2000

Immettendosi nella statale a due corsie che porta a Norumbega, mia madre inizia a dire: «Quest’anno vorrei davvero che tu ti aprissi un po’».

È l’inizio del mio secondo anno di liceo, la giornata in cui i genitori aiutano i figli a traslocare nel collegio, e per mia madre questo viaggio in macchina è l’occasione per estorcermi le ultime promesse prima che la Browick mi inghiotta e che i nostri contatti si riducano alle telefonate e ai periodi di vacanza. L’anno scorso era preoccupata che stare in collegio facesse di me una sregolata, così avevo dovuto prometterle di non bere e di non fare sesso. Quest’anno vuole che mi faccia dei nuovi amici, il che per me è infinitamente più offensivo, forse persino crudele. Il mio litigio con Jenny risale a cinque mesi fa, ma brucia ancora. Le parole “nuovi amici” mi danno la nausea; la sola idea mi sembra un tradimento.

«È solo che non mi piace immaginarti tutta sola nella tua stanza giorno e notte» dice. «È così terribile chiederti di stare con altre persone?»

«Se vivessi a casa, starei sempre barricata in camera.»

«Ma non vivi a casa. Non è proprio questo il punto? Se non ricordo male, ci hai parlato di “tessuto sociale” quando volevi convincerci che la Browick era la scelta migliore.»

Premo la schiena contro il sedile e vorrei tanto sprofondarci dentro per non essere costretta ad ascoltarla mentre usa le mie stesse parole contro di me. Un anno e mezzo fa, quando un tizio della Browick si è presentato nella mia scuola con un video in cui si vedeva un campus idilliaco inondato di luce dorata, io ho cominciato l’opera di convincimento dei miei e ho stilato una lista di venti punti intitolata “Motivi per cui la Browick è meglio della scuola pubblica”. Uno dei punti era il tessuto sociale presente all’interno dell’istituto, poi c’erano il tasso di ammissione dei diplomati all’università e il numero di corsi avanzati che offriva, tutti dati copiati dalla brochure. Alla fine, di punti per convincere i miei ne erano bastati due: non un centesimo da sborsare, perché avevo vinto una borsa di studio, e lo shock per il massacro di Columbine. Avevamo guardato la CNN per giornate intere, i filmati in loop dei ragazzi che correvano per mettersi in salvo. “Una cosa come questa non potrebbe mai succedere alla Browick” avevo commentato, e i miei si erano scambiati un’occhiata, come se avessi espresso a voce alta ciò di cui loro erano già convinti.

«Hai passato tutta l’estate col muso lungo» continua mia madre. «Adesso è ora di voltare pagina, di andare avanti con la tua vita.»

«Non è vero» borbotto. Invece lo è. Nei rari momenti in cui non mi sono rintontita di televisione, me ne sono stata sull’amaca con gli auricolari nelle orecchie ad ascoltare canzoni che mi facevano piangere. Mia madre dice che rimuginare di continuo su quello che si prova non è un bel modo di stare al mondo, che ci sarà sempre qualcosa o qualcuno che ci farà arrabbiare, e che il segreto per una vita felice è non lasciarsi trascinare giù dalla negatività. Non capisce quanto la tristezza possa essere appagante. Ore e ore passate a dondolarsi sull’amaca con Fiona Apple nelle orecchie sono meglio della felicità.

Chiudo gli occhi. «Se fosse venuto anche papà non mi parleresti così.»

«Ti sbagli. Papà ti direbbe le stesse identiche cose.»

«Sì, ma in modo più carino.»

Anche con gli occhi chiusi, riesco a vedere tutto quello che scorre fuori dal finestrino. È solo il mio secondo anno alla Browick, ma abbiamo percorso questo tragitto almeno una decina di volte. Ci sono le aziende casearie e le colline ondulate del Maine occidentale, empori che vendono birra gelata ed esche vive, fattorie dal tetto imbarcato, cimiteri di auto arrugginite abbandonate nei campi di erba alta e solidago. Una volta a Norumbega, diventa tutto bellissimo: il centro del paese perfetto, con la pasticceria, la libreria, il ristorante italiano, un negozio di prodotti a base di canapa, la biblioteca e, in cima alla collina, gli edifici del campus, assi di legno bianco scintillante e mattoni a vista.

Mia madre svolta imboccando l’ingresso principale. La grande insegna BROWICK SCHOOL è adorna di palloncini bordeaux e bianchi in occasione di questa giornata speciale. Nelle strette stradine del campus si accalcano auto, SUV stracarichi parcheggiati come capita, genitori e matricole che vagano con il naso per aria. Mia madre guida tutta protesa in avanti, curva sul volante, e mentre l’auto procede a singhiozzo l’aria tra noi si fa sempre più tesa.

«Sei una ragazza in gamba,» dice «sveglia e interessante. Dovresti avere tanti amici, un bel gruppo. Non lasciarti risucchiare nell’orbita di una sola persona.»

Le parole le escono forse più dure che nelle sue intenzioni, ma io scatto lo stesso. «Jenny non era una persona qualunque. Era la mia compagna di stanza!» Lo dico come se l’importanza del nostro rapporto dovesse risultarle lampante: la prossimità che disorienta, che a volte smorza e fa impallidire il mondo fuori dalla camera. Ma mia madre non ci arriva, non ha mai vissuto in dormitorio, non è andata neppure all’università, figuriamoci un collegio.

«Compagna di stanza o no,» dice «avresti potuto farti altri amici. Concentrarsi su una sola persona non è la cosa più sana, tutto qua.»

