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«Sono desolata», si scusò immediatamente Daisy sorridendo con calore. «Sembra proprio che io ti faccia sempre aspettare. Tu e Sandy vi siete già presentate?» I suoi capelli erano sempre raccolti dietro la nuca in un impeccabile chignon.

«Sì, ci siamo già presentate. E abbiamo anche scambiato due chiacchiere sulle gioie del riordino degli scaffali.»

«In effetti mi rendo conto che ai miei studenti chiedo molto; ore e ore di fotocopie e di archiviazione. Roba molto noiosa, lo so. Ma il lavoro di ricerca per lo più è alquanto noioso. E devo dire che i miei studenti e collaboratori sono molto pazienti.»

Rivolse un bel sorriso anche a Sandy, che glielo restituì e tornò subito a occuparsi delle riviste. Ero colpita dal diverso atteggiamento che la professoressa riservava a quella studentessa e alla sua assistente.

«Bene, adesso lascia che ti mostri che cosa ho trovato. Credo che ti piacerà.» E mi indicò il divano.

Dopo che ci fummo accomodate, sollevò una pila di materiale da un tavolinetto in ottone alla sua destra e abbassò lo sguardo su due pagine di tabulato. La sua testa era nettamente divisa in due da una nitida riga bianca.

«Questi sono titoli di libri che parlano del Québec in epoca ottocentesca. Sono sicura che in molti di essi troverai citata la famiglia Nicolet.»

Mi passò l'elenco e io gli diedi un'occhiata, anche se la mia mente non era affatto sui Nicolet.

«Questo libro invece tratta dell'epidemia di vaiolo del 1885. Potrebbe contenere alcuni riferimenti a Elisabeth o alla sua opera. In ogni caso ci troverai l'atmosfera del tempo, e potrai capire quanta sofferenza si pativa a Montréal in quel periodo.»

Il volume era nuovo e in perfette condizioni, come se nessuno l'avesse mai letto. Sfogliai qualche pagina, ma non trovai nulla di particolare. Che cosa stava per dire Sandy?

«Però credo che apprezzerai soprattutto questi.» Mi passò qualcosa di simile a tre vecchissimi libri mastri, poi si appoggiò allo schienale - senza mai smettere di sorridere - e mi osservò con attenzione.

Le copertine erano grigie, il dorso e le rifiniture bordeaux. Mi affrettai ad aprire il primo volume e a sfogliare qualche pagina. Aveva un vago odore di muffa, come se fosse rimasto per anni in una cantina o in una soffitta. Non era un libro mastro ma un diario, scritto a mano con una grafia spessa e chiara. Lo sguardo mi cadde sulla data d'inizio: primo gennaio 1844, e subito andai a controllare l'ultima: ventitré dicembre 1846.

«Sono stati scritti da Louis-Philippe Bélanger, lo zio di Elisabeth. Di lui si dice che fosse un magistrale scrittore di diari, così - d'istinto - ho dato un'occhiata alla sezione Documenti Rari della nostra biblioteca. E ho scoperto che la McGill possiede parte della sua collezione. Non so dove sia il resto, né se i volumi siano giunti fino a noi, ma posso tentare di scoprirlo. Ho dovuto dare in pegno la mia anima per avere questi», e si mise a ridere. «Ho scelto quelli che corrispondono al periodo in cui è nata Elisabeth e alla sua infanzia.»

«È troppo bello per essere vero», dissi, scordando per un attimo Anna Goyette. «Non so davvero cosa dire.»

«Devi dire che li terrai con la massima cura.»

«Vuoi dire che li posso portare a casa?»

«Sì. Mi fido di te. Sono sicura che sai apprezzarne il valore e che li tratterai di conseguenza.»

«Daisy, sono confusa. Questo è molto più di quanto avevo sperato.»

La dottoressa minimizzò con un gesto della mano, che poi riportò subito in grembo. Per un attimo nessuna delle due parlò. Non stavo più nella pelle dalla voglia di uscire di là e di immergermi in quei diari. Poi mi ricordai della nipote di suor Julienne. E delle parole di Sandy.

«Daisy, mi chiedevo se per caso potevo parlarti un secondo di Anna Goyette.»

«Sì.» Stava ancora sorridendo, ma lo sguardo tradiva circospezione.

«Come sai, lavoro con suor Julienne, che è la zia di Anna.»

