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Riordina la tua vita
Se vogliamo cambiare la nostra esistenza e stare meglio, se vogliamo avere una vita meno ansiosa e frenetica, dobbiamo essere disposti a fare ordine tra ciò che per noi è prioritario, ciò che è secondario e ciò che è decisamente inutile se non addirittura dannoso, cosa è bene che resti in primo piano e cosa è bene che vada sullo sfondo o esca persino dal quadro di insieme della nostra esistenza.
Come conseguenza di questo riordino, dovremo iniziare a fare delle scelte di vita nuove.
Tenere tutto, fingere o credere di avere il controllo su ogni cosa e di non poter inserire nulla in una prospettiva diversa da quella che abbiamo è una strategia “nevrotica” che mettiamo in atto per non sentire il limite che ci caratterizza e che fa parte di noi; non ci rendiamo conto che è proprio quel limite, quel senso di realtà e di accettazione che ci può togliere dal delirio onnipotente in cui spesso cadiamo e che ci può liberare e alleggerire.
Noi siamo stati formati da una mentalità del problem solving e dell’efficienza: hai un problema? Individua la soluzione e applicala. E mi raccomando: non fallire! Perché puoi fare tutto, sei libero su tutto, ma non sei libero di fallire.
Nella vita però non funziona sempre così, anzi! Se aspettiamo di muoverci quando la soluzione al nostro malessere sarà chiara e la strada per uscirne sarà sicura non ci muoveremo forse mai. Il senso della nostra vita emergerà vivendo, guardandoci con consapevolezza mentre viviamo, esercitandoci nel vivere ogni giorno per comprendere ciò che conta davvero, ciò che dà significato e gioia al nostro esistere.
Viviamo spesso convinti che la fatica, il sacrificio, l’apnea in cui conduciamo le giornate siano gli unici modi possibili per farlo, per non restare tagliati fuori da... da cosa? Abbiamo spesso la sensazione che ci stiamo perdendo qualcosa, che stiamo rinunciando a qualcosa, che siamo sulla strada sbagliata.
Adottiamo la fatica come stile di vita e non come eventuale – e non obbligatorio – mezzo per un fine. Sembra quasi che se raggiungiamo un risultato senza troppa fatica quel risultato non avrà abbastanza valore, e che se proviamo piacere nel raggiungerlo sarà ancora peggio. Ma non è la fatica che fa acquisire valore all’obiettivo, è l’obiettivo in sé che o ha senso o non ne ha.
Si può riuscire a raggiungere un obiettivo anche senza ansia ed eccessiva fatica, o nella giusta misura e solo se necessario.
Se il sacrificio è un mezzo ineliminabile per una meta da raggiungere va bene, in quel caso è utile e inevitabile, ma quando il sacrificio diventa meta di se stesso, ha come unico scopo il compiacimento di altri, ha come meta la rinuncia al desiderio e alla cura di sé o viene fatto solo per dimostrare qualcosa a se stessi e ad altri, allora il sacrificio diventa solo mortifero e mortificante.
Se il sacrificio si fa meta e non mezzo, ci porta a gareggiare con gli altri in una gara a chi si sacrifica di più, a chi soffre di più, a chi dimostra di reggere maggiormente lo sforzo di portare fardelli.
Se proprio dobbiamo fare una gara sarebbe meglio farla “a chi sta meglio”, a chi realizza progetti migliori, a chi si dedica maggiormente all’espressione creativa dell’esistenza.
Quali sono le mie priorità nella vita?
Cosa voglio portare in primo piano e cosa posso lasciar andare
sullo sfondo?
Il cammello rinuncia ad ascoltare il proprio desiderio e a seguirlo, perché trova più rassicurante sottomettersi a chi lo sfrutta piuttosto che essere consapevole, libero ed esposto al rischio del fallimento.
La sottomissione e il sacrificio, per quanto ce ne lamentiamo sempre, possono avere un tornaconto: sogniamo e millantiamo la voglia di libertà, ma restiamo nelle nostre gabbie e le arrediamo per bene al punto che, quando le porte si aprono, attendiamo che si richiudano trovando mille scuse pur di non prendere la via di uscita che porta alla libertà, perché il luogo a cui tendere è sconosciuto e ci spaventa la strada per raggiungerlo.