Davanti a noi la fila di auto si separa e si assottiglia a mano a mano che ci avviciniamo al prato del campus. Mia madre mette la freccia a sinistra, poi a destra. «Dove devo andare?»

Sospirando, indico a sinistra.

Il Gould è un dormitorio di piccole dimensioni, una semplice casa con otto stanze più l’appartamento del responsabile. L’anno scorso ho estratto un numero basso nella lotteria degli alloggi, e così mi è stata assegnata una singola, cosa rara per uno studente del secondo anno.

Mia madre e io dobbiamo fare quattro viaggi per portare dentro tutta la roba: due valigie di vestiti, uno scatolone di libri, cuscini vari, lenzuola e una trapunta cucita da lei con le mie vecchie magliette, un ventilatore a piantana che posizioniamo acceso al centro della camera.

Mentre disfiamo i bagagli, fuori dalla porta c’è un continuo viavai: genitori, studenti, il fratello minore di non so chi che schizza su e giù per il corridoio finché non inciampa e si mette a frignare. A un certo punto mia madre va in bagno e la sento dire «Buongiorno» nella sua voce di falsa cortesia. Un’altra donna le restituisce il saluto. Smetto di sistemare i libri sullo scaffale sopra la scrivania e tendo l’orecchio. Socchiudo gli occhi cercando di attribuire un volto alla voce… È la signora Murphy, la mamma di Jenny.

Mia madre rientra in camera, chiude la porta. «Fanno un baccano, là fuori» dice.

Metto altri libri sullo scaffale e chiedo: «Era la madre di Jenny?».

«Mm-mh.»

«E Jenny l’hai vista?»

Mia madre annuisce ma non aggiunge altro. Per un po’ sistemiamo in silenzio. Mentre rifacciamo il letto e stendiamo il lenzuolo di sotto sul materasso a righe, dico: «A essere sincera, mi dispiace per lei».

Naturalmente è una bugia, ma suona bene. Soltanto ieri sera ho passato un’ora a studiarmi allo specchio di camera mia, cercando di vedermi con gli occhi di Jenny, chiedendomi se avrebbe notato i capelli schiariti con lo spray, i nuovi cerchi che porto alle orecchie.

Mia madre non dice nulla e tira fuori la trapunta da una busta di plastica. So che ha paura che ci ricaschi, che possa ritrovarmi di nuovo con il cuore infranto.

«Anche se provasse di nuovo a essere mia amica, non sprecherei il mio tempo con lei» dico.

Mia madre accenna un sorriso, lisciando la trapunta sul letto. «Esce ancora con quel ragazzo?»

Intende Tom Hudson, il catalizzatore della nostra rottura.

Mi stringo nelle spalle come a dire che non lo so, ma in realtà lo so eccome. Ovvio che lo so. Ho tenuto il profilo AOL di Jenny sotto controllo tutta l’estate, e la sua situazione sentimentale è sempre rimasta fissa su “Impegnata”. Stanno ancora insieme.

Prima di andare, mia madre mi dà quattro banconote da venti e mi fa promettere di telefonare a casa ogni domenica. «Non ti scordare» ammonisce. «E per il compleanno di papà torni a casa.» Mi abbraccia così forte da farmi male alle ossa.

«Non respiro!»

«Scusa, scusa.» Si infila gli occhiali da sole per nascondere gli occhi lucidi. Uscendo dalla stanza mi punta il dito contro. «Abbi cura di te. E sii socievole.»

La congedo con un gesto della mano. «Okay, okay, okay.»

Dalla soglia la guardo percorrere il corridoio, infilarsi giù per le scale, ed ecco che non c’è più. Sono ancora lì impalata quando sento due voci che si avvicinano, la risata complice e squillante di madre e figlia. Sgattaiolo al sicuro nella mia stanza nell’istante in cui appaiono Jenny e sua madre. Le intravedo appena, quel tanto che basta per notare che Jenny ha i capelli più corti e che indossa un abito che ricordo appeso nel suo armadio ma che prima d’ora non le avevo mai visto addosso.

Sdraiata sul letto, vago con lo sguardo per la stanza mentre nel corridoio risuonano saluti, tirar su di nasi e pianti sommessi. Ripenso a un anno fa, quando sono entrata nel dormitorio delle matricole, alla prima sera in cui sono rimasta alzata fino a tardi con Jenny mentre dal suo stereo portatile risuonavano gli Smiths e le Bikini Kill, gruppi che non avevo mai sentito nominare ma che avevo finto di conoscere per non fare la figura della sfigata che viene dal nulla. Avevo paura che non le sarei più piaciuta, se avesse scoperto com’ero. Nei primi giorni alla Browick avevo scritto sul mio diario: “La cosa più bella qui è che posso conoscere persone come Jenny. È davvero una GRANDE, mi basta stare con lei per imparare a esserlo anch’io!”. In seguito avevo strappato via quella pagina, l’avevo distrutta. Mi vergognavo solo a vederla.

La responsabile del dormitorio Gould è la professoressa Thompson, la nuova insegnante di spagnolo, fresca di laurea. Alla prima riunione serale nella sala comune ci porta pennarelli colorati e piatti di carta per realizzare targhette con il nostro nome da appendere alle porte. Le altre ragazze del dormitorio sono tutte degli ultimi due anni, del secondo ci siamo solo io e Jenny. Rimaniamo a grande distanza, sedendoci alle estremità opposte del tavolo. Jenny se ne sta tutta curva in avanti mentre prepara la sua targhetta, con i capelli castani a caschetto che le ricadono sulle guance. Quando alza la testa per prendere aria e cambiare pennarello, mi passa oltre con lo sguardo come se i suoi occhi neppure registrassero la mia presenza.

