Sei
Terry prese un’aria torva e poi sorrise. Testa grossa; faccia larga come la carta geografica di una nazione. C’era spazio per emozioni antitetiche. Le palpebre fremevano come se fossero state attaccate dai moscerini, suggerendo imbarazzo e incertezza. Il labbro inferiore sporgente invece esprimeva divertimento. Un’indulgenza – la sottomissione alla risata sguaiata e licenziosa di Berliner – controllata da piccole contrazioni muscolari, come minuscoli pugni, agli angoli della bocca. Fremiti nella parte alta del viso, contrazioni in quella bassa. Come definirla, un’espressione simile? Forse non tutte le combinazioni facciali hanno un nome. Ma Terry certamente avrebbe saputo come chiamarla. Si stava preparando a parlare, come uno che aspetta di lanciarsi nella rumba sul ritmo giusto. Da Terry – rotondo, squadrato, massiccio – mi aspettavo cose concrete. La verità sostenuta dal corpo. Lui si limitò a guardare Berliner, il quale smise di ridere. Terry era un medico. La gente ascolta i medici.
– Mi sono sposato giovanissimo. Non sapevo niente delle donne.
Lo aveva già detto, quando Berliner si era assentato. Ora voleva che anche lui sentisse il suo motto. Immaginai il suo studio, con i diplomi di specializzazione appesi alle pareti. Erano come la camicia che portava. Credenziali. Manifestazioni della sua presenza nel mondo, ben distinta dalla presenza degli altri. Piú precisamente, stava cambiando l’atmosfera della sala da pranzo di Kramer. Non avrebbe cominciato a parlare fra gli stupidi resti della risata di Berliner. Aveva troppo rispetto di sé.
– Ho incontrato anch’io una donna come la tua, Berliner. All’epoca ero sposato e facevo turni di trentasei ore al pronto soccorso due volte alla settimana. Nicki voleva che passassi ad altro, che aprissi uno studio privato, magari. Ma guadagnavo bene e avevo molto tempo libero. Il pronto soccorso non era in un bel quartiere. Mi capitavano ferite da arma da taglio. Arrivavano uomini con le cose piú assurde infilate nel culo. Cetrioli. Bottiglie di Coca-Cola. All’ingresso c’era sempre una guardia armata.
Berliner, per dimostrare quanto apprezzava la vita vera, annuiva come se stesse ricevendo dei piccoli colpi di martello sulla nuca. Teneva la bocca socchiusa, in attesa della comparsa della donna della storia, senza ridere.
– Era un altro corso di medicina, che pensavo mi sarebbe stato utile. Poi una notte si è presentata un’ispanica stupenda con i tacchi alti e una minigonna aderente. Ingioiellata – anelli, carabattole di vetro – come se il pronto soccorso fosse una discoteca. Aveva i capelli nerissimi. Sembravano umidi, luccicavano come asfalto caldo. Giovane, sicura di sé, sfrontata. Comandava lei. Lo avevo già capito dal suono dei suoi tacchi mentre mi veniva incontro sul pavimento duro ricoperto di linoleum. Pareti spoglie. Camminava come se suonasse la batteria. Un gran fracasso.
Berliner sorrise. Quella storia drammatica lo stuzzicava. Pareti spoglie, pavimento duro, un’ispanica stupenda che faceva il suo ingresso e ad accoglierla Terry, il dottorino che curava i malanni notturni. Guardai la camicia di Terry. Quale persona con una camicia simile – seta morbida, costosa, color malva – poteva preoccuparsi del suo prossimo? Mi resi conto che volevo quella camicia.
– Si è seduta accavallando le gambe. Gambe di prima qualità. Poi ha preso una sigaretta dal pacchetto e ne ha offerta una anche a me. Ho rifiutato. L’infermiera se ne poteva accorgere. Non era corretto, secondo me, farsi vedere a fumare con una paziente. Specialmente con quella donna. «Cosa si sente?», le ho chiesto. Se ci ripenso mi viene da ridere.
La voce di Terry diventò piú acuta; non rideva. Quella era vita vera. Ci ridi su solo teoricamente.