La libertà è una possibilità ed è un’esigenza, certo, ma di sicuro è anche un fardello: apre necessariamente alla responsabilità, al rischio, al coraggio e quindi alla vulnerabilità.
Allora ci troviamo, magari senza accorgercene, a lavorare contro il nostro desiderio, incolpando altri dell’impossibilità della sua soddisfazione, costruendoci recinti là dove non ce ne sono.
Possiamo e vogliamo scegliere uno stile di vita differente?
Magari il sacrificio ne farà parte comunque, ma come mezzo per un fine che ci sta a cuore, e quindi reggeremo meglio ciò che facciamo, anche con piacere, in nome del senso che gli diamo.
Un conto è darsi una disciplina per restare connessi al proprio desiderio, per portare avanti uno stile di vita che abbiamo scelto e che ci legittimiamo a vivere. Diverso è sacrificarsi e logorarsi insoddisfatti e senza scopo fino alla fine dei giorni.
L’uomo è chiamato a compiere una metamorfosi spirituale che lo porti dall’essere un cammello sottomesso, che dice sempre di sì a tutto e tutti, a divenire leone, l’animale che dice no a ciò che lo sottomette, che vuole essere libero e che sa creare nuovi valori che lo orientano al di là del dovere.
Il leone, poi, si trasforma a sua volta in fanciullo, innocente e creatore: il fanciullo non è libero solo perché rifiuta qualcosa, ma perché sceglie, e apre alla novità.
Il fanciullo è il frutto di un rinnovamento interiore, di una vera metamorfosi che trasforma il modo di intendere la vita e di viverla concretamente. Egli rappresenta la rinascita.
Per che cosa mi sacrifico?
Lo faccio volentieri o mi pesa molto? Riesco a concedermi momenti
di piacere, di gioco, di ozio?
Noi siamo a volte cammelli, a volte leoni, a volte fanciulli. Spesso siamo tutt’e tre le cose insieme: siamo chiamati tanto al dovere quanto al gusto della creatività e della possibilità del nuovo, siamo invitati dall’esistenza stessa a dire dei no e dei sì, a trovare la giusta proporzione e l’equilibrio tra varie dimensioni e cose della vita, continuando a rispondere alle domande: “Cosa significa vivere? Che senso ha la vita?”.
Per rispondere alle domande sull’esistenza, per incarnare la nostra vocazione e seguire il nostro daimon dobbiamo necessariamente fare i conti con la nostra storia passata e presente, con quella che immaginiamo per il futuro e con i termini in cui ci raccontiamo la nostra storia, perché questo fa la differenza nel modo in cui ci permettiamo di vivere.
Nasciamo in un mondo, in una famiglia, in una cultura e in un tempo storico e questo ci dà forma, ci plasma, ci indirizza, ci guida ma anche ci piega, ci deforma, ci soffoca, ci costringe. Possiamo lasciare che questo che ci siamo trovati addosso sia il nostro modo di vivere e lasciare che il nostro essere prenda solo la forma che altri ci hanno dato, oppure possiamo fare i conti con questa forma passivamente acquisita e trasformarla, facendoci carico di come vogliamo essere, lasciando così emergere ed esprimere la nostra indole, la nostra vocazione.
Siamo tenuti a farci carico del nostro destino e della nostra esistenza se vogliamo essere autori della nostra vita, decidendo quali sono le nostre radici e a quali fronde vogliamo tendere: abbiamo radici genealogiche, certo, ma dobbiamo cercare la nostra reale appartenenza, più spirituale, più legata al significato che attribuiamo alle nostre vite e a come ci facciamo carico del destino che ci è stato dato in sorte (bello o faticoso che sia).