«Prima di tornare in camera, venite a prendere uno di questi» dice la professoressa Thompson reggendo una busta di plastica. Sulle prime mi sembrano caramelle, poi capisco che sono fischietti di metallo. «Probabilmente non vi serviranno mai,» aggiunge «ma è meglio averne uno, nel caso.»

«A cosa dovrebbe servirci un fischietto?» domanda Jenny.

«Be’, ecco, fa parte delle misure di sicurezza del campus.» Il sorriso della professoressa è così ampio che capisco che è a disagio.

«Ma l’anno scorso non ce li hanno dati.»

«Servono se qualcuno cerca di stuprarti» spiega Deanna Perkins. «Lo usi per fermarlo.» Si porta il fischietto alle labbra e soffia con forza. Il suono riecheggia in corridoio, così acuto e appagante che tutte ci mettiamo a imitarla.

La professoressa Thompson prova a farsi sentire in mezzo al frastuono. «Okay, okay» ride. «Abbiamo appurato che funzionano.»

«Davvero sono in grado di fermare uno che vuole stuprarti?» insinua Jenny.

«Niente può fermare uno stupratore» decreta Lucy Summers.

«Non è vero» interviene la professoressa Thompson. «E comunque non sono fischietti antistupro. Sono uno strumento di sicurezza in più. Se mai doveste sentirvi a disagio nel campus, fischiate.»

«I maschi li ricevono, i fischietti?» domando.

Lucy e Deanna alzano gli occhi al cielo.

«E a cosa dovrebbero servirgli?» dice Deanna. «Usa il cervello.»

Jenny scoppia a ridere: Lucy e Deanna sì che la sapevano lunga.

È il primo giorno di lezioni e il campus brulica di vita, gli edifici dalle facciate in legno con le finestre spalancate, il parcheggio del personale al completo. A colazione bevo tè nero, precariamente seduta all’estremità di un lungo tavolo, con lo stomaco troppo chiuso per mangiare. Mi guardo intorno nel refettorio con i soffitti da cattedrale, osservo le facce nuove e i cambiamenti in quelle che già conosco. Noto tutto di tutti: che Margo Atherton si fa la riga a sinistra per nascondere l’occhio destro e il suo strabismo, che ogni mattina Jeremy Rice ruba una banana dal buffet. Anche prima che Tom Hudson si mettesse con Jenny, prima che esistesse un motivo per interessarsi a lui, avevo già notato sotto la camicia aperta la meticolosa rotazione delle magliette delle sue band preferite. È un po’ inquietante, e sfugge al mio controllo, questa capacità che ho di registrare tanti dettagli sul conto degli altri quando sono certa che nessuno nota niente di me.

Il tradizionale discorso di apertura – un’arringa motivazionale il cui scopo è proiettare gli studenti nel nuovo anno – è previsto per dopo colazione, prima dell’inizio delle lezioni. Prendiamo posto in auditorium. La sala è tutta di legno dai toni caldi, dalle tende di velluto rosso il sole si riversa all’interno accendendo le file di sedie di bagliori dorati. Per i primi minuti, mentre la preside Giles elenca i vari punti del regolamento scolastico, con il suo caschetto brizzolato tenuto dietro le orecchie e la voce cronicamente tremula che si spande ovunque, le facce di tutti i presenti appaiono fresche e vivaci. Ma quando finalmente scende dal palco, l’atmosfera nella sala è già pesante e le fronti imperlate di sudore. Un paio di file più indietro qualcuno protesta: «Quanto durerà ancora?». La professoressa Antonova si volta e ci lancia un’occhiata assassina. Accanto a me, Anna Shapiro si fa aria con le mani. Dalla finestra aperta entra una brezza leggera che smuove l’orlo delle tende di velluto.

Poi ecco il professor Strane salire sul palco ad ampie falcate. È il direttore del dipartimento di letteratura, un insegnante che conosco ma che non ho mai avuto, a cui non ho mai rivolto la parola. Ha i capelli neri ondulati e la barba nera, gli occhiali riflettono la luce e non lasciano intravedere gli occhi. Ma la prima cosa che mi colpisce – la prima che sicuramente colpisce chiunque – è la sua stazza. Non è grasso, è imponente, massiccio, così alto che sta ingobbito, come se il suo corpo volesse scusarsi di occupare tutto quello spazio.

In piedi dietro il leggio, regola il microfono alla massima inclinazione. Quando comincia a parlare, con il sole che gli rimbalza sulle lenti, frugo nello zaino e controllo il mio orario. Eccolo, l’ultima lezione della giornata: il corso avanzato di letteratura americana con il professor Strane.

«Questa mattina ho di fronte a me dei giovani che faranno grandi cose.»

Le sue parole rimbombano dalle casse, ogni singolo suono pronunciato con tanto nitore da risultare quasi irritante: vocali allungate, consonanti dure, è come essere cullati nel sonno solo per essere bruscamente svegliati un attimo dopo. In sostanza non fa che rimestare tra i soliti cliché – “puntate alle stelle, non importa se non ci arrivate, potreste atterrare sulla luna” – ma è un buon oratore, e in qualche modo riesce a far sembrare profondo il tutto.

«In questo anno scolastico sforzatevi sempre di essere la migliore versione possibile di voi stessi» dice. «Raccogliete la sfida di rendere la Browick un posto migliore. Lasciate il segno.» Infila la mano nella tasca posteriore, estrae un fazzoletto rosso e si tampona la fronte, lasciando intravedere una macchia scura di sudore sotto l’ascella. «Insegno alla Browick da tredici anni» prosegue «e in questo arco di tempo ho assistito a innumerevoli atti di coraggio da parte degli studenti della scuola.»