«Non sapevo che fossero parenti.»

«È così. Suor Julienne mi ha chiamato per dirmi che Anna non è più rientrata a casa da ieri mattina. E sua madre è molto inquieta.»

Mentre parlavamo, non perdevo di vista i movimenti di Sandy, che continuava a riordinare. Intorno a lei tutto sembrava immobile, e lo notò anche Daisy Jeannotte.

«Sandy, immagino che sarai stanca. Forse è il caso di fare una pausa, no?»

«Veramente non...»

«Per favore.»

La ragazza ci scivolò accanto per uscire dall'ufficio, e in quel momento i nostri sguardi si incrociarono. La sua espressione era impenetrabile.

«Anna è una persona molto intelligente», proseguì la professoressa. «Un po' volubile forse, ma ha il cervello fino. Sono sicura che sta bene.» Molto decisa.

«Sua zia dice che non è da Anna sparire così.»

«Probabilmente aveva bisogno di un po' di tempo per riflettere. So che ha avuto dei dissapori con la madre. Forse vuole stare qualche giorno per conto suo.»

Sandy aveva alluso al fatto che Daisy Jeannotte era protettiva con i suoi studenti. Per caso si riferiva a ciò a cui stavo assistendo? La professoressa sapeva qualcosa che non voleva dire?

«Suppongo di essere molto più ansiosa della media delle persone. Ma con il lavoro che faccio vedo troppe ragazze che finiscono per non stare troppo bene.»

Daisy Jeannotte si guardò le mani. Per un attimo rimase assolutamente immobile. Poi, sfoggiando il solito sorriso: «Anna Goyette sta cercando di sottrarsi alle influenze di una situazione familiare impossibile. Non ti posso dire altro, ma ti assicuro che sta bene ed è contenta».

Perché tutta questa certezza? Dovevo osare? Al diavolo, decisi di buttarla lì e di vedere la sua reazione.

«Daisy, so bene che ti sembrerà assurdo, ma ho sentito dire che Anna è entrata in una setta satanica.»

Il sorrìso scomparve. «Non voglio neppure sapere dove hai sentito una cosa simile. Ma non mi sorprende.» Scosse la testa. «Pedofili. Assassini psicopatici. Messia depravati. Satanisti. Il vicino inquietante che avvelena con l'arsenico i dolcetti per i bambini di Halloween.»

«Ma tutto questo esiste davvero.» Sollevai le sopracciglia con aria interrogativa.

«Ah sì? Non saranno invece delle mere leggende metropolitane? Memorabilia per i tempi moderni?»

«Memorabilia?» Mi chiesi quale fosse il nesso fra quel discorso e Anna.

«È un termine utilizzato dagli studiosi di folclore per descrìvere come le persone integrino le loro paure con le leggende popolari. È un modo per spiegare le esperienze sconcertanti.»

Ma dalla mia faccia la professoressa capì che ero ancora confusa.

«Ogni contesto sociale produce storie e leggende che esprimono le angosce proprie di ogni cultura. Paura dell'uomo nero, dei forestieri, degli alieni. La scomparsa dei bambini. Quando succede qualcosa a cui non sappiamo dare una spiegazione, non facciamo che ricorrere alle vecchie leggende. La strega che ha imprigionato Hansel e Gretel. L'orco che ha preso il bambino che vagava nel bosco. È un modo per rendere plausibili le esperienze disorientanti. Ed ecco che le persone raccontano storie di rapimenti da parte degli UFO, di avvistamenti di Elvis, di avvelenamenti nel giorno di Halloween. E succede sempre all'amico di un amico, a un cugino, al figlio del capo.»

«Quindi secondo te la storia dei dolcetti avvelenati di Halloween non sarebbe vera?»

«Un sociologo ha studiato gli articoli di cronaca comparsi sui giornali negli anni Settanta e Ottanta, e ha scoperto che in quel periodo erano solo due le morti imputabili all'avvelenamento dei dolcetti, e in entrambi i casi gli assassini facevano parte della famiglia. I casi documentati sono molto pochi, però la leggenda si è diffusa ugualmente perché esprime delle paure molto radicate: la scomparsa dei bambini, la paura del buio, la paura degli sconosciuti.»

La lasciai continuare, sempre in attesa di capire il nesso fra Anna e quel discorso.

«Hai sentito parlare dei miti della sovversione? Gli antropologi adorano discutere di questo.»