Iniziamo allora facendo entrare un po’ d’aria fresca nella nostra biografia, che spesso è prigioniera di un racconto cristallizzato e sclerotizzato, ripetuto e statico: proviamo a raccontarla in maniera differente o a vederla da nuovi punti di vista, a vedere nuovi nessi e collegamenti tra gli eventi, proviamo a rimescolare il tempo. Questa è la funzione della narrazione di sé che diventa cura di sé, che può muovere immaginazione e desiderio tanto quanto può mettere in circolo gratitudine e perdono.
Quando cadiamo nel malessere, spesso c’è una paralisi nella capacità di immaginare il futuro e di desiderarlo. Siamo prigionieri del passato, pieni di rimpianti e recriminazioni, sempre pronti ad attribuire colpe alla famiglia, al destino o a chissà chi. Oppure siamo troppo preoccupati e concentrati sul futuro: cosa accadrà, cosa faremo, come me la caverò?
Il modo in cui ci raccontiamo o leggiamo il passato, così come il modo in cui sogniamo o temiamo il futuro, ci rivela i nostri bisogni inascoltati, le nostre capacità e le nostre passioni magari abbandonate negli anni. Il modo in cui narriamo la nostra storia ci dice cosa importa davvero per noi, cosa conta, cosa ci affatica. Ci indica quali sono i tesori da proteggere nella nostra vita e quali le zavorre o i veleni da lasciar andare. La rabbia e il dolore che proviamo per il passato ci ricordano le ferite che abbiamo subito, ma portano con sé anche le indicazioni e il balsamo per curarle.
La nostra storia va ascoltata e accolta per comprenderne il significato.
Poterlo fare, senza evitare di sentire alcuni dolori e senza timore di veder riemergere la nostra parte viva e desiderante, ci aiuta a ritrovare la rotta, ci aiuta a ritrovarci meno frammentati e più equilibrati, meno divisi tra un dentro e un fuori che finalmente si armonizzano e dialogano per creare un ponte tra il pensiero e l’azione, tra una vocazione e uno stile di vita, tra una malinconia e una gioia.
Se anche nessuno potrà darci risarcimento per i torti subiti, potremo però almeno svincolarci da quel passato perché non ci perseguiti più e non ci imprigioni; potremo finalmente integrarlo nel nostro presente e aprirci a un futuro che non sia più così bloccato dalle paure e dalle ferite del tempo andato.
Il passato ci ha trovato bambini e inesperti, impreparati e in balia degli eventi. Ora siamo adulti e possiamo consapevolmente, pazientemente e tenacemente fare una scelta di vita, prendere una posizione nei confronti dell’esistenza.
Il passato è il tempo che ci ha in parte definito e che in parte ha contribuito a farci avere un’idea del mondo, della vita, di noi stessi e degli altri. Ma non per questo ci determina e ci inchioda a quella visione. È il tempo delle nostre radici, delle nostre prime esperienze, dove abbiamo imparato e appreso – nel bene e nel male – come si sta al mondo. È il tempo in cui ci siamo formati e dove spesso abbiamo indossato delle corazze per difenderci o abbiamo tradito la nostra vocazione per non essere esclusi da qualche contesto legato alle nostre fonti di cura e di affetto.
Avremo sicuramente delle ferite e qualche scottatura, ma là e allora non possiamo andarci, mentre qui e ora possiamo comprendere ciò che è accaduto, per poi lasciarlo andare e vivere in un modo che ci corrisponda di più, che ci esprima, ci realizzi, ci gratifichi e ci permetta finalmente di fiorire.
Indietro non si torna, e continuare a guardare indietro ci obbliga a perdere tutte quelle energie che potremmo dedicare a star bene oggi, al desiderio e alla passione per ciò che c’è adesso.
Ora c’è un adulto che può consolarci, nutrirci, proteggerci e guidarci: quell’adulto siamo noi stessi. Dobbiamo quindi cercare di ascoltare, rinforzare, nutrire e sostenere questo adulto perché si possa occupare della nostra parte più fragile ma al contempo più vitale, che arriva anche dal passato.
