VI.
Una conclusione divagante,
ma necessaria
1. L’orizzonte oceanico
Finora abbiamo parlato della geografia dell’Odissea e dei suoi più antichi codificatori. Ora, in quest’ultimo capitolo, accenneremo alla dilatazione geografica della leggenda di Ulisse, spostando, di necessità, lo spettro dell’indagine dal Mediterraneo all’Atlantico.
I Greci distinguevano nettamente tra il domestico e ben familiare Mediterraneo e lo smisurato e sconosciuto oceano: cioè, fra hè éiso thálatta ed hè entòs thálatta, quindi tra «il mare interno» e il «mare esterno». Il primo è il «mare nostro», tò hēméteron pélagos, come già lo designa Esiodo (fr. 241 M.-W.). Il secondo, l’oceano, è «il vero mare», cioè hò alethinòs póntos, come lo definisce Platone (Tim. 25a) raccontandoci la bella favola del mito di Atlantide.
Il «mare nostro» unisce tra loro tre continenti – l’Europa, l’Asia, l’Africa – e il precursore di tutti i navigatori sulle sue rotte è sempre Ulisse. Orbene, in epoca ellenistica, allargatosi il quadro delle acquisizioni geografiche, gli eruditi di Alessandria e di Pergamo si domandano se Ulisse si fosse limitato a peregrinare nel Mediterraneo, ovvero se si fosse anche avventurato nelle immensità dell’oceano che si credeva circondasse la terra. L’attesta Gellio (14, 6, 1-3), un sapiente, quanto dilettante, letterato che vive nella Roma degli Antonini; il quale ci riferisce della dotta disputa sul ‘dove’ sarebbe stato più corretto ambientare le vicissitudini marinare dell’eroe:
Un amico nostro di non comune cultura [...] mi consegna un libro di mole enorme, traboccante, diceva lui, di scienza di ogni specie [...]. Io lo afferro con avidità e piacere [...]. Ma le cose che ci stavano scritte, buon dio! Cose dell’altro mondo: [...] come era, al dire di Omero, il corridoio della casa di Ulisse; perché Telemaco, invece di toccare con la mano Pisistrato che gli dormiva a fianco, lo svegliò con un calcio; [...]. C’era pure l’elenco nominativo dei compagni di Ulisse presi e sbranati da Scilla; e se Ulisse percorse il mare interno, come dice Aristarco, o il mare esterno, come sostiene Cratete. [trad. Bernardi Perini]
Le espressioni in corsivo sono da Gellio riferite in greco: utrum en tēˆi ésō thalássēi Ulixes erraverit kat’ Arístarchon an en tēˆi éxō katà Krátēta. Aristarco di Samotracia, editore di Omero, è il celebre bibliotecario di Alessandria. Cratete di Mallo (fr. 31 M.) è un grammatico e retore di scuola pergamena, i cui insegnamenti influenzano la cultura romana. La disputa tra i due dotti maestri è sì di sapore filologico, ma si data, non a caso, in un’età nella quale un greco di Marsiglia, Pitea, già ha tentato un’esplorazione delle rotte del mare del Nord, riferendo di tale sua esperienza di viaggio in una trattazione scientifica che si intitola L’oceano.
Con Pitea siamo nell’età di Alessandro Magno. Sappiamo tutti come la sua morte inaspettata e prematura gli precluda di volgersi a occidente, come egli si predispone a fare nel suo ultimo anno di vita. Ma, nell’inarrestabile sete di conoscenza, inculcatagli dalla parola di Aristotele, all’occidente pensa di continuo e sull’occidente si documenta a più riprese durante la marcia in oriente. Ragione per la quale nella sua età si datano le prime, sistematiche, ricerche scientifiche greche pertinenti l’area atlantica, come, appunto, il memoriale su L’Oceano di Pitea. Ragione per la quale la leggenda dei suoi progetti occidentali ne dilata sempre più la meta estrema verso gli spazi atlantici, verso e oltre i termini fissati da Eracle, rinnovellando di continuo nella moltitudine degli imitatori l’anelito all’esplorazione e alla conquista.
Ma, in concreto, cosa sapeva Alessandro dell’oceano e delle sue distese infinite? Quasi nulla, e per questo vi invia quale esploratore Pitea. Un greco che, per essere nativo di Marsiglia, era certo a conoscenza di rotte marittime o di carovaniere terrestri che portavano alle regioni atlantiche. Che egli si sia mosso nell’età di Alessandro, e per suo incarico, è un dato oggi acquisito, e la critica propende ad ancorarne il viaggio intorno al 324, che è l’anno nel quale il Macedone, ritornato dall’India, riorganizza l’impero e medita concretamente di allargarlo a occidente. Delle motivazioni e della meta ultima della spedizione di Pitea si è detto tutto e il contrario di tutto: si sarebbe egli mosso verso l’ignoto, ovvero a fini di ricerca scientifica verso le regioni polari, oppure a fini di mercatura e di profitto verso le miniere di stagno e le riserve di ambra. Ma, in effetti, è molto più probabile che sia stato incaricato di verificare la possibilità di una circumnavigazione del continente europeo, da Gades verso settentrione fino alla foce del Tanai/Don, cioè apò Gadeíron éos Tanáïdos. Lo specifica Strabone (2, 104), la cui mappa dell’universo (7, 294) presuppone una terra circolare circondata dalle acque degli oceani, il settentrionale e il meridionale. La quale conoscerebbe, a sua volta, a separare i due emisferi, l’interruzione della linea di costa con stretti marini che sarebbero entrambi delimitati da mitiche colonne erculee e che immetterebbero, sia a occidente sia a oriente, in insenature formate l’una dal Mediterraneo e l’altra, inesistente, dal Mare Caspio.
In definitiva, l’esplorazione di Pitea risponderebbe alle medesime esigenze che, nell’emisfero meridionale, hanno dettato la spedizione navale di Nearco; quelle, cioè, da parte del Macedone, di conoscere la geografia delle regioni che meditava di conquistare o di acquisire al suo controllo. Il che, per il viaggio del navigatore marsigliese, non esclude né l’ansia della corsa verso l’ignoto, né la sollecitazione della ricerca scientifica, né la finalità di lucro.
