Sarti Antonio, sergente, è rimasto come un allocco:
– Allora, tutte queste donne…
– Le donne o sono stupide o sono insoddisfatte: in questo paese metà delle donne sono stupide, l’altra metà sono stupide e insoddisfatte.
– E sua moglie? – Il dottore va sulla porta e chiama la moglie. Arriva il solito pezzo di donna, avrà vent’anni. Sorride a Sarti, sorride al dottore e sorride anche a «Lucciola» che si sente rimescolare lo stomaco.
– Vuole sapere perché sei andata a letto con Mandini Gaetano.
Il pezzo di donna non è stupida. Dice: – Per curiosità.
Poiché Sarti Antonio non è più in grado di continuare l’interrogatorio (non è più molto rapido nei riflessi: davanti a certe chiarificazioni perde l’orientamento) è il dottore che continua l’interrogatorio alla moglie.
– Ti ha soddisfatto?
– Una delusione.
Il pezzo se ne va, torna da dove era spuntata. Dice il dottore: – Capito?
– No! Insoddisfatta?
Il dottore apre la porta dell’ambulatorio e chiama: – Avanti il primo. Poi torna a Sarti:
– Ci sono anche delle eccezioni. Qualche donna non è né stupida, né insoddisfatta, ma solo curiosa.
Prima di uscire dall’ambulatorio, Sarti Antonio, sergente, ha qualcos’altro da chiedere:
– C’è una sorgente di acqua solforosa da queste parti. Dicono che fa bene.
Il dottore è rimasto un po’ sorpreso, ma dice: – Può provare.
– Lei non ne beve? Giacinto Gessi si alzava alle due di notte per andare a berla. Glielo aveva prescritto lei?
Il dottore non gli bada più. Dice con il paziente:
– Respira forte…
Il farmacista è un soggetto piccolo, magro. Due occhialini rotondi con le lenti spesse: uno che se vi dicono che è un assassino, vi mettete a ridere. Dice «buongiorno» ogni volta che il campanello sulla porta della farmacia fa «din», senza preoccuparsi se c’è uno che entra o uno che esce.
Allunga la mano senza guardare in faccia il cliente e aspetta che ci mettano sopra la ricetta. Fa così ormai da tanti anni che non se ne rende neppure conto.
Sarti Antonio, sergente, gli mette sul palmo aperto della mano tesa la tessera. Quello la legge e poi si decide a guardare in faccia i nuovi venuti, perché si è accorto che la specialità segnata sulla tessera non l’ha o non la passa la mutua.
Sembra un po’ sorpreso o anche preoccupato: non si capisce bene e Sarti non ha ancora imparato a leggere sul viso di certa gente. Sarti Antonio, sergente, decide che è preoccupato e che si è sentito, per un momento, scoperto. Quello domanda:
– Desidera?
Questa volta Gianni «Lucciola» Deoni prende appunti su un blocco per note. Non che cominci a dubitare della sua memoria, ma per dare l’illusione a chi è da quelle parti, che lui sta facendo qualcosa. E anche perché non ha piú nessuna voglia di leggere altri nomi di malattie…
Sarti Antonio, sergente, risponde:
– Parlare con sua moglie.
Anche adesso il farmacista ha l’aria preoccupata: – Mia moglie?
– Sua moglie: non ha moglie lei?
– Ho moglie… ho moglie… –. Ma non si decide.
– Allora la chiama? – Il farmacista chiama, senza mai staccare gli occhi da Sarti. Quella arriva: in ciabatte e con dei ferretti piantati nei capelli. E la copia del marito, solo che porta la sottana. Dal momento che si è fatta anche questa, Mandini Gaetano, il gallo, doveva avere uno stomaco cosí.
Lei dice, giovane e civetta: – Siiiiii! – con una i che dura diciotto secondi. Sarti Antonio guarda il farmacista. E spiega:
– Vorrei parlare con la signora da solo.
– Da solo?
– Da solo.
– Bene, ecco, allora io posso andare di là…
– Bravo, vada di là – . L’altro va, ma Sarti Antonio giurerebbe che resta attaccato alla porta. Non si preoccupa e comincia, veloce:
– Conosceva Mandini Gaetano? È stata la sua amante? Suo marito lo sa?
Lei non si scompone: – Siiiii!
– Sì a cosa?
– Sì a tutto quello che mi ha chiesto.
Sarti Antonio apre la porta. Dice: – Può venire anche lei, visto che è al corrente… Ha sentito quello che ho chiesto a sua moglie?
Il farmacista fa sì col capo.
– Ha avuto qualche discussione per questo argomento con il defunto «gallo del paese»?
È la moglie che si mette a ridere. Dice: – Oh, no! No, no! Lui ha solo picchiato. Picchiato me, naturalmente. Si è tolto gli occhiali e mi ha picchiata.
Sembra che il farmacista abbia qualcosa da dire, ma Sarti non lo fa parlare. Fa parlare la moglie.
Le chiede:
– A suo marito piace l’acqua solforosa?
Quella continua a ridere: – Siiii! Va tutte le sere a prenderne un fiasco e lo tiene in frigo. A lui le medicine, dice, non servono finché la sorgente di acqua solforosa butta.
– Quell’acqua a Giacinto Gessi ha fatto male. C’è mai andato insieme a lui?
Il farmacista si è tolto gli occhiali. Riesce a brontolare: – Io non sono mai uscito con quel porco!
Dice proprio cosí: «porco». E in bocca al piccolo farmacista, fa uno strano effetto. E come se fosse una parola più grande di lui.
La moglie ride: – Lui lo ha chiamato sempre porco.
– Perché?
– Non lo so.
Finisce di ridere quando Sarti Antonio, sergente, è già nella piazza a pensare a questo paese di matti. Intanto il farmacista deve essersi tolto gli occhiali perché sta picchiando di nuovo la moglie: si sentono le grida.
Gianni «Lucciola» Deoni scorre gli appunti e poi butta tutto nella prima fogna che incontra.
Dice:
– È un violento: può aver ucciso! E sa che Giacinto Gessi era un invertito.
Sarti è sorpreso: – Chi te lo dice?
– Perché lo chiamerebbe «porco», se no? Giacinto Gessi non è il tipo che puoi chiamare porco perché ha la faccia da porco! È proprio il contrario: un tipo fine, tranquillo. Il farmacista sa che Giacinto Gessi era un invertito, per questo lo ha chiamato sempre porco.
È un discorso chiaro che Sarti Antonio, sergente, incamera assieme a tutti gli altri discorsi che ha sentito oggi.
– Adesso devo andare dal maresciallo.
Gianni «Lucciola» Deoni guarda l’orologio. Dice: – Io, invece, devo andare al giornale. Ho qualcosa da scrivere per l’edizione del pomeriggio…
Sarti se lo tira dietro per la manica della giacca: – Puoi aspettare. Il maresciallo non devi perderlo…
– Ma quello vorrà sapere chi sono, cosa faccio… Finisce che mi mette dentro…
– E tu non gli rispondere. Digli che vuoi un avvocato: è un tuo diritto.
Suona alla stazione dei carabinieri e quando si apre lo spioncino, il piantone non vede nessuno.
Allora apre.
– Il maresciallo?
– È tardi: sta mangiando.
Gianni «Lucciola» Deoni ha già voltato la schiena ma Sarti lo trattiene ancora per la giacca.
Annunzia:
– Vogliamo parlargli. Sono della questura centrale.
Il maresciallo della stazione dei carabinieri di Pieve del Pino è quello che una donna di mezza età chiamerebbe un bell’uomo. Tutto in ordine, alto, pulito, con il tovagliolo sulle ginocchia e un vasetto di fiori sulla tavola apparecchiata. Usa posate d’argento, una caraffa di cristallo per l’acqua e una, pure di cristallo, per il vino. È un uomo felice: ha una famiglia e un lavoro che gli dà delle soddisfazioni…
Li fa sedere a tavola e fa portare da una ragazza due bicchieri (di cristallo). Sarti beve e poi gli chiede:
– È sua moglie?
– È mia figlia – . E ride, felice: soddisfazione di padre.
– Sua moglie non c’è?
– Mia moglie è andata giù: a trovare i parenti al suo paese. Giù. Dunque: a che punto stiamo, sergente, con le indagini?
E adesso? Gianni «Lucciola» Deoni pianta il naso nel bicchiere e beve per un secolo. Sarti non sa proprio da dove cominciare. Dice:
– Nessuna novità: speravo che lei avesse qualcosa da dirmi…
– Non siete voi che vi occupate del caso?
C’è una punta di ironia. Come per dire: «a quest’ora noi…»
– Lei conosce meglio di me la gente di qui. Per esempio: quel Mandini Gaetano… Ho saputo che se l’è fatta con mezzo paese. Anche con la moglie del dottore, mi hanno detto.
Il maresciallo ha smesso di mangiare e ha fatto un cenno alla figlia di andare di là, che non sono cose da giovani. Poi dice:
– Questa gente racconta molte storie. Non mi stupirei se le avessero raccontato che è stato anche con mia moglie.
Gianni «Lucciola» Deoni tossisce, senza togliere il naso dal bicchiere. Ma quello continua:
– La signora del dottore, come del resto la mia, è di una onestà ineccepibile. Questa gente va a vedere troppi film sconci. Io vieterei certe pellicole che possono…
– Lei sapeva che Giacinto Gessi era un invertito?
Il maresciallo continua nel suo discorso come se Sarti Antonio non lo avesse interrotto: – Io vieterei proprio certe pellicole che non fanno altro che turbare la mente e l’equilibrio dei più deboli…
E va avanti cosí finché Sarti Antonio, sergente, non toglie il disturbo. Lo toglie perché non può chiedergli se è al corrente che sua moglie se l’è vista col «gallo» e anche perché ha capito benissimo che da quello non si ricaverà mai niente. È come se avesse detto: «Voi, che siete tanto in gamba, venitene fuori voi!»
Ma Sarti Antonio, sergente, già da un po’ di tempo dubita che qualcuno possa uscire dal pasticcio.
– Ha mandato sua moglie in quarantena, appena il «gallo» è stato ammazzato.
Gianni «Lucciola» Deoni respira forte, come se fosse stato in immersione fino a quel momento.
– Io gli avrei chiesto dov’era la notte del delitto. Ti rendi conto che adesso il maresciallo sa che tu sai di sua moglie? Quello è uno del sud. Se è stato lui, non ci mette molto a far fuori anche te…
– Il problema è: come si fa a sapere se è stato lui? Cosa racconto a Raimondi Cesare, ispettore capo?
– Gli dici che ti servono notizie sul maresciallo perché è sospettato di omicidio plurimo nelle persone…
– Si! Cosí finisco dentro per offese alla benemerita arma dei carabinieri! In che letamaio sono caduto!
– Sarà un’idea ma, per me, ti ci hanno buttato: ti ci ha buttato «lui».
Per tutto il viaggio nessuno apre più bocca. Solo quando Gianni «Lucciola» Deoni scende, davanti al giornale, chiede:
– Cosa posso scrivere?
– Niente.
– Ma dovrò rendere conto al direttore del tempo che ho perduto, in giro, no? Vorrà sapere dove sono stato fino adesso…
– E tu digli che sei stato a puttane – . Sarti chiude la portiera dell’ottoecinquanta e se ne va.
Inchioda subito dopo e urla, dal finestrino: – Scrivi che si cominciano a nutrire forti dubbi che Golfarini Antilio, il muratore arrestato, possa aver ucciso Mandini Gaetano, di anni venti.
– Ma Golfarini Antilio era in carcere, quando hanno ucciso Mandini Gaetano…
– Ecco! Appunto! Scrivi cosí. E scrivi anche che l’acqua solforosa fa bene per tutte le malattie, tranne che per la colite.
E lo pianta davanti alla redazione, con il vuoto nel cuore.
14.A rifarci il conto…
A rifarci il conto, Sarti Antonio, sergente, ci capisce sempre meno e, dalla faccia che fa Raimondi Cesare, ispettore capo, ci capisce sempre meno anche lui. «Lui» gli chiede:
– Cosa conti di fare?
Sarti alza le spalle: – Andare a trovare Felice Cantoni in ospedale…
Poi stanno a guardarsi un po’:
– A ragionarci bene, però, non sembra poi tanto complicato. In definitiva, il movente c’è: la vendetta di un uomo tradito. Si tratta di stabilire è vero, come si dice, chi è l’uomo. Dunque: dov’erano gli indiziati nel momento del delitto ? Quello è un paesino dove tutti sanno tutto di tutti.
Non sono, è vero, come si dice, i meandri di una grande città… Stando cosí le cose, non importa che io mi stia a scomodare per prendere in mano le indagini o le affidi a qualche altro ispettore.
Andiamo Sarti, andiamo! Tu sei benissimo in grado di proseguire, tanto più che mi sembri già a buon punto. Il meccanico, il dottore, il farmacista: si tratta di chiedere, chiedere, è vero, come si dice…
Si ferma a pensare. Sarti azzarda: – E il maresciallo?
– Sarti! Un maresciallo dei carabinieri, andiamo! – E si ferma ancora a pensare. Sarti lo lascia fare. Dopo un po’ Raimondi Cesare urla: – Il prete!
Sarti spalanca gli occhi: – È stato il prete?
– Il prete! Il prete sa sempre tutto, nei paesini. Chiedere a lui, chiedere a lui… Le mogli in confessione, è vero, come si dice, raccontano tutto… Andiamo, Sarti, devo sempre dirti tutto io?
Andiamo, andiamo…
E Sarti Antonio, sergente, va. Ma, uscito dall’ufficio dell’ispettore capo Raimondi Cesare, a rifarci il conto, comincia a dubitare di tutto. Dal momento che «lui» è d’accordo, è chiaro che non si tratta di un marito tradito. Dal momento che «lui» non è d’accordo, è chiaro che si tratta del maresciallo.
Dal momento che «lui» lo considera un caso semplice, è chiaro che non si riuscirà a venire a capo nemmeno fra venti anni. Dal momento che «lui» non vuole prendere in mano la castagna, come gli ha proposto Sarti, è chiaro che la castagna scotta.
Per cui, sempre a rifarci il conto, Sarti Antonio non sa a che santo girarsi.
Gli viene solamente l’idea (molto deludente) di conoscere chi sia andato a vigilare il monumento in questi giorni; da quando lui non ne ha più avuto il tempo… Non è una grande idea, ma, visto che non sa cos’altro fare…
Li trova tutti lì, come l’ultima sera: avvolti in un panno o dentro un sacco a pelo. Una macchina della polizia è a pochi passi. Sarti Antonio domanda: – Allora?
Uno dei due agenti sonnecchia, l’altro scende dall’auto. Dice: – Tutto bene: non capisco cosa veniamo a fare noi. Ci sono quelli, no?
– E chi ti dice che non siano proprio quelli che vogliono far nascere del casino?
Li guarda e si accorge che c’è anche Rosas. Cosí gli si avvicina e lo saluta. Quello chiede: –
Novità?
Sarti gli siede a fianco, con la schiena appoggiata al monumento. Scuote la testa e poi s’informa:
– Quando la smetterete di venire da queste parti, di notte?
– Un giorno o l’altro…
– E allora, finalmente, qualcuno potrà far saltare il monumento e voi a urlare che la polizia non è in grado e che quando c’eravate voi…
Ma Rosas non raccoglie. Sarti Antonio si guarda attorno:
– Dov’è?
– Chi?
– Quel giunco seminudo che ti stava in casa l’altro giorno – .
Rosas alza le spalle: non lo sa.
Come al solito, verso una certa ora, comincia a fare freddo. Rosas chiede ancora: – Novità?
Sarti non sa cosa dirgli. Gli rompe far sempre la figura di uno che non cava un ragno da un buco e allora dice: – Qualcosa di nuovo c’è.
Non aggiunge altro. Aspetta e ascolta il silenzio che pesa tutto attorno. Anche Rosas non aggiunge altro. Ma Sarti Antonio, sergente, ha bisogno di parlare con qualcuno che non sia l’ispettore capo e Rosas, in questo momento, è il piú adatto.
Altra divagazione personale.
Non ho mai capito perché questi due tipi si fermino a parlare fra di loro. Non hanno niente in comune: un poliziotto e un chissàcosa che i poliziotti non li può soffrire. Un chissàcosa che i poliziotti li incontra in piazza o all’università: loro, quando va bene, con lo sfollagente pronto a colpire e, quando va male, con il lanciabombe spianato. Lui, quando va bene, a scappare per non prenderle, e, quando va male, in terra, preso a calci. Eppure Sarti Antonio, sergente, con Rosas ci parla volentieri. Come ora.
Fine della divagazione personale.
Sarti dice, con un po’ di nervoso nella voce: – Non c’è niente di nuovo. È un casino che fa paura a Dio.
Aspetta, ma non viene niente. Ricomincia: – «Lui» dice che bisogna far parlare il prete… «Lui»
dice che è chiaramente un caso di assassinio passionale… «Lui» non ha mai capito niente!
– Ma è ispettore capo. Hai saputo perché Giacinto Gessi è andato a bere acqua solforosa alle due di notte? – Sarti scuote il capo.
– Hai saputo perché un invertito frequentava una casa d’appuntamento? – Sarti idem.
Allora Rosas si sdraia e chiude gli occhi. Dice: – Che cazzo hai fatto, sergente, in tutti questi giorni ? – e si volta su un fianco per vedere di dormire.
Già! Che cazzo ha fatto? Niente: ha solo parlato con diciotto cornuti; ha preso un pugno in faccia che è finito sotto un trattore; ha trovato quattro indiziati, compreso un maresciallo dei carabinieri; ha preso dell’incompetente dall’ispettore capo Raimondi Cesare ed è andato a trovare quel disgraziato di Felice Cantoni, all’ospedale Maggiore. Ecco che cazzo ha fatto in questi giorni!
