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I giorni passarono uno dopo l’altro. I signori Nardi sembravano rilassati e sereni. Quando la famiglia si riuniva a cena, il clima era completamente diverso da quello vissuto in città: Angelo parlava delle sue piccole scoperte, delle passeggiate e delle persone che incontrava; suo padre lo ascoltava volentieri e sua madre partecipava alla conversazione entusiasta. Anche l’inseparabile smartphone non era più così inseparabile. Angelo ormai lo usava di rado, e quasi solo per scattare meravigliose fotografie di montagna. Una sera ne scattò una incredibile: il sole che stava tramontando illuminava i Colli Alti di un rosso così acceso da togliere il fiato. Le ombre lunghe della sera creavano effetti di chiaroscuro meravigliosi. La postò su Instagram, ci teneva a condividere con il mondo quelle emozioni così nuove per lui, e ne fu piacevolmente colpito quando, qualche giorno dopo, vide il like di Carlotta.

“Ma dài!” si ritrovò a pensare. “Magari è un’amante della montagna… Quando torno a Padova posso raccontarle le mie vacanze, chissà mai, se mi va bene posso pure portarla in gita quassù da Gabriele…” Fantasticò parecchio su quel like, ma presto anche quel pensiero (come tutti gli altri che riguardavano la sua vita in città) passò in secondo piano, sostituito dall’intensità delle camminate che si susseguivano, dei panorami mozzafiato, delle mangiate monumentali.

Si sentiva bene. Quella che era partita come la più terribile delle vacanze, pian piano stava cambiando aspetto. Qualche giorno prima aveva addirittura improvvisato una partita di calcio con alcuni turisti tedeschi, capitati lassù per caso.

In tutto quel gran daffare, però, aveva completamente trascurato Antonio e il suo diario, che se ne stava in fondo allo zaino senza che nessuno si curasse di lui.

Finché, una mattina, Gabriele si presentò al tavolo della colazione. «Hai da fare oggi?» gli chiese.

«Sono libero» rispose Angelo, dando l’ultimo morso alla fetta di crostata ai frutti di bosco.

«Bene. Allora vieni con me, e porta il diario: voglio farti conoscere un amico, magari lui ci può aiutare.»

Mezz’ora dopo i due partirono in direzione della Val Campeggia. Camminarono per circa un’ora. Angelo si guardava intorno godendosi il tepore estivo che filtrava tra i rami degli abeti, mentre Gabriele snocciolava ipotesi e congetture sul diario e i suoi segreti. Infine, arrivarono all’imbocco della strada che sale a Camposolagna.

Dall’alto della sella, la montagna era splendida. Il panorama spaziava su tutta la pianura veneta, da Bassano ai colli Euganei, fino a mostrare, nelle mattine terse come quella, anche uno spicchio di Venezia e della laguna.

«Quando si sale quassù è facile capire come agli occhi degli austriaci questa fosse la porta di ingresso per il nostro Nordest» gli fece notare Gabriele. «Da qui si vede tutto.»

Angelo annuì guardandosi intorno. Si immaginò di essere anche lui lassù di vedetta: all’improvviso nel suo binocolo comparvero le truppe austroungariche, che scendevano dall’Asolone come un fiume in piena e puntavano dritte alla pianura. Li vedeva, quasi ne sentiva l’odore e il rumore assordante degli scarponi chiodati. Non c’era tempo da perdere, bisognava dare immediatamente l’allarme, avvisare i compagni, da lui dipendeva lo loro vita o morte…

«Che fai, dormi in piedi?»

Gabriele si era accorto che Angelo era immerso in una specie di sogno a occhi aperti e lo riportò alla realtà.

«No, scusami. È che stavo riflettendo su questo posto. Non ci avevo ancora mai pensato prima.»

«Non avevi mai pensato a cosa?»

«Che questa stessa terra dove siamo ora noi è stata calpestata da chissà quanti soldati, e che per molti di loro questo panorama è stato l’ultima cosa che hanno visto prima di morire.»