Pitea sarebbe stato incaricato di tentare una circumnavigazione dell’Europa, dalla scienza del tempo ritenuta possibile. Ma Alessandro Magno muore improvvisamente nel 323, e proprio, non a caso, mentre meditava di muovere guerra contro Cartagine, detentrice del controllo delle rotte e dei mercati atlantici. Nessuno dei monarchi ellenistici concepirà poi esplorazioni marittime tanto ardite, e solo Roma, una volta vinta Cartagine, diverrà in tarda età ellenistica vera erede e continuatrice dei progetti del Macedone. Allora, ma non prima della seconda metà del II secolo, si immetterà sulle rotte commerciali dello stagno e dell’ambra, già sotto geloso controllo punico, ampliando in forma graduale l’esplorazione dei paesi circostanti ai loro giacimenti, in Gran Bretagna e sulle coste della Germania.
Ciò detto, possiamo tornare a Ulisse, anzi alla
leggenda dell’Ulisse oceanico. Nella medesima età della prima
esplorazione romana, tra II e I secolo, un grammatico greco,
Asclepiade di Mirlea, nel suo Commento all’Odissea,
racconta di offerte votive di Ulisse, di suoi anathémata,
conservati in un tempio di Athena eretto in un’ignota città di
Odysseía da localizzare sulla costa mediterranea
dell’Iberia. Lo testimonia Strabone (3, 149) in età augustea; il
quale, in questo, come in altri contesti (1, 157), sostiene poi che
Omero avrebbe localizzato nell’Atlantico buona parte delle
avventure di Ulisse. Anzi, avrebbe fatto di più. Pur conscio
dell’estrema indeterminatezza dei siti che furono teatro delle
avventure di Ulisse, egli considera Omero «il fondatore della
scienza geografica», archēghétēs tēˆs gheōgra-
phikēˆs
empeirías, giacché avrebbe proiettato l’eroe fino agli estremi
confini oceanici di un’ecumene dal contorno circolare (1, 2):
Va detto inanzitutto che Omero è da considerarsi a buon diritto il fondatore della scienza geografica [...]. Egli infatti non si è interessato solo alle attività e alle azioni degli uomini [...], ma anche agli aspetti del territorio, considerato sia nelle sue particolarità regionali sia in rapporto a tutta l’ecumene terrestre e marina, di cui è arrivato a toccare i confini estremi descrivendone il contorno circolare.
Il paradosso è solo apparente. Strabone attribuisce sì la qualifica di «fondatore della scienza geografica» a un autore, Omero, che brilla per non averci conservato alcuna localizzazione delle avventure di Ulisse, ma altra è la sua intenzione: quella di sottolineare come il poeta dell’Odissea conferisca una cornice territoriale, seppure fantastica, all’etnografia della varia umanità incontrata da Ulisse nelle sue molteplici avventure.
A tradizioni ancora di età romano-repubblicana possiamo ascrivere le notizie, testimoniate dal trattatello geografico di Mela (3, 1) e dall’opera enciclopedica di Plinio (nat. 4, 22), dell’esistenza di una città di Olisippo o Ulysippo in Lusitania, dalla quale avrebbe tratto nome anche un limitrofo promontorio. Città che Solino (23, 6), compendiatore di curiosità mirabili, definisce «fondazione di Ulisse», oppidum ab Ulixe conditum, e della quale ci informa ancora il tardo grammatico Marziano Capella (nupt. 6, 629) traendo spunto dalla menzione della foce del Tago:
Qui c’è la città di Olisippo che dicono essere stata fondata da Ulisse, da cui avrebbe preso nome anche il promontorio che separa la terra dal mare.
Sulle sponde portoghesi della Lusitania, non lungi dal favoloso emporio di Tartesso, sussiste dunque un oppidum ab Ulixe conditum. Ma a chi attribuire tale dilatazione iberica della leggenda di Ulisse? Gli Eubei, in epoca molto arcaica, sono solo i codificatori della geografia dell’Odissea; non i portatori di una leggenda di Ulisse avulsa da collegamenti con le avventure omeriche. Non è certo da escludere che, dopo di loro, altre genti greche abbiano fatto propria la figura di un eroe, sentito, di fatto, come un eroe nazionale nella sua indissolubile connessione alla dimensione del mare e dell’esplorazione nautica. Anzi, con buona probabilità, è da considerare di marca ancora una volta ellenica la notizia, tràdita da Asclepiade di Mirlea, di anathémata dell’eroe dedicati in un tempio di Athena. Ma la dilatazione atlantica della sua leggenda, e addirittura – come ci informa Strabone – delle stesse avventure omeriche, nulla ha da spartire con il mondo greco, ed è interferenza mitica di incidente marca latina. Interferenza che, in epoca romano-repubblicana, proietta Ulisse sul litorale atlantico dell’Iberia e che, in età romano-imperiale, slarga la traiettoria del suo viaggio alle vastità dell’oceano settentrionale.
2. La duplice connotazione dell’Ulisse latino
Roma, nel I secolo, l’ultimo secolo della Repubblica, vede gradualmente dilatarsi il proprio interesse per l’oceano settentrionale dalla dimensione dell’esplorazione a quella della conquista. La Britannia e la Germania, rispettivamente in età cesariana e in età augustea, rappresenteranno gli estremi confini del mondo assoggettato all’Urbe con audaci spedizioni marittime. Le une da Cesare proiettate verso il continente britannico; le altre da Augusto verso l’universo germanico con spericolate navigazioni da Cadice alla foce del Reno, e da questa alla foce dell’Elba, e ancora oltre «in direzione della regione dove nasce il sole», ad solis orientis regionem. Lo ricorda lo stesso Augusto nelle sue memorie (RG 26, 4), e l’espressione implica la ricerca – come per il solitario Pitea – del favoloso quanto inesistente passaggio a nord-est, che avrebbe dovuto permettere, dal crinale di Europa, di accedere al Mare Caspio, e quindi di ridiscendere nell’emisfero meridionale verso l’India e il Golfo Persico.