– Mi ha detto che aveva un accordo con dei dottori di vari pronto soccorso per certe prescrizioni. «Ah sí?», ho detto io. Non era una risposta adeguata, però non capivo di cosa stesse parlando. Era tranquilla, si esprimeva in tono pratico, come se in linea di massima avessi dovuto essere informato. «È tradizione», ha detto. «Ah sí? Ma cosa si sente?» Lei ha ripetuto la storia degli accordi, delle trattative. Mi ha detto che non c’era niente di strano. Poi ha chiesto se non mi dispiaceva che chiudesse la porta. Fuori c’era soltanto l’infermiera. «Chiuda pure, se si sente piú a suo agio», ho detto io. Lei ha chiuso. Poi mi ha assicurato che potevo telefonare ad alcuni medici di Los Angeles che avrebbero garantito per lei. Ha sciorinato nomi e specialità. Urologia, radiologia. Cominciavo a capire. Non era venuta per una diagnosi. Non aveva alcun problema. Voleva fare uno scambio. Concludere un affare. Sussurrava, nonostante la porta fosse chiusa.
– È come la donna che ho incontrato io? – chiese Berliner.
– Sí. Ha avuto una certa influenza su di me. Da lei ho imparato qualcosa su me stesso.
– Ma io piacevo a quella che ho incontrato.
– Posso continuare?
– Continua.
– Voleva concludere un affare. In cambio di certe prescrizioni avrebbe fatto qualsiasi cosa, secondo i miei desideri, con frequenza regolare. «Qualsiasi cosa», ha detto. Ha tirato fuori dalla borsetta un’agenda. Come se fosse già tutto stabilito, mi ha chiesto: «Che orari fa?»
– Ma non è per niente come quella che ho incontrato io.
– Sta’ zitto, Solly, – lo rimbeccò Cavanaugh.
– Invece sí, – disse Terry. – Stammi a sentire. Mi trovavo in una situazione difficile. Questo non te lo insegnano all’università. Sono cose che vengono trascurate, ignorate, non se ne parla mai.
– Che cos’è questo «questo» di cui parli? – chiese Berliner.
– Quello che lei aveva chiamato tradizione. Quello in cui «non c’era niente di strano». Sapete cosa ho detto io? «Se ne vada». Lei mi ha lanciato un’occhiata che mi sento ancora addosso. Come se fossi un mentecatto. «Dottore, lei ha bisogno di un dottore», mi ha detto. Si è alzata, è andata alla porta e lí si è girata. Per accertarsi che non stava sognando. Io ho detto: «Se ne vada o chiamo la polizia». Lei ha aperto la porta, è uscita. Sono rimasto lí con il mio camice, nel mio piccolo studio, da solo. La donna se ne stava andando. L’avevo mandata via io. Soffrivo. Per questa sofferenza portavo sul camice un cartellino con il mio nome. Per questa sofferenza mi avevano fornito vassoi con i ferri, ricettari, e la gente mi chiamava dottore. «Aspetti, ha dimenticato una cosa», ho gridato. Lei ha continuato a camminare. Non mi aveva sentito. Non ho riprovato a gridare. Avevo già fatto abbastanza, troppo. Tremavo. Poi l’infermiera ha detto: «Aspetti. Il dottore la vuole. Ha dimenticato una cosa». Lei si è fermata. In piedi accanto alla mia scrivania, la guardavo, lí nel corridoio. Lei guardava me in attesa che dicessi qualcosa. Dovevo parlare, dirle che cosa aveva dimenticato. L’infermiera ascoltava. «La sua ricetta», ho detto. Come uno scemo. Contro la mia volontà. Ma ormai era tardi. Lei è tornata verso di me, con i tacchi che battevano sul pavimento, i gioielli di vetro che oscillavano. Recitava con tutto il corpo a beneficio dell’infermiera, ridendo e scuotendo la testa. Oh, che buffo, ho dimenticato la ricetta. È entrata nel mio studio e ha chiuso la porta senza nemmeno chiedermelo. Non c’era bisogno di stare con la porta chiusa per scrivere una ricetta. Doveva fare una brutta impressione. Ero in trappola, e se devo dire la verità la cosa mi piaceva. Adesso lei non mi sembrava cosí stupenda. Adesso c’era qualcosa in gioco. Ne vedevo i difetti. Era carne arrogante, infuocata, asfissiante. Non riuscivo nemmeno a parlare.
Berliner, con un mezzo sorriso – un po’ deluso ma senza disapprovazione – disse: – D’accordo, – come se facesse una concessione al mondo. – Come si chiamava?
– Non me lo ricordo.
– Figuriamoci.
Terry sorrise e confessò: – Mango.
– Si chiamava cosí?
– Il fatto è che…
– Mango, – strillò Berliner come uno scatenato uccello esotico.