Cercai di risalire con la memoria a un seminario sui miti frequentato ai tempi dell'università. «Attribuzione della colpa. Ricerca di capri espiatori per problemi molto complessi.»

«Esattamente. In genere questi capri espiatori sono persone che non appartengono alla comunità o per motivi razziali, o per motivi etnici, oppure anche religiosi, e che provocano negli altri un senso di disagio. Gli antichi romani, per esempio, accusavano i primi cristiani di essere incestuosi e di sacrificare i bambini. Le sette tardo-cristiane, invece, si accusavano fra loro, e poi hanno finito per puntare il dito contro gli ebrei. A causa di queste credenze sono morte migliaia di persone. Pensa solo ai processi alle streghe, oppure all'Olocausto. E non si tratta di episodi che appartengono solo al passato. Dopo il Maggio francese, alla fine degli anni Sessanta, si accusavano i negozianti ebrei di rapire le adolescenti che entravano nei camerini di prova delle boutique.»

Avevo un ricordo molto vago di quelle vicende.

«E, più di recente, è stato il turno degli immigrati turchi e nordafricani. Anni fa molti genitori francesi sostenevano che i loro figli fossero stati rapiti, uccisi e sventrati dagli immigrati, anche se in realtà in Francia nessun bambino era stato dichiarato scomparso.

«E quel mito continua, persino qui a Montréal, solo che oggi circola un moderno uomo nero che si dà all'omicidio rituale dei bambini.» Si sporse in avanti spalancando gli occhi e sussurrò: «Il satanista».

Mi venne in mente un'immagine. Il piccolo Malachy adagiato sul tavolo d'acciaio.

«Non c'è da stupirsi», continuò Daisy Jeannotte. «I timori contro la demonologia si intensificano sempre durante i periodi di cambiamento sociale. E verso la fine dei millenni. Adesso la minaccia arriva da Satana.»

«Non credi che Hollywood abbia delle responsabilità in questo?»

«Certamente ha contribuito, anche se non intenzionalmente. A Hollywood interessa solo produrre film che ottengano un grande successo commerciale. È la solita annosa questione: l'arte determina lo spirito dei tempi oppure semplicemente lo riflette? Rosemary's Baby, Il presagio, L'esorcista: che cosa hanno fatto questi film? Hanno spiegato le angosce della società ricorrendo all'immaginario demoniaco. E il pubblico guarda e ascolta.»

«Ma tutto questo non potrebbe in parte rispecchiare il crescente interesse nel misticismo che sta attraversando la cultura americana da almeno tre decenni?»

«Certamente. E qual è l'altra grande tendenza che si è affermata con l'ultima generazione?»

Mi sembrava di sostenere un'interrogazione. Ma che cosa aveva a che fare tutto quello con Anna? Scossi la testa.

«La crescente popolarità dei fondamentalismi cristiani. In questo senso l'economia ha molte responsabilità. Licenziamenti. Chiusure di fabbriche. Ristrutturazioni. La povertà e l'insicurezza economica sono condizioni che provocano grandi inquietudini, anche se non sono queste le uniche fonti di preoccupazione: i cittadini di ogni ceto, infatti, sono agitati anche per il cambiamento delle regole sociali. Sono mutati i rapporti fra donne e uomini, quelli familiari e quelli tra generazioni.»

Spuntò i vari ambiti sulla punta delle dita.

«I vecchi criteri di convivenza sono ormai insufficienti, ma quelli nuovi non si sono ancora affermati con forza. Le chiese fondamentaliste hanno una funzione tranquillizzante perché danno risposte semplici a quesiti complessi.»

«Satana.»

«Satana, appunto. Tutti i mali del mondo sono causati da Satana. Gli adolescenti vengono irretiti e costretti ad adorare il diavolo. I bambini vengono rapiti e poi uccisi durante i riti demoniaci. Il massacro degli animali in nome di Satana si sta diffondendo a macchia d'olio in tutto il paese. Il logo della Proctor&Gamble contiene un segreto simbolo satanico. La frustrazione accoglie queste voci e le alimenta perché crescano sempre di più.»

«In altre parole mi stai dicendo che le sette sataniche non esistono.»

«No, non sto dicendo questo. Esistono alcuni gruppi di satanisti... come potrei dire... organizzati e di alto profilo, per esempio quello di Anton LaVey.»