Mi muovo sulla sedia, il sudore mi si raccoglie dietro le ginocchia e nell’incavo dei gomiti, e provo a immaginare cosa intenda con “atti di coraggio”.

Il mio orario per il semestre autunnale prevede una serie di corsi avanzati – francese, biologia, storia moderna –, geometria (quella per non-genii della matematica, che la professoressa Antonova definisce “il corso per chi è negato”), un facoltativo che si chiama politica e media degli Stati Uniti, in cui guardiamo la CNN e parliamo delle imminenti elezioni presidenziali, e infine il corso avanzato di letteratura americana. Il primo giorno, passando da una lezione all’altra, attraverso più volte il campus, appesantita dai libri che rivelano subito l’aumento del carico di lavoro rispetto al primo anno. Con il passare delle ore, gli insegnanti ci mettono in guardia sulle sfide che ci attendono, sui compiti, gli esami e i ritmi più intensi e a volte forsennati – perché questa non è una scuola normale e noi non siamo ragazzi normali; da ragazzi eccezionali quali siamo, dovremo tuffarci nelle difficoltà, trarne linfa vitale –, e io mi sento sempre più spossata. A metà giornata non riesco a tenere su la testa, e così in pausa pranzo anziché mangiare torno di soppiatto al Gould, mi rannicchio sul letto e piango. Se dev’essere così dura ne vale davvero la pena? È un atteggiamento sbagliato, lo so, soprattutto il primo giorno, e mi spinge a domandarmi che cosa ci faccio qui alla Browick, perché mi hanno concesso una borsa di studio, perché hanno ritenuto che fossi abbastanza intelligente da essere ammessa. È una spirale in cui sono già caduta, e ogni volta arrivo alla stessa conclusione: probabilmente in me c’è qualcosa che non va, una debolezza innata che si manifesta sotto forma di pigrizia, di paura nei confronti del duro lavoro. Senza contare che alla Browick in apparenza non c’è nessuno che fatica quanto me. Gli altri passano di lezione in lezione con tutte le risposte pronte, sempre preparati. A guardare loro sembra facile.

Quando infine entro nell’aula di letteratura americana, la prima cosa che noto è che dopo il discorso inaugurale il professor Strane si è cambiato la camicia. È in fondo alla stanza appoggiato alla lavagna, con le braccia conserte, ancora più imponente di quanto sembrava sul palco. Siamo in dieci a seguire il corso, inclusi Jenny e Tom, e mentre prendiamo posto il professore ci segue con lo sguardo, come a volersi fare un’idea di noi. Quando arriva Jenny io sono già seduta al grande tavolo da seminario, a un paio di posti da Tom. Vedendola, Tom si illumina e le fa segno di andarsi a sedere nella sedia vuota tra noi due: è ignaro di tutto, non capisce che è una cosa assolutamente fuori discussione. Con le mani strette agli spallacci dello zaino, Jenny gli rivolge un sorriso veloce.

«No, vieni, sediamoci da questa parte» dice, e intende la parte opposta del tavolo, quella più lontana da me. «Di qua è meglio.»

Mi sfiora appena con gli occhi, come alla riunione del dormitorio. È davvero sciocco mettere tanto impegno nel fingere che un’intera amicizia non sia mai esistita.

Quando il suono della campanella segnala l’inizio della lezione, il professor Strane non si muove. Prima di parlare aspetta che cali il silenzio. «Immagino che tra voi vi conosciate,» dice «ma io non credo di conoscervi tutti.»

Si sposta a un capo del tavolo e ci interpella in maniera casuale, chiedendo nome e provenienza. Ad alcuni fa anche altre domande: se abbiamo fratelli o sorelle; qual è il posto più lontano in cui siamo mai stati; quale sarebbe il nome che ci sceglieremmo se potessimo cambiare il nostro. A Jenny chiede quanti anni aveva quando si è innamorata per la prima volta, e lei avvampa. Accanto a lei, anche Tom diventa rosso.

Quando tocca a me dico: «Mi chiamo Vanessa Wye e in realtà non vengo da nessun posto».

Il professor Strane si appoggia allo schienale della sedia. «Vanessa Wye, che in realtà non viene da nessun posto.»

Rido nervosamente al sentire quanto suonano stupide le mie parole ripetute da lui. «Voglio dire, è un posto, ma non una città vera e propria. Si chiama Municipalità Ventinove e basta.»

«Qui nel Maine? Sull’autostrada orientale?» chiede lui. «So benissimo dov’è. Da quelle parti c’è un lago con un nome adorabile, Whale…»

Batto le palpebre per la sorpresa. «Whalesback. Noi stiamo proprio sul lago. Siamo gli unici ad abitarci per tutto l’anno.» Mentre parlo sento una fitta al cuore. Alla Browick non ho quasi mai sentito nostalgia di casa, ma forse è solo perché nessuno conosce il posto da cui vengo.

«Tu pensa.» Il professor Strane riflette per un momento. «Soffri mai di solitudine, laggiù?»

Resto di sasso. La domanda provoca un taglio quasi indolore, incredibilmente netto. Anche se non avrei mai usato la parola “solitudine” per descrivere com’è vivere in mezzo ai boschi, sentirla sulla bocca del professor Strane mi fa pensare che dev’essere così, che probabilmente lo è sempre stato, e all’improvviso sono in imbarazzo all’immaginare che quella solitudine mi si legga in faccia, così palese che a un insegnante basta un’occhiata per capire che sono una persona sola. Riesco a rispondere: «Immagino di sì, a volte», ma lui è già passato oltre, e sta chiedendo a Greg Akers com’è trasferirsi da Chicago alle colline del Maine occidentale.