Glielo dice, ma Rosas è come se non lo sentisse nemmeno. Alla fine, Sarti Antonio si alza e gli urla:
– Cosa sto a perdere il mio tempo con te, Cristo! Cosa vuoi saperne tu del mio lavoro!
Arriva uno dei due agenti che stavano in macchina. Chiede:
– Cosa c’è, sergente?
– Niente!
– Li portiamo dentro?
– Chi?
L’agente fa un cenno con la mano: – Questi… questi…
Sarti si tocca il cavallo dei pantaloni: – Porta dentro questi due! – E va verso l’ottoecinquanta.
A rifarci il conto, mentre torna in città, gli capita di pensare che sarebbe proprio interessante sapere perché Giacinto Gessi, invertito, frequentasse una casa d’appuntamento. E anche perché andasse a bere acqua solforosa alle due di notte.
A rifarci il conto, non vede perché non andare a trovare Clara, via Solferino 10, visto che è sulla strada di casa sua; anche se adesso, proprio adesso, la colite comincia a disturbarlo di nuovo. Non è una novità: gli succede tutte le volte che si arrabbia. E Rosas, quel gran pezzo di… lo ha fatto arrabbiare.
Anche se, a rifarci il conto, non sa bene perché si sia arrabbiato e la colite si sia svegliata.
Decide che d’ora in poi, prima di arrabbiarsi, ci penserà due volte e suona al numero 10 di via Solferino.
Sente che brontolano, dentro: – A quest’ora… si devono rompere le scatole alle persone per bene…
Poi, Clara «burro» apre la porta: è assonnata e protesta: – A quest’ora…
Sarti Antonio, sergente, dice subito: – Polizia – ed entra. Non le lascia il tempo di chiudere la porta e l’aggredisce:
– Voglio sapere perché Giacinto Gessi veniva da te. Voglio sapere con chi andava. Voglio sapere se veniva solo o in compagnia…
Si ferma per respirare. Clara «burro» si è risvegliata del tutto ed è già sorridente come quando apre ai clienti. Chiede:
– Vuole un caffè, sergente? Vuole un caffè?
– Si, voglio un caffè! Poi voglio sapere…
Ma Clara è in cucina a trafficare con le tazzine e la macchinetta. Cosí Sarti Antonio, sergente si siede, come un cliente qualsiasi, nel microsalotto di via Solferino Io e aspetta. Clara arriva con due tazzine che fumano. Dice:
– A quest’ora, sergente, a quest’ora?
Sarti Antonio sorseggia il caffè. Dichiara: – Buono. Allora?
Clara «burro» si accomoda sul bracciolo di una poltrona, si stira bene la vestaglia con le mani, e attacca:
– Dunque, una cosa alla volta. Veniva da me perché io sono discreta e non vado a raccontare le cose in giro. Non voleva donne, non ha mai voluto donne. Tutte le volte che arrivava era in compagnia di un amico.
A Sarti Antonio, sergente, per poco non prende un colpo. Urla: – Perché non lo hai detto a
«Lucciola», Cristo!
Clara gli mette un dito sulle labbra.
– Piano, sergente, piano o si sveglia tutto il palazzo, si sveglia Sarti Antonio, sottovoce, ripete: – Perché non lo hai detto a «Lucciola»?
– Io non vado a raccontare le cose in giro, io. E poi, chi è questo «Lucciola»?
– Niente, lascia perdere. Come si chiama il tipo che veniva qui con Giacinto Gessi…
– Questo poi non lo so. Non mi ha mai detto il suo nome, né io gliel’ho mai chiesto…
– Ma perché?
– Perché sono discreta…
– Ho capito – . Le mostra una foto di Mandini Gaetano «gallo»: – È questo?
Clara «burro» guarda bene la foto. Dice: – Dio, che bel giovane!
– Veniva con questo ?
– No. Sono sicura di no. Era un tipo più anziano: aveva i capelli grigi. Distinto, alto, sempre molto elegante. No, no, non è questo. Dio, che bel giovane!
– Cosa venivano a fare qui?
Clara «burro» guarda il sergente con gli occhi spalancati. Domanda: – Non lo immagina, sergente?
Non lo immagina?
Sarti Antonio, sergente, lo immagina benissimo.
– E come no, e come no? – Sarti si rende conto di ripetere le stesse cose due volte anche lui, per cui se ne va. Esce dal numero 10 di via Solferino con gli occhi sbarrati e un gran casino in testa e nella pancia.
– E adesso?
Adesso suona di nuovo. Dice: – Se dovesse ritornare…
Clara lo interrompe: – Ma è morto, sergente. È morto.
– Dico l’altro! Quello più anziano, con i capelli grigi, distinto… Se dovesse ritornare, fa’ in modo di trattenerlo qui e di avvertirmi. Fa’ in modo…
Ecco, continua a ripetere le cose.
E figurarsi se quello si rifà vivo, figurarsi!
15.Giorgio Celli detto «frusta»
Sarti è li, in casa sua, che legge il giornale e non pensa al lavoro. Almeno di domenica… Di solito, per prima cosa, vede se c’è un articolo di Gianni «Lucciola» Deoni. Se c’è, lo legge, di qualunque cosa parli, se non c’è, torna alla prima pagina e guarda i titoli. Dunque è lí, in casa sua, che si legge il giornale, quando suona il telefono. Urla:
– Non ci sono! – E lo lascia cantare, ma quello insiste proprio: – Pronto!
– Dove cavolo eri, sergente? – E Rosas.
– Al cesso!
– Metà della vita la passi nel cesso di casa tua e l’altra metà, in quel cesso di questura…
Sarti Antonio non coglie la finezza. Domanda: – Cosa vuoi?
– Vederti ! Ho bisogno di parlarti, sergente.
– Tu hai bisogno di parlare a me?
Dall’altra parte c’è un po’ di silenzio, poi: – Golfarini Antilio, il muratore, è ancora dentro. Cosa aspettate a farlo uscire?
– A chi lo chiedi?
– A te, al tuo ispettore capo, a chi ti pare! Lo avete arrestato per l’omicidio di Giacinto Gessi ed è chiaro che non è stato lui…
– Lo pensi tu.
– Lo pensi anche tu.
– Ha imbrattato il monumento e deve stare in galera.
– Per quale articolo del codice?
Sarti Antonio, sergente, non lo sa: – Deve stare dentro e basta!
Ancora silenzio per un po’: – Devo farti parlare con qualcuno…
– È domenica e non mi muovo di casa. Non sono in servizio…
Di là, Rosas ha fatto un fischio, sommesso.
– Sei un gran figlio di puttana, sergente!
Sarti Antonio, sergente figlio di puttana, resta lí con il microfono in mano come un povero scemo.
Il fatto è che non aveva nessuna intenzione di interrompere la comunicazione. Anche perché, tutte le volte che parla con Rosas, questo gli dà delle ottime idee. Si decide: scende, salta sull’ottoecinquanta e va in Santa Caterina. Da Rosas.
Avete mai fatto caso che quando vi serve incontrare qualcuno è proprio la volta che non lo incontrate ? Infatti Rosas non è a casa. È logico perché, se ha telefonato a Sarti, non lo ha fatto da casa in quanto non ha telefono. Poi: è domenica pomeriggio e tutte le persone che si rispettano sono fuori. Chi a spasso in automobile, chi al cinema, chi allo stadio e chi per i fatti suoi, almeno una volta la settimana. Bastava pensarci un po’. Ma ormai Sarti Antonio, sergente, è fuori e non ha più voglia di tornare a leggere il giornale. Va in via E. A. Mario, al campo di baseball a vedersi la Montenegro. Mi pare di non avervene mai parlato, ma Sarti Antonio, sergente, va matto per il baseball. Anche questa è una delle cose di lui che non ho ancora capito, come non ho ancora capito il baseball.
Si vede tutta la partita e se ne torna soddisfatto (la Montenegro ha vinto) in via Santa Caterina.
Questa volta lo trova: Rosas è sul divano, da solo, a leggersi chissà che libro. Sarti Antonio gli chiede:
– Cosa vuoi?
Rosas lo guarda in un modo che vuoi dire: «cosa cerchi adesso?» Ma Sarti fa finta di non saper leggere nei pensieri degli altri e ripete: – Eh? Cosa vuoi?
– Hai la macchina, sergente?
– Ce l’ho!
Rosas si alza ed esce. Sarti gli va dietro. Seduto sull’ottoecinquanta Rosas continua a leggere il suo libro.
– Dove andiamo?
– A Pieve del Pino, per favore – . Come se fosse in taxi.
Sarti mette la prima con uno schiaffo al cambio; la seconda, la gratta; la terza la tiene fino a far urlare il motore e la quarta va dentro meglio perché gli è già un po’ passato il nervoso. Urla: – Non sono un taxi! Capito? – Ma prende la strada di Pieve del Pino.
– Cosa andiamo a fare?
– A parlare con un tale. «Il 22 ottobre, finalmente, il governo bandì il decreto imperiale sull’alleggerimento della pena per le persone incorse in atti criminosi nei confronti dello stato. Ma v’era una categoria di persone che il decreto non contemplava e non poteva contemplare. Erano i torturati a morte, gli scannati, gli strangolati, i fucilati, i caduti per la causa del popolo. Negli obitori della polizia giacevano i cadaveri, ancora caldi delle prime vittime dell’era costituzionale…»
Sarti Antonio, sergente, non ha capito molto di quello che Rosas gli ha letto. Chiede:
– Cos’è?
– Niente che ti interessi, sergente, se non il fatto che anche i caduti del monumento sono morti proprio mentre stava per iniziare il nostro periodo costituzionale. Pochi giorni prima che finisse la guerra…
– Il destino…
Rosas si scalda. Non succede spesso:
– Il destino non c’entra niente! Qualcuno sapeva che sarebbero passati di lì, li stava ad aspettare e li ha massacrati. Tutti! Il destino lasciamolo perdere, per favore! Come quando voi sparate in faccia a quelli che sono in piazza!
– O quando voi spaccate la testa a un questurino!
E il discorso finisce lì. Meglio. Solo quando arrivano a Pieve del Pino (è già scuro) Sarti Antonio chiede:
– Chi è questo tale col quale vuoi farmi parlare?
– Giorgio Celli – E Rosas non dice altro.
– E allora?
– Era un amico di Giacinto Gessi e di Mandini Gaetano.
– E allora ?
Ma Rosas non gli risponde più. Ha ricominciato a leggere il suo libro: Sarti Antonio lo lascia in pace, tanto, non ne caverebbe niente. Tutt’al più Rosas si metterebbe a fischiare e Sarti non ha proprio nessuna voglia di starlo a sentire.
– Da che parte vado, adesso? – Rosas gli indica la strada a fianco della farmacia. Sulla porta c’è il farmacista piccolo e magro che, di tanto in tanto, picchia la moglie. Va subito dentro, appena si accorge di Sarti.
– Quello è sporco. Sporco dalla testa ai piedi.
Il sergente prosegue con l’ottoecinquanta finché Rosas gli dice: – È qui.
E scendono. La casa ,è l’ultima del paese: dopo cominciano i campi. È già buio e la strada non ha illuminazione. Neppure la casa pare ne abbia. Non si vede e non si sente nulla. Dice Sarti:
– Non c’è nessuno.
– Aspetteremo – . Entrano perché la porta è aperta.
Sarti cerca con le mani un interruttore, ma pare che non ci sia. Sospende le ricerche e accende un cerino che si spegne subito perché c’è vento.
Dice: – Aspettami –. Va alla macchina a prendere la torcia elettrica e quando torna non trova piú neppure Rosas.
– Rosas! – Cerca intorno con la pila. – Che razza di casa Rosas!
C’è una porta, aperta, e Sarti Antonio l’oltrepassa. Non è che sia molto bello trovarsi in queste situazioni… Io lo so.
Ma poi li vede: sono seduti davanti a una finestra e gli danno le spalle. Nessuno dei due parla.
Sarti è piuttosto arrabbiato. Scatta:
– Che razza di scherzi! Non puoi rispondere?
Rosas gli risponde adesso: – Si sta bene in silenzio. Siamo qui.
L’altro si alza e gli trova una sedia, al buio. Si muove come se ci vedesse. È alto e grosso. Ha un collo che non bastano le mie mani a tenerlo tutto. Sembra grasso, invece dev’essere tutto muscolo.
Sarti Antonio, sergente, gli passa la luce in faccia: è anche piuttosto bruttino.
– Non c’è elettricità in questa casa?
È Rosas che gli risponde: – No!
– Perché?
Il tipo alto e grosso parla sottovoce. Dice: – Non mi piace la luce: tutto qui.
Sarti Antonio, sergente, pensa che quel tipo non deve essere tutto a casa. Ma non lo dice e si siede anche lui a guardare fuori. La finestra dà verso il paese. Per un po’ Sarti se ne sta buono, sperando che Rosas si decida, ma poi non ne può proprio più:
– E allora?
Rosas dice: – Questo è Giorgio Celli. Lo chiamano «frusta» per via che gira sempre con una frusta sulle spalle.
– Piacere. Sarti Antonio, sergente – . Non gli porge la mano perché, tanto, sa benissimo che Giorgio Celli «frusta» non gliela stringerebbe.
Continua: – Conoscevi quei due? – L’altro fa si con la testa, ma Sarti Antonio, che non è un gatto, non se ne accorge.
– Allora?
– Ho detto si!
– Hai detto si? Non ho sentito. Sai chi è stato?
«Frusta» comincia a parlare sottovoce e va avanti per un pezzo:
– Se sapessi chi è stato, quel tale dovrebbe sentirsi piuttosto male, perché io lo farei crepare. A botte lo farei crepare! Se crede che io mi impressioni, si sbaglia di grosso. Ha spaccato la testa a quei due, ma non mi fa paura. Deve solo provarci anche con me. Io non sono né Giacinto né Gaetano e lo aspetto qui. Che venga quando vuole! Vedremo chi si romperà le corna…
Sarti Antonio, sergente, comincia a provarci gusto, sia al buio che al parlare sommesso di Giorgio Celli detto «frusta». Chiede:
– Perché dovrebbero cercare di fare fuori anche te? Che motivi ci sono? – Che motivi c’erano per uccidere Giacinto e Gaetano? Che motivi c’erano?
– Tu lo sai?
Giorgio Celli non risponde. Sarti Antonio suppone che abbia fatto di no con la testa. E va avanti:
– Allora, deve essere un matto che si diverte ad andare in giro ad accoppare la gente…
– Non è un matto! Ha fatto fuori quei due e ci proverà anche con me…
– Ma non sai dirmi il motivo.
Ancora silenzio. Dopo un poco Rosas prende la parola:
– Giacinto Gessi, Gaetano Mandini e lui erano molto amici…
– Per questo c’è chi vuole ucciderli?
Rosas fa finta che Sarti non abbia parlato e continua:
– … e si trovavano, qualche volta, per stare assieme. Qui, in casa o da qualche altra parte.
A Sarti Antonio viene un dubbio: – E cosa ci facevano qui in casa al buio? Erano tutti e tre finocchi? Come Giacinto Gessi! –
Questa volta è «Frusta» che parla, sempre sottovoce:
– Giacinto Gessi non era un finocchio!
– No ? Vai a leggere il referto dell’autopsia. Oppure dimmi cosa andava a fare in una casa d’appuntamento, senza donne, con un tale anziano, alto, distinto e con i capelli grigi…
Nessuno dice più niente. Allora è Sarti Antonio che continua: – Che razza di amico sei, se non lo sapevi?
– Erano fatti suoi!
Rosas dice: – Andavano a funghi – . Come se fosse la cosa destinata a risolvere il caso.
A Sarti non interessa più niente: non interessa piú un matto che se ne sta in casa, al buio e dice di essere amico di due morti ammazzati. Però risponde, per educazione:
– Si? E ne trovavano?
– C’erano andati qualche giorno prima che Giacinto Gessi venisse ucciso. Sono passati anche a bere un sorso di acqua solforosa.
Tutte le volte che Sarti Antonio, sergente, sente «acqua solforosa» gli viene un crampo allo stomaco e subito dopo un dolore colitico. Sarà perché non ha ancora capito cosa c’entri questa maledetta acqua solforosa in tutta la storia. E forse non lo capirà mai. Chiede:
– Non hai altro da dirmi?
Solito no con la testa che Sarti non vede, ma immagina.
– Sei un bugiardo. Stai ad aspettare che vengano a spaccarti la testa e non sai perché! Hanno ucciso due tuoi amici e non sai perché! Sei un bugiardo. Se ti accopperanno (e ne dubito) faranno bene. Ti saluto.
Sarti se ne va. Rosas lo raggiunge in macchina e il sergente si sfoga:
– Quello è matto! Ho l’impressione che stiamo diventando matti tutti! Compreso te, genio! Mi porti qui in piena notte per farmi sentire un sacco di sciocchezze…
– Non ha detto solo delle sciocchezze: ha detto che sono andati a funghi e a bere acqua solforosa…
– E allora?
– Allora è il caso che andiamo anche noi a bere un poco di quell’acqua. Non ti è ancora passato per la testa ? Qui tutti la bevono: dal dottore al farmacista, al maresciallo dei carabinieri, ai due cadaveri, al terzo amico che, per ora, è ancora vivo…
– A me non piace l’acqua solforosa: non ho mai potuto soffrirla. E poi ho la colite e mi farebbe male.