La chiave per stare bene al mondo è in mano nostra, e per tenerla saldamente non dobbiamo avere troppa paura di dialogare con i fantasmi del passato e ascoltare ciò che ci ha fatto soffrire. Facciamoci aiutare, se è difficile o eccessivo pensarci da soli, e viviamolo come un passaggio necessario alla nuova nascita.
Rimetteremo al mondo la nostra anima e chi ci aiuterà – noi stessi o altri – sarà l’ostetrica di quella vita liberata e rinnovata: come faceva Socrate, ci permetterà di ripartorire noi stessi, di lasciar cadere ciò che non è autentico e di far sorgere ciò che libera e radica.
Rimpiango molte cose del mio passato?
Cosa temo e cosa cerco nel futuro?
Il tempo di cui ci dimentichiamo più spesso è il presente: lo diamo per scontato, lo usiamo solo come luogo di attraversamento verso il futuro, lo divoriamo o ci lasciamo divorare nell’attesa illusoria di un tempo migliore che arriverà, domani. Sempre domani.
Il presente è invece il tempo dell’esperienza, è quello che ci fa sentire il nudo piacere di vivere. È l’unico tempo di cui disponiamo, sia per ridare aria al passato sia per iniziare a costruire il futuro che vogliamo. È il tempo opportuno (kairos) in cui dedicarsi all’arte di vivere: arte intesa come lavorazione e trasformazione della materia viva che l’esistenza è, del materiale cangiante che noi stessi siamo. Un’arte che ha a che fare con i valori e con il senso che muovono la nostra vita, un lavoro trasformativo che avvicini sempre di più ciò che vorremmo essere e come lo vorremmo esprimere a ciò che siamo e che facciamo concretamente, riducendo la distanza tra il dire e il fare, tra pensiero e azione.
Una trasformazione di cui potremmo farci autori a partire da oggi, costruendo così, per quel che possiamo decidere noi, il nostro futuro, che è ancora tutto da darsi, imprevedibile e imprevisto per lo più, soggetto alle mutazioni che la vita impone e propone (pensate all’esperienza del Covid-19 che nessuno poteva neanche immaginare).
Il futuro è il luogo tanto dei desideri quanto delle paure, è uno schermo su cui molto si può proiettare e scrivere alla luce di ciò che viviamo oggi e di quanto accaduto ieri, praticando la lungimiranza e il senso di realtà.
Tra gli altri filosofi dell’antichità, in questo lavoro ci viene in aiuto Epitteto con lo stoicismo, ponendoci due questioni fondamentali a partire dalle quali guardare alla nostra vita:
Cosa della mia vita dipende da me e cosa invece no?
Come giudico le cose che mi accadono e quanto sono vittima del giudizio che ne do più che dell’evento stesso? (La sua affermazione, a mio avviso illuminante, è: “Non le cose turbano l’uomo ma i giudizi che si danno su di esse”.)
Queste due domande, che possiamo porci con continuità nel corso della nostra esistenza per imparare a vivere meglio, hanno come finalità quella di aiutarci a prendere una posizione di fronte agli eventi della vita.
A volte perdiamo la lucidità che ci aiuta a comprendere che stiamo lottando contro cose che non possiamo cambiare, perché non dipendono da noi, e invece non investiamo pensiero, energia e tempo in ciò che dipende davvero da noi, che potremmo modificare e che ci aiuterebbe a stare meglio.
Due cose, almeno, sempre e comunque dipendono da noi: il nostro punto di vista sugli eventi, e in particolare le nostre aspettative su di essi, e il nostro giudizio.
Come “ci raccontiamo” gli eventi: questo sì, possiamo sempre provare a metterlo in dubbio e a modificarlo.
Pensate per esempio a Bebe Vio o a Manuel Bortuzzo o ancora a Lucia Annibali e tanti altre e altri come loro: hanno accettato (non credo senza fatica o rabbia, ma certo con tenacia e coraggio) ciò che la vita ha loro imposto e sono ripartiti da lì, concentrandosi sulle possibilità che avevano di stare in ciò che era accaduto e di farci i conti al meglio, e non rimanendo nell’immobilità dettata dal rancore verso ciò che è stato loro tolto o non hanno avuto.