Dopo il giro di presentazioni il professor Strane ci comunica che il suo è il corso più difficile che seguiremo quest’anno. «Molti studenti ed ex mi dicono che sono l’insegnante più severo della Browick» dice. «Ne ho sentiti alcuni sostenere che sono più severo dei loro professori dell’università.» Tamburella il dito sul tavolo e lascia che la solennità di questa affermazione produca il debito effetto su di noi. Poi va alla lavagna, prende un gessetto e inizia a scrivere. Senza voltarsi, dice: «Dovreste già stare prendendo appunti».

Ci affrettiamo a tirar fuori i quaderni mentre lui introduce una lezione su Henry Wadsworth Longfellow e il poema La canzone di Hiawatha, che non ho mai sentito nominare, e non posso essere l’unica, ma quando chiede se lo conosciamo facciamo tutti di sì con la testa. Nessuno vuole apparire stupido.

Mentre parla, mi guardo attorno nell’aula. Come struttura è uguale a tutte le altre dell’edificio di studi umanistici – parquet, una parete di librerie incassate a muro, lavagne verdi, il tavolo da seminario – ma è più vissuta e confortevole. C’è un tappeto con un solco consunto nel mezzo, una grande scrivania di quercia con una lampada da notaio e, sopra uno schedario, un bollitore per il caffè e una tazza con lo stemma di Harvard. Dalla finestra aperta arrivano l’odore dell’erba tagliata e il rumore di un motore che si accende, mentre il professor Strane scrive un verso di Longfellow con tanta intensità che il gesso gli si sbriciola tra le dita. D’un tratto si interrompe e si volta verso di noi. «Se dovesse rimanervi una sola cosa di questo corso, dovrebbe essere che il mondo è fatto di storie che si intrecciano all’infinito, e ciascuna è valida e vera.» Faccio del mio meglio per trascrivere parola per parola tutto ciò che dice.

A cinque minuti dalla fine, la lezione si interrompe all’improvviso. Il professore lascia cadere le braccia lungo i fianchi, rilassa le spalle. Si stacca dalla lavagna e viene a sedersi al tavolo con noi, si sfrega il viso e si lascia andare a un sospiro. Poi confessa con voce stanca: «Sarò sincero con voi: il primo giorno è sempre interminabile».

Noi restiamo in attesa, incerti sul da farsi, con le penne a mezz’aria.

Di scatto si toglie le mani dal viso e dice: «Cazzo, sono davvero esausto».

All’altro capo del tavolo Jenny ridacchia sorpresa. Capita che gli insegnanti facciano battute in classe, ma non ho mai sentito nessuno dire “cazzo”. Non pensavo che potesse succedere.

«Vi dà fastidio se dico parolacce?» chiede. «Certo, il permesso ve lo avrei dovuto chiedere prima.» Giunge le mani con fare sarcastico. «Se l’uso di un linguaggio colorito da parte mia offende qualcuno in questa stanza, parli ora oppure taccia per sempre.»

Naturalmente nessuno fiata.

Le prime settimane passano in fretta, in un susseguirsi di lezioni, colazioni a base di tè nero e pranzi a base di sandwich al burro d’arachidi, ore di studio in biblioteca, serate a guardare serie TV adolescenziali nella sala comune del Gould. Salto una riunione del dormitorio e mi becco una punizione, ma convinco la professoressa Thompson a lasciarmi portare a spasso il suo cane invece di starmene seduta con lei per sessanta minuti nel suo studio, prospettiva che non alletta nessuna delle due. Quasi tutti i giorni mi riduco a finire i compiti al mattino, prima dell’inizio delle lezioni, perché per quanto mi sforzi sono sempre in affanno, sempre sul punto di restare indietro. È un aspetto su cui dovrei lavorare, insistono gli insegnanti; dicono che sono sveglia ma manco di concentrazione e motivazione, un modo appena più gentile di definirmi svogliata.

La mia stanza è un caos di vestiti, fogli volanti e tazze di tè lasciate a metà, e questo praticamente fin dal mio arrivo. Perdo l’agenda che dovrebbe servirmi per tenere tutto sotto controllo, ma non mi stupisco, perché perdo tutto. Almeno una volta alla settimana quando apro la porta della stanza trovo le chiavi nella serratura, infilate lì da qualcuno che le ha trovate in bagno, in un’aula o nel refettorio. Non riesco ad avere cura di niente: i libri di testo finiscono incastrati tra il letto e il muro, i compiti da fare appallottolati in fondo allo zaino. Gli insegnanti sono sempre più esasperati di fronte ai miei compiti spiegazzati, e mi ricordano i punti che mi toglieranno a causa della pessima presentazione.

«Devi trovare un sistema per organizzarti!» grida il professore di storia mentre sfoglio convulsamente il libro alla ricerca degli appunti del giorno prima. «Siamo solo alla seconda settimana. Com’è possibile che tu sia già così in confusione?»

Il fatto che alla fine io ritrovi gli appunti non invalida la sua tesi: sono negligente, il che è indice di debolezza, un grave difetto caratteriale.

Alla Browick una volta al mese gli insegnanti cenano con gli studenti a loro affidati, in genere a casa loro, ma la mia tutor, la professoressa Antonova, non ci invita mai da lei.

«Servono dei paletti» sostiene. «Non tutti gli insegnanti la pensano come me, e va bene. Si ritrovano studenti ovunque e comunque, e va bene. Ma con me non funziona così. Con me si va da qualche parte, si mangia insieme, si chiacchiera un po’ e poi ognuno a casa sua. Paletti.»