Dunque Britannia e Germania a indicare gli estremi confini del mondo connessi agli orizzonti dell’esplorazione oceanica. La Britannia, in età cesariana, è la regione popolata da «incivili, rozzi e remoti» abitatori, cioè dagli horribiles ultimi Britanni, come si esprime Catullo (carm. 29, 12). Cui fa eco, per l’età augustea, Orazio (carm. 4, 5, 26-27) nell’etichettare i Germani come «figli generati da un’orrida terra», Germania quos horrida parturit fetus. Il loro assoggettamento ha per fine sì la conquista di uno sterminato continente, ma in primo luogo ancora il progetto di porre l’oceano «per confine all’impero», imperium Oceano, come canta Virgilio (Aen. 1, 286-287):
Nascerà troiano da illustre stirpe Cesare,
che l’Oceano porrà per confine all’impero e gli astri alla sua fama. [trad. Ramous]
Orbene, Ulisse non solo ha navigato nell’oceano, ma – come vedremo – è approdato tanto nel settentrione estremo della Britannia quanto nel cuore della Germania, risalendo il corso del Reno. La tradizione sull’eroe, in ambito romano, si elabora e si arricchisce a partire, soprattutto, dall’età augustea, animata dal dilatarsi della geografia romana di esplorazione e di conquista. Come però sappiamo, il precedente più remoto per percepirne l’elaborazione è un precedente di sapore libresco. Risale alla disputa ellenistica fra Aristarco di Samotracia e Cratete di Mallo sullo spazio marittimo, mediterraneo od oceanico, nel quale circoscrivere le gesta marinare di Ulisse. Cratete aveva optato per «il mare esterno», e forse non è da imputare al caso il fatto che egli sia un autore conosciuto e apprezzato nell’ambiente della cultura romana. Ma, al di là di dispute filologiche, certo alimentate dal resoconto delle esplorazioni di Pitea, decisamente romano è lo spirito con cui, a partire dall’età augustea, risorge l’antico interrogativo circa i confini del viaggio di Ulisse.
Ancora più romano, inoltre, è l’animus che proietta l’eroe fin oltre lo stretto di Gibilterra, fin oltre le Colonne di Eracle, su rotte atlantiche di sconcertante respiro oceanico. Nell’età augustea, e quindi giulio-claudia, in seguito alle spedizioni nordiche di Druso e del fratello Tiberio e del figlio Germanico, ci si torna a domandare con insistenza, e ideologizzando il problema in chiave politica, se le avventure di Ulisse abbiano avuto come teatro il Mediterraneo, ovvero un mare innanzi ignoto. Inutile aggiungere che la riflessione sulla geografia romana di conquista influenza l’interpretazione della stessa geografia omerica.
In questa chiave dobbiamo rileggere il Panegirico di Messalla (vv. 76-80), il cui autore, non certo Tibullo, ricordando le avventure di Ulisse, allude all’esistenza di un mondo ‘sconosciuto’ che altro non è che l’oceano. Questo, il novus orbs, viene contrapposto alle terre finora conosciute, alle nostrae cognitae terrae, quali sedi di localizzazione delle avventure dell’eroe:
E non posso ignorare i pascoli violati
del Sole errante, o l’amore e i campi fecondi
di Calipso, la figlia di Atlante, e nemmeno
la terra dei Feaci, ultima meta
del suo sventurato vagabondare.
Ma sia che questi fatti abbiano trovato riscontro
nelle nostre terre o che la leggenda
abbia collocato questo peregrinare
in un mondo a noi sconosciuto
[...]. [trad. Ramous, con rettifica]
In questa chiave dobbiamo rileggere anche la pagina di Seneca (epist. 88, 7) che instaura un paragone tra le tempeste dell’animo umano e le sofferenze affrontate da Ulisse nella sua tormentata navigazione; la quale, forse, fu addirittura «oltre i confini del mondo a noi conosciuto», extra notum nobis orbem:
Vuoi sapere in che paesi andò errando Ulisse [...]? Non c’è tempo di ascoltare se fu sbattuto tra l’Italia e la Sicilia, oppure oltre i confini del mondo a noi conosciuto.
In età posteriore altri autori, e senza più esitazioni, proiettano decisamente l’eroe sulla distesa dell’oceano, o comunque sulle rotte nordiche al di là delle Colonne di Eracle.
In alcuni casi, sulle orme di Strabone, qui localizzando i siti delle avventure omeriche, come testimonia la tradizione riattualizzata dal tardo poeta Claudiano (1, 123-128), che colloca l’accesso all’Ade sulle coste atlantiche della Gallia. Qui, nel nekyomantêion, Ulisse interroga le anime dei defunti:
È questo il luogo! Lì la terra gallica
l’estremo litorale suo distende
specchiandosi nelle acque dell’Oceano;
lì dicono che Ulisse, il vittimale
sangue cosparso, dei morti il silente
popolo suscitato abbia d’incanto;
lì con sussurro dalle volteggianti
ombre un lamento flebile s’intende,
e pallidi fantasmi ed incorporee
immagini l’agricola lì scorge
all’intorno aggirarsi per i campi.
In altri casi, e sono i più frequenti, qui presupponendo nuovi (ultimi?) viaggi oceanici di Ulisse. Valga per tutti il caso di Tacito che trasforma l’eroe – longo illo et fabuloso errore in hunc Oceanum delatum – in esploratore di distese e di contrade atlantiche. Così nella Germania (3, 3):
Altri poi credono che anche Ulisse, sbattuto da quel suo lungo, leggendario, peregrinare, abbia raggiunto questo oceano approdando alle terre germaniche, e che abbia fondata una città, che chiamò Askipýrghion, l’odierna Asciburgium, posta sulle rive del Reno e ancora oggi abitata. Anzi, una volta fu ritrovato là un altare da lui consacrato, e dove era stato scolpito anche il nome del padre di lui, Laerte.