«O la Chiesa di Satana, a San Francisco.»

«Anche. Ma sono gruppi molto, molto piccoli. Gran parte dei cosiddetti "satanisti"», e arcuò entrambi gli indici nell'aria per mettere il termine fra virgolette, «probabilmente sono ragazzotti bianchi di buona famiglia che giocano ad adorare il diavolo. Certo, di tanto in tanto qualcuno esce fuori dal seminato e compie degli atti di vandalismo contro chiese o cimiteri, oppure tortura degli animali, in genere però si limitano a ripetere sempre gli stessi rituali e a partire per qualche viaggio della leggenda.»

«Viaggio della leggenda?»

«Credo che questa definizione venga dalla sociologia. Significa visitare luoghi sinistri come cimiteri o case stregate. Accendono dei falò, si raccontano storie di fantasmi, pronunciano incantesimi, magari condiscono il tutto con un po' di vandalismo. Tutto qua. E poi, quando la polizia trova dei graffiti, una tomba scoperchiata, o forse anche un gatto morto, trae la conclusione che la gioventù locale è invischiata in una setta satanica. La stampa amplifica la notizia, i predicatori lanciano un grido d'allarme, ed ecco che un'altra leggenda comincia a circolare.»

Non aveva perso la sua compostezza neanche per un attimo. Ma parlando, dilatava e contraeva le narici, tradendo una tensione che non avevo mai notato prima. Non dissi nulla.

«Quello che sto dicendo è che il satanismo è un problema molto gonfiato. Un altro di questi miti della sovversione, come direbbero i tuoi colleghi.»

Inaspettatamente il tono della sua voce si alzò facendosi acuto. Sussultai.

«David? Sei tu?»

Non avevo sentito il minimo rumore.

«Sì, signora.» Risposta soffocata.

Oltre la porta intravidi la sagoma di una persona molto alta. Aveva la faccia nascosta dentro il cappuccio del parka e intorno al collo portava un enorme sciarpone. Nell'insieme mi sembrò vagamente familiare.

«Mi vuoi scusare un secondo?»

La dottoressa Jeannotte si alzò e scomparve in corridoio. Non riuscii a cogliere granché della conversazione, ma l'uomo sembrava agitato e la sua voce saliva e scendeva come quella di un bambino capriccioso. La dottoressa lo interrompeva spesso con brevi frasi, il suo tono era fermo quanto quello del suo interlocutore era convulso. Riuscii a capire una sola parola - «no» - che la dottoressa ripeté diverse volte.

Di colpo calò il silenzio e un attimo dopo Daisy Jeannotte tornò da me, ma senza più sedersi.

«Studenti», disse ridendo e scuotendo il capo.

«Lasciami indovinare: ha bisogno di un po' di tempo per finire la tesi?»

«Niente di nuovo sotto il sole...» Poi guardò l'orologio. «Insomma, Tempe, spero proprio che la tua visita sia stata fruttuosa. Mi raccomando, abbi cura dei diari. Sono molto preziosi.» Mi stava congedando.

«Ma certo. Te li riporto lunedì pomeriggio al più tardi.» Mi alzai, infilai il materiale che mi aveva procurato nella cartella, quindi recuperai il giaccone e la borsa.

Daisy Jeannotte mi accompagnò fuori dalla stanza con un sorriso.

 

A Montréal l'inverno si veste di molte tonalità di grigio passando dal tortora al grigio ferro, al grigio piombo all'antracite. Quando uscii dalla Birks Hall le nuvole avevano colorato la giornata di un deprimente grigio peltro.

Mi misi la borsa e la cartella a tracolla, cacciai le mani in tasca e mi avviai lungo la strada in discesa sferzata da un vento umido. Non avevo fatto più di una ventina di passi che già gli occhi mi si erano riempiti di lacrime e non vedevo più niente. Mentre camminavo, un'immagine di Fripp Island mi attraversò la mente. Infilate di palmette. Distese di erbe selvatiche. Raggi di sole che scintillano sulle paludi.

Molla il colpo, Brennan. Il mese di marzo è ventoso e freddo in molte parti del mondo. Smettila di prendere la Carolina come termine di paragone per valutare il tempo mondiale. In fondo potrebbe anche essere peggiore, per esempio potrebbe nevicare. Al che, un primo e pasciuto fiocco di neve mi si posò sulla guancia.