Per il nostro primo incontro dell’anno ci porta al ristorante italiano giù in paese. Mentre mi impegno ad arrotolare le linguine con la forchetta, la professoressa Antonova mi comunica che il punto più critico del mio feedback da parte dei docenti è la mancanza di organizzazione. Le prometto che ci lavorerò, cercando di non suonare troppo strafottente. Lei fa il giro del tavolo notificando a ciascuno le valutazioni degli insegnanti. I problemi di organizzazione sono una mia esclusiva, ma non sono i peggiori: Kyle Guinn non ha consegnato gli elaborati in due dei corsi che segue, una cosa grave. Mentre la professoressa Antonova gli legge il suo feedback, io e gli altri teniamo lo sguardo basso sui piatti di pasta, sollevati per non essere andati male quanto lui. A fine cena, dopo che la tavola è stata sparecchiata, la professoressa fa girare una teglia di panini morbidi ripieni di ciliegia, fatti in casa.

«Sono pampushki» spiega. «Una ricetta ucraina, il paese da cui viene mia madre.»

Usciti dal ristorante, ci incamminiamo su per la collina verso il campus, e la professoressa Antonova mi si affianca. «Ho dimenticato di dirti, Vanessa, che quest’anno dovresti seguire un corso extracurriculare. Forse anche più di uno. È tempo di cominciare a pensare alle domande per l’ammissione al college e ora come ora il tuo profilo è debole.»

Comincia a snocciolare proposte e io annuisco. So che devo darmi da fare di più e ci ho anche provato: la settimana scorsa stavo per iscrivermi al club di francese, ma appena mi hanno detto che durante gli incontri i membri indossano tutti dei baschetti neri me ne sono andata all’istante.

«Come lo vedi il club di scrittura creativa?» chiede. «Mi sembra adatto, visto che scrivi poesie.»

Ci avevo pensato anch’io. Il club di scrittura creativa pubblica una rivista letteraria che l’anno scorso divoravo da cima a fondo, confrontando le mie poesie con quelle pubblicate e cercando di essere obiettiva nello stabilire quali fossero migliori. «Sì, potrebbe piacermi» rispondo.

Mi posa la mano sulla spalla. «Pensaci» insiste. «Quest’anno lo segue il professor Strane. Chi meglio di lui!»

Si volta indietro, batte le mani e grida qualcosa in russo, lingua che per qualche motivo risulta più efficace della nostra nello spronare a darsi una mossa.

Il club di scrittura creativa ha soltanto un altro membro: Jesse Ly, del terzo anno, l’elemento più simile a un goth che ci sia alla Browick. Si dice che sia gay. Quando entro in classe è seduto al tavolo da seminario con davanti una pila di fogli, gli anfibi sulla sedia e una penna infilata dietro l’orecchio. Mi lancia un’occhiata ma non dice niente. Dubito che sappia come mi chiamo.

Il professor Strane invece balza in piedi da dietro la cattedra e mi viene incontro a grandi passi. «Sei qui per il club?»

Faccio per dire qualcosa, anche se non so cosa. Se avessi saputo che c’era soltanto un’altra persona probabilmente non sarei venuta. Adesso vorrei comunque tagliare la corda, ma il professore è davvero troppo entusiasta. Mi stringe la mano e dice: «Con te il numero di iscritti cresce del cento per cento!». Un dietrofront pare impossibile.

Mi accompagna al tavolo, si siede accanto a me e mi spiega che quei fogli sono le proposte di pubblicazione per la rivista letteraria. «Tutti lavori degli studenti» dice. «Ma tu cerca di non guardare i nomi. Leggi ogni proposta con attenzione e fino in fondo prima di prendere una decisione.» Poi mi suggerisce di scrivere commenti ai margini e di assegnare a ogni proposta un voto da uno a cinque, dove uno sta per “decisamente no” e cinque per “decisamente sì”.

Senza alzare lo sguardo, Jesse chiosa: «Io sto mettendo le spunte. È il sistema che usavamo l’anno scorso». E indica con la mano i fogli che ha già valutato: nell’angolo in alto a destra di ciascuno c’è un piccolo segno, un più o un meno.

Il professor Strane inarca un sopracciglio, palesemente contrariato, ma Jesse non se ne accorge, assorto nella poesia che sta leggendo.

«Qualunque metodo decidiate di usare va bene» dice il professore. Mi sorride, ammicca. Alzandosi, mi assesta una pacca sulla spalla.

Quando si risiede alla cattedra prendo una proposta dalla pila, un racconto che si intitola Il giorno peggiore della sua vita, di Zoe Green. Zoe seguiva algebra con me, l’anno scorso. Era seduta dietro di me, e ogni volta che Seth McLeod mi chiamava Pel di carota rideva come se fosse stata la battuta più divertente del mondo. Scrollo la testa e cerco di scacciare il pregiudizio. Ecco perché il professor Strane consiglia di non guardare i nomi.

Il racconto è ambientato nella sala d’attesa di un ospedale e parla di una ragazza a cui è morta la nonna. Alla fine del primo paragrafo mi sto già annoiando. Jesse mi becca a sfogliare le pagine per vedere quante ne mancano e mi dice a bassa voce: «Guarda che se fa schifo non è che devi leggerlo tutto. L’anno scorso dirigevo io la rivista, quando ci seguiva la professoressa Bloom, e a lei stava bene anche così».

I miei occhi cercano il professor Strane seduto alla cattedra, anche lui curvo su una pila di fogli. Mi stringo nelle spalle e dico: «No, vado avanti. Non è male».