Gabriele annuì. «Proprio così. Lo hanno fatto per le loro famiglie in pianura, per continuare ad avere quel poco che avevano in libertà.»

Angelo sentì che gli occhi cominciavano a inumidirsi. Incolpò una fantomatica allergia che non aveva e si riempì i polmoni del profumo di erba e muschio, legno e sole e terra. Profumo di libertà.

Lui e Gabriele camminarono ancora un po’, finché arrivarono a una casetta immersa in una pineta naturale. Una veranda ombreggiava due sedie di paglia, con un tavolino e una vecchia sdraio. Là sotto sedeva un uomo che agli occhi di Angelo avrà avuto almeno cento anni.

Gabriele spinse il cancello ed entrarono nel viottolo.

«’Giorno, Piero!»

Il vecchio rispose alzando leggermente il braccio.

Non aveva visto la Grande Guerra, lui, ma era figlio del Grappa. Viveva da sempre in quella casa, che lasciava solo negli inverni più rigidi per scendere in pianura, per poi tornare in primavera con le vacche da portare al pascolo. Sapeva fare il bastardo, il morlacco e lo schiz: i formaggi della sua montagna. E aveva imparato fin da bambino a insaccare le soppresse e i salami. Ma, soprattutto, Piero era stato un testimone di quello che la guerra aveva lasciato sulla montagna.

«Chi è il foresto?» domandò, senza staccare lo sguardo da Angelo.

Gabriele sorrise. «Ti presento Angelo, viene da Padova e passerà un mese qui da noi. Qualche giorno fa ha incontrato un ragazzo che gli ha dato il diario di un soldato del Grappa…»

Angelo tirò fuori dallo zaino il quadernetto e lo porse al vecchio.

Piero lo prese con delicatezza, lo rigirò tra le mani osservandolo bene, poi disse: «Così sei tu il giovane cercatore scelto dalla montagna».

Angelo corrugò la fronte. Era la prima volta che saliva lassù, la prima volta che vedeva quell’uomo. Cos’era, una specie di storia fantasy, in cui il protagonista scopre a un certo punto che tutti aspettavano lui per essere salvati?

«Scusi, signor Piero… ma in che senso?»

«Ecco, Angelo, era da un po’ che volevo dirtelo…» Gabriele guardò il giovane come se quell’incontro fosse stato premeditato da diversi giorni.

«Dirmi cosa, Gabriele?»

«La montagna sceglie a chi fare regali tanto preziosi come il diario che hai ricevuto tu. Io passo tante ore con le mani nella terra per cercare segni lasciati dalla nostra storia. Tutte cose piccole, di poco conto, non ho mai trovato nulla di così chiaro, così incredibilmente significativo. Angelo, tu sei un prescelto: la montagna ha deciso che tu sei la persona giusta.»

Angelo era senza parole. Lo stomaco sfarfallava, come quando vedeva Carlotta. Era eccitatissimo all’idea di essere un eletto, anche se non aveva ancora chiaro cosa significasse e per quale motivo Giuseppe (o la montagna) avesse scelto proprio lui, anziché Gabriele o qualcun altro che viveva lassù.

«Angelo, ascolta Piero: quando ho visto il diario ho subito pensato alla sua storia.»

I due ragazzi si misero seduti e il vecchio Piero iniziò a raccontare una vicenda che sembrava ripescare nella memoria più lontana. «Molto tempo fa» iniziò, «quando ero un puteléto, quassù salì un uomo ben vestito, molto alto e con una bella barba bianca. Succedeva spesso che qualcuno si fermasse a chiederci ospitalità: anche i montanari più esperti temevano il muro di neve della Val Campeggia. Lui era uno di loro. Mio padre lo fece sedere vicino al fuoco, mentre mia madre gli offriva del vino. All’epoca si faceva così, ci si fidava… Comunque, quell’uomo ci disse che voleva arrivare sull’Asolone. Sapeva l’italiano, ma l’accento non ingannava: era tedesco, o austriaco.» Piero guardava fisso davanti a sé, come per aiutare la memoria. Parlava adagio, con voce ferma. «Mio padre ovviamente gli disse che era una pazzia. Con la neve la strada per l’Asolone era chiusa, e in montagna in quella stagione non avrebbe trovato nessuno. Be’, quello lì insisteva e insisteva. Alla fine si accordò con mio padre e lo pagò in anticipo, profumatamente: non appena la strada fosse stata percorribile, papà doveva scendere a valle, incontrarlo alla locanda dove alloggiava e accompagnarlo in montagna.