Non è il caso qui di ripetere come squisitamente germanico, anziché ellenico, sia il toponimo Asciburgium o come, in regioni transalpine, iscrizioni celtiche o nord-etrusche siano state spesso scambiate per greche. Ma è il caso di sottolineare come la città di Asciburgium, oggi Asberg, sia posizionata in ripa Rheni. Per l’esattezza alla confluenza tra il Reno e la Rhur; dunque su sponde fluviali, e non marine e oceaniche. Orbene, solo per questo motivo, la tradizione greca le avrebbe assegnato una fondazione a opera di Argonauti, anziché, con Ulisse, di protagonisti dell’epopea dei nóstoi. Infatti, questi ultimi, in forma univoca, sono gli scopritori di sempre più avanzati itinerari marittimi; mentre i primi, gli Argonauti, sono gli esploratori dei principali fiumi europei, dal Po al Rodano, e dal Danubio alla Drava, fino a proiettarsi – in età ellenistica, teste Diodoro (4, 56) – sullo stesso oceano settentrionale con spericolata navigazione del Tanai/Don. Su questa distinzione rigido è il determinismo dei Greci. Viceversa, è un qualcosa di totalmente aberrante per la loro mentalità l’elaborazione di una leggenda che veda un eroe dei nóstoi, quale Ulisse, catapultarsi di forza dalle distese oceaniche all’interno di percorsi fluvio-terrestri per desiderio di esplorare continenti innanzi sconosciuti. Anzi, proprio tale duplice connotazione, marittima e fluviale, denunzia una genesi della leggenda ‘nordica’ o ‘germanica’ dell’eroe in ambiente anellenico: cioè, nel nostro caso, in seno al mondo latino.
Ma Ulisse non solo è giunto in Germania, ma – come già abbiamo anticipato – nel settentrione estremo della Britannia. Lo testimonia, nell’inoltrato III secolo d.C., Solino, la cui opera è un prezioso compendio rerum memorabilium, cioè di tradizioni – desunte dai più svariati autori – pertinenti accadimenti degni di nota. Egli ci dice dunque che l’eroe è pervenuto fino alle coste della Scozia, cioè Calidonicum usque angulum (22, 1):
Fine dell’orbe era la costa del litorale della Gallia, se si eccettua l’isola di Britannia che per la sua ampiezza in qualche modo si merita quasi il nome di altro mondo. Infatti spazia per estensione ottocento e più miglia, misurandola fino all’insenatura della Calidonia, recesso nel quale un altare con un’iscrizione greca testimonia che Ulisse sia arrivato ramingo.
L’isola della Britannia è tanto estesa da potersi quasi definire un mondo a sé stante. Qui, sulle rotte dell’oceano, in quello che poteva a ragione apparire un alter orbs, è giunto l’Ulisse di marca latina. Qui, inoltre, ancora una volta, un’iscrizione in caratteri sconosciuti, ma scambiati per greci, avrebbe testimoniato il passaggio dell’eroe. Iscrizione, oltretutto, come quella germanica, graffita o incisa su «un altare», cioè su un’ara presumibilmente, anche in questo caso, da lui consacrata. Ma quale l’autore cui attinge Solino? Molto probabilmente il medesimo cui attinge Tacito non solo per la sua Germania, ma anche per la Vita di Agricola. Il condottiero, non a caso, che aveva guidato le armate romane fino nelle remotissime contrade della Scozia o Calidonia.
Questi, che abbiamo tratteggiato, i tratti fortemente ideologizzati della saga dell’Ulisse latino. Il quale, a ben vedere, sfuma la propria immagine in quella onirica di Alessandro Magno, o meglio dell’Alessandro della leggenda postuma, al cui mito si adeguano e si conformano, in un processo di imitatio, palese od occulta, tutti i condottieri romani che progettano la conquista della Germania o vagheggiano la circumnavigazione dell’oceano settentrionale ricercando il mitico passaggio che li porti – come abbiamo ricordato – ad solis orientis regionem. Entrambi gli eroi, Alessandro e Ulisse, vengono ora a simboleggiare l’ardimento latino; tanto quello reale, oggetto di imitazione continua, quanto quello leggendario, irreale, che instancabilmente ricicla il suo mito di eterno navigatore. Li accomuna, in fondo, una nota che li caratterizza entrambi: l’ansia dell’esplorazione e con essa l’anelito alla sete di conoscenza.
Una nota davvero inscindibile. Se, infatti, l’Ulisse romano è, in età imperiale, un navigatore e un esploratore di distese oceaniche a questa connotazione ne assomma un’altra già a partire da età tardo-repubblicana: quella dell’eroe assetato di conoscenza. Egli, nell’Odissea, non solo «città vide molte» e «delle genti l’indol conobbe» come recita il Pindemonte traducendo l’incipit del poema (1, 3), ma anche apprese (12, 184-191), dalla loro viva voce, che le Sirene sapevano cose sconosciute ai mortali. Chi ne avesse ascoltato il canto «avrebbe acquisito più conoscenza», pleíona eidṓs, perché esse erano edotte di «quanto avviene sulla terra», hóssa ghénētai epì chthoní. Da questa caratteristica connaturata nelle Sirene, dall’anelito dell’eroe ad ascoltarne la voce, prende le mosse la seconda connotazione – di ansioso viaggiatore mai pago di apprendimento – attribuitagli nell’ambito della cultura romana.
È il Cicerone filosofico del De finibus (5, 49) che così interpreta l’avventura dell’eroe tra le Sirene, informandoci della sua incontenibile sete di conoscenza. Egli non rischia la vita sua e dei compagni per udirne la melodia del canto, ma per intenderne l’ammaestramento che ne è sotteso, perché «dichiaravano di sapere molte cose», multa se scire profitebantur, perché promettevano «il sapere» che «per un uomo desideroso della sapienza» è «più caro della patria»:
Omero concepì qualcosa di simile nella favola da lui immaginata sul canto delle Sirene. Risulta, infatti, che esse erano solite richiamare i naviganti non per la dolcezza della voce o per qualche nuova e diversa maniera di cantare, ma perché dichiaravano di sapere molte cose, tanto che essi rimanevano attaccati ai loro scogli per brama di imparare [...]. Omero si avvide che il mito non poteva ottenere approvazione se un sì grande eroe fosse stato trattenuto e irretito da canzonette; promettono il sapere, e non era strano che per un uomo desideroso di sapienza esso fosse più caro della patria.