Lo dice cosí, tanto per dire, perché sa benissimo che, prima o poi, dovrà pur decidersi e andare a vedere questa sorgente. E chissà che Rosas non abbia ancora ragione…
16. Sarti Antonio, sergente, a rapporto
Raimondi Cesare, ispettore capo, ha già aperto, scorso e richiuso il fascicolo, venti volte. E ogni volta si ferma un attimo per guardare in faccia Sarti Antonio, sergente, che se ne sta in piedi e aspetta…
«Lui» rilegge ancora qualche riga e poi non ne può proprio più. Butta il fascicolo in un angolo del tavolo.
– Sai cos’è questo? Questo è un casino! Se faccio leggere il rapporto ai superiori, mi chiedono, è vero, come si dice… se ho degli agenti o delle serve. Questo è un casino e tu sei un gran casinista!
Sono passati più di due mesi e che cosa hai concluso?
Sarti fa per aprire bocca, ma l’ispettore capo Raimondi Cesare non gli lascia il tempo:
– Te lo dico io! Primo: mi fai arrestare un certo Golfarini Antilio, muratore, con l’accusa di aver assassinato Giacinto Gessi, di ventisei anni, contadino. Secondo: mi racconti che il morto era solito andare a bere dell’acqua solforosa (e chi se ne sbatte, è vero, come si dice…) alle due di notte, in mezzo a un bosco, mentre di giorno frequentava una casa d’appuntamento ma non voleva donne…
Terzo: (me lo scrivi qui) mi chiedi di rimettere fuori il muratore perché, dici, lui non c’entra niente, in quanto gli omicidi (che non si sa come sono diventati due) sarebbero di natura passionale.
– Quarto: metti sotto inchiesta il meccanico, il dottore, il farmacista e il maresciallo dei carabinieri di Pieve del Pino, perché le rispettive mogli se la sono fatta, è vero, come si dice, con Mandini Gaetano, di anni venti, secondo cadavere e gallo del paese. Quinto: mi vieni a raccontare che il presunto gallo del paese, in fondo non è che fosse poi tanto gallo, anzi, lasciava molto a desiderare.
– Sesto: mi chiedi di cercare un tale dai capelli grigi, distinto, alto, sempre molto elegante, che, a quanto sembra, frequentava una casa d’appuntamento per divertirsi con Giacinto Gessi, ventisei anni, contadino, invertito, primo cadavere. Io ti ascolto e distribuisco un identikit che assomiglia al sottoscritto… Non ci credi? Guarda, guarda!
Sarti Antonio guarda e conviene che Clara doveva avere sottocchio la foto dell’ispettore capo Raimondi Cesare, quando ha dettato all’esperto quella specie di disegno.
– Settimo: improvvisamente non si tratta più di omicidio dettato dalla gelosia di un marito tradito!
No! Si tratta di un tale, un maniaco che si chiama… che si chiama…
– Giorgio Celli detto «Frusta».
– Giorgio Celli detto «Frusta», che si diverte è vero, come si dice, a stare in una camera senza luce elettrica. Costui li avrebbe uccisi perché suoi amici intimi!
– Sarti Antonio! Si rende conto di quello che ha scritto?
Sarti Antonio si rende perfettamente conto di quello che ha scritto. Più o meno (l’ispettore capo Raimondi Cesare ha esagerato e ha fatto più casino di quello che è), più o meno, le cose stanno proprio in quei termini.
– Giorgio Celli, è un povero matto e ha una forza da bestia. Solo un matto può aver ucciso quei due.
Ma «lui» non lo lascia finire neppure questa volta. Adesso ha cominciato a dargli del «lei».
– Si rende conto è vero, come si dice, di quello che sta combinando? Faccia sparire questa roba, sergente, prima che capiti in mano a qualcuno… a qualcuno che non la conosce…
Gli porge il rapporto spiegazzato e Sarti se lo infila in tasca. Fa per andare:
– E adesso che intenzioni ha, sergente?
Se Sarti sapesse dove mettere le mani…
– Devo riflettere un pochino.
– Ecco, bravo! Provi a riflettere un pochino, è vero, come si dice…
Sarti Antonio, sergente, se ne va: esce dall’ufficio dell’ispettore capo con dei tremendi dolori al ventre, una gran voglia di urlare e un odio incontrollabile verso suo padre colpevole di non averlo mandato a fare il garzone del fornaio fin dall’età di dodici anni. Ma pare che non sia finita: non è arrivato in fondo al corridoio che «lui» lo chiama:
– Sergente! – Si volta e vede che l’ispettore capo lo sta raggiungendo. Poiché non può scappare (tanto non andrebbe lontano e poi sarebbe una ammissione di colpa), decide di aspettarlo. Quello gli dice:
– Andiamo a parlare con il prete. Io te l’avevo già suggerito, ma dei miei consigli, è vero, come si dice, tu te ne freghi.
Sarti Antonio lo segue fino al cortile.
– Dove hai la macchina?
– È qui fuori. Possiamo prendere una di queste…
– Sarti Antonio, non facciamoci ridere dietro per una macchina, è vero, come si dice…
Non ci facciamo ridere dietro e saliamo sull’ottoecinquanta di Sarti. Anche se ha smesso di parlargli con il lei, l’ispettore capo Raimondi Cesare deve essere piuttosto nero: non fiata per tutto il viaggio. Dice solo: – Vediamo se si riesce a combinare qualcosa.
Appena arrivano davanti alla chiesa di Pieve del Pino, Sarti Antonio dice al prete:
– Questo è l’ispettore capo Raimondi Cesare. Vorrebbe sapere…
– Lascia parlare me, sergente. Caro padre, desidererei rivolgerle alcune domande, è vero, come si dice, per vedere se riusciamo a sbrogliare questa brutta matassa.
Il pretone, bello, alto, si apre in un sorriso che Sarti Antonio traduce cosí: «dica pure, caro dottore; non ho dubbi che lei, persona altamente colta e intelligente, riuscirà a risolvere il caso…» Ma quello dice:
– Ho proprio paura di non potervi essere d’aiuto. Ho già detto tutto al suo collaboratore…
Sarti gli darebbe un bacio, gli darebbe.
– Io, invece, vorrei sapere quello che non gli ha detto. Per esempio, padre, lei sapeva che Giacinto Gessi era… era… Insomma non era troppo normale con le donne?
– Povero Cintino! Mi ha parlato tante volte di questo suo problema…
– Lei lo sapeva! – Il pretone annuisce, ma il suo viso è triste, molto triste.
– Perché non me lo ha detto ? –
Il pretone guarda Sarti senza cambiare espressione.
– Figliolo, non me lo ha mai chiesto e io non posso raccontare in giro quello che i miei parrocchiani mi confidano in confessione…
Raimondi Cesare comincia ad avere gli occhi lucidi per la contentezza. Continua: – E saprà anche chi era l’uomo con il quale il Gessi, è vero, come si dice…
– O no! Questo proprio no!
– Cosa sapeva di Mandini Gaetano, padre? Voglio dire della sua attività, è vero, come si dice, sessuale?
Il pretone annuisce, sempre con aria triste. Deve essere proprio brutta per un parroco, buttare sul pavimento della sua chiesa i guai più sporchi dei suoi parrocchiani…
– La moglie di qualcuno le ha parlato di minacce fatte al defunto Mandini Gaetano?
Piú o meno tutti avevano minacciato la moglie e Gaetanino.
Adesso tocca a Sarti che proprio non può farne a meno:
– Anche il dottore?
– Be’, direi proprio di no. Il dottore è una specie di… di uomo senza morale, insomma. A lui non importava se la moglie…
– E il maresciallo?
È sempre Sarti e stavolta, mentre aspetta la risposta del pretone, guarda bene in faccia Raimondi Cesare.
– La povera signora del maresciallo è tornata dai suoi parenti. È stato lui, a costringerla a partire.
La poverina prima di andarsene è venuta a trovarmi… Piangeva che sembrava una fontana, poverina… Pentita! Dio sa se era pentita! Mi ha detto, fra le lacrime: «Padre, io parto. Lascio mia figlia nelle sue mani. Faccia come se fosse figlia sua…» Poverina, proprio cosí mi ha detto; era fuori di sé. «Parto e non so quando potrò tornare. Ma è la cosa migliore…»
E la smette lí.
Ma a Sarti Antonio non basta. Chiede: – Perché era la cosa migliore?
– Non ha detto altro, poverina. Piangeva, piangeva solamente.
Raimondi Cesare, ispettore capo, riprende in mano la situazione: – Chi è Giorgio Celli?
– Un pover’uomo, direi. Non perché non viene mai in chiesa, ma perché quando un uomo non ha un lavoro, quando vive come un eremita, quando non ha amici, quando sta per ore davanti alla porta di casa a far schioccare la frusta, quando si ubriaca una volta la settimana, quando…
E chissà per quanti altri quando sarebbe andato avanti il pretone, se l’ispettore capo Raimondi Cesare non l’avesse interrotto.: – Non era amico dei due che sono stati uccisi?
– Sì: le uniche persone con le quali aveva dei rapporti erano proprio quei due.
– Che genere di rapporti? Voglio dire: come mai tre uomini tanto diversi si frequentavano?
– Non l’ho mai capito. Francamente non l’ho mai capito.
– Giacinto Gessi non le ha mai parlato di Giorgio Celli ?
– Qualche volta ho provato a parlargliene io, ma Cintino ha sempre cambiato discorso. Mi diceva solo: «È un bravo ragazzo, padre. È un bravo ragazzo».
– Cosa facevano e dove andavano quando si vedevano ?
– Qualche volta da Giorgio Celli…
– Al buio ?
– Al buio. Oppure, come l’ultima volta che si sono incontrati, andavano fuori per funghi, o anche in giro cosí, senza una meta. Solo per parlare.
– Di cosa?
Il pretone alza le spalle. Pare che Raimondi Cesare, ispettore capo, abbia finito. Ha ancora gli occhi lucidi per la felicità.
Sarti Antonio, sergente, è curioso di sapere di dove venga tanta felicità e cos’abbia ricavato da quei discorsi perché lui, Sarti Antonio, è al punto di prima.
Se ne vanno.
– Portami dal dottore.
Davanti all’ambulatorio Sarti si ferma e indica la porta. Stessa storia della presentazione e prima domanda di Raimondi Cesare, ispettore capo:
– Cosa ne pensa, clinicamente, di Giorgio Celli?
– Niente!
– Come niente?
– Niente, perché non ho mai avuto il piacere di visitarlo. Pare che abbia una salute di ferro…
– Non ha mai avuto occasione di incontrarlo, di parlare con lui?
– Quello non parla con nessuno. Se ti incontra, ti saluta con un cenno del capo e un sorriso.
Sorride a tutti, ma non parla.
– Mi sembra un pover’uomo…
– Dipende dai punti di vista. A lui, siamo io e lei a sembrare poveri uomini.
– Il prete mi ha detto…
Questa volta è Raimondi Cesare a prendere una botta nei denti. Gli dice il dottore:
– Ecco, bravo! Se ne ha parlato col prete, lei è già a posto! A chi tocca?
Fa entrare il malato di turno. Con ciò i due questurini possono anche togliere il disturbo. Lo fanno.
Mentre tornano verso la città, Sarti Antonio chiede:
– E allora?
Gli fa un sorriso tale che a Sarti viene voglia di aprire la portiera e scaricarlo in un burrone e poi raccontare che lo ha perduto per strada.
– È tutto molto chiaro, sergente. Non credi? L’amicizia dei tre è equivoca: non escludo che ci sia dentro anche il dottore, vista la scarsa moralità di cui fa bella mostra, è vero, come si dice… E mi pare proprio il tipo dai capelli grigi, distinto, alto, sempre molto elegante di cui ha parlato Clara. Si tratta di mostrare a Clara una foto del dottore e vedere la reazione.
In effetti, Sarti non è che avesse mai pensato a una soluzione simile. Sarebbe il colmo: arriva Raimondi Cesare, ispettore capo, fa quattro domande qua è là e ti risolve il caso. Delitto passionale si, ma fra uomini di scarsa morale e gelosi l’uno dell’altro. Avrebbe anche ragione Giorgio Celli
«Frusta» nel dire che non sa chi tenterà di fargli la festa in quanto il dottore potrebbe essere (se le cose stanno come suppone «lui») l’amico segreto di Giacinto Gessi. Il quale, però, avrebbe tenuto nascosta la sua relazione con il dottore perfino ai suoi amici intimi: Mandini Gaetano «gallo» e Giorgio Celli «Frusta». Cristo, che casino!
Ci sarebbe da dare le dimissioni da sergente e andare a fare il garzone del fornaio. Non è mai troppo tardi. In cuor suo Sarti Antonio, sergente, spera che non sia cosí. Raimondi Cesare continua:
– Sono anche sicuro che il prete sa chi è l’amico misterioso del Gessi. Per quale motivo avrebbe chiamato il dottore «un uomo senza morale» se non sapesse che è stato l’amante del morto? Dovrò fare in modo che intervenga il vescovo.
– Il vescovo?
– Penso che il vescovo è vero, come si dice, non avrà difficoltà a farsi rivelare dal prete il nome dell’uomo che frequentava via Solferino con il Gessi; anche se si dovesse trattare di segreto confessionale. Vedremo, vedremo fino dove arriva l’immoralità di quella specie di dottore senza morale!
A Sarti Antonio, i crampi al ventre sono diventati piú acuti. Comincia ad aver bisogno di un gabinetto. Meglio se è quello di casa sua.
17. La storia continua…
Sarti Antonio, sergente, non è presente quando Raimondi Cesare, ispettore capo, si reca in via Solferino 10 e suona il campanello di Clara «burro» affittacamere e le mette sotto il naso una bella foto del dottore. Non è presente perché, dice, la colite non gli dà pace. Ma il fatto vero è che non ha nessuna voglia di stare a sorbirsi il sorriso e le lacrime di gioia che «lui» avrà sul viso quando Clara
«burro» gli dirà: «Si, si! È proprio questo il tipo che veniva con Giacinto Gessi. È proprio questo il tipo. Quando io ho visto qualcuno una volta, non lo dimentico piú, non lo dimentico».
Ma le cose non vanno proprio come Sarti immagina. Dice Clara:
– No, no! Sono sicura di no! Non gli somiglia per niente, non gli somiglia. Poi questo ha la barba, ha.
– Lasci stare la barba, signora! La barba può crescere in tre giorni, è vero, come si dice… Guardi il viso, gli occhi, il naso…
Clara continua a scuotere il capo:
– No, no! Sono sicura di no! Gli occhi magari … E anche i capelli grigi… Ma il naso! No, no! Sono sicura di no!
Raimondi Cesare, ispettore capo, se ne va sbattendo la porta, mentre Clara gli urla dietro:
– Torni, torni pure quando vuole, caro.
Cosí Raimondi Cesare chiama Sarti e gli dice:
– Quella cretina non riconoscerebbe suo padre, è vero, come si dice. Sta a guardare la barba! «Il naso non è quello!». Ci vuole molto a cambiare la forma di un naso: due pezzetti di cotone e il gioco è fatto, è vero, come si dice… Comunque, ci vogliono dei dati di fatto e noi li troveremo. Mi devi controllare i movimenti del dottore prima e subito dopo i due omicidi; chiedi all’ordine dei medici, chiedi alla moglie se il marito ha delle tendenze particolari… Non mi meraviglierei, visto che non se la prende se lei, è vero, come si dice… se la passa con altri uomini. Poi torni a trovare quello scemo che non ha la luce in casa e gli fai capire che l’amante di Giacinto Gessi potrebbe essere il dottore… Devo sempre dirti tutto io, è vero, come si dice…
Sarti Antonio fa per andare, ma poi chiede: – E il vescovo? –
Raimondi Cesare non gli risponde. Scuote solo il capo e tiene gli occhi piantati sui fogli sparsi sul tavolo: magari sono i rapporti di altri agenti senza iniziativa. Proprio come Sarti Antonio, sergente.
Viene fuori che sorride. Giù in strada mi offre il caffè: – Due espressi che siano espressi – . Mi stringe anche la mano quando sale sull’ottoecinquanta. Non che io me ne vada (tanto non lo lascio un momento) ma cosí, per felicità, perché non ha più i morsi di colite e perché Raimondi Cesare, ispettore capo, ha fatto una figura del cavolo.
In questi giorni che se n’è stato chiuso in casa, magari al cesso, ha potuto pensare in pace a tutto quello che gli è successo attorno e comunque vadano le cose, lui, Sarti Antonio, sergente, il suo dovere l’ha fatto. E dal momento che non ci leva i piedi un ispettore capo…
Da casa telefona a Pieve del Pino e gli risponde la moglie del dottore. Non poteva che essere cosí, dal momento che ha scelto l’ora nella quale lui, il dottore, doveva essere in ambulatorio con i suoi pazienti. Gli risponde proprio il pezzo di donna che avrà vent’anni. Dice:
– Pronto?
– Sono Sarti…
– Chi?
– Sarti Antonio, sergente. C’è suo marito?
– No. È in ambulatorio. Glielo chiamo, sergente? – Dice sergente che sta sorridendo, ci scommetterei.
– Non mi serve il dottore. Ho bisogno di parlare con lei. Non capita mai in città?
Ancora un poco di silenzio e poi il pezzo di donna si decide:
– Io vengo tutti i giorni o quasi…
– Ci vediamo domani?
– Dove?
Già, dove? Lui ci prova: – A casa mia.
Il pezzo di donna non fa una piega e gli risponde: – Sarò da lei domattina alle dieci. L’indirizzo, prego.
Glielo dà. Avere quel tipo per casa, domattina alle dieci, gli fa sentire un morso allo stomaco…
Proprio come le prime volte che uno va a donne. Mette in ordine. Ma soprattutto è il fatto che quel pezzo di donna non si sia scomposta, quando le ha detto: «a casa mia».
Magari arriva con il marito senza morale, che se ne viene a guardare loro due!