«In primavera la neve si ritirò e mio padre mantenne la parola: scese a valle e accompagnò quel signore in cima all’Asolone. Siccome quel foresto aveva un bel po’ di attrezzatura, mi chiese di andare con loro per aiutarli. Arrivati in cima, era come se la guerra fosse finita da pochi giorni. Si vedevano ancora i crateri delle granate austriache del Prassolan, e i resti dei baraccamenti militari. Poi c’era una postazione da mitragliere con la forma a uovo, ed era proprio a quella che il tedesco era interessato.» Piero socchiuse gli occhi, come per ripercorrere quel momento. «Entrò con lo zaino in spalla. Io ero un bambino, ero curioso. Non seppi resistere e lo seguii. Appena dentro, vidi che era commosso, come se fosse tornato a casa dopo un lungo viaggio. Poi prese dallo zaino una fotografia, la posizionò sulla feritoia di puntamento, quella che i mitraglieri usavano per sparare, e la fermò con una pietra. Dopo si mise a misurare in giro con i suoi strumenti, e intanto annotava tutto su un taccuino nero. Dopo circa un’ora uscì dalla buca e, vedendo che lo stavo osservando, mi disse che la montagna custodiva un mistero, ma lo avrebbe rivelato solo al momento giusto. La montagna ti sceglie, ragazzo. Potresti essere tu il cercatore che aspettava.»

Mentre Angelo cercava un modo educato di rispondere, senza dare del vecchio pazzo al signor Piero, quello guardò l’orologio e si rianimò: «E desso fora, che xe tardi!» impose, senza possibilità di replica.

«E ora cosa facciamo?» chiese Angelo a Gabriele, quando ripresero la strada di casa. «Non mi sembra che quel signore ci sia stato di grande aiuto…»

«Leggiamo il resto» rispose Gabriele allargando le braccia. «Cerchiamo di capire se il mistero di cui parla Piero e quello del diario siano in qualche modo collegati.»

Si fermarono lungo il sentiero dei prati, sopra il colle Avverso. La pianura sottostante era come un gigantesco e silenzioso formicaio. Mangiarono pane e formaggio, assaporando il pane cotto a legna e il formaggio che sapeva di fieno, in perfetta sintonia con i profumi dell’erba e del bosco che li circondavano. Lassù era così facile dimenticare l’odore acre dello smog e degli scarichi delle auto!

Fu una passeggiata tranquilla, fatta di poche parole.

«Che ne pensi se leggiamo già adesso qualche altra pagina del diario?» chiese Gabriele quando furono arrivati davanti alla baita.

Angelo si mise sulla difensiva: «Leggere? Adesso sono proprio stanco, non penso che capirei nulla… Per oggi preferisco stendermi un po’, magari ne riparliamo domani».

«Come vuoi! Allora io vado a dare una mano in cucina a Bruno, magari ci vediamo dopo.»

Gabriele si avviò all’interno mentre Angelo, ancora frastornato dalla mattinata intensa, salì al piano di sopra.

La baita era tranquilla, Paolo e Marisa erano usciti a passeggiare e dalla sua stanza Angelo sentiva solo il silenzio della montagna, intervallato appena dal rumore di stoviglie che arrivava dalla cucina. “Vediamo se ci sono novità su Instagram” pensò, approfittando di quel momento di quiete.