In definitiva, l’Ulisse ciceroniano non vuole esporre la vita per essere «irretito da canzonette», ma per sete di conoscenza: per imparare ciò che ancora ignora. Egli è l’esempio tangibile «di ciò che possono la virtù e la sapienza», dirà Orazio (ep. 1, 2, 17-18) una generazione appresso. Egli, con Eracle, è il modello vivente dell’uomo sapiente che gli dèi concessero agli uomini, dirà ancora, mezzo secolo dopo, Seneca nella pagina impegnata del De constantia sapientis (dial. 2, 2, 1):
Questi [Ulisse ed Eracle] i nostri stoici proclamarono sapienti e invitti nelle fatiche e dispregiatori della voluttà e vincitori di tutte le paure.
La connotazione di «invitti nelle fatiche», invicti laboribus, caratterizza in primo luogo Eracle, l’eroe delle ‘dodici fatiche’, ma l’etichetta di «dispregiatori della voluttà», contemptores voluptatis, rimanda prepotentemente all’Ulisse ciceroniano che neppure il melodioso canto delle Sirene riesce ad ammaliare. In accoppiata, i due eroi sono correlati nella duplice connotazione di «vincitori di tutte le paure», victores omnium terrorum. Con una definizione che li esalta per imprese condotte ai limiti estremi dell’umano, che assegna loro illimitati orizzonti di esplorazione e di conquista tanto in terra quanto in mare. Il che, per l’Ulisse latino, significa riacquisire la connotazione più consueta di indefesso navigatore di distese oceaniche.
3. La leggenda dell’ultimo viaggio
Dalla leggenda romana dell’eroe trarrà le mosse l’Ulisse della Commedia di Dante. Il quale non ha nulla in comune con la tradizione omerica o post-omerica; ma, viceversa, ha molti debiti con l’eroe del riciclaggio latino che è, da un lato, violatore dei claustra naturae e, d’altro lato, uomo insaziabilmente assetato di conoscenza. La prima connotazione è quella che proietta Ulisse sempre più lontano sulle rotte atlantiche, al di là del termine segnato dalle Colonne di Eracle. La seconda è la ciceroniana che lo trasforma, nell’episodio delle Sirene, in un indagatore dei segreti della natura (o dell’anima?) oltre i confini stessi del sapere umano.
L’Ulisse della Commedia – l’abbiamo detto – nulla ha da spartire con l’Odissea, che peraltro Dante non conosceva, ma il suo Inferno fornisce pur sempre spunto alla tradizione successiva per sviluppare due segmenti leggendari che giganteggiano nel grande affresco poetico che lì immortala l’eroe omerico: i temi della morte e dell’ultimo viaggio. Diremo in seguito dove Dante ha attinto la materia per l’elaborazione del suo personaggio, che diviene egli stesso personaggio di mito nelle infinite sue rielaborazioni proposteci dalle letterature moderne. Ma, in forma prioritaria, non sarà inutile riapprodare alla pagina dell’Odissea (11, 121-29) che il lettore già conosce; quella pertinente la profezia di Tiresia sull’ultimo viaggio dell’eroe:
«Prendi allora il remo e rimettiti in viaggio fino a che giungerai presso genti che non conoscono il mare, da uomini che non mangiano cibi conditi col sale, che non conoscono navi dalle prore dipinte di rosso, né gli agili remi che sono ali alle navi». [trad. Ciani]
L’eroe, ritornato in Itaca, dovrà quindi riprendere a viaggiare, ma questa volta essenzialmente per terra, e quindi, grosso modo, percorrendo le contrade della limitrofa terra epirota. La meta del suo andare è nebulosa e lontanissima, e non tanto per reale distanza chilometrica, quanto perché lo proietterà psicologicamente in un mondo altro: cioè presso «uomini che non conoscono il mare», ou ísasi thálassan anéres, e neppure il remo e il sale. Versi, questi dell’Odissea, donde trarrà le mosse un perduto poema arcaico, la Tesprotide, di cui abbiamo notizia da Pausania (8, 12, 5-6) nella sua Guida della Grecia. Inutile aggiungere quanto il nostro Ulisse omerico sia proprio agli antipodi dell’Ulisse dantesco, che né torna in patria né compie per terra il suo ultimo viaggio.
In quanto alla morte, «lontano dal mare», ex halós, è sempre Tiresia che la profetizza all’eroe nella pagina dell’Odissea (11, 134-137):
«La morte verrà per te lontano dal mare, ti coglierà nella vecchiaia ricca di beni, e sarà dolce. Avrai intorno a te un popolo felice. Questa è la verità che ti dico». [trad. Ciani]
È Eugammone di Cirene a informarci della morte di Ulisse, come testimonia Proclo (chrest. 306). Ma essa, nel suo perduto poema, la Telegonia, è tutt’altro che dolce. Un figlio, avuto da Circe, che gli era sconosciuto, e al quale egli stesso era sconosciuto, si reca in Itaca per incontrarlo; non è però in grado di riconoscerlo, e lo uccide involontariamente in un occasionale duello, seppellendone poi il cadavere a Cortona, in Italia. Altre tradizioni – che pure hanno interferenze geografiche con questa – narrano invece che l’eroe morì tranquillamente a Cortona dove era riparato disgustato dai tradimenti di Penelope, come ci narra Teopompo (FGrHist 115 F 334), ovvero inseguito dai parenti dei Proci in aperta ribellione, come ci dicono Aristotele (fr. 507 R.) e Plutarco (mor. 294c). Ancora una volta inutile aggiungere quanto il nostro Ulisse omerico sia l’esatto contrario dell’Ulisse della Commedia, che né muore in patria né è consunto da una serena vecchiezza.