Questa è la differenza, sempre!
Accettare in maniera attiva ciò che ci accade è molto diverso che rassegnarsi passivamente e restare inchiodati nel ruolo di vittima di fronte agli eventi.
Fare i conti con il limite ci aiuta a circoscrivere il terreno su cui la partita non si può più giocare, ma chiarisce anche quale campo resta ancora disponibile per il gioco, anche se magari è un altro tipo di gioco. L’alternativa è unicamente quella di stare fermi e non giocare più. Allora lì davvero si è perso tutto, ma dipende da noi.
Funzioniamo spesso come se avessimo un interruttore On/Off: o reggo tutto, indiscriminatamente e con forza, oppure mollo tutto.
Meglio sarà invece imparare a valutare, criticare, accogliere e ascoltare tutto e poi selezionare, dividere gli eventi, le situazioni e anche le relazioni tra ciò che conta e ciò che non è importante, tra ciò che pesa e ciò che sostiene, tra ciò che è diventato una catena e ciò che invece può rimanere radice, tra ciò che è inevitabile e necessario e ciò che non lo è affatto. Per fare questo lavoro serve anche allenarsi ad avere un buon senso della realtà: molte cose non possiamo cambiarle, non possiamo lasciarle, o magari non lo possiamo fare oggi e dobbiamo accettarlo per conviverci. Altre invece possiamo modificarle almeno in parte o modificare la dimensione che occupano nella nostra vita. Alcuni obblighi che sentiamo incombere su di noi possiamo provare a trasformarli in scelte che hanno un senso oppure smettere di sottometterci a essi perché non ci appartengono, non sono debiti o obblighi nostri ma eredità culturali e famigliari da cui possiamo svincolarci, ecc.
Praticare bene e con continuità questo esercizio ci porta a vedere con maggiore chiarezza la vita per quella che è: non la vita come la vorremmo, non a vederla peggio di quella che è, non come il risultato di una proiezione delirante dei nostri bisogni inascoltati, ma una vita piena di limiti quanto ricca di possibilità, fatta di sorprese e meraviglie quanto pianificabile almeno in parte, precaria e fragile quanto tenace e resistente.
Cosa posso cambiare e cosa devo accettare della mia vita?
Accetto ciò che non posso cambiare e vivo “nonostante” quello, o
sono arrabbiato o rassegnato e quindi mi sento “inchiodato”?
La vita è fatta di morti e rinascite continue, di limiti e di opportunità in cui ci viene chiesto di collocarci con consapevolezza, senza far finta che una delle due parti non esista (né il limite, né l’opportunità).
Per vivere bene dobbiamo poter essere interi e accettare l’intero che la vita è.
Dobbiamo imparare a riconciliarci con la vita, a perdonarla perché, anche se ci ha inflitto delle ferite o ci ha tolto qualcosa, non l’ha fatto con intenzione, né per punirci o per farci dispetto. Dobbiamo imparare a darci pace.
Darci pace è una condizione cui tutti vorremmo accedere, è la possibilità tanto desiderata di smettere di combattere con la vita stessa e con ciò che non possiamo modificare; porta con sé la possibilità di accettare con piacere la resa, che regala quiete, rilassamento e forse anche la felicità.
Una resa che non è senza lutto, piccolo o grande che sia: accettare cioè che le cose che non dipendono da noi vengano lasciate andare, se si può, o vengano accolte, se si deve, non è mai senza fatica, ma ne vale la pena. È l’unico modo per rinascere altrove e diversamente anziché rimanere ingabbiati a cercare di modificare qualcosa di immutabile.
Allora anche darsi pace è una scelta, è frutto di una presa di posizione nei confronti di noi stessi e dell’esistenza che chiede tempo, che impone un processo più o meno lungo ma che ci consente di ripulire la nostra vita riportandola alla sua essenza e alla sua essenzialità; è un processo che regala pace e gioia, non attraverso la rassegnazione che segue a una sconfitta, ma grazie all’accettazione che discende da uno sguardo autentico e disincantato sull’esistenza.