Solite acrobazie circensi per trovare un filo di rete, sembrava non ci fosse nulla di lontanamente simile a una connessione. Poi all’improvviso comparve una tacca solitaria.

“Ma vieni! Dài, che forse riesco a chiamare Zeno!”

Nulla da fare: il telefono neppure squillava. Un falso segnale, direbbe qualcuno di esperto.

“Ho capito, sarà un pomeriggio musicale” si disse Angelo, e quasi si tuffò nello zaino alla ricerca delle sue supercuffie.

Allora con le mani toccò il contenitore metallico che conservava il diario. Prese la scatola ed estrasse il manoscritto con rispetto: “Eccoci qui, io e te. Ci si rivede, Antonio”.

Dopo tutto ciò che era successo, quel diario quasi lo intimoriva. Ma, complice la noia del lungo pomeriggio estivo che aveva davanti, il ragazzo riprese prima a sfogliarlo distrattamente e poi a leggerlo da dove si era interrotto qualche giorno prima:

18 ottobre 1917

Sono stato assegnato alla brigata Tortona, undicesima compagnia sezione mitragliatrici.

La prima settimana al fronte è stata tranquilla, qui non sembra nemmeno di essere in guerra. Questa mattina ha anche smesso di piovere e finalmente si vede un poco di sole. Era da giorni che ci svegliavamo tutti bagnati, e non pareva vero di poter asciugare i panni.

Al mattino il campo è tutto un andare e venire di fanti scamiciati che aspettano di avere la loro razione di caffè e pane. Poi ci sono le esercitazioni. Oggi per la prima volta abbiamo iniziato a lanciare i petardi Thévenot: arrivano dai francesi, e bisogna lanciarli in piedi perché le schegge hanno un raggio d’azione di soli quindici metri. Ci hanno mostrato anche la Sipe, una bomba a mano micidiale, grande come un grosso limone. Non l’abbiamo provata però, perché il suo raggio d’azione è di sessanta metri. Troppo pericoloso.

Pessime notizie dal comando della seconda armata, sembra che gli austriaci abbiano un nuovo gas che fa tossire e obbliga a togliersi la maschera.

Nessuno ha avuto il coraggio di commentare. Questa notizia ci ha lasciati tutti molto impressionati.

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22 ottobre 1917

Oggi c’è una strana atmosfera al campo. Il nostro tenente, un giovane di nome Rosa, che arriva da Iseo, è stato chiamato a rapporto e al suo ritorno sembrava turbato.

Tra i fanti corre voce che sul «Corriere della Sera» dell’altro ieri ci fossero delle notizie che facevano pensare a un attacco.

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23 ottobre 1917

Oggi siamo partiti. Siamo saliti sui camion e in tarda serata siamo arrivati a Udine.

Mi sento sempre più vicino al combattimento per questa giusta guerra.

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25 ottobre 1917

Terribili notizie sono giunte dalla nostra prima linea. Il nemico ha sfondato a Tolmino ed è già entrato a Caporetto.

Il tenente Rosa ha scelto quindici uomini e io, con mio grande orgoglio, ero uno di loro. Il compito che avevamo era di guidare i nostri soldati sbandati, inquadrarne il più possibile e farli marciare con ordine verso il Piave, dove stiamo cercando di riorganizzare la linea difensiva. Il fiume in piena è la nostra speranza.

Appena si esce da Udine, i segni della tragedia sono evidenti. I lati della carreggiata sono disseminati di carri abbandonati e carcasse di cavalli.

Abbiamo incontrato un gruppo di fanti sporchi di fango, quasi tutti senza moschetto ed elmetto.

«Cosa è successo?» ha domandato Rosa.

«I germanici hanno attaccato» ci hanno risposto. «C’era nebbia fitta e pioveva, c’era una grande confusione. Abbiamo dovuto lasciare la posizione.»

Nella loro voce c’era molta paura.