Sarti Antonio si aspetta di tutto, tranne che, appena dentro, lei si tolga le scarpe.
È sola e dice: – Non posso sopportare le scarpe. Me ne sto scalza tutto il giorno.
Ha un abitino di cotone che lascia vedere il seno: una meraviglia. A guardarla bene, deve avere più dei vent’anni che le aveva dato la prima volta. Ma resta sempre quel gran bel pezzo. Si mette a sedere e chiede: – Allora?
– Adesso preparo un caffè – . Ma Sarti non si muove; è inchiodato a guardarla.
– Va bene: prendo volentieri un caffè – . Lui si decide e va in cucina. Quando lo porta, lei si è già accesa una sigaretta. Sarti Antonio, sergente, non può sopportare il fumo, ma non glielo dice.
A questo punto, secondo me e tutti i teorici del sesso, lui dovrebbe baciarla, senza perdere altro tempo. Ma, evidentemente, io e gli altri teorici del sesso, non sappiamo del morso allo stomaco che sente il Sarti. Beve il suo caffè, come lei.
– E allora?
Adesso non c’è più caffè che tenga: resta quel meraviglioso seno, sotto il cotone teso del vestito.
Di colpo gli passa il morso allo stomaco. Dice, in fretta:
– Ne parliamo subito o dopo? –
Lei spegne la sigaretta, ancora da fumare per metà: – Ne parliamo dopo.
È fatta, come al cinema!
Dopo, Sarti Antonio, sergente, ha la sensazione di non essere stato all’altezza: è la preoccupazione che abbiamo tutti, quando ci capita di trovarne una nuova. Glielo dice:
– È stata una delusione? Come con Mandini Gaetano? –
Lei scuote il capo e gli mette un dito sulle labbra. Gli sorride, anche. Poi si copre quel bel seno con una punta del lenzuolo.
– Cosa ne pensa tuo marito?
– Niente.
– È uno sportivo…
– No! Sa come vanno le cose al mondo…
– Tutto qui?
– E cos’altro? Io non gli sto a rompere l’anima per le sue avventure…
Sarti la interrompe perché è questo il momento: – Magari con uomini…
Lei si mette a ridere forte, tanto che Sarti Antonio è certo che il vicino ha sentito.
– No?
– No! Al mio dottore sono sempre piaciute le donne.
Lui la guarda e decide che deve essere proprio cosí. Ma quel dottore, non lo capisce. E lo dice:
– Non gli importa se vai con altri, non gli importa se lo si viene a sapere in giro, non gli importa che lo considerino senza morale… Cosa gli importa?
– Fare il suo mestiere meglio che gli sia possibile; avere vicino una persona che gli voglia bene…
– Tu?
Lei annuisce:
– … non vuol pesare su chi gli sta attorno e non vuol pesi per se stesso. Vuol lasciare agli altri la possibilità di vivere secondo i loro desideri e vivere, lui, secondo i propri…
Sarti Antonio, sergente, comincia a odiare il dottore:
– Un marito perfetto.
Lei sorride ancora. Dice: – È un uomo che ha capito molte cose e questo gli basta.
– Un tipo, insomma, che non va in giro a spaccare la testa agli amanti di sua moglie.
Lei annuisce: non è che parli molto. Il necessario e basta. Sarti Antonio, sergente, chiede:
– Glielo dirai di oggi? – Lei fa sí con la testa.
Un bel guaio: con che faccia Sarti Antonio potrà presentarsi al dottore, domani o dopodomani?
Quello, magari, è capace di chiedergli se è rimasto soddisfatto o se ha delle lamentele. Non sa più cosa dire:
– Un altro caffè? – È la sola cosa che gli viene in mente. E poi va di là, in cucina, senza aspettare risposta. Il caffè è una buona cosa: ti permette di restare in silenzio, mentre lo bevi, a pensare ai fatti tuoi e a quello che ti sta succedendo. Ti aiuta a uscire da situazioni imbarazzanti. Ti dà tempo per riordinare le idee e preparare nuove domande. Come questa:
– È da molto che tiene la barba?
Lei scuote la bella testa: – Un paio di mesi, più o meno.
– Perché ha deciso di farsi crescere la barba?
– Non gliel’ho chiesto: mi piace anche così.
Questa cosa della barba di circa due mesi (da quando cioè si trovò il primo cadavere) farà un gran piacere a Raimondi Cesare, ispettore capo.
Sarti decide di non pensare più al caso, per un po’: ha la donna fra le mani e cerca di non deluderla, almeno questa volta.
Poi le cose vanno avanti da sole e Sarti Antonio non ha più la preoccupazione di non essere all’altezza.
Manca poco all’una quando quel bel pezzo di donna se ne va. E lo lascia solo, a pensare a molte cose, belle o brutte.
Magari, domani, arriva il dottore, distinto, alto, capelli grigi, barba di due mesi e sempre molto elegante, suona dove trova il nome di Sarti, entra, gli spacca la testa con una pietra e se ne torna dai suoi malati:
«Avanti un altro…»
18. La storia continua… e sembra quasi arrivata alla fine…
Lo svegliano che saranno le sei. Dice l’ispettore capo Raimondi Cesare, al telefono:
– Ti mando l’auto fra dieci minuti. Preparati.
– Per andare dove?
– Preparati.
– Lei, ispettore, non dorme mai?
– E tu dormi troppo.
Sarti si prepara e quando gli suonano è già sulla porta e la sta chiudendo a chiave. Come al solito, non ricorda se, dopo che si è preparato il caffè (un buon caffè), ha chiuso o no il rubinetto del gas.
Deve rientrare, se no, non sta tranquillo.
L’aveva chiuso, come al solito.
Giú c’è l’auto 28 e al volante c’è Felice Cantoni, agente. Gli chiede:
– Come va?
– Cosí. Ricominciamo.
Sarti Antonio lo guarda in faccia: – L’ospedale ti ha fatto bene: sei ingrassato.
– Lo dice anche mia moglie.
– La testa?
– Va bene: solo che adesso fumo di più. Tre sigarette al giorno e mi sembra di avere un leone nello stomaco: l’ulcera… Quelle suore, all’ospedale, mi hanno fatto diventare matto!
Sarti Antonio, sergente, sale e chiede:
– Dove si va?
Felice Cantoni non gli risponde. Dice, invece: – Hai la rivoltella?
Sarti spalanca gli occhi: – Per farne che?
– «Lui» dice che devi prendere la rivoltella…
– È matto?
– Dice che devi prendere la rivoltella…
Sarti scende dall’auto e torna in casa: da qualche parte, dentro qualche cassetto, c’è la rivoltella, tutto sta ricordare dove. Alla fine, la trova: nel cassetto dove tiene i fazzoletti e i calzini. Se la infila in tasca e torna fuori.
– Chissà se ho spento la luce, in camera.
Questa volta se ne frega. Partono con l’auto 28 e Felice Cantoni, agente, di nuovo al volante. Sarti domanda ancora:
– Dove andiamo?
– Al poligono di tiro. Non so altro. Ho dovuto prendere la rivoltella anch’io, figurati…
Se conosco qualcuno che odia le armi, è Sarti Antonio, sergente: non le può vedere. Il rumore degli spari gli dà nausea e l’odore della polvere bruciata gli fa girare la testa. Eppure è sergente della polizia.
Al poligono sono in diciotto: tutti quelli dell’ispettore capo Raimondi Cesare.
– Ne avete messo di tempo… Mancavate solo voi due – . E si avvia.
Gli altri lo seguono: si guardano in faccia fra di loro ed è chiaro che nessuno sa di cosa si tratti.
Seguono il capo e aspettano. Quello riprende:
– Le vostre armi sono arrugginite. Sono anni che non le usate. Così succede che, quando vi capita di doverle usare, quando ne avete bisogno, insomma, non funzionano o non ci sapete fare. E allora è vero, come si dice, gli agenti vengono uccisi, e i delinquenti se ne vanno indisturbati. D’ora in poi, ci troviamo qui una volta al mese: voglio una squadra efficiente.
E poiché sono arrivati, tira fuori la sua pistola e comincia a sparacchiare contro un cartone-sagoma. Fa un casino del diavolo.
Gli altri non hanno smesso di guardarsi in faccia e tutti pensano che «lui» deve avere qualche rotella fuori posto. Oppure ha visto un film di spionaggio…
– Adesso, è vero, come si dice, vediamo voi.
A turno ci provano tutti e intanto Sarti Antonio, sergente, si accorge di aver preso la rivoltella ma di aver dimenticato quello che ci sta dentro e che serve per far fuoco. Chiede in giro se qualcuno ha un caricatore in più da vendergli. Quando lo trova, è proprio il suo turno. Carica. Raimondi Cesare, ispettore capo, gli ride in faccia:
– Di solito la tieni in tasca scarica, sergente?
– Non la tengo in tasca, la tengo in casa, nascosta il piú possibile: non la posso soffrire e quando la prendo in mano, mi viene nausea…
– Spara, sergente, spara!
Sarti spara e, per fargli dispetto, vorrebbe mettere tutti i colpi nel centro. Ma non ci scommetterebbe. Alla fine, quando ha vuotato l’intero caricatore e scaricato la rabbia che questa storia gli ha dato, chiede:
– Posso andare? Ho molte cose da sbrigare, oggi.
Se ne va senza aspettare risposta; quello che gli ha dato le pallottole lo raggiunge. Dice: – Sono milleduecento lire…
– Che cosa?
– I proiettili che ti ho venduti .
Sarti paga e si siede sull’auto 28, il più lontano possibile dai rumori degli spari e dall’odore della polvere esplosa. Per rimettere a posto lo stomaco ci vorrebbe un buon caffè.
Felice Cantoni, agente, lo raggiunge e se ne vanno; Felice si complimenta: – Hai fatto sei centri su nove: un buon punto!
– E «lui»?
– Nove su nove: tira piuttosto bene.
– Mi fa piacere.
Non aggiunge altro. Gli hanno fatto cominciare la giornata da cani. E pensare che era finita tanto bene ieri, con quel pezzo di donna…
– Dove andiamo?
– Dove vuoi!
Ci ripensa e, se non altro per far dispetto a Raimondi Cesare, decide di ascoltare il consiglio di Rosas:
– A Pieve del Pino! È ora che andiamo a vedere questa sorgente miracolosa.
Non può presentarsi al dottore e dire «buon giorno» come se niente fosse, cosí, si presenta al farmacista. Il campanello che sta sulla porta da chissà quanti secoli, fa il suo mestiere di campanello ogni volta che si apre la vetrata e il soggetto piccolo, magro e con gli occhialini rotondi dalle lenti grosse dice:
– Buongiorno, – senza alzare gli occhi dalle carte. Allunga la mano sopra il banco per afferrare la ricetta. Sarti gliela stringe con forza e dice:
– Piacere: Sarti Antonio, sergente –.
Il farmacista sussulta, come sempre: – Vuole… vuole mia moglie?
– No, grazie, non mi serve più. Ho mal di pancia…
– Le conviene… Dovrebbe andare dal dottore…
– Già fatto. Mi ha consigliato un po’ d’acqua solforosa. Ne ha?
L’altro non risponde perché forse non ha ancora capito che Sarti Antonio fa dell’umorismo. L’ho detto: ci vuole un po’ di tempo prima di capire l’umorismo del sergente.
– Non ne ha! Peccato! Dovrebbe accompagnarmi alla sorgente.
– Ma… ma è molto lontana. Ci vuole del tempo per arrivarci!
– Meglio: prenderemo una boccata d’aria fresca.
– E la farmacia?
– La sua signora. O non si fida a lasciarla sola? Non deve avere preoccupazioni: il gallo del paese non può più beccare nel pollaio degli altri.
L’ometto si toglie il grembiule bianco e chiama la moglie.
– Síííí! – La signora arriva e ha un grosso cerotto sulla fronte.
– È scivolata?
Lei fa un bel sorriso a Sarti Antonio e gli strizza l’occhio, dietro le lenti.
Se ne vanno con l’auto 28 fin dove può arrivare l’auto 28 e poi a piedi, per un bel tratto di strada.
Devo proprio raccontarvi com’è il posto perché a me è piaciuto moltissimo, appena l’ho visto. È
cosí: una gola stretta fra due monti verdi di alberi e di muschio; un ruscello chiaro che lava le pietre spigolose del fondo; nessun rumore, attorno, tranne quello dell’acqua che cerca la valle fra i rami caduti e le foglie secche; un’atmosfera umida che riempie i polmoni di fresco e di vivo; a lato del ruscello, proprio sul fianco della montagna, esce uno zampillo d’acqua che colora di scuro la terra e scende a congiungersi con il ruscello che viene da più in alto: è l’acqua solforosa. Attorno allo zampillo e scavato nella roccia da chissà quanti secoli e da quali mani, c’è uno spiazzo abbastanza largo per starci in cinque o sei. Ci si può anche sedere, volendo, perché qualcuno ha portato dei sassi grandi e levigati. E una gran quantità di muschio: muschio dappertutto e odore di zolfo, o piuttosto, di uova marce.
Il farmacista annuncia:
– È qui.
– Vedo.
Su una mensola naturale, di fianco alla sorgente, ci sono dei bicchieri di alluminio, in fila: cinque o sei.
Sarti Antonio, sergente, ne prende uno e beve: subito non sente sapori, ma appena l’acqua gli arriva nello stomaco ha la bocca piena di uova marce; ma non è sgradevole. Ne beve ancora. Dice:
– Buona. Sentila Felice.
Felice Cantoni, agente, ci prova, ma sputa subito: – Fa schifo!
– Lei non beve? Mi dicono che viene spesso da queste parti e ne fa scorta…
Anche l’omino si vuota un paio di bicchieri, sotto gli occhi spalancati di Felice Cantoni:
– Ma come riuscite a berla? – Poi per consolarsi si accende una sigaretta.
– Butta quella robaccia! Vuoi rovinare l’aria di questo posto?
Cantoni spegne la cicca e la rimette in tasca. Sarti Antonio, sergente, si guarda intorno. Giú, verso la valle, a qualche decina di metri dalla sorgente, il ruscello forma una cascata e il sentiero che li ha accompagnati fin lì, finisce proprio sul ciglio: quasi un invito ad andare a vedere. E Sarti ci va.
Arriva fin dove il sentiero si interrompe perché c’è un salto di venti metri: la cascata. In fondo il ruscello riprende il suo cammino e si perde fra i rami secchi e verdi fino a chissà dove. Nient’altro se non le pareti ripide dei monti che stringono la gola da tutte e due le parti.
– E adesso?
Adesso Sarti Antonio, sergente, ne sa quanto prima. Gli viene in bocca il sapore dell’acqua. Dice:
– Bel posto. Bel posto e acqua buona. Non crede?
Il farmacista rimette sulla mensola i bicchieri di alluminio e si avvia per tornarsene al paese.
– Va a piedi?
– Sì c’è una scorciatoia. Torno a piedi: mia moglie può avere bisogno di me. Questo è il posto: può restare quanto vuole, sergente. Nessuno verrà a disturbarla.
Se ne va sul serio.
– E adesso?
Felice Cantoni, agente, alza le spalle: – Se non lo sai tu, sergente!
Lui non sa proprio niente. Si siede e ricomincia a guardarsi attorno, nel silenzio meraviglioso di quel posto. Un silenzio che dura tredici secondi. Poi Rosas, da qualche parte, urla:
– Era ora, sergente, che ti facessi vivo!
Sarti Antonio, sergente, e Felice Cantoni, agente, si alzano di scatto e cercano attorno con lo sguardo. Non si vede un’anima. Rosas al solito ha cominciato a fischiettare e Sarti si sforza di capire di dove viene. Gli pare dal fondo della cascata e torna a guardare dove il ruscello precipita per venti metri. Non si vede nessuno, ma il fischietto di Rosas viene proprio di laggiù.
– Dove sei, si può sapere?
– Qui sotto! C’è una fune alla tua destra, sergente. Prova a scendere.
La fune c’è e lui, Sarti Antonio, sergente, non l’aveva vista. La fune scende e sparisce dietro un grosso masso. Scende anche Sarti, massacrandosi le mani e bestemmiando come un infedele:
– Potevi prendere una scala! – E perché non un ascensore? È più comodo e meno faticoso.
Sarti arriva sotto un masso sporgente e ci trova Rosas, circa a metà strada fra la sommità e il fondo della cascata.
Proprio sotto il masso, che non la si vedeva dalla cima, c’è una rientranza, come una piattaforma, e un’apertura. E c’è anche Rosas: Rosas in compagnia del giunco. La ragazzina seminuda. Questa volta è coperta da un grosso maglione di lana a collo alto. In cintura, però, si vede la carne. Sotto è nuda e non deve avere neppure il reggiseno.
– Cosa ci fate voi due qui?
– Aspettavamo te, sergente. Da ieri.
– Da ieri?
– Prima o poi ti saresti deciso a venire .
Il giunco ripete: – Prima o poi.
Rosas entra in quella grotta naturale.
Dall’alto, Felice urla: – Hai bisogno sergente?
Sarti non gli risponde perché non è ancora ben presente: non ha afferrato la situazione. E il giunco che gli ripete, vicino e sottovoce:
– Hai bisogno, sergente?
Sarti urla, non sa se per Felice o per il giunco seminudo:
– No! – ed entra da Rosas.
– Siete stati qui tutta la notte?
Rosas gli indica i resti di un fuoco. Sono stati qui tutta notte!
– A far che? – Lo sa bene cos’hanno fatto tutta notte quei due, ma lo chiede ugualmente.
Rosas lo delude: – A fare l’inventario di tutto quanto abbiamo trovato – . Legge da un foglio: – un tavolo di legno, cinque sedie impagliate, bottiglie, bicchieri, pagliericci, mitra, mitragliatrice leggera…
– Una mitragliatrice? Questo è un arsenale.