L’eroe di Dante – come abbiamo già ricordato – germina, viceversa, dalla leggenda dell’Ulisse latino, che lo ritrae come un uomo mai pago di conoscenza o come un intrepido navigatore di acque oceaniche.
La prima connotazione deriva direttamente, né la cosa è sfuggita alla critica, dal De finibus di Cicerone (5, 49). Non è necessario rileggerne la testimonianza, ma possiamo utilmente raffrontare il «dichiaravano di sapere molte cose», il multa se scire profitebantur, attribuito alle Sirene, oggetto della proiezione introspettiva dell’ansia dell’eroe, con la più celebrata tra le terzine del canto dantesco (inf. 26, 118-120), quella che suggella la sua «orazion picciola»:
«Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza».
La sete di conoscenza che egli risveglia nell’animo dei compagni è la medesima che, nel De finibus ciceroniano, l’induce ad ascoltare il canto delle Sirene. La stessa che, a distanza di secoli, ci ripropone il poeta moderno («E s’ergean su la nave alte le fronti, / con gli occhi fissi, delle due Sirene. // Solo mi resta un attimo. Vi prego! / Ditemi almeno chi son io! chi ero! // E tra i due scogli si spezzò la nave»). Curiosamente Dante, nel canto di Ulisse, ricorda Circe, che gli preannunzia il suo incontro con le Sirene, ma non cita le Sirene, che pure, per tramite della prosa ciceroniana, gli forniscono materia sia per la creazione di un imperituro personaggio poetico sia per la conoscenza diretta, in traduzione latina, di una manciata di versi dell’Odissea (12, 184-191). Ma è un tema, quello delle Sirene, che comunque l’affascina se egli, in un’altra cantica della Commedia, accenna a una di loro che direttamente l’alletta con la propria voce (purg. 19, 19-21):
«Io son – cantava, – io son dolce serena,
che i marinari in mezzo al mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!».
Veniamo alla seconda connotazione dell’eroe: all’Ulisse che è intrepido navigatore di acque atlantiche e che dischiude all’umanità le vie dell’oceano. La critica sostanzialmente sorvola sulle fonti di Dante, limitandosi in forma generica a ravvisarle in narrazioni medievali, e in particolare nella Navigatio Sancti Brandani, che è una sorta di ‘Odissea monastica’ con chierici in continuo viaggio di andata e di ritorno all’isola e dall’isola del Paradiso Terrestre, situata sull’oceano oltre lo stretto di Gibilterra. Ma, conoscendo Dante, non è facile sottrarsi alla suggestione che abbia avuto a monte anche la memoria di una fonte classica. Ma quale? Non certo, o non solo, Plinio (nat. 4, 22) che sì l’informa dell’esistenza di una città di Olisippo o Ulysippo in Lusitania, ma con una notizia scissa da un effettivo respiro atlantico e, oltretutto, esplicitabile senza possibilità di dubbio solo con l’integrazione «fondazione di Ulisse» testimoniataci da Solino (23, 6). Il quale, a nostro avviso, è la reale fonte di Dante, ma non in questo luogo, bensì nel secondo (22, 1) che già abbiamo richiamato all’attenzione del lettore, e che ora giova rileggere nel testo originale:
Finis erat orbis ora Gallici litoris, nisi Britannia insula non qualibet amplitudine nomen paene orbis alterius mereretur: octingenta enim et amplius milia passuum longa detinet, ita ut eam in Calidonicum usque ad angulum metiamur, in quo recessu Ulixem Calidoniae adpulsum manifestat ara Graecis litteris scripta.
È indubbio che questa testimonianza abbia un incidente respiro atlantico e sia tale da attrarre su Ulisse l’attenzione del poeta. L’oceano è qui confine del mondo abitato, e appunto le sue acque si distendono oltre il finis orbis, rappresentato dalla costa nordica della Gallia. Oltre la quale, sulle acque remote dell’oceano, si affaccia – quasi fosse un altro continente – l’isola della Britannia, con a settentrione la lontanissima terra di Calidonia dove approda Ulisse dopo una navigazione che Dante avrebbe certo quantificato in qualche mese, cioè in più di una riapparizione de «lo lume» della luna (anche calcolandola sulla base del tragitto percorribile da un’imbarcazione del proprio tempo). Né un uomo del Medioevo poteva non essere attratto da una tale notizia, che gli offriva, come i coevi racconti sulle vite dei cavalieri o dei santi, informazione di una ‘sacra’ reliquia lasciata dall’eroe a testimonianza nel suo passaggio per la Scozia: l’ara Graecis litteris scripta.
Solino, di fatto, è l’unico autore classico che poteva ispirare al poeta il grandioso affresco del viaggio oceanico di Ulisse, che nella Commedia si trasfigura nell’ultimo viaggio. Ma Dante – la cui biblioteca era limitatissima – poteva conoscere il nostro autore? In effetti, ci dovremmo stupire del contrario, giacché Solino è autore che conosce ampia, documentata e immeritata fortuna per tutta l’età medievale. Quando il suo opuscolo compilativo dal titolo di Collectanea rerum memorabilium circola anche sotto i nomi di Polyhistor e di De mirabilibus mundi, venendo a surrogare la lettura di autori più impegnati o perduti, dai quali estrapola le annotazioni sulle cose più meravigliose o strane, nonché le notizie etnografiche pertinenti popoli remoti, con le loro usanze e con il relativo corredo di flora e di fauna. Tale, allora, fu la fortuna dell’opuscolo che ne furono confezionati pure rimaneggiamenti e, per meglio memorizzarli, anche rifacimenti in esametri latini. Né è da sottacere che Solino, nel Dittamondo, offre a Fazio degli Uberti occasione per una scoperta imitazione della Commedia di Dante: come questi, infatti, nel poema sacro si fa accompagnare da Virgilio, così il conterraneo e più giovane poeta fiorentino si munisce proprio del tardo compilatore latino come proprio compagno. In un viaggio, questa volta terrestre, nel quale la pagina di Solino gli fornisce la possibilità di descrivere le peculiarità geografiche delle città che immagina di visitare.