Jesse non è convinto e scruta il foglio che ho in mano. «Zoe Green? Non è quella che l’anno scorso ha sbroccato alla gara di dibattito?»

Sì, era lei: a Zoe era toccato sostenere la tesi in favore della pena di morte ed era scoppiata a piangere quando il suo avversario Jackson Kelly aveva definito le sue posizioni razziste e immorali, accusa che probabilmente non l’avrebbe scossa così tanto se Jackson non fosse stato nero. Dopo che la vittoria era stata assegnata a Jackson, Zoe aveva dichiarato che la sua confutazione l’aveva fatta sentire attaccata sul piano personale, cosa contraria alle regole del dibattito, così avevano finito per dichiararli vincitori ex aequo; era una stronzata, e se ne sono resi conto tutti.

Jesse si allunga in avanti e mi sfila il racconto dalle mani, traccia un segno meno nell’angolo a destra e lo butta sulla pila dei no. «Voilà» dice.

Per tutto il resto del tempo, mentre io e Jesse leggiamo, il professor Strane corregge compiti alla cattedra, alzandosi di tanto in tanto per fare delle fotocopie o riempire d’acqua la macchina del caffè. A un certo punto si sbuccia un’arancia, e il profumo si spande per tutta la stanza. Alla fine dell’ora mi alzo per andarmene, e il professor Strane chiede se parteciperò al prossimo incontro.

«Non ne sono sicura» dico. «Sto ancora provando vari corsi.»

Lui sorride e aspetta che Jesse esca prima di aggiungere: «Certo che qui non abbiamo molto da offrire, in termini di socialità».

«Ah, questo non è un problema» dico. «Non è che io sia una campionessa di socialità.»

«Come mai?»

«Non saprei. Non ho molti amici, tutto qui.»

Annuisce pensieroso. «Capisco cosa intendi. Anche a me piace starmene per i fatti miei.»

Il mio primo istinto è di ribattere che no, a me non piace per niente starmene per i fatti miei, ma forse ha ragione lui. Forse sono una solitaria per scelta, una che preferisce la compagnia di se stessa.

«In realtà, prima Jenny Murphy era la mia migliore amica» aggiungo. «Jenny del corso di letteratura». Le parole mi sono uscite da sole, cogliendomi di sorpresa. È più di quanto io abbia mai raccontato a un insegnante, specialmente maschio, ma il modo in cui mi guarda – comprensivo, con il mento appoggiato sulla mano – mi spinge a parlare, a mostrarmi.

«Ah, sì» dice. «La piccola Regina del Nilo.» Di fronte alla mia espressione accigliata e confusa spiega che alludeva ai capelli, al caschetto da Cleopatra, e allora provo una fitta allo stomaco, tipo gelosia, ma più cattiva.

«Non mi sembrano poi così belli, i suoi capelli» ribatto.

Lui sogghigna. «E quindi eravate amiche. Che cosa è successo?»

«Lei si è messa con Tom Hudson.»

Ci riflette un attimo. «Il ragazzo con le basette.»

Annuisco, e intanto penso a come gli insegnanti ci catalogano mentalmente per riconoscerci. Mi chiedo a cosa assocerebbe me, se qualcuno gli facesse il nome di Vanessa Wye. La ragazza con i capelli rossi. Quella sempre sola.

«Quindi sei stata vittima di un tradimento» dice, e intende da parte di Jenny.

Non ci avevo mai pensato, e a quell’idea un tepore mi invade il petto. Sono stata una vittima. Non sono stata io ad allontanarla con l’intensità dei miei sentimenti o con un attaccamento eccessivo. No, io ho subito un torto.

Si alza, va alla lavagna e comincia a cancellare le scritte della lezione. «Perché hai deciso di provare questo club? Hai un punto debole nel curriculum?»

Annuisco. Mi sembra di poter essere sincera con lui. «Me l’ha consigliato la professoressa Antonova. Però scrivere mi piace davvero.»

«Che cosa scrivi?»

«Poesie, perlopiù. Ma non sono niente di che.»

Lui si gira e mi rivolge un sorriso gentile e al tempo stesso condiscendente. «Mi piacerebbe leggere qualche tuo lavoro.»

Mi colpisce il modo in cui dice “lavoro”, come se ciò che scrivo fosse degno di essere preso seriamente. «Certo» rispondo. «Se ci tiene.»

«Sì che ci tengo. Altrimenti non te l’avrei chiesto.»

Mi sento avvampare. La mia abitudine peggiore, secondo mia madre, è sminuirmi per evitare i complimenti. Devo imparare ad accettare le lodi. Alla fin fine, è questione di avere o meno fiducia in se stessi, secondo lei.

Il professor Strane posa il cancellino e mi osserva da lontano. Si infila le mani in tasca squadrandomi dalla testa ai piedi.

«Hai un bel vestito» dice. «Mi piace il tuo stile.»

Mormoro un grazie, le buone maniere inculcate così a fondo mi scattano in automatico, e mi guardo anch’io il vestito. È in jersey, verde scuro, vagamente svasato ma più che altro informe, e arriva sopra il ginocchio. Non è alla moda; lo metto solo perché mi piace il contrasto con i miei capelli. Strano che un uomo di mezza età noti l’abbigliamento di una ragazzina. Mio padre a malapena distingue un abito da una gonna.

Il professor Strane si gira di nuovo verso la lavagna e riprende a cancellare, anche se è già pulita. Sembra quasi in imbarazzo, e una parte di me vorrebbe ringraziarlo di nuovo, più sinceramente stavolta. “Grazie mille,” potrei dire “nessuno mi ha mai detto una cosa del genere.” Aspetto che si volti di nuovo, ma lui continua a passare e ripassare il cancellino lasciando scie polverose sul piano verde.