Rosas riprende: – Una mitragliatrice leggera dell’ultima guerra, quattro mitra MP 40 tedeschi, munizioni per le suddette armi, centoquattro bombe a mano, diciotto bottiglie vuote, una ventina di pagliericci, un tavolo, cinque sedie, il necessario da cucina per parecchie persone, una cassa contenente un milione e seicentomila lire in valuta del 1940, carte topografiche della zona, lasciapassare in lingua tedesca con timbri del Comando delle SS, un po’ di cose d’oro e d’argento, poca roba e pezzi di ricambio per una radio ricetrasmittente. Niente altro.
Allunga il foglio e Sarti Antonio, sergente, l’afferra, prima di sedersi su una delle cinque sedie impagliate che stanno dentro la grande sala naturale sotto il letto del ruscello e sotto la sorgente di acqua solforosa. Della maledetta acqua solforosa.
19. La storia continua… e sembra quasi arrivata alla fine…
compreso il nome dell’assassino…
Hai bisogno, sergente ?
Sarti Antonio quasi non lo sente: ha in mano il foglio e si guarda attorno con aria ebete. Poveretto!
Ma vorrei proprio vedere voi. Il giunco gli ripete, vicino all’orecchio:
– Hai bisogno, sergente?
Lui non la degna di uno sguardo. Felice Cantoni, agente, è lassù che continua a urlare: – Sergente!
– Lasciami in pace !
– Aspetto qui?
– Aspetta lì! Dove vuoi andare? Aspetta lì! Cristo! E lasciami in pace per un po’!
Sarti riflette a voce alta: – Vorrei sapere cos’è questa storia…
E il giunco: – Vorrebbe sapere cos’è questa storia. Spiegagliela.
Sarti ha in mente qualche cosa da dirle. Si volta, ma il giunco si è appena tolto il maglione di lana a collo alto e se ne sta a petto nudo, a lavarsi il viso a due metri da lui. Il sergente non ricorda più cosa avesse in mente di dirle. Lascia perdere e ricomincia a parlare a voce alta:
– Ecco come devono essere andate le cose: Giacinto Gessi, Mandini Gaetano e Giorgio Celli vengono alla sorgente. Non si sa come, uno dei tre scopre questo posto…
Rosas interviene: – Te lo può dire Giorgio Celli come l’hanno scoperto – .
Ma Sarti Antonio è partito e non lo ascolta neppure: – … uno dei tre scopre questo posto che doveva servire di rifugio a qualche brigata partigiana, durante la guerra.
– Bravo.
Sarti Antonio, questa volta, risponde, gentile: – Bimba, perché non ti fai fottere? – Il giunco gli risponde: – Già fatto, biondino. Già fatto – . Si rinfila il maglione di lana a collo alto e gli sorride in faccia. Lui la lascia perdere.
– Sei ancora lì, sergente?
Sarti Antonio se la prende con Felice. Urla da farsi male alla gola: – No! Non ci sono più! Sono morto! Vuoi lasciarmi in pace?
Rosas ha ripreso a fischiettare, seduto all’ingresso della grotta, con le gambe penzoloni nel vuoto.
Il giunco si siede di fronte a Sarti, gomiti appoggiati al tavolo, viso appoggiato alle mani e lo guarda.
– Se le cose sono andate così, è chiaro che quello dei tre ancora vivo ha fatto fuori gli altri per tenersi questa specie di… di piccola ricchezza. Giorgio «Frusta» Celli, quel figlio di…
Rosas interviene: – Questa specie di ricchezza, come la chiami tu, oggi non vale niente. I soldi sono fuori corso, l’oro e l’argento varranno, a dire molto, cinque o seicentomila lire…
– C’è gente che accoppa anche per ventimila lire! Cosa ne sai tu di quello che può pensare un mezzo matto come «Frusta»? Uno che non ha mai avuto un soldo da spendere… Sono sicuro che le cose stanno così!
Sarti si alza e va a frugare nella cassa:
– C’è anche un valore numismatico o come diavolo si dice! Questi soldi del 1940 possono essere un piccolo capitale per un collezionista. Cosa ne sai tu?
– E cosa ne può sapere «Frusta»?
Il sergente si guarda ancora attorno e riprende: – A vendere quello che si trova qui, magari un pezzo per volta, c’è da diventare dei signori.
– Te Io immagini Giorgio Celli che va al mercato con la mitragliatrice sulle spalle a venderla?
Sarti Antonio, sergente, ha deciso di non ascoltarlo più. Per lui il caso è chiaro. Chiaro e chiuso. Si sente più sollevato di quando, questa mattina, è uscito dal poligono di tiro. È contento, insomma. Ha fretta di vedere Raimondi Cesare, ispettore capo.
Va all’imboccatura della grotta e urla: – Felice! – Nessuna risposta. – Felice!
Si sentono dei passi affrettati: – Sì, eccomi!
– Dove ti sei cacciato? Vai all’auto 28 e chiama la centrale. Fai venire qui Raimondi Cesare.
– Lo faccio venire qui?
– Lo fai venire qui! Parlo turco?
– Tu resti lí, sergente?
Sarti Antonio, comincia ad arrabbiarsi: – Felice Cantoni, muoviti, prima che venga su io a prenderti a calci nel culo!
Rosas si alza. Dice: – Noi ce ne andiamo, sergente. Buon lavoro.
– Te ne vai adesso? Non aspetti l’ispettore?
– Non ho nessuna voglia di rivederlo. Ne ho avuto abbastanza l’altr’anno: goditelo pure tu.
– Come gli spiego che ho scoperto… ?
– Digli che hai ragionato e sei venuto qui…
– E tu…
– A me non mi promuovono e non mi aumentano lo stipendio per questo… Non sono un questurino. Mi basta aver trovato la base della brigata partigiana di Volpe. Sono stati uccisi tutti e noi gli abbiamo fatto un bel monumento. Ma nessuno ha mai saputo dove fosse la loro base. Adesso lo sappiamo.
Rosas esce dalla grotta. Il giunco lo raggiunge, dopo aver sorriso al sergente: – Ciao sergente. In gamba, mi raccomando.
Lo lasciano solo a ragionare:
– Non c’è altra ipotesi. Non c’è altro ragionevole motivo. Io lo farò cantare quel Celli!
Si è anche dimenticato di ringraziare Rosas. Chissà a quello chi glielo fa fare?
Sarti Antonio continua ad arrovellarsi ancora per molto tempo, finché non sente Felice Cantoni, agente: – Sergente, sergente, sei ancora lí ?
– Cosa c’è?
– C’è che Raimondi Cesare, ispettore capo, ti manda a dire che se hai bisogno di lui, sai dove trovarlo e che il suo ufficio è sempre aperto.
– Digli che… Niente. Arrivo!
Esce. Ma non trova più la fune che gli è servita per scendere. Urla: – Che scherzi sono, Felice?
Buttami la fune!
Ancora passi di sopra, poi:
– Non… non la trovo, sergente. Non c’è proprio.
– Come non c’è? Guarda bene, Cristo! Ci dev’essere un albero con una fune, alla tua destra…
– C’è l’albero, ma non la fune.
Sarti Antonio non sa piú cosa dire. E avrebbe dovuto ringraziare Rosas ? Un pugno sul naso, altro che ringraziamenti! Magari quando chiederà a Rosas perché si è portato via la fune, quello è capace di rispondergli che la fune era sua…
– Hai una corda in macchina?
– Mai avuto corde in macchina.
– Figurati! Va in paese a trovarne una lunga e robusta.
– Vado.
– E non dire niente a nessuno!
– Vado!
– Sbrigati.
– Vado!
Va. Sarti Antonio, sergente, comincia a pensare al rapporto che presenterà a Raimondi Cesare, ispettore capo. Dovrà restare a bocca aperta! Tempo per pensare ne ha quanto vuole: infatti di Felice Cantoni, agente, dopo un paio d’ore, neppure l’ombra. E ne passano di ore, ne passano tante che diventa scuro e a Sarti Antonio, sergente, monta dentro una certa incazzatura. Ogni tanto urla, verso la cima:
– Cantoni, Felice Cantoni! Ti pigliasse un accidente, dove sei finito?
È buio pesto! Non si vede da qui a lì, quando Sarti Antonio sente che qualcuno si muove là sopra.
Ma non chiama. È talmente incazzato che non gli rivolge la parola; ma neppure quel tale che si muove là sopra sembra abbia voglia di parlargli. Cerca di sporgersi più che può e lo vede. Cioè: vede un’ombra che sta scendendo, appesa a una fune, o a una scala di corda. E un’ombra piuttosto grossa: grossa, alta e nera. Tutte le ombre sono nere, specie se non c’è luna e si è in un bosco fitto di alberi. Ma quella è alta più del normale e grossa più del normale. II sergente si ficca nel fondo della grotta e aspetta: gli viene in mente che ha in tasca la rivoltella.
La prende e si sente più tranquillo. Adesso aspetta gli eventi, che sono questi: l’ombra alta e grossa si staglia sull’ingresso della grotta e indugia un poco. Poi un raggio di luce comincia a frugare nell’oscurità. Se arriva in faccia a Sarti Antonio, sergente, ne succedono delle belle. Ma il proprietario della pila e dell’ombra va deciso verso la cassa: è uno che conosce bene il luogo, da come si muove senza preoccupazione. Adesso Sarti Antonio, sergente, pensa che sia ora di andare a vedere di chi si tratta ed è anche sicuro che si tratta dell’assassino. È sicuro che si tratta di Giorgio Celli «frusta». Si muove e ordina:
– Fermo li Giorgio Celli! Se ti muovi sei fritto.
Ma quello non ci crede: spegne la pila e vola (veramente sembra che voli) verso l’ingresso. E Sarti Antonio, sergente, è costretto a sparare. Cioè: vorrebbe sparare, ma non può perché sei delle nove pallottole che gli avevano venduto la mattina le ha messe nel centro della sagoma e le altre tre, attorno alla sagoma stessa, per cui, adesso, non ne ha più neppure una da regalare all’ombra che se ne sta volando via. E se ne ricorda solo adesso! Non gli resta che provare con quello che trova a portata di mano: gli lancia contro un mitra che precipita nel fondo della cascata, senza neppure sfiorare il tipo. Sarti Antonio, sergente, inciampa un po’ dappertutto e quando arriva fuori vede che l’ombra è già salita e ha ritirato la scala (o la fune) che era servita per scendere. Bestemmia come un turco. Ha ancora in mano la rivoltella.
– Cantoni Felice! Fermalo! Fermalo! Viene dalla tua parte! Spara! Spara!
Gli risponde il silenzio della selva oscura. Se questa la racconta, non la credono !
Cosí non la racconta quando (chissà che ore sono già!) arriva Felice Cantoni, agente, con una fune e una lampada.
– Sei ancora lì, sergente?
Sarti non dice niente. Si arrampica piú in fretta che può, guarda in faccia Cantoni Felice e gli chiede sottovoce, proprio davanti al naso: – Dove sei stato?
– Mi dispiace. I negozi erano chiusi e ho dovuto cercare la fune in tutto il paese… Mi dispiace! Poi ho anche forato, tornando qui: non è stata colpa mia… Proprio mi dispiace. Ho dovuto cambiare la gomma da solo e al buio…
Sarti si chiude nel suo doloroso silenzio e si avvia verso l’auto 28.
Lo aveva in mano: aveva la soluzione in mano e se l’è lasciata scappare. Bestia.
20. La storia continua… e sembra quasi arrivata alla fine, compreso il nome dell’assassino… quando, invece, si complica ancora di più Raimondi Cesare, ispettore capo, alza gli occhi dal rapporto: gli luccicano che è un piacere guardarlo. Sarti Antonio, sergente, ci ha lavorato tutto il resto della notte e la mattina, ma è convinto che ne valesse la pena. Domanda: – Allora?
– Bene, molto bene, sergente. Mi compiaccio! E vero, come si dice… bel lavoro!
Torna a leggere le ultime righe. Dice: – Procedi pure: va da questo Giorgio Celli, detto «Frusta» e portamelo qui. Io, intanto, mi faccio preparare i documenti che servono per la sua incriminazione…
L’importante è che lo portiamo qui dentro, è vero, come si dice: dopo me lo lavoro io… Bene, molto bene, sergente.
È la seconda volta che gli dice «molto bene». E intanto gli luccicano gli occhi. Lo lascia lì a piangere sul rapporto e scende. L’auto 28 e Felice Cantoni, agente, aspettano Sarti in strada ma, prima, ci sta un caffè, anche se non è buono come quello che si farebbe lui in casa. Uno per Sarti Antonio, uno per Felice Cantoni, uno per me e uno da portare in ufficio a Raimondi Cesare, ispettore capo. E che sia ben caldo! Paga tutto Sarti Antonio! Dopodiché saltiamo dentro l’auto 28, e via a sirena spiegata, verso Pieve del Pino.
Avete mai viaggiato su un’auto a sirena spiegata? È proprio bello: tutti si fermano, si fanno da parte e vi guardano passare. C’è da sentirsi qualcuno! La gente, magari, vi vede seduto dietro e pensa che siate una persona importante. Invece…
Prima di arrivare al paese, Sarti Antonio fa togliere la sirena e passa davanti alla casa del dottore, sparato. Si fa anche più corto, dentro l’auto 28 e si ferma solo quando è arrivato nel cortile della casa di Giorgio Celli «Frusta». Ci va che è giorno, cosí, almeno, potrà guardarlo in faccia, questo mezzo scemo, assassino e ladro! Gli è scappato questa notte, ma oggi non gli scapperà! Nella prima camera (nel primo vano, che non si può chiamare camera) trova solo una gran confusione: sedie rovesciate, cassetti aperti, cose sparse per terra. Nell’altra camera (vano) è la stessa situazione, solo che, proprio nel mezzo, in piedi a guardarsi attorno, c’è Rosas. Sarti Antonio, sergente, chiede:
– Sei diventato matto anche tu? Cosa ti è saltato in testa?
– Sergente, sono arrivato da venti secondi.
Non ha difficoltà a crederlo: d’ora in poi Rosas potrà dire ciò che vuole: per Sarti Antonio, sergente, sarà vangelo! Ma fa il duro:
– Cosa sei venuto a fare? Possibile che ti trovo sempre fra i piedi?
Rosas si guarda attorno e pensa ai fatti suoi. Per cui Sarti Antonio lascia cadere il discorso, tanto quello non lo ascolta neppure. Comincia a guardarsi attorno anche lui:
– Vorrei sapere cos’hanno rubato…
Rosas scuote il capo: – Non c’è niente da rubare in questa casa. Lo sanno tutti in paese.
– Dov’è «Frusta» ?
– Non lo so: sono appena arrivato.
Sarti razzola un po’ attorno e poi decide: – Lo aspetto.
– Anch’io – . E chiede a Rosas: – Perché ti sei portato via la fune, ieri pomeriggio, dalla grotta?
– Perché era mia.
Ci avrebbe scommesso su questa risposta. Cambia discorso e chiede ancora: – Lo sai che «Frusta»
è venuto alla grotta, questa notte?
Gli racconta la storia, tutta, anche se Rosas si metterà a ridere. Ma non succede.
Rosas è serio e dice: – Lo hai rovinato!
– Chi?
– Hai rovinato «Frusta»!
– Cosa ti salta in testa?
– Perché sei tanto tardo? Quello non era «Frusta»! Ed è come se avessi detto al tipo di stanotte che oggi saresti venuto ad arrestare Giorgio Celli ! E lui è arrivato prima di te.
– Tu sei matto! Era «Frusta». Era grosso, alto: un bestione.
– Come te! Lo hai visto in faccia? Ti ha fatto vedere i documenti? Il mondo è pieno di bestioni alti e grossi. L’assassino poteva anche non sapere ancora che tu conoscevi la storia dei tre amici e della loro grotta. Adesso possiamo andare.
– Dove?
– A cercare il cadavere di «Frusta»!
Rosas è tanto sicuro di quello che va dicendo che Sarti quasi ci crede e vorrebbe rispondere chissà cosa. Ma non ne ha il tempo: l’urlo delle sirene della Polizia arriva fin lì. Sarti Antonio, sergente, corre alla finestra e vede le auto passare come fulmini, sulla piazza del paese. Sono due. Corre fuori e Rosas gli va dietro. Saltano sull’auto 28 che Felice Cantoni, agente, fa scattare verso il centro.
Arrivano che le due auto della polizia non ci sono ormai. C’è, invece, l’auto di Gianni «Lucciola»
Deoni. Sarti gli urla:
– Cos’è successo?
– L’hanno trovato!
– Chi hanno trovato?
Arriva il dottore con una borsa. Dice, in tono che non si discute: – Mi porti lei!
Sarti si rende conto che il mondo è proprio pieno di bestioni alti, grossi. Come il dottore, per esempio. Chiede: – Dove?
Si ricorda, di colpo, del pezzo di donna che è stata in casa sua e diventa piú accondiscendente.
– Certo, dottore, certo che la porto io. Se mi dice dove…
– Andiamo.
Il medico gli indica la strada, mentre vanno. Dietro segue l’auto di Gianni «Lucciola» Deoni. Sarti Antonio aspetta; aspetta che il dottore si decida e intanto si prepara a rispondere. Solo che non sa cosa rispondere, prima di sapere cosa gli dirà quell’uomo senza un briciolo di moralità.
Alla fine, dopo un paio di secondi, il dottore dice:
– Sul conto di chi lo mettiamo?
Sarti Antonio vuoi replicare qualcosa di grande, qualcosa che faccia rimanere di sasso il dottore.