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26 ottobre 1917

Manca il rancio, dobbiamo accontentarci di poco pane a testa. La pioggia battente e il fango rallentano la marcia. Tutto attorno a noi è disperazione.

Cari genitori, se sapeste adesso in che condizioni vive il vostro amato figlio… Penso ogni momento a voi e a Giovanna. È l’unica mia forza per andare avanti.

I piedi sono pesanti e le poche ore di riposo si fanno sentire terribilmente. Appena possiamo fermarci dormiamo, su di un muro, per terra o nel fango.

Dicono che ormai gli austriaci sono già a Cividale.

I soldati ne parlano come di diavoli scatenati.

Ho una grande paura di non farcela.

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3 novembre 1917

Sono vivo.

Faccio fatica a crederlo, ma ce l’abbiamo fatta.

Cari mamma e papà, ho visto cose che non dimenticherò mai.

Le povere genti sconvolte, nelle terre in cui passavamo, cercavano di caricare le loro poche cose sui carri, che si impantanavano nel fango.

Molti di noi sono crollati a terra senza più rialzarsi, sfiniti dalla fame, dal sonno e dalla pioggia battente.

Dopo sette giorni di sofferenze, ora siamo salvi.

Un lungo treno adesso ha l’incarico di portarci a Padova. Le truppe che hanno visto il fronte devono riprendere le forze.

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7 novembre 1917

Da Padova ci siamo diretti a Rovigo, sufficientemente lontani dalla linea del fronte per poterci rifocillare e riposare. Qui la trincea sembra lontana, ma i muri della città sono tappezzati di manifesti con nomi di disertori e briganti, militari allo sbando che si sono messi a rapinare e saccheggiare i dintorni.

Quando li cattureranno, saranno passati per le armi.

La guerra è guerra e la disciplina evita che gli uomini diventino bestie.

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18 dicembre 1917

Cari genitori, cara Giovanna,

gli austriaci premono sul Grappa. Quello sarà il mio posto, a difesa della montagna.

Se gli austriaci passano da lì, in un attimo scenderanno a Bassano, a Vicenza e a Padova.

Se occupano la pianura, la guerra è persa.

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21 gennaio 1918

È passato il primo Natale in guerra.

Ho vissuto il santo giorno nel ricordo di casa. Mi ha rincuorato il pensiero della festa, della santa messa cantata, del vino buono che babbo teneva per brindare. Qui la nascita di Nostro Signore è un giorno come un altro: non ci si fa gli auguri perché dicono che porti male. Ci si guarda in faccia e ci si scambia un saluto. Tutto qui.

Oggi finalmente sono arrivato ai piedi del Grappa, nella località di Borso. È un piccolo borgo che ha la fortuna di essere nascosto al fuoco nemico. Infatti, a differenza dei paesi vicini, qui la popolazione non è stata sfollata.

Attendiamo ordini per prendere la strada della cima.

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24 gennaio 1918

La sosta a Borso è durata solamente un paio di giorni. Ieri a tarda sera abbiamo iniziato la salita verso la cima del Grappa.

Quassù fa freddo, un freddo che non ho mai provato in vita mia. Si gelano le dita, la pelle diventa bluastra e si taglia. I miei compagni che ci sono più abituati mi hanno insegnato a pisciarmi sulle mani per scaldarle, e funziona.

La strada per arrivare è impervia e buia; è difficile tenere il passo e ben presto ci siamo ritrovati in una lunga colonna. La fatica si faceva sentire e quando abbiamo finito le scorte d’acqua la salita è stata ancora più dura.

Solo a tarda notte, arrivati in un vallone, il tenente ci ha ordinato di posizionare i teli tenda per riposare.

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20 febbraio 1918

Vorrei scrivere a voi genitori, e a te Giovanna, la grande novità.

Oggi il mio tenente mi ha scelto per seguirlo in una nuova, grande impresa: da domani indosserò la divisa da Ardito e inizierò le esercitazioni!

È un grande onore che spetta a pochi eletti. Spero di esserne degno.