Per far questo dobbiamo guardarci vivere, darci un tempo di ascolto in cui ci ritroviamo e ci ricentriamo, un tempo in cui lasciar dissipare il caos che creiamo vivendo in maniera concitata e non direzionata, e attendere di poter guardare con calma ogni attività e, a una a una, dividerle e interrogarle: cosa tengo, cosa resta, cosa metto via e servirà più avanti, cosa metto via perché non serve più ma è prezioso? E da cosa mi congedo? Cosa butto?
Proviamo a coltivare, allora, la leggerezza, che è la capacità di dare il giusto peso alle cose, una leggerezza pensosa che non coincide con la superficialità ma che è la capacità di muoverci sempre tra ciò che è greve e ciò che è lieve, è la capacità di non lasciarci inchiodare da ciò che ci pesa ma di non farci neanche troppo distrarre da ciò che porta eccessivamente lontano dalla realtà che la vita è.
Il mondo e la vita spesso sono pesanti, è vero, ma possiamo evitare che diventino esageratamente opachi o granitici, cercando di non dimenticare mai che sta a noi dare loro aria e frequentare le loro porosità per non trasformarci a nostra volta in pietra.
Abbiamo sempre delle alternative! Non dimentichiamocene. E quando non le vediamo è perché dobbiamo solo andare a cercarle.
PILLOLA PRATICA: LA TRAMA DEL TEMPO
Questo esercizio riguarda la tessitura tra passato, presente e futuro.
L’invito che ti rivolgo ora è a intrecciare con fiducia e consapevolezza chi eri e da dove vieni, chi sei ora e dove stai andando e come vuoi andarci.
Se ti va, oltre a scrivere rispondendo a queste domande, che iniziano a tessere anche ciò che è emerso nelle precedenti tappe, prendi una foto di te bambino, una foto attuale e un’immagine che rappresenti te nel futuro che sogni.
Individua e rappresenta con parole o disegni o fotografie (o tutt’e tre insieme) i pesi e i sacrifici che ti vincolano nella tua rinascita, quali sono invece gli scrigni, le radici che danno nutrimento e i vincoli che ti ancorano a una realtà data e infine cerca di capire a quale futuro (prossimo e a lungo termine) stai aspirando e come ti stai muovendo per realizzarlo.
Se vuoi, per finire, scrivi una parola a cui tieni particolarmente, legata a ciò che è emerso da questi ricordi e dialoghi interiori. Può diventare il titolo di un tema su quell’argomento (per esempio la parola “progetto” potrebbe essere un tema interessante su cui riflettere).
STORIA DI RINASCITA
Sara
«Cosa ho fatto per meritare tutto questo?» mi chiede Sara una mattina, dopo essersi appena seduta come solo lei sa fare, un po’ rannicchiata sulla poltrona con il cuscino giallo tra le braccia. Sorride, malinconica, con un velo di lacrime sugli occhi, ma sorride.
Questa domanda di solito se la pone chi si vede consegnare una diagnosi di malattia grave, con rischio di “esito infausto” come si usa dire negli ospedali. “Perché a me?”
Questa volta, invece, se la pone una donna di trent’anni che ormai da qualche tempo ha elaborato il suo lutto, un lutto che risale alla morte della madre, quando lei aveva sei anni. Una morte mai affrontata in maniera esplicita e mai rielaborata, che ha scelto tempo fa di prendere in mano e attraversare.
L’ultimo ricordo che ha di sua madre è un saluto sulla porta della camera di un ospedale: lei bambina la guarda mentre se ne va con la nonna e la madre resta in quel letto bianco, con il padre accanto. Lei verrà portata in Centro Italia, a casa dei nonni, insieme al fratello, e quando torneranno la madre avrà già avuto anche il funerale. Un funerale a cui Sara non ha partecipato e un addio che non ha mai detto l’hanno perseguitata in vari modi nei sogni e nelle fatiche quotidiane, per anni.
«Quel funerale dovremo celebrarlo, quando lei si sentirà pronta» le avevo detto un pomeriggio, qualche mese fa.