Qualcosa come: «Sul conto della società che lei rappresenta, dottore! » Oppure: «Sul conto della sua morale, dottore!»
Ma non fa a tempo perché quello si ripete e chiarisce di cosa parla: – Sul conto di chi lo mettiamo quest’altro cadavere, sergente?
Sarti (coda di paglia) aveva creduto che parlasse della moglie.
Ci sono tutti: i fotografi della polizia, quelli della scientifica, «lui», il pretone e un sacco di altra gente nota e ignota.
E c’è anche Giorgio Celli «Frusta»: con un palmo di lingua fuori dalla bocca, gli occhi schizzati dalle orbite, il viso violaceo, le mani rattrappite e la frusta stretta, annodata, attorno al collo. O
meglio, attorno alle spalle, perché il collo «Frusta» non l’ha mai avuto. A vederlo disteso sull’erba e conciato in quel modo, c’è da chiedersi chi abbia avuto la forza di stendere e conciare cosí quel fascio di muscoli d’acciaio. C’è una donna, in ginocchio, a fianco del cadavere: piange. Anche questa è una cosa strana: che qualcuno (una donna poi) possa piangere per la morte di un tipo che nessuno voleva…
Tutto il bel castello che Sarti Antonio, sergente, aveva costruito, gli crolla ai piedi. Cerca con gli occhi Rosas, ma non lo trova: sparito.
Gianni «Lucciola» Deoni sta già saltando come un grillo da uno all’altro: fa domande a tutti. Il dottore fa il suo mestiere di dottore, come il fotografo fa il suo e quelli della scientifica il loro. Solo Sarti Antonio, sergente, è immobile, inebetito: domani, è sicuro, darà le dimissioni. Forse anche questa sera. O addirittura adesso, visto che «lui», Raimondi Cesare, ispettore capo, gli si fa vicino.
Nei suoi occhi c’è scritto: «E ora, pezzo di cretino incompetente? E ora, cosa mi racconti ?»
E pensare che solo poche ore prima gli aveva detto, due volte, «bravo sergente». E lui, Sarti Antonio gli aveva mandato un caffè in omaggio. Adesso «lui» gli sussurra:
– Sergente, l’aspetto nel mio ufficio.
Non ci andrà: gli scriverà una bella lettera raccomandata nella quale dirà che, dopo un lungo e travagliato conflitto interiore e dopo un’intensa crisi spirituale e intellettuale, ha deciso che il mestiere del questurino non si addice alla sua mentalità mistica e al suo carattere contemplativo, per cui, rassegna le proprie dimissioni, eccetera, eccetera…
Dopodiché, sul giornale del pomeriggio cercherà l’annuncio di qualche fornaio bisognoso di un garzone per la consegna del pane.
Ma andrebbe bene anche un lattaio.
21.Una situazione disperata
Se vi capitasse di sentir suonare alla porta e, andando ad aprire, vi trovaste davanti Sarti Antonio che vi consegna il cartoccio del pane, non state a fare tante storie e a dire: – Come mai ? Venga dentro a prendere il caffè… — e cosí via. Prendete il pane che vi porge, ringraziatelo con un sorriso e richiudete la porta. Cosí, semplicemente, come se fosse la cosa più naturale del mondo. E non dategli la mancia, per favore.
Sono tre giorni che non lo vedo; a Felice Cantoni hanno dato un altro sergente (sull’auto 28) che fuma come un turco e gli offre una sigaretta ogni volta che prende in mano il pacchetto. Cosí gli si è infiammata l’ulcera, guida a denti stretti e ha una faccia da morto di fame che innamora.
Raimondi Cesare, ispettore capo, ha atteso Sarti Antonio nel suo ufficio fino a tardi, lo ha cercato a casa, all’ospedale, al manicomio, al ricovero di mendicità senza risultati. Alla fine ha capito che un uomo distrutto ha bisogno di dimenticare e farsi dimenticare. Cosí lo ha lasciato perdere.
In fondo, Raimondi Cesare, ispettore capo, non è un uomo cattivo: certe cose le comprende.
Ho trovato Sarti Antonio da Rosas, in Santa Caterina, sdraiato sul divano, con le mani infilate nei calzoni e premute contro la pancia, la barba di tre giorni e gli occhi infossati come di una persona che non dorme da un bel po’.
Non un cenno, non un saluto.
Se non fosse per gli occhi, che mi seguono quando mi muovo per casa, si direbbe in coma. Ogni tanto si alza e si chiude nel gabinetto. Non parla, respira solamente.
Sul divano, una pila di giornali sgualciti. Rosas mi riferisce: – Non vuole mangiare.
Non ho niente da dire. Ancora Rosas: – Per me è impazzito.
Gli preparo una tazzina di caffè: lo faccio meglio che posso e glielo porto. Ne prova un sorso e storce la bocca:
– Fa schifo! – Almeno ha parlato. Vuota la tazzina e me la rende in modo che la possa riempire di nuovo. Beve anche questa. Poi dice:
– Vorrei parlare con Gianni «Lucciola» Deoni…
– Vai al suo giornale.
Sarti scuote il capo, vigorosamente.
– Telefonagli e digli di venire qui.
Nessuno si muove, né Rosas né io. Vorrei che si togliesse da quella tana e andasse a respirare un po’ d’aria fresca. Non c’è verso. Dice: – Per favore!
Al posto mio parte Rosas. «Lucciola» arriva con i capelli diritti: – Stavo lavorando. Cosa dico al direttore? Cosa gli dico ? C’è da finire la cronaca… Ci sono tante cose da finire, prima di andare in macchina… Cosa dico al direttore?
Poi vede che c’è anche Rosas e la smette. Quei due non si sono mai sopportati. Può essere perché hanno gli occhiali tutti e due?
Un po’ di broda calda anche a lui che la manda giù senza neanche sentirne il sapore. Si vede che ha proprio fretta: non sta fermo un attimo. Avrà pulito gli occhiali dieci volte, da quando è entrato.
– Devi raccontarmi tutto – dice Sarti.
«Lucciola» si arrabbia. Non capita spesso: – Per questo mi hai fatto venire? Per questo? Ma se c’è scritto li! – Afferra i giornali dal divano e li butta a terra.
– C’è scritto tutto! Non potevi leggerli?
Sarti Antonio si siede:
– Voglio sapere anche quello che non hai scritto.
– Non ho tempo. Vuoi capire? Il direttore mi spara…
Ma intanto anche «Lucciola» si è seduto. Pulisce ancora gli occhiali e guarda Rosas che lo guarda e aspetta anche lui. Comincia:
– Cosa vuoi sapere?
– Tutto da quando hanno trovato Giorgio Celli accoppato.
– Raimondi Cesare non mi ha detto niente, quelli della scientifica non hanno aperto bocca… Non sono riuscito a sapere niente di niente. Ho parlato solo con la donna, prima che le ordinassero di tener chiuso il becco. Anche con i giornalisti. Dimmi tu come si può fare il nostro lavoro, in queste condizioni…
– Cosa ti ha detto la donna?
– Che aveva appuntamento con Giorgio Celli proprio dove lo ha trovato cadavere.
– Lo ha trovato lei?
Gianni «Lucciola» Deoni, alza ancora la voce: – C’è scritto tutto lí! Certo che lo ha trovato lei!
Pare che fosse la sua donna…
– Quel demente aveva una donna… Da non credere!
Rosas, sottovoce: – E aveva anche degli amici: da non credere anche questo.
– Dunque, aveva appuntamento e quando c’è andata lo ha trovato morto.
– L’ho letto: voglio sapere qualche cosa che non hai scritto!
Sarti Antonio, sergente, si sta svegliando. «Lucciola» è arrivato al momento della grande confessione: – Dice di aver visto una donna scappare tra gli alberi, mentre lei arrivava.
– Un’altra donna?
– Cosí dice.
– Perché non lo hai scritto?
– La polizia non vuole. Dice che è per facilitare le indagini.
Se ne stanno zitti tutti quanti per un bel po’ di tempo, poi Gianni «Lucciola» Deoni riprende il dialogo: – Devo tornare al giornale, adesso. Chissà com’è nero il direttore…
Nessuno gli dà retta, e lui rimane seduto sul divano, vicino a Sarti. Rosas dal suo angolo domanda:
– Come può aver fatto una donna a strozzare quell’uomo? Te lo ha spiegato Raimondi Cesare, ispettore capo?
«Lucciola» fa segno di no con la testa e poi dice: – Vi ho raccontato quello che sapevo; e adesso vorrei saperne di più su quella grotta della brigata Volpe.
Sarti Antonio si fruga in tasca e porge a Gianni «Lucciola» Deoni la nota che Rosas aveva compilato nella grotta. Legge e poi:
– Nient’altro?
– Nient’altro – . Rilegge e alla fine dice: – Manca qualcosa.
– Cosa?
– Non lo so: ma qui non c’è nulla che possa giustificare tre omicidi .
Rosas ha cominciato a fischiettare, ma smette subito per dire: – L’amico del cuore di Giacinto Gessi potrebbe sapere cosa manca.
«Lucciola» Deoni si alza di scatto: – È vero! Non ci pensavo più all’amico. Troviamolo !
Sarti Antonio è sempre abbattuto: – Facile! Dove? Non esiste più! Nessuno lo ha mai visto, tranne Clara; nessuno sa chi sia…
– Eppure c’è.
Rosas sospende ancora il fischio: – Cos’è andato a fare in chiesa Giacinto Gessi qualche sera prima di essere ucciso? Il prete ha detto: «qualche sera prima che succedesse, l’ho trovato qui, in chiesa, inginocchiato a pregare… È molto strano perché, tranne la domenica mattina, non l’avevo mai visto in chiesa…» Ha detto cosí o no?
– Lo avrà detto, se tu lo ricordi…
– Lo ha detto! E ha detto anche: «i genitori mi hanno dato la chiave. Dicono che, dopo il sopralluogo della polizia, non è più entrato nessuno in quella camera. Neppure loro». Si stava parlando della camera di Giacinto Gessi.
Aspetta la conferma di Sarti Antonio, sergente, che non viene: – Ma le scarpe di Giacinto Gessi, anche se nessuno ci era più entrato, si trovano in quella camera, sotto una sedia. Chi le ha portate?
Non credo che sia stata la polizia durante il sopralluogo.
Sarti Antonio comincia a scaldarsi. Dice: – Non credo proprio. Allora?
– Che?
– Fuori tutto quello che sai o che credi di sapere.
– So quello che sai tu.
– Fuori lo stesso.
Gianni «Lucciola» Deoni ha preso, da chissà dove, un blocco per note.
Rosas dice:
– Scrivi! Primo: i tre scoprono la base della brigata di Volpe. Secondo: uno dopo l’altro vengono assassinati. Terzo: chi li uccide può farlo tranquillamente, in tutta calma, senza dover lottare con le vittime. Quarto: prima di essere ucciso, Giacinto Gessi torna alla base della brigata Volpe, di notte.
Questo è sicuro perché le tracce di acqua solforosa trovate nel suo stomaco lo dicono chiaramente.
Lo accompagna qualcuno ? Si, perché, se no, a che scopo andarci di notte? Lo accompagna qualcuno che non vuole essere visto in giro con Gessi. Quinto: sul secondo cadavere si trova un biglietto, scritto dal Gessi, nel quale si dice: «per quella cosa che sa lei, venga questa sera alla Pioppa. Giacinto Gessi». È chiaro che si tratta del biglietto che Gessi aveva inviato alla persona che lo avrebbe accompagnato nella visita notturna alla base di Volpe. Lo stesso biglietto è poi servito all’assassino per attirare Gaetano nella trappola e ucciderlo. Sesto: il terzo a morire è Giorgio Celli
«frusta». Ma quando viene ucciso? Non appena l’assassino si rende conto (grazie a te, sergente, che urli il nome di «Frusta» proprio davanti all’assassino in visita alla base di Volpe) che la polizia è già sulle tracce di Giorgio Celli. Lo fa fuori tranquillamente, in tutta comodità, senza lottare per evitare che dica qualcosa che non deve dire. Da cui: l’omicida era ben conosciuto da «Frusta» e dagli altri due. Non solo, ma dev’essere una persona talmente insospettabile da poter uccidere senza che le vittime se l’aspettino. Settimo: qualcuno sapeva che «frusta» doveva trovarsi con la sua donna. Ecco perché è andato all’appuntamento anche lui. Ottavo: l’assassino (o l’assassina) è uno (o una) che sa tutto dei protagonisti della nostra storia e forse qualcosa in più. Nono: cosa poteva esserci di tanto interessante nella base della brigata Volpe da giustificare tre assassinii, ammesso che si fermino li?
Decimo: nessuno può dircelo, perché i componenti della brigata di Volpe sono stati uccisi tutti in quella maledetta gola; ma è chiaro che, di qualunque cosa si tratti, l’assassino (o l’assassina) non ne è ancora venuto in possesso. Se no, perché avrebbe messo sottosopra la casa di «Frusta» ?
Cosí finisce la chiacchierata di Rosas; Gianni «Lucciola» Deoni fissa gli appunti, mentre Sarti Antonio, sergente, guarda Rosas senza vederlo perché ormai è diventato scuro e nessuno si è preoccupato di accendere la luce. Ha un sorriso sulle labbra e dice:
– Io credo di sapere dove vuoi arrivare: credo proprio di saperlo. Ma se è cosí, ci sarà poco da stare allegri. A Raimondi Cesare glielo dirai tu, questa volta…
Gianni «Lucciola» Deoni prende la parola: – Se ho capito bene, la persona che forse sa tutto dei tre amici, potrebbe essere quel tale, capelli grigi, distinto, alto e sempre molto elegante, che frequentava via Solferino numero 10. Posso scriverlo?
– Scrivi quello che ti pare: sono deduzioni tue.
Gianni «Lucciola» Deoni continua: – E chi, se no ? Giacinto Gessi racconta tutto al suo amante: questo è sicuro! Come è sicuro che l’amante era conosciuto anche dagli altri due soci, dal momento che può farli fuori senza destare i loro sospetti, come ha detto Rosas. Quindi è uno del paese.
La sua voce si spegne perché non ha piú niente da aggiungere. Rosas che chiude:
– Se non è come dice «Lucciola»…
– E non chiamarmi «Lucciola»…
– Se non è come dice «Lucciola», presto c’è la possibilità che troviamo un altro cadavere, dai capelli grigi, distinto e sempre molto elegante.. .
Sarti Antonio, sergente, sghignazza fra sé: ha già le sue idee:
– Non credo. Non credo.
Adesso sa chi era l’amante di Giacinto Gessi «casa e chiesa», sa chi è il tipo insospettabile, molto conosciuto dai tre, che va in giro a spaccare teste e ad artigliare gole, senza che i proprietari delle teste e delle gole alzino la minima protesta. Sa che domattina, quando mostrerà una certa fotografia a Clara, questa dirà:
– Sicuro! È lui! E quel tale che veniva con Giacinto Gessi, è quel tale…
È pronto a giocarci un mese di stipendio. Anche un anno.
C’è solo un particolare che non quadra: la donna che l’amica di Giorgio Celli avrebbe visto scappare fra gli alberi. Ma si può essere sbagliata e nell’oscurità può aver visto semplicemente un uomo, magari con il cappotto, anche se non è proprio la stagione. Sarti si alza e dice:
– Rosas sei in gamba. Saresti un poliziotto coi fiocchi. Mi porti a casa, «Lucciola»?
Esce. Sulla porta si ferma un attimo e dice ancora: – O mi mettono dentro per ingiurie a pubblico ufficiale e vilipendio alle forze armate, o mi danno un encomio solenne con aumento di stipendio.
22. Chi lo avrebbe mai immaginato?
A questo punto, se non siete proprio tonti, avrete già capito a chi allude Sarti Antonio. Se non lo avete capito, venite con me (che non ho ancora capito) e vediamo cosa succede. Il sergente telefona alla centrale e dice:
– Pronto. Sono Sarti, passami il capo. Pronto. Sono Sarti…
– Dove diavolo, è vero, come si dice…
Il sergente urla per interromperlo e per farsi intendere:
– Ho bisogno di una macchina fotografica di quelle che danno subito la foto stampata e di Felice Cantoni con l’auto 28. Questa sera ho l’assassino in mano. Parola mia.
Non voleva, ma l’ha detto! Vada come vada, c’è sempre un posto di garzone che lo aspetta.
All’altro capo del filo si sente, piano, sottovoce:
– Attento a quello che fai, Sarti Antonio. Questa è l’ultima volta che ti ascolto. Cerca di non combinare altri guai, è vero, come si dice…
Sette minuti dopo sotto casa c’è Felice Cantoni, agente, che gli suona il campanello. Sarti scende e chiede:
– Hai la macchina fotografica?
– Non c’è!
– Perché?
– Devi andare a firmare il buono di prelievo.
– Non lo poteva firmare «lui»?
– Ha detto che chi firma è responsabile della macchina e con te non si è mai sicuri di niente. Se la vuoi…
– Non lo potevi firmare tu ?
Felice Cantoni resta pensieroso: – È vero. Non ci ho pensato…
Sarti Antonio, sergente, si arrabbia: – Che branco di… E protestano se i delinquenti possono fare i delinquenti. Che branco di…
– Andiamo in economato a prendere la macchina fotografica?
– No! Non la voglio la loro macchina. Faccio senza. Andiamo da «Lucciola».
Vanno.
«Lucciola» sta ancora a letto perché lui lavora in redazione fino a tardi, la sera. Lo svegliano e Sarti gli dice:
– Vieni: portati una macchina fotografica di quelle che sviluppano e stampano immediatamente…
– Io non ho una macchina. Se è importante, porto un fotografo. Il direttore non mi ha mai negato un fotografo.