Orbene, considerata l’ampia e spropositata fortuna dello scritto di Solino, è difficile dubitare che Dante non l’avesse letto e non l’avesse avuto presente tra i pochi autori classici che lo potevano informare sulle peregrinazioni di Ulisse; anzi, determinatamente, su quel suo «folle volo» oceanico la cui memoria riaffiora perfino nel Paradiso (27, 82-83):
Sì ch’io vedea di là da Gade il varco
folle d’Ulisse, [...].
L’Ulisse di Solino procede in direzione di nord-est, l’eroe di Dante in direzione di sud-ovest, ma entrambi raggiungono un’isola – grande o piccola che sia, reale o immaginaria che sia – sperduta nell’oceano e quasi proiettata in un altro mondo. Anzi il genitivo orbis alterius di Solino pare quasi riecheggiato nello specificativo «dell’altro polo» riferito alle stelle nel testo dantesco (inf. 26, 127-129):
Tutte le stelle già dell’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Se di riecheggiamento si trattasse, e tutto farebbe propendere a crederlo, allora risulterebbe provata, nell’affresco di Dante, anche una sovrapposta memoria dell’Ulisse di Solino. Ovviamente, siamo qui agli antipodi del suo alter orbs e altre sono le stelle che brillano, dal polo antartico, nella notte dantesca. Le medesime la cui vivida luce si irradia ancora, a distanza di secoli, nel verso del poeta moderno che segna l’estrema imitazione e la cosciente riattualizzazione del tema dell’ultimo viaggio («oh! mille e mille occhi, nel raggio / che ardeva a lui sul capo»). Ma non è bene divagare neppure nell’ultima pagina di un libro! Che, se si è concesso di soffermarsi sulle fonti più segrete, o finora sconosciute, dell’Ulisse dantesco, è perché, nella leggenda dell’eroe, e nella storia della sua percezione, le terzine della Commedia segnano il vero discrimen tra le opposte sensibilità degli antichi e dei moderni.
Nota
1. L’orizzonte oceanico
Sulla disputa tra Aristarco di Samotracia e Cratete di Mallo informa K. Lehrs, De Aristarchi studiis Homericis, Lipsiae 18823, p. 244. I luoghi omerici, richiamati in discussione da Gellio (14, 6, 1-3), sono collazionati da G. Bernardi Perini, in Aulo Gellio, Le notti attiche, 2, Torino 20072, p. 1058 sg.
Su Pitea, sulla datazione della sua spedizione, e sui motivi che l’ispirano, ottimo status quaestionis, con approfondita analisi, e con edizione dei superstiti frammenti, offre S. Bianchetti, in Pitea di Massalia, L’Oceano, Pisa-Roma 1998, p. 27 sgg. Notazioni di rilievo anche in S. Magnani, Il viaggio di Pitea sull’Oceano, Bologna 2002, p. 13 sgg. Vedi inoltre, più in generale, L. Braccesi, I Greci delle periferie, Roma-Bari 2003, p. 164 sgg.
Sui progetti ultimi di Alessandro Magno, da lui perseguiti o progettati, ovvero solo attribuitigli dalla leggenda, ora documenta L. Braccesi, L’Alessandro occidentale, Roma 2006, p. 43 sgg., nonché, per il suo costante interesse all’occidente, Id., Alessandro, Siracusa e l’Occidente, in AttiCon Aspetti e problemi dell’ellenismo, (Pisa 1992) Pisa 1994, pp. 9-22.
Le Colonne di Eracle ‘orientali’ testimoniate da Strabone (7, 294) delimitano una presunta e mitica comunicazione tra il Mare Caspio e l’oceano che circonda la terra. Informa e documenta C. Nicolet, L’inventario del mondo. Geografia e politica alle origini dell’impero romano (Paris 1988), trad. it. Roma-Bari 1989, pp. 81 e 87 sg.
Su Nearco, orientativamente, informa P. Pédech, Historiens compagnons d’Alexandre, Paris 1984, p. 159 sgg. Sulla storiografia coeva, che già attribuisce ad Alessandro una dilatazione delle sue reali conquiste in direzione dell’estremo nord, buone le considerazioni di P. Goukowski, Essai sur les origines du mythe d’Alexandre, 1, Nancy 1978, p. 149 sgg.
Si devono ad A. Peretti, Il Periplo di Scilace, Pisa 1979, p. 24 sgg., nuovi argomenti a favore del blocco cartaginese presso Gibilterra, sostanzialmente determinato dal primo trattato romano-cartaginese. Sul quale ultimo, per ogni documentazione, vedi B. Scardigli, I trattati romano-cartaginesi, Pisa 1991, p. 47 sgg. Scettico sul blocco cartaginese (che considera troppo enfatizzato da Strabone 17, 802) è invece P. Fabre, Les Massaliotes et l’Atlantique, in AttiCon Océan Atlantique et péninsule Armoricaine, (Brest 1982) Paris 1985, pp. 25-49, part. 27 sgg. Più sfumata la posizione di M. Clavel-Lévêque, Marseille grecque, Marseille 1977, p. 129 sgg., che sostiene che i Massalioti, in virtù di presumibili accordi bilaterali con Cartagine, seguitino ad avere accesso alle rotte atlantiche. Così anche P. Barceló, Karthago und die iberische Halbinsel vor den Barkiden, Bonn 1988, p. 136 sgg.
Di Omero quale «fondatore della scienza geografica» discute F. Prontera, Geografia e geografi nel mondo antico, Roma-Bari 1983, p. 5 sgg.
Sulla scienza geografica in epoca ellenistica orienta F. Cordano, La geografia degli antichi, Roma-Bari 1992, p. 111 sgg., e soprattutto, con incisiva chiarezza, P. Janni, Il mare degli Antichi, Bari 1996, p. 237 sgg. Per l’indagine sull’espansionismo greco oltre le Colonne di Eracle fondamentali le pagine di L. Antonelli, I Greci oltre Gibilterra, Roma 1997 (= «Hesperìa» 8), con ricca bibliografia. Per i commerci e le esplorazioni marittime dei Cartaginesi, vedi, in particolare, S. Medas, La marineria cartaginese, Sassari 2000, p. 49 sgg.
