bagaglio lo lasci in deposito alla stazione?

- Quale bagaglio? - fece Luca Pelletta. - Ho questi due colli soltanto: libri e biancheria.

- Ti tratterrai dunque poco?

- No, perché? Sono venuto forse per sempre.

- Così a mani vuote?

Andarono per un tratto in silenzio.

- La tua signora? - s'arrischiò a domandare Luca alla fine. Il Currao abbassò la testa e borbottò:

- Sono solo.

- È fuori di Roma?

- È a Roma, amico Pelletta. Ti dirò a casa. Parliamo ora di te. Ma il pretto necessario e basta. Perché sei venuto a Roma? Sono una bestia. Dimenticavo che tu hai quattrini da buttar via.

- T'inganni... - corresse con un sorrisetto bonario il Pelletta. - Ho sì quanto mi basta: poco; ma io ho bisogno di poco. Nulla da buttar via. È vero che, in compenso, ora sono divenuto padrone del mio. Abbiamo fatto quasi un capitombolo, sai? Per miracolo la miseria non ha battuto alla nostra porta. Ma, in compenso, ti ripeto, ora sono libero e padrone...

- ... del tuo. Sta bene. Ma se non sei più ricco, perché sei venuto a Roma?

- Vedrai! - sospirò Luca, socchiudendo di nuovo gli occhi misteriosamente. - È la mia città. L'ho sempre sognata.

- Amico Pelletta, ho un vago sospetto, - riprese Santi Currao. - Ti fiuto: tu puzzi. Di' la verità, sei più miserabile di me?

- No, perché? - fece Luca, istintivamente; subito si riprese: - Forse no...

- Questo <I>tuo</I>, di' un po', a quanto ammonta?

- Rendituccia modesta, ma sicura: cinque lire al giorno. Mi bastano.

Santi Currao sghignò forte, squassando la testa.

- Centocinquanta lire al mese?! E che te ne fai?

Arrivati in fondo al viale, il Currao si cacciò nel portoncino di casa e, prima di mettersi a salire, disse a Luca:

- Ti prego di parlare sottovoce.

Un camerotto squallido, sudicio, in disordine, con un letto in un angolo, non rifatto chi sa da quanti giorni; un tavolino rustico, senza tappeto, presso l'unica finestra; un attaccapanni appeso alla parete; seggiole impagliate; un lavamano.

Santi Currao accese il lume sul tavolino, e invitò l'amico a sedere.

- Se vuoi lavarti, lì c'è l'occorrente.

- E... non hai uno specchio? - domandò afflitto e reso timido da tanta miseria, Luca, guardando in giro le pareti polverose.

- Pago dodici lire al mese, amico Pelletta, e non sono rispettato. Do qualche lezione di musica, e non mi pagano; viene la fine del mese, e io non pago; e più non pago, e meno sono rispettato. Avevo lì, presso l'asciugamani, uno specchio, se non m'inganno. Se lo sono portato via.

- E come fai per guardarti? - domandò Luca, costernato.

- Non ci penso neppure!

- Fai male, Santi! Perché, il fisico...

- Il vero fisico è il pane, amico Pelletta! - sentenziò bruscamente il Currao.

- Ah, nego, nego... - fece Luca. - <I>Non solo pane vivit homo...</I>

- E intanto, - concluse Santi, - prima base, ci vuole il pane. Non dire sciocchezze e, per giunta, in latino.

Rimasero un buon pezzo in penoso silenzio. Santi Currao sedette presso il tavolino, con la testa bassa e gli occhi fissi sul pavimento. Luca Pelletta dritto sulla vita, accigliato, lo esaminava.

- E dunque... la tua signora?

Il Currao alzò il testone e guardò un pezzo negli occhi l'amico. - E dalli con la mia signora! - Si scoprì il capo solennemente; si batté più volte l'ampia fronte rischiarata dal lume:

- Vedi? Cervo! - esclamò; e le grosse pallide labbra, allargandosi a un orribile ghigno, scoprirono i denti serrati, gialli dai lunghi digiuni.

Luca Pelletta lo guardò perplesso, quasi consigliandosi con l'espressione del volto del Currao, se dovesse riderne o no.

- Cervo! cervo! - ripeté Santi, confermando col capo più volte di seguito. - E non l'ho cacciata io, sai! Se n'è andata via lei, da sé. Io sono così; - aggiunse, afferrandosi con ambo le mani la barbaccia incolta su le gote, - ma mia moglie era una bella e rispettabilissima signora! La povertà, amico Pelletta. Senza la povertà, forse non l'avrebbe fatto. Non era poi tanto cattiva, in fondo. È vero che io per lei fui marito esemplare: le portavo tutto quel po' che guadagnavo... tranne qualche soldo per mantenermi l'occhio vivo. Ma è pur vero che l'uomo, per quanto porco sia, vale sempre mille volte più di qualunque donna. Dici di no, amico Pelletta? Ebbene, chi sa? forse no. Non si può dire. La povertà, capisci? Che fa il ferro al fuoco? Si torce. Ebbene, e tu, marito, arrivi fino al punto di dire a tua moglie: M'hai fatto le corna? T'hanno procacciato pane? Sì? E allora hai fatto benone! Danne un pezzetto anche a me!

Si alzò, e si mise a passeggiare per la camera, col testone sul petto e le mani dietro la schiena.

- E ora... che fa? - domandò timidamente Luca.

Il Currao seguitò a passeggiare, come se non avesse udito la domanda.

- Non sai dov'è?

Il Currao si fermò davanti al lume:

- Fa la puttana! - disse. - Non consumiamo petrolio inutilmente! Lavati, se lo credi proprio necessario. E usciamo. Non vuoi cenare?

- No... - rispose Luca. - Ho desinato a Napoli piuttosto bene.

- Non ci credo.

- Parola d'onore. Di' un po', come ti sembro?

- Compassionevole, amico Pelletta!

- No, dico! ti pare che stia male in faccia?

- No: ancora non pare, - fece Santi.

- Eh sì, - affermò Luca - è un fatto che, a me, il mangiar poco mi conferisce. Ma forse sono un po' troppo pallido questa sera, no?

- Sei pallido, perché sei povero! - raffibbiò il Currao. - Via, usciamo! Tu vuoi certo vedere il Colosseo al lume di luna.

Luca accettò con entusiasmo la proposta, e s'avviarono in silenzio.

Davanti alla soglia di casa, il Pelletta trattenne per un braccio l'amico, poi gli batté la spalla con una mano e gli disse, socchiudendo gli occhi:

- Santi, risorgeremo! lascia fare a me!

- Statti quieto... - brontolò il Currao.

E tutti e due si perdettero nell'ombra.

 

RICHIAMO ALL'OBBLIGO

 

Paolino Lovico si buttò per morto su uno sgabello davanti la farmacia Pulejo in Piazza Marina. Guardò dentro, al banco, e asciugandosi il sudore che gli grondava dai capelli su la faccia congestionata, domandò a Saro Pulejo:

- È passato?

- Gigi? No. Ma starà poco. Perché?

- Perché? Perché mi serve! Perché... Quante cose vuoi sapere!

Si lasciò il fazzoletto steso sul capo, appoggiò i gomiti sui ginocchi, il mento sulle mani e rimase lì a guardare a terra, fosco, con le ciglia aggrottate.

Lo conoscevano tutti, là a Piazza Marina. Passò un amico:

- Ohi, Paolì?