Un giorno quindi arriva, secondo ciò che avevamo più volte immaginato, con una foto della madre scattata più o meno all’età in cui era morta – l’età a cui lei stava per giungere – e una piccola scatoletta. Prepariamo la sabbiera, mettiamo i lumini e la foto nella scatola che poniamo al centro della sabbiera. Lei ha scritto una lunga lettera degna della miglior commemorazione a un rito di congedo. La legge mentre le fiamme dei lumini che ha acceso traballano nella stanza. Piange copiosamente ma non ha la minima esitazione.
Quando finisce, dopo un momento di silenzio e immobilità, mi guarda e come d’accordo usciamo dallo studio e andiamo insieme verso un fiumicello lì nei pressi. Vi depone la scatola, dice qualcosa che neanche io sento per il rumore dell’acqua che scorre, e lascia che la corrente porti via la scatolina. La guardiamo a lungo, finché sparisce dalla nostra vista. Il volto di Sara è coperto di lacrime e mi guarda. «È andata, sono libera!»
Torniamo in studio, in silenzio.
Con lei avevamo iniziato da subito il lavoro attraverso le foto: lei da piccola, lei con la madre, lei con il fratello, lei dopo la morte della madre, lei adulta, lei ora, ormai trentacinquenne e madre a sua volta. Tappe di un’esistenza segnata dalla sofferenza di un’assenza mai nominata, mai elaborata e sempre portata come un peso, come “più acuta presenza”, a volte consolante a volte mortificante. Un’assenza da cui cercava di essere risarcita, che la rendeva rabbiosa e inchiodata nella ricerca di quell’abbraccio e di quella vicinanza che non aveva potuto avere.
Oggi si chiede cosa abbia fatto per meritare tutto questo, e se lo chiede perché è meravigliata e felice di stare finalmente bene, di non avere più un enorme macigno che periodicamente le pesa sul cuore, di non avere più pozzi scuri in cui venire risucchiata in cupe giornate senza apparenti motivi. Ora riconosce la ragione della sua tristezza, la riconosce e la tollera quando arriva e non lascia più che la avvolga completamente e per lungo tempo.
«Quello che hai fatto per meritarti tutto questo è che ti sei concessa la possibilità di stare meglio, ci hai creduto e hai resistito alla voglia di scappare ogni volta che eri tentata di girarti dall’altra parte anziché attraversare quella sofferenza che ti spaventava. Hai saputo rimanere in un dolore che ti era utile, che portava fuori dal buio per lasciarti alle spalle un dolore inutile, che ti ricordava la ferita che avevi subito e che ti spingeva a chiedere riparazione e restituzione del maltolto o risarcimenti per i danni subiti, ma non era possibile. L’unica che poteva darsi il diritto di non soffrire più così tanto, di non ricadere nella rabbia e nel vuoto di quella tragedia eri solo tu. Il passato non si può cambiare ma si può scegliere come vivere da oggi in avanti e cosa farsene di quel dolore, come dialogarci, dove collocarlo, dandosi il tempo di rimettersi in contatto con quella ferita, quella rabbia, quella sensazione di fine del mondo che forse non ti aveva mai abbandonato.»
«È vero, mi sento così. Allora posso farmi i complimenti?» dice ridendo.
Le sorrido a mia volta: questi sono i momenti più belli. Il giallo del cuscino sembra riempire tutta la stanza.
«Certo» le dico, «e belli grossi! Non è stato semplice, ne sono testimone, ma lo hai fatto. Ora non solo stai meglio ma hai una maggiore consapevolezza di chi sei e delle tue capacità e dei tuoi bisogni.»
«E so anche che stare male non serve a niente! Tanto nessuno può restituirti quello che non hai più e nessuno ti risarcisce, l’unico risarcimento possibile te lo puoi dare tu regalandoti il diritto di lasciar andare i morti e tornare a vivere. Ora ho il cuore felice e l’anima leggera! Mia mamma c’è ma non mi sta più addosso come un peso, ora è il mio angelo custode.»