Sui commerci nordici e sui molti problemi connessi alla localizzazione delle isole dello stagno informa R. Dion, Le problème des Cassitérides, «Latomus», 11, 1952, pp. 306-314.
Sulla dimensione omerica dell’oceano discetta R. Dion, Tartessos, l’Ocean homérique et les travaux d’Hercule, «RH», 224, 1960, pp. 27-44.
2. La duplice connotazione dell’Ulisse latino
In età romana, e soprattutto romano-imperiale, sul rapporto tra il Mediterraneo e l’oceano, sempre utile, in generale, la consultazione di V. Burr, Nostrum mare, Stuttgart 1932, p. 95 sgg. Ma, in particolare, non si prescinda da M. Reddé, Mare nostrum, Rome 1986, e da Nicolet, L’inventario, cit., part. 79 sgg. Un quadro utile e incisivo, seppure con riferimento al mondo ellenico, offre F. Prontera, Il Mediterraneo come quadro della storia greca, in I Greci, a cura di S. Settis, 2 (1), Torino 1996, pp. 25-45, part. 33 sg.
Sull’impresa di Cesare e sulla spedizione settentrionale di Druso, nonché sulle navigazioni oceaniche di Tiberio e di Germanico, orienta Braccesi, L’Alessandro, cit., pp. 102 e 117 sgg.
Per meglio focalizzare l’espressione augustea (RG 26, 4) ad solis orientis regionem, vedi anche le osservazioni di P. Janni, «Il sole a destra». Esplorazione nella letteratura geografica antica e nei resoconti di viaggio, «SCO», 28, 1978, pp. 87-115.
La leggenda dell’Ulisse latino, con particolare riguardo alla sua proiezione oceanica, è valorizzata da Braccesi, L’Alessandro, cit., p. 100 sgg. Sugli orizzonti ‘settentrionali’ della geografia augustea di esplorazione e di conquista documentano, in forma innovativa, Nicolet, L’inventario, cit., p. 49 sgg., e G. Cresci Marrone, Ecumene augustea, Roma 1993, p. 194 sgg.
Sulle allusioni all’oceano nei poeti augustei, e massime in Virgilio, informa G. Panessa, s.v. Oceano, in EV, 3, 1987, pp. 813-815.
Sul luogo di Tacito (Germ. 3, 3) informano J.G.C. Anderson, in Cornelii Taciti de origine et situ Germanorum, Oxford 1938, p. 46 sgg., e G. Forni-F. Galli, in Taciti de origine et situ Germanorum, Roma 1964, p. 66 sgg.
Sull’exokeanismós nordico degli Argonauti di cui ci informa Diodoro (4, 56) e sul valore liminale assegnato al Tanai/Don dalla geografia antica, richiama l’attenzione Bianchetti, in Pitea di Massalia, L’Oceano, cit., p. 65 sgg. Utili spunti di riflessione forniscono ancora C. Van Paassen, The Classical Tradition of Geography, Groningen 1957, p. 248 sgg., e G. Aujac, Strabon et la science de son temps, Paris 1966, p. 160 sg.
Seppure di interesse più marcatamente rivolto al mondo greco, sulla leggenda di Eracle nell’estremo occidente fondamentale l’indagine di C. Jourdain-Annequin, Héraclès aux portes du soir, Paris 1989, part. 227 sgg.
3. La leggenda dell’ultimo viaggio
In generale, sul tema del viaggio, utili considerazioni in Idea e realtà del viaggio, a cura di G. Camassa-S. Fasce, Genova 1991, pp. 5-16.
Sulla tradizione della Tesprotide documenta I. Malkin, I ritorni di Odisseo (Berkeley-Los Angeles 1998), trad. it. Roma 2004, p. 149 sgg.
Sulla Telegonia e sulla leggenda di Ulisse in terra di Etruria (oltre sempre Malkin, I ritorni, cit., p. 189 sgg.) informa L. Braccesi, Grecità di frontiera, Padova 1994, p. 43 sgg.
I debiti dal Cicerone del De finibus (5, 49) della connotazione dell’Ulisse dantesco sono bene evidenziati da I. Sanesi, L’ultima navigazione di Ulisse, ora in Saggi di critica e storia letteraria, Milano 1941, p. 151 sgg. Per un’esauriente informazione, e per un aggiornamento ragionato della bibliografia, vedi inoltre M. Fubini, s.v. Ulisse, in ED, 5, 19842, pp. 803-809.
Sulla figura di Ulisse nel Medioevo documenta E.G. Parodi, L’«Odissea» nella poesia medievale, ora in Poeti antichi e moderni, Firenze 1923, pp. 67-102. Utili spunti di riflessione anche in F. Forti, Magnanimitade. Studi su un tema dantesco, Bologna 1977, p. 161 sgg.
Il Dittamondo si legga (non prescindendo dall’introduzione) nell’edizione curata da G. Corsi, Fazio degli Uberti, Il Dittamondo e le rime, Bari 1952. Utili considerazioni sulle divagazioni etnografiche contenute nell’opera e sulla sua dipendenza da Solino, in G. Levi Della Vida, Fazio degli Uberti e l’Egitto medievale, in Studi in onore di Angelo Monteverdi, Modena 1959, pp. 443-454.
Il poeta moderno della prima citazione tra parentesi è il Pascoli dei Poemi Conviviali, in L’ultimo viaggio (XXIII, 52-55). Su cui vedi R. Braccesi, La leggenda di Ulisse nella coscienza dei moderni e la poesia di G. Pascoli, in AttiCon Studi per il centenario della nascita di Giovanni Pascoli pubblicati nel cinquantenario della morte, 3, (Bologna 1958) Bologna 1962, pp. 191-200.
Il poeta moderno della seconda citazione tra parentesi è sempre il Pascoli, questa volta di Odi e Inni, in Andrée (II, 16-19).