Raggiunsi la mia auto, e mentre aprivo la portiera alzai lo sguardo: sul lato opposto della strada un ragazzo alto mi stava osservando. Riconobbi il parka e lo sciarpone. Era David, il visitatore scontento di Daisy Jeannotte.

Per un istante i nostri sguardi si incrociarono e la rabbia che lessi nei suoi occhi mi sorprese. Poi, senza una parola, lo studente si voltò e scomparve dietro l'angolo. Innervosita, saltai in macchina sbattendo la portiera, felice che quello fosse solo un problema di Daisy Jeannotte.

Mentre guidavo verso l'istituto, i pensieri ripresero il corso consueto e mi riportarono al presente e a tutto ciò che ancora dovevo portare a termine. E Anna dov'era? Dovevo tenere conto delle preoccupazioni di Sandy circa la sua adesione a una setta? Oppure aveva ragione la dottoressa Jeannotte quando sosteneva che le sette sataniche non erano altro che gruppi giovanili? Perché non le avevo domandato di spiegarmi come mai sapeva che Anna era al sicuro? La nostra conversazione aveva preso una piega così affascinante che avevo dimenticato di chiedere altre notizie di Anna. L'aveva fatto apposta? Per caso Daisy Jeannotte mi stava nascondendo qualcosa volutamente? E se era così, che cosa? E perché? Forse la professoressa stava semplicemente difendendo dagli intrusi la vita privata della sua studentessa. Ma qual era poi l'"impossibile situazione familiare" di Anna?

Chissà come avrei fatto a spulciare i diari entro il lunedì successivo. Il mio volo partiva alle cinque del pomeriggio. Forse potevo finire il parere su Elisabeth Nicolet quel venerdì, scrivere la consulenza sui neonati il sabato e lavorare sui diari per tutta la domenica. E poi mi chiedevo come mai non avevo vita sociale.

Quando giunsi in rue Parthenais, la neve copriva ormai tutte le strade. Trovai un parcheggio proprio fuori dal portone del palazzo della SQ e pregai di non trovare l'auto completamente bloccata dalla neve al momento di riprenderla.

Nell'atrio del palazzo l'aria era umida e odorava di lana bagnata. Battei gli stivali contribuendo ad allargare la lucente chiazza di neve sciolta che bagnava il pavimento, e presi l'ascensore. Mentre salivo cercai di pulirmi il mascara sbavato sotto gli occhi.

Sulla mia scrivania trovai due messaggi: suor Julienne sicuramente voleva notizie di Anna e di Elisabeth, e io non potevo accontentarla in nessuno dei due casi. L'altro messaggio era di Ryan.

Composi il suo numero. Mi rispose subito.

«Una pausa pranzo piuttosto lunga», fu il suo saluto.

Controllai l'orologio. L'una e quarantacinque.

«Mi pagano all'ora. Che succede?»

«Finalmente abbiamo individuato il proprietario della casa di Saint-Jovite. Si chiama Jacques Guillion, è di Québec ma si è trasferito in Belgio diversi anni fa. Non siamo ancora riusciti a trovare le sue coordinate ma una vicina belga dice che Guillion ha dato in affitto la sua casa in Canada a una signora anziana che si chiama Patrice Simonnet. La vicina pensa che sia belga ma non è sicura. Dice che Guillion ha dato alla donna anche un'auto. Stiamo verificando.»

«Piuttosto bene informata, questa vicina.»

«Sembra che fossero in ottimi rapporti.»

«Allora il corpo carbonizzato nel seminterrato potrebbe essere quello della vecchia Simonnet.»

«Potrebbe.»

«Durante l'autopsia abbiamo fatto delle ottime radiografie dentarie. Le ha Bergeron.»

«Noi invece abbiamo passato il nominativo alla RCMP, la polizia a cavallo canadese, che sta lavorando a stretto contatto con l'Interpol. Se la donna è belga, la trovano di sicuro.»

«E che mi dici dei due cadaveri trovati nello chalet, e di quelli dei due adulti con i neonati?»

«Ci stiamo lavorando sopra.»

Riflettemmo entrambi per qualche secondo.

«Un posto un po' grandino per una vecchia signora tutta sola, no?»

«Infatti si direbbe che non fosse sola affatto.»