– Non lo voglio! Non voglio testimoni. Ho bisogno di te perché di te mi fido. E basta. Chiedi al giornale una di quelle macchine che ti ho detto.
Quando esce dalla redazione Gianni «Lucciola» Deoni ha la macchina fotografica tanto cara a Sarti, completa di flash. Chiede: – Dove andiamo?
Sarti Antonio non gli risponde. In macchina gli racconta quanto segue: – Mi serve un primo piano del maresciallo dei carabinieri di Pieve del Pino. Ti presenti, fai l’intervista, la fotografia e mi porti il materiale.
– Tu pensi… tu pensi che «capelli grigi, distinto, alto e molto elegante» sia lui?
– Ne sono sicuro! Ma voglio stare tranquillo, questa volta. Se mi va male, nessuno lo deve sapere, capito? Nessuno!
«Lucciola» ha capito, ma chiede: – Cosa invento per fotografarlo?
– Quello che ti pare! Chiedi al maresciallo notizie dei tre omicidi, come mai se ne occupa la centrale e non lui… Devo insegnarti il mestiere io?
Ecco come stanno le cose! È chiaro: il maresciallo sa tutto dei tre perché è l’amico intimo e segreto di Giacinto Gessi; non desta sospetti e può ucciderli tranquillamente senza che se lo aspettino. E chi sospetterebbe di un maresciallo dei carabinieri?
Pensa, mentre l’auto 28 vola verso Pieve del Pino. Dopo un po’, chiede: – Ma perché ?
– Perché cosa?
– Perché li avrebbe uccisi?
– Non lo so, ma Giacinto Gessi deve aver nascosto in chiesa il motivo. E lo troverò!
Nessuno parla più fino a Pieve del Pino. Sarti Antonio, sergente, dice a «Lucciola», prima di lasciarlo: – Ti aspetto dal prete. Io, intanto, vedo di trovare qualcosa in chiesa…
Il prete sta parlando con due carabinieri, proprio davanti alla chiesa. Appena lo vede, gli corre incontro. È molto agitato e di conseguenza, è anche ridicolo. Il pretone sbuffa:
– Ecco… Proprio lei! Vede… è… è una cosa incredibile! È un sacrilegio! Io… io non capisco…
Si asciuga il sudore con un fazzoletto che tiene in mano e che tormenta continuamente.
– Ecco… proprio lei! Venga, venga a vedere… È una cosa incredibile! – Gli fa strada verso l’interno della chiesa. I due carabinieri li seguono.
Avete mai visto una chiesa sottosopra? Voglio dire: una chiesa con tutte le sedie a gambe levate, le panche rovesciate, i cristi e i quadri staccati dalle pareti, i drappi, i nastri e le madonne buttati qua e là? Io l’ho vista lí, per la prima volta.
– La casa del Signore… Mio Dio! –. E continua con il suo rosario. Direi che sta per mettersi a piangere.
Sarti Antonio, sergente, se non fosse in chiesa e alla presenza di un prete e di due carabinieri, bestemmierebbe volentieri. Chiede: – Quando è stato? – Ma non gli interessa molto. Gli interessa il fatto che, se li dentro c’era il motivo dei tre omicidi, adesso non c’è più.
È chiaro.
– Questa notte. E nessuno… nessuno si è accorto di niente! È incredibile… La casa del Signore…
Sarti Antonio, sergente, mostra la tessera all’appuntato dei carabinieri e gli chiede: – Niente?
– Niente. Nessuna traccia, niente scasso, non è stato rubato niente…
– Sacrilegio, ecco. Vandalismo. Oh Dio, signore!
– Da dove sono entrati?
L’appuntato si stringe nelle spalle: – Non lo so. Potevano essere già dentro quando il prete ha chiuso la chiesa.
– Il maresciallo cosa dice?
– Il maresciallo è a letto con la febbre!
Ecco. Questa è buona. Magari ha anche un certificato medico. Sarti Antonio, sergente, sa bene che è stato lui a entrare in chiesa, questa notte. Ma il dottore, magari, è disposto a giurare che il maresciallo non era in condizioni di lasciare il letto.
Maledetto paese! Maledetti abitanti del maledetto paese! E maledetto dottore, maresciallo, farmacista, meccanico! Maledetti tutti! Ci mette dentro anche il prete, perché gli dà fastidio il suo piagnucolio !
Sarti senza salutare nessuno va alla caserma dei carabinieri e aspetta. Gianni «Lucciola» Deoni esce, dopo un secolo, e sale sull’auto 28. Riferisce: – Me ne ha dette di tutti i colori.
– La foto?
– È a letto con la febbre; non posso fotografare uno a letto e dirgli che mi serve per il giornale…
– Ti pigliasse un colpo! Mi serve quella foto!
Gianni «Lucciola» Deoni gli mette sotto il naso una foto, formato tessera, con sopra appiccicato il maresciallo dei carabinieri con tanto di cravatta, giacca e camicia bianca. Niente da dire; «Lucciola»
sa fare il suo mestiere, quando non c’è di mezzo il direttore. Dice:
– Me l’ha data lui, visto che si tratta di metterla sul giornale.
Tornano in città.
Il sergente suona al numero 10 di via Solferino e appena Clara «burro» apre la porta, le sbatte sotto il naso la foto e la guarda bene in faccia, per le sue reazioni. Aspetta che si decida.
Clara «burro» ha un vago sorriso sulle labbra, come sempre. Poi dice:
– Sicuro! E lui. È quel tale che veniva con Giacinto Gessi. Io, quando ho visto uno, non lo dimentico più, non lo dimentico…
Sarti Antonio, sergente, avrebbe vinto uno stipendio, se qualcuno se lo fosse giocato con lui.
– Ma come ha fatto a trovarlo, sergente? Che bravo! Ma come ha fatto?
– Tu non devi aprire bocca con nessuno, se vuoi continuare la tua attività! Non sai niente e io non sono venuto, capito?
Lei fa sí con il capo e sorride a «Lucciola»: – Oh, carino, sei tornato?
Si fa da parte e lascia uscire una «lavorante» che ha finito il turno. Sorride a tutti, prima di uscire.
Lasciano Clara «burro» li, sulla porta e se ne vanno. Adesso si deve decidere che fare. Non è facile!
Sarti Antonio guarda in faccia Gianni «Lucciola» Deoni che lo guarda in faccia. Tutti e due si stringono nelle spalle.
– Devo spiegare a Raimondi Cesare, ispettore capo, perché un maresciallo dei carabinieri, pederasta, ha ammazzato tre persone: devo dargli delle prove e un movente! Non mi basta la testimonianza di una ex prostituta, affittacamere e sfruttatrice di ragazze per bene. Non basta proprio!
La radio sfrigola e chiama le auto sparse per la città.
Felice Cantoni, agente, chiede: – Allora, sergente?
– In via Santa Caterina. Andiamo a dare conferma a Rosas…
23. …e tutto finisce in gloria
La porta è accostata, come al solito e lo trovano sdraiato sul divano che legge un libretto piccolo e scuro, scritto a mano: appunti di chissà chi. Appena ci vede entrare (tutti e quattro: Felice Cantoni, agente, Sarti Antonio, sergente, Gianni «Lucciola» Deoni, giornalista e il sottoscritto, nullatenente), lascia cadere il libercolo sul petto e dice:
– Buongiorno a tutti. Avrei proprio voglia di un buon caffè. Di quelli che sai fare tu, sergente.
Sarti Antonio conosce ormai tutto di quella casa e, mentre gli altri si sistemano alla meglio da qualche parte (io devo sedermi in terra), va in cucina e si dà da fare col caffè. Intanto dice:
– Avevi ragione: Clara lo ha riconosciuto. Adesso si tratta di trovare il movente, perché se vado da Raimondi Cesare, ispettore capo, e gli dico che è stato il maresciallo dei carabinieri a uccidere i tre, ma non gli porto delle prove precise, quello mi fa legare e mettere in manicomio…
Vorrebbe continuare, ma Rosas gli urla:
– Cosa c’entra il maresciallo?
Sarti ha già messo il caffè sul fuoco, gas al minimo (è importante per un buon caffè), e quindi può tornare di là. Ha capito solo adesso che Rosas non ci era ancora arrivato.
– Il maresciallo… Non lo sapevi? Allora i tuoi dieci comandamenti erano una semplice esposizione di fatti che tu ci hai elargito per far mostra di intelligenza… Il maresciallo è quel signore dai capelli grigi, distinto, alto e sempre molto elegante, che frequentava la casa di Clara in compagnia di Giacinto Gessi «casa e chiesa»! Non lo sapevi ?
Farebbe dei salti di gioia. Li farebbe perché il viso di Rosas è spalancato alla meraviglia.
Autentica!
Rosas ripete: – Il maresciallo… Chi lo avrebbe mai detto.
– Io! – E torna in cucina a vedere il suo caffè: non gli piace infierire su Rosas. Anche perché lui (Rosas) non ha mai infierito sudi lui (Sarti). E poi, il caffè va curato, mentre sale, se si vuole veramente un buon caffè.
Quando torna, Rosas ha ripreso a leggere nel suo libretto di appunti. Porge con garbo la tazzina.
Rosas sorseggia, senza lasciare il libro. Dice:
– Sentite un po’ qua: «Dodici aprile. La radio ricevente continua a non funzionare. Ogni tentativo di ripararla è stato vano. Il “Grigio” ha rinunciato. Non ci voleva. Ora che stanno per arrivare e c’è, più che mai, la necessità di stare in contatto con loro. “Pensa” è tornato con le notizie: dal paese niente di nuovo. Nessuno sospetta quello che sta per succedere. I “tognini” sono tranquilli. Lo saranno ancora per poco…»
Sarti Antonio, sergente, ha fretta di concludere:
– Molto bello. Ma ascolta adesso: il maresciallo è stato in chiesa, l’ha semidistrutta e suppongo che abbia trovato quello che cercava e che Giacinto Gessi vi aveva nascosto. Cosí non ho niente su cui basare le accuse.
Rosas scuote il capo e riprende la lettura, a voce alta:
– «Tredici aprile. È necessario ristabilire i contatti con gli alleati. Qualcuno dovrà rischiare. Non sono tanto lontani; ma tutte le strade sono sorvegliate e i sentieri sono controllati… Dobbiamo metterci in contatto a ogni costo, se vogliamo che l’operazione riesca e se dobbiamo sapere esattamente quando sarà il momento, per noi, di uscire a dare man forte al loro attacco frontale. La nostra azione è indispensabile per liberare Bologna. Ho convocato una riunione di tutti i compagni per discutere la situazione».
Si ferma e aspetta che qualcuno prenda la parola, ma i convenuti hanno altri pensieri per la testa, si direbbe. Non si sente volare una mosca. Allora Rosas continua:
– Può darsi, anzi è sicuro (visto che lo dici tu e lo conferma Clara) che il maresciallo sia stato l’amico di Giacinto Gessi, ma è anche sicuro (e questo te lo dico io) che l’assassino non è lui!
Questo discorso dà fastidio a Sarti Antonio, sergente, che rizza subito le orecchie: – Cosa, cosa?
– L’assassino non è lui perché: primo, il maresciallo, pur sapendo tutto di Pieve del Pino, non poteva sapere dell’appuntamento fra Giorgio Celli e la sua donna e quindi non poteva esserci andato. Secondo: chi ha ucciso «Frusta» portava la sottana. Terzo: il maresciallo non è mai entrato nella camera di Giacinto Gessi né per riportarvi le scarpe infangate, né per frugare alla ricerca di quello che interessava l’assassino. Quarto: non lo dico io, lo dice questo!
Rosas mostra il libretto che sta leggendo.
A Sarti viene un sospetto che gli fa corrugare la fronte. Chiede: – Cos’è?
Rosas gli sorride e annuisce. Sarti Antonio, sergente, continua: – Lo hai trovato… lo hai trovato in chiesa. Sei stato tu che hai buttato sottosopra la chiesa?
Rosas torna a dedicarsi al libretto. Dice solamente:
– È il giornale di Volpe. C’è tutto quello che mancava al nostro quadro.
Sarti Antonio, sergente, non sa come finirà questa storia, ma è certo che Rosas non la passerà liscia, quando «lui», Raimondi Cesare, ispettore capo, saprà tutta la cronaca degli avvenimenti, compresa la visita notturna alla chiesa di Pieve del Pino.
– Sei stato in chiesa e l’hai messa sottosopra… Sei stato tu! Questo significa… significa… Come sei entrato?
Rosas alza gli occhi piú innocenti del creato, e dice:
– Io non mi sono mosso di qui per tutta la notte. Ho anche dei testimoni. Il giornale di Volpe l’ho trovato questa mattina nella mia cassetta della posta.
– Non fare il furbo. Hai distrutto la chiesa… C’è una denuncia e io ho il dovere…
– Ascolta, sergente, ci sono almeno dieci ragazzi e ragazze pronti a testimoniare di essere stati qui tutta notte in mia compagnia! Se qualcuno è entrato nella chiesa di Pieve del Pino e l’ha messa sottosopra, non è colpa mia. Io non mi sono mosso di qui!
Il triplice omicidio, per ora, è passato in secondo piano: Sarti Antonio, sergente, vuoi essere sicuro che Rosas non sarà incolpato del disastro combinato in chiesa. Domanda:
– E il giornale? Non puoi dirmi che non è stato trovato in chiesa! Non me lo puoi dire!
– Io non ho idea di dove sia stato trovato… Può anche darsi che qualcuno che non conosco sia stato nella chiesa di Pieve del Pino, per fatti suoi, e abbia trovato sotto la prima panca della fila a sinistra, questo giornale. Allora può avere pensato che mi interessava per i miei studi sulla Resistenza… e me lo ha portato… Cioè, me lo ha messo nella cassetta delle lettere, dove l’ho trovato proprio questa mattina…
Pare che le cose siano chiare: Sarti Antonio, sergente, ha una sola cosa da chiedere: – Che dice?
Rosas la tira lunga: – C’è un po’ di tutto: l’attività della brigata fino al giorno che la massacrarono in quella gola…
– Voglio sapere che dice del delitto… dei tre delitti!
– Sergente, non sono tre i delitti! Quei cinquantatré disgraziati ai quali abbiamo fatto un monumento, sono stati uccisi per il tradimento di quello stesso individuo che ha ucciso Giacinto Gessi, Mandini Gaetano e Giorgio Celli. Ormai, che differenza poteva esserci fra cinquantatré omicidi e cinquantasei?
Adesso le cose cominciano a farsi chiare. Nessuno dei, presenti ha il coraggio di domandare:
«chi?». E troppo grossa, anche per uno come Sarti Antonio, sergente.
Allora Rosas riprende a leggere:
– «Quattordici aprile. La proposta è questa: “Lina la leggera” andrà dal prete di Pieve del Pino e gli chiederà di mettersi in contatto con gli alleati. I tedeschi non sospetteranno di lui, che, cosí, potrà muoversi con sicurezza. Aspettiamo l’esito. Io ho detto chiaramente che non mi fido di quel lumacone nero, ma sono in minoranza. Spero proprio di sbagliarmi».
«Quindici aprile. “Lina la leggera” è tornata.
Il lumacone ci sta. Può essere che io mi sia sbagliato sul suo conto…»
– «Sedici aprile. Il lumacone ha preso contatto con gli alleati e ci porta queste notizie: domani notte sarà il momento di muoverci. L’attacco per liberare la città è previsto per il diciotto aprile. Il nostro compito sarà quello di spianare la strada a una colonna di carri armati alleati che avanzerà sulla strada di Pieve del Pino verso Bologna. Dobbiamo togliere di mezzo due nidi di mitragliatrici tedesche che possono intralciare la loro avanzata. Ci dicono anche dove sono esattamente: conosco il posto. Domani notte sarà il nostro turno. Speriamo bene!»
Rosas non legge più perché non c’è più niente da leggere e mette sul tavolo il libretto scuro. Sarti Antonio, sergente, lo prende e ne scorre le pagine: la scrittura è piccola, un po’ indecisa.
Le cose, adesso, sono chiare. Troppo chiare! Rosas dice:
– Nella notte fra il diciassette e il diciotto aprile, la brigata partigiana di Volpe è stata massacrata.
Li aspettavano in quella gola: un’imboscata preparata in tutti i particolari. Nessuno si salva per accusare chi ha tradito. Il ventuno aprile le armate alleate, precedute da brigate partigiane più fortunate della brigata Volpe, entrano in città e Bologna è liberata dai tedeschi.
Un questurino nella città che non è come le altre città
di Luigi Bernardi
Questa città non è come le altre città» ha scritto di Bologna Carlo Lucarelli in Almost Blue, inaugurando un felice tormentone dal quale si è fatto poi accompagnare in tutte le sue prime presenze televisive. Lucarelli aveva le sue ragioni per uscire con un’affermazione del genere, ragioni tutte interne alla dinamica del suo romanzo e sulle quali tornerò più avanti. Ma che Bologna non fosse una città uguale alle altre l’avevano già preteso – e per motivi lontanissimi da quelli dell’autore di Almost Blue – anche un paio di retoriche un tempo parecchio consolidate: una di origine per cosí dire «popolare» che reggeva la «diversità» del capoluogo emiliano sulla bonomia (cambio di consonante: Bononia, il nome romano di Bologna) della sua gente; l’altra più specificatamente politica che l’appoggiava sulla bontà della sua amministrazione «rossa».
Antonio Sarti, il sergente questurino protagonista dei romanzi di Loriano Macchiavelli nasce in questa Bologna «diversa», ne è stato educato, ne rappresenta fino in fondo lo spirito, indolenza compresa. Ma attenzione, sto parlando del personaggio, non dell’autore, non dei libri: i romanzi di Macchiavelli non sono cartoline turistiche, non sono scritti per reclamizzare la «diversità»
bolognese, né per compiacere la «voglia di Bologna» che negli anni Settanta gonfiò a dismisura la popolazione studentesca della città contaminando senza possibilità di ritorno l’accento grasso dei bolognesi, per non parlare della cucina, della già ricordata bonomia, nonché del senso complessivo di appartenenza «geopolitica» al nucleo urbano.
La genialità di Macchiavelli e il valore dei suoi romanzi – oltre alla scioltezza della lettura, sempre divertente e ammiccante – consistono proprio nel raccontare Bologna mentre vede sgretolarsi il muro protettivo della «vecchia» diversità e, contemporaneamente delinearsi i primi tratti di quella
«nuova», quella che, un giorno matura, sarà poi rivelata da Lucarelli. La Bologna di Macchiavelli, almeno quella dei primi romanzi, è una sorta di «terrain vague» dove si comincia a guardarsi con sospetto, ma si è ancora disponibili ad aprirsi a un sorriso, magari dopo essersi mandati vicendevolmente al diavolo, come nel rapporto fra il questurino Sarti e l’anarchico-autonomo Rosas.
E una Bologna che sta cominciando a chiudersi, ma lo fa lentamente, come se non fosse davvero sicura di quello che sta facendo. Uno struzzo che vuole ficcare la testa sotto la sabbia, ma rimanda di continuo perché è curioso di vedere cosa gli succede intorno.
La Bologna in cui era nato a cresciuto Antonio Sarti era una città profondamente «rossa» ma, contemporaneamente, altrettanto profondamente aperta, gaudente, «curiosa». Quella che da altre parti sarebbe stata letta come una contraddizione in termini, qui era il prodotto di fattori storici e ambientali. Si poteva essere comunisti e cattolici allo stesso tempo (cattolici, non democristiani), magari senza dirlo ma si poteva, (e che scontro epocale fra Dozza e Dossetti: il secondo, sconfitto, andò a ritirarsi in convento), e soprattutto si poteva essere comunisti e amare l’America. Non, beninteso, l’America despota e colonizzatrice che avremmo imparato a conoscere, ma l’America aperta, gaudente, «curiosa» (vi ricorda qualcosa?) del mito che via via stava mettendo le radici, germinate a partire dai fertili semi della musica e del cinema.
Bologna è sempre stata una città che ha amato molto l’America: il cinema americano, la musica americana, i fumetti americani, persino lo sport americano. Per non parlare, ovviamente, della narrativa americana, anche dei gialli. E se non destano particolare meraviglia le cantine dove si suonava jazz e blues e le osterie dove si faceva l’alba a parlare di Hollywood e delle sue mitologie, di sicuro danno da pensare tutti questi bolognesi che si appassionavano di pallacanestro, di baseball e di football americano, con una competenza pari se non superiore a quella che riservavano ai due grandi sport cittadini, il calcio e il pugilato. Il calcio grazie alla memoria dello squadrone che faceva
«tremare il mondo», la boxe esaltata dalla riunione del pomeriggio di Santo Stefano, al Palazzo dello sport di piazza Azzarita. E, come per la politica alla quale si dedicavano i capannelli della domenica mattina in piazza Maggiore, anche lo sport era oggetto di accese discussioni «pubbliche».
«Fuffo» Bernardini, l’allenatore che portò all’ultimo lo scudetto rossoblù, quello dello spareggio contro l’Inter, era un grande conversatore e amava battibeccare con i suoi tifosi, fuori dal bar Otello, sempre meta anche dei campioni del passato.
Libero Golinelli, il formidabile allenatore di boxeur come Nino Benvenuti e Carlos Duran dispensava le sue tecniche pugilistiche non in circoli altisonanti – che Bologna peraltro non ha mai conosciuto – ma nel periferico bar Messico, fra una partita a Goriziana e un’altra ai Tarocchi bolognesi. Aveva la faccia da onesto, il temperamento bonario, quell’aria da chi sa che nella vita le cose importanti sono altre, forse per questo a un certo punto della sua carriera Benvenuti preferì fare a meno delle sue lezioni. Ebbe di che pentirsene, ma contro il pugno secco e maledettamente doloroso di Monzon, neanche l’arte di Libero Golinelli sarebbe stata sufficiente a tenere sulle gambe il Nino nazionale.
I due sport principe non esaurivano la voglia di sport di Bologna, che era poi essenzialmente smania di discussione: c’era dell’altro, c’era ancora spazio, uno spazio che permetteva di sintetizzare la voglia di sport con quella di America. Ed ecco allora la Bologna che primeggiò (e primeggia tuttora) nel basket, che accolse il baseball come nessuna delle grandi metropoli italiane fece mai (e anche Antonio Sarti non esita quando può ad andare al Gianni Falchi, a vedersi – magari senza capirla troppo – una partita della Montenegro di «Toro» Rinaldi e «Vic» Luciani), che quando qualcuno tentò di importare il football americano, gli scudetti se li giocavano, alla Lunetta Gamberini, le due squadre locali, dai nomi cosí americanizzati che facevano un po’ ridere.
Piaceva l’America, ai bolognesi, perché era grande, e piena di cose, di ingredienti saporiti dosati ad arte, come le lasagne e i tortellini, di spazi aperti come piazze. Cosí quando l’America cominciò a mostrare gli artigli, ce ne fu subito un’altra da adottare, quella dei pacifisti, dei neri, di Bob Dylan e Joan Baez. Gianni Morandi che cantava «andavo a cento all’ora», sposò la causa del Vietnam e poi quella di «un mondo d’amore»: non erano scelte di comodo, fatte con il solo fine di rimanere a galla, era proprio lo spirito di quella Bologna, città aperta che cercava e sposava le idee aperte, e se ne nutriva come Braccio di Ferro di spinaci. Nelle piazze dove si discuteva bastò ricavare un angolo per le tende di solidarietà con il popolo vietnamita, i primi cappelloni vennero invitati ad andare dal barbiere, ma solo perché qualcosa bisognava pur dire, ai Judas, faccia grifagna e chitarre a manetta, si opposero i Pooh, melodici e vestiti bene, e anche questa possibile frattura venne ricomposta, senza che si udisse il minimo scricchiolio.
I problemi nacquero poco dopo, quando qualcuno cominciò a dire ai bolognesi che le idee aperte che tanto sbandieravano, in realtà non le avevano affatto. E che anche se le avevano, dovevano in qualche modo tirarle fuori. Possibile che una città del genere non avesse uno straccio di produzione culturale, oltre a qualche poeta e ai saggisti dell’università? Possibile che tutto quello che avevano da dire i bolognesi fossero solo discorsi da piazza? Bologna, insomma, era solo apparenza: sotto sotto era una città del tutto uguale alle altre. Fu uno shock. Una rottura senza margini di ricomposizione, un figlio che ripudia il padre, una donna trovata a letto con il miglior amico del marito, un vento freddo che non si era mai sentito prima. Bologna pagò la contestazione studentesca come poche altre città in Italia, forse perché non essendoci in zona grandi concentrazioni operaie, il movimento della fine degli anni Sessanta e per tutti gli anni Settanta fu quasi esclusivamente studentesco, e perciò più radicale, fantasioso e irridente che da altre parti. Con il duplice effetto di richiamare qui studenti da mezza Italia, quelli, appunto, più radicali, fantasiosi e irridenti e, come contraccolpo, di ammorbare il carattere dei bolognesi, che si fece di colpo acido, intollerante, chiuso, calcolatore.
Comincia allora, nei primi anni Settanta, la nuova «diversità» bolognese, o meglio, il periodo in cui la vecchia «diversità» fu smantellata, in attesa che se ne cementasse una nuova. Piazza Maggiore viene progressivamente abbandonata, la struttura aperta per eccellenza si vede privata uno a uno dei suoi abitanti, non c’è più niente di cui si possa discutere senza incazzarsi, le parole che prima giravano libere, a vuoto, adesso trovano ostacoli contro i quali vanno a sbattere. In politica succedono cose strane, ci sono gli attentati, dei morti. Bisogna vigilare, e se bisogna vigilare vuoi dire che c’è qualcuno che se ne sta nascosto, pronto a uscire. Altro che chiacchiere ad alta voce in piazza, si torna a bisbigliare, come si faceva sulle montagne quando c’erano i tedeschi e i fascisti da cacciar via. E anche il resto non va meglio. Il Bologna è la caricatura della squadra di una volta, il pugilato dopo il ritiro di Dante Canè è meglio lasciarlo perdere, e anche le riunioni di santo Stefano che tanto non ci va più nessuno. Il cinema americano ha perso i contorni del mito, i grandi attori muoiono uno dopo l’altro, o si danno alla politica. Si fanno altri film, che parlano più al cervello che al cuore. La piazza si svuota, insomma, si aprono i locali, le osterie, dove si va in pochi per volta. Si discute e ci si accapiglia. Le case degli studenti fuorisede diventano un luogo dove si rimette tutto in discussione. La voglia d’America diventa un’occasione di ripensamento, di cercare altre radici, poi di piantarle e farle crescere. È un movimento culturale senza precedenti, una sintesi di maestri lontanissimi fra loro, nessun linguaggio espressivo viene risparmiato, ma sono proprio la musica, la narrativa e il fumetto, i tre più vicini alla sensibilità giovanile, a produrre gli esiti più convincenti: la musica con Guccini, Dalla, Lolli, gli Skiantos; la narrativa con Tondelli, Palandri, Piersanti, il fumetto con Magnus, Bonvi, Pazienza, Scozzari. Non è un processo che si conclude dalla sera alla mattina, è chiaro, ci vorranno una decina di anni perché si possa dire completato, dieci anni nei quali la Bologna «diversa» di un tempo si trasforma nella Bologna «diversa» di oggi, dieci anni puntualmente raccontati da Loriano Macchiavelli e dai suoi romanzi gialli.
Loriano Macchiavelli è stato prima di tutto uno scrittore coraggioso. Il primo a scommettere sulla
«raccontabilità» di Bologna, sulla possibilità di elevarla a scenario di storie e vicende che potessero interessare i lettori italiani di gialli. Detta cosí, sembra una cosa da poco, ma allora, quando fece il giro degli editori per proporre i suoi libri, ricevette solo risposte negative, alcune persino maleducate. Alla fine Garzanti cedette, piú per forza che per amore (la casa editrice si era obbligata contrattualmente a pubblicare il romanzo vincitore del premio «Gran Giallo Città di Cattolica», e Macchiavelli fece un’autentica razzia per tutte le prime edizioni), e i lettori premiarono questo scrittore bolognese, uomo severo ma ricco di slanci di generosità, scrittore schivo ma capace di gesti da primattore, leader sostanziale e carismatico di una generazione di scrittori che iniziava ad appassionarsi al giallo, e lo sceglieva come genere di romanzo capace di raccontare il presente, e magari ammonire sul futuro.
I romanzi di Macchiavelli sono meccanismi semplici, sapientemente costruiti attorno agli elementi di una struttura seriale, iterativa. Il protagonista è il sergente della Questura, Antonio Sarti (nessuna parentela con il cantante Dino Sarti, che proprio in quegli anni si sforzava di propagare il mito di una città da cartolina), uno che non si capisce perché sia finito a fare il poliziotto, visto che non ama neppure le armi, e la sua pistola d’ordinanza la tiene chiusa nel comodino. Non particolarmente intelligente, buono ma soggetto a scatti d’ira (che confluiscono a ravvivarne la cronica colite), pigro e maniacale (il caffè se lo fa con la macchinetta e se proprio deve prendere quello del bar è disposto ad allungare la strada fino alla periferia est, allo spaccio della torrefazione di Filicori e Zecchini, l’unico caffè della città in grado di rivaleggiare con il suo), orso solitario capace di zampate vincenti (l’unica donna che lo abbia veramente preso è la «biondina», una prostituta che batte sui viali, ma non c’è romanzo in cui non si porti a letto qualcuna, di solito la più bella del lotto), di certo più adatto a operare in quel «paesone» che era Bologna fino alla fine degli anni Sessanta, piuttosto che nella città vivace e sorprendente che è diventata nel momento in cui Loriano Macchiavelli inizia a raccontarne le storie.
Accanto al sergente Antonio Sarti, si muovono i comprimari, tutti cosí ben caratterizzati e funzionali da diventare indispensabili: Raimondi Cesare, il capo, ottuso e intransigente, che ha capito che più che risolvere il caso conta quello che scriveranno i giornali; Felice Cantoni, l’autista, innamorato dell’auto 28, la Fiat 850 di servizio, che guida con paterna attenzione; Gianni
«Lucciola» Deoni, il giornalista capace di infiocchettare una carriera mediocre con improvvisi scoop; e soprattutto Rosas, lo studente anarchico che a una scarsa vista (Sarti lo chiama il
«talpone») oppone un intuito fuori dell’ordinario: è lui, l’oppositore del sistema, che risolve quasi sempre i casi al posto del sergente Sarti, salvandogli in più di un’occasione la carriera. Sarti manda volentieri a quel paese Rosas (soprattutto quando qualche bella ragazza dimostra di preferire il giovane fascino intellettuale dell’anarchico alla matura prestanza del poliziotto), ma in fondo lo rispetta e si fida di lui. Il loro rapporto è una specie di «compromesso realista»: funziona alla giornata, nell’immediatezza dell’urgenza, mai potrebbe «storicizzarsi» in qualcosa di duraturo, oltre il contingente.
I racconti sono semplici, dalla trama lineare, mai troppo ingarbugliata, ideali per una lettura veloce, come un giallo dev’essere. Non a caso le storie di Macchiavelli saranno anche all’origine del rinnovato impegno nazionale nella fiction televisiva, con ben quattro serie tratte dai suoi libri.
Undici romanzi in sette anni, la produzione di Loriano Macchiavelli è straripante, poi, improvviso, un rallentamento. Le uscite si diradano, l’autore cerca disperatamente di uccidere il proprio personaggio, di cercare nuove strade. Pubblica persino un paio di romanzi sotto pseudonimo, il primo sulla strage di Ustica, il secondo su quella della stazione.
La perdita di entusiasmo di Macchiavelli riflette l’analoga mortificazione della città. L’attentato alla stazione l’ha freddata, niente sarà più come prima. Molti di quelli che erano venuti, cominciano ad andarsene. Arriva anche l’eroina e si contano i morti. Le istituzioni perdono ogni velleità di differenziazione: l’amministrazione «rossa» non è più esibita con orgoglio, la carica di sindaco viene offerta a un modenese (una cosa dell’altro mondo, solo qualche anno prima), tutta la cultura prodotta negli anni Settanta viene ignorata, la scelta è diversa e definitiva: la città abdica all’Università e agli affari. L’Ateneo si compra uno dopo l’altro tutti gli spazi che via via si vengono liberando, e l’Ente Fiere stravolge con continue rassegne la vita quotidiana dei bolognesi. Che non si lamentano. L’indotto universitario regala alla città un paio di miliardi di lire al giorno, sotto forma di affitti e acquisto di generi di prima necessità, le fiere hanno un formidabile rientro turistico e commerciale. Il Bologna, è vero, continua a non vincere, ma la speranza, si sa, è l’ultima a morire.
Intanto però è successo che Macchiavelli è diventato un punto di riferimento, per tutto il giallo italiano, e per quello bolognese in particolare. Macchiavelli si fa promotore di un’associazione dopo l’altra, tutte di scarso rilievo, poi finalmente l’invenzione giusta, il «Gruppo 13 », insieme ai suoi colleghi e amici bolognesi, quelli che hanno cominciato a scrivere dopo che lui aveva dimostrato che si poteva farcela. Ci sono tutti: i duri Pino Cacucci e Loris Marzaduri, i classici Danila Comastri Montanari, Sandro Toni e Gianni Materazzo, un’accoppiata di scalpitanti promesse, Marcello Fois e Carlo Lucarelli. Altri se ne aggiungeranno, ancora più giovani e ancora più scalpitanti: Giampiero Rigosi, Gianfranco Nerozzi, Eraldo Baldini. In realtà, il «Gruppo 13» è come se non esistesse: non sono tredici e tutti insieme probabilmente non si sono mai incontrati. Ma fa lo stesso. Il gruppo è un’invenzione mediatica, siamo ormai negli anni Ottanta e le sigle, i marchi, si conquistano le pagine sui giornali, figuriamoci poi se il marchio rappresenta un gruppo di scrittori di gialli, tutti della stessa città, Bologna, la città che non è come le altre città. Ovviamente non sono neanche tutti di Bologna, ma nessuno guarda troppo per il sottile, quello che conta è che sono tutti bravi e che cominciano da dove lo stesso Macchiavelli aveva cominciato, guardandosi intorno, scoprendo la nuova «diversità» di Bologna.
Nella città che non è come le altre città le cose continuano ad accadere, magari in modo nascosto.
Per un certo periodo, nella prima metà degli anni Novanta, proprio quando i giallisti, che ormai conviene chiamare «noiristi», cominciano a imporsi a livello nazionale e internazionale – e a Loriano Macchiavelli, dopo una parentesi dedicata alla produzione per ragazzi, torna l’entusiasmo della scrittura, questa volta in coppia con Francesco Guccini – Bologna è la città di tutto il mondo occidentale dove si edita la maggior quantità di fumetti giapponesi, e la città occidentale al di fuori degli Stati Uniti dove si edita il maggior numero di fumetti americani. È la città dove si realizzano i videoclip che vedrà tutta Italia, è la città che per prima impara a usare la rete e con il gruppo Luther Blissett ridà fiato all’eccitazione situazionista. Insomma, nell’ombra, a volte proprie come in clandestinità, la città che non è come le altre città è tornata quella di un tempo: aperta, udente,
«curiosa». Ora anche un po’ maledetta.