 

Trascorsi le due ore successive al laboratorio di istologia cercando di sollevare gli ultimi resti di tessuto dalle costole dei due bambini per poi esaminarle al microscopio. Come temevo, sulle ossa non rilevai tacche o segni particolari, quindi non ebbi molto da dire salvo che il killer aveva utilizzato un coltello molto affilato e non a serramanico. Bene per me, perché la consulenza scritta sarebbe stata breve, ma male per le indagini.

Ero appena rientrata nel mio ufficio quando ricevetti una chiamata da Ryan.

«Che ne dici di una birra?» mi propose.

«Non tengo birra in ufficio, Ryan. Se lo facessi, la berrei.»

«Tu non bevi.»

«E allora perché mi chiedi se voglio una birra?»

«Ti sto chiedendo se ti andrebbe di berne una. Magari verde.»

«Cosa?»

«Ma tu sei o non sei irlandese, Brennan?»

Lanciai un'occhiata al calendario appeso alla parete. Era il 17 marzo. L'anniversario di alcune delle mie performance migliori. No, meglio non ricordare.

«Ho smesso con quella roba, Ryan.»

«Ma è un modo come un altro per dire: stacchiamo un momento.»

«Mi stai chiedendo un appuntamento, per caso?»

«Sì.»

«Con te?»

«No, con il prete della mia parrocchia.»

«Wow! È uno che non rispetta i voti?»

«Brennan, hai voglia di uscire con me per un drink questa sera? Analcolico?»

«Ryan, senti...»

«È la festa di San Patrizio. È venerdì sera e sta nevicando da maledetti. Hai un invito migliore?»

No. Anzi, non avevo proprio nessun invito. Ma capitava spesso che Ryan e io lavorassimo agli stessi casi, e io mi ero sempre attenuta con rigore al principio di non mischiare lavoro e vita privata.

Sempre... be', mi ero separata e vivevo per conto mio da meno di due anni. E devo ammettere che non erano stati anni eccezionali quanto a compagnia maschile.

«Non credo sia una buona idea.»

Pausa. E poi: «Abbiamo una pista sulla Simonnet. È comparsa negli archivi dell'Interpol. Nata a Bruxelles, vissuta lì fino a due anni fa. Paga ancora le tasse per una proprietà in campagna. È una pupa fedele, la nonnina: è andata dallo stesso dentista per tutta la vita, un medico che esercita dall'età della pietra e non butta via mai niente. Ci stanno spedendo la documentazione via fax. Se vediamo che corrisponde, ci mandano gli originali».

«Quando è nata?»

Sentii un frusciare di pagine.

«Nel diciotto.»

«Sì, ci siamo. Parenti?»

«Stiamo controllando.»

«Perché è andata via dal Belgio?»

«Forse perché aveva bisogno di cambiare aria. Senti, Brennan, se decidi di venire, io sono da Hurley's dopo le nove. Se fuori c'è coda, fai il mio nome.»

Rimasi seduta per un po' a cercare di capire perché avevo rifiutato. Pete e io avevamo raggiunto un accordo. Ci volevamo ancora bene però non potevamo vivere insieme, ma una volta separati eravamo riusciti a diventare di nuovo amici e il nostro rapporto non era così felice da anni. Pete vedeva altre donne, quindi io ero libera di fare altrettanto. Oh, Dio... gli appuntamenti. Quella parola mi fece venire in mente immagini di acne giovanile e di apparecchi per i denti.

A essere sincera, trovavo Ryan molto attraente. E non aveva brufoli né ferretti in bocca. Sì, era decisamente interessante. E poi in teoria non lavoravamo insieme. Però lo trovavo anche molto fastidioso, e imprevedibile. No, Ryan mi avrebbe solo creato dei problemi.

Stavo terminando la mia consulenza su Malachy e Mathias quando il telefono squillò di nuovo. Sorrisi. D'accordo Ryan, hai vinto.

La voce della guardia addetta alla sicurezza mi annunciò che nell'atrio c'era un visitatore per me. Guardai l'orologio. Le quattro e venti. Chi poteva essere, così tardi? Non ricordavo di aver preso nessun appuntamento. Gli domandai chi fosse, e quando me lo disse il cuore mi saltò in gola.

«Oh, no.» Non riuscii a trattenermi.

«Est-ce qu'il y a des problèmes?»

«Non. Pas de problèmes.» Dissi che sarei scesa subito.

Nessun problema. Ma chi stavo prendendo in giro?

In ascensore ripetei: «Oh, no!»