Poi, quando mi avvio alla porta, dice: «Spero di vederti ancora, giovedì».

«Certo. Ci sarò.»

E così il giovedì vado di nuovo, e anche il martedì successivo e il giovedì dopo. Divento ufficialmente membro del club. Jesse e io impieghiamo più del previsto a scegliere i pezzi per la rivista, soprattutto perché io fatico molto a prendere decisioni, ho dei ripensamenti, cambio voto più volte. Il giudizio di Jesse invece è rapido e implacabile, la sua penna taglia la pagina. Quando gli chiedo come fa a valutare così in fretta, mi spiega che si dovrebbe capire fin dalla prima riga se un pezzo è buono oppure no.

Un giovedì il professor Strane sparisce nello studio in fondo all’aula e riemerge con una pila di numeri arretrati per darci un’idea di che aspetto dovrebbe avere la rivista, anche se l’anno scorso Jesse la dirigeva, e quindi naturalmente lo sa già. Sfogliando un numero vedo il nome di Jesse nell’indice, categoria “Narrativa”.

«Ehi, qui ci sei tu.»

Lui si lascia andare a un lamento. «Non leggerlo in mia presenza, per favore.»

«Perché no?» Do una scorsa alla prima pagina.

«Perché non voglio.»

Mi infilo la rivista nello zaino e me ne dimentico fino a dopo cena, quando mi ritrovo immersa fino al collo in un incomprensibile compito di geometria e ho un disperato bisogno di una distrazione. Allora prendo la rivista e vado al racconto di Jesse, lo leggo due volte. È bello, molto bello, meglio di qualsiasi cosa io abbia mai scritto, meglio di tutte le proposte che vagliamo per la rivista. Quando provo a dirglielo all’incontro successivo, lui taglia corto: «Ormai scrivere non mi interessa più tanto».

Un altro pomeriggio il professor Strane ci mostra come usare il nuovo software per l’impaginazione. Jesse e io siamo seduti uno di fianco all’altra, e il professore alle nostre spalle ci segue e ci corregge. A un certo punto commetto un errore e lui si china a muovere il mouse per me. La sua mano è così grande che copre completamente la mia. Mi sento andare a fuoco. Quando sbaglio di nuovo lo rifà, stavolta stringendomi leggermente la mano come a rassicurarmi che prima o poi mi ci raccapezzerò, ma con Jesse non lo fa, neanche quando per sbaglio chiude tutto senza salvare e lui deve rispiegare daccapo tutti i passaggi.

Arriva la fine di settembre, e per una settimana il tempo è perfetto, soleggiato e fresco. Ogni mattina le foglie sono più accese, trasformano le colline che circondano Norumbega in un tripudio di colori. Il campus è come appariva sulla brochure che tanto mi ossessionava ai tempi della domanda di ammissione: studenti in maglioncino, prati di un verde brillante, il tramonto che infiamma il legno bianco degli edifici. Dovrei godermela, e invece questo tempo mi rende irrequieta, mi getta nel panico. Dopo le lezioni non riesco a calmarmi, e vago dalla biblioteca alla sala comune del Gould a camera mia per poi tornare in biblioteca. Ovunque mi trovi, mi prende l’ansia di essere altrove.

Un pomeriggio faccio il giro del campus per tre volte, insoddisfatta di ogni approdo – la biblioteca è troppo buia, la mia stanza incasinata troppo deprimente, tutti gli altri posti infestati da gruppi di studio che non fanno che sottolineare il mio essere sola, sempre sola –, prima di costringermi a una sosta sul pendio erboso alle spalle dell’edificio di studi umanistici. “Calmati, respira.”

Mi appoggio all’acero solitario su cui mi cade sempre l’occhio durante le lezioni di letteratura e mi tocco le guance con il dorso della mano. Sono così accaldata che sudo, anche se ci sono solo dieci gradi.

“Va tutto bene,” penso “adesso sto un po’ qui e mi calmo.”

Mi siedo con la schiena appoggiata al tronco e frugo nello zaino, passando dal libro di geometria alla ricerca del quaderno a spirale, e penso che se prima lavoro un po’ a una poesia mi sentirò meglio. Ma quando mi rimetto sulla più recente e rileggo i versi, un paio di strofe su una ragazza arenata su un’isola che chiama i marinai a riva, mi rendo conto che sono pessimi: goffi, sconnessi, senza senso. E sì che mi erano sembrati buoni. Come ho potuto pensarlo? È evidente che sono terribili. Come tutte le mie poesie probabilmente. Mi ripiego su me stessa e mi sfrego gli occhi finché non sento dei passi che si avvicinano, foglie che scricchiolano e ramoscelli che si spezzano. Alzo gli occhi, e una sagoma altissima oscura il sole.

«Ciao.»

Mi riparo gli occhi. È il professor Strane.

Quando nota il mio viso, gli occhi arrossati, cambia espressione. «Qualcosa non va» osserva.

Annuisco. Non c’è motivo di mentire.

«Preferisci restare sola?» chiede.

Esito, poi faccio di no con la testa.

Lui si mette a terra accanto a me, lasciando qualche decina di centimetri tra noi. Distende le lunghe gambe, e da sotto i pantaloni intravedo la forma delle ginocchia. Continua a studiarmi mentre mi strofino gli occhi. «Non volevo disturbarti. Ti ho vista da quella finestra lassù e ho pensato di passare per un saluto.» Indica l’edificio di studi umanistici, alle nostre spalle. «Posso chiederti che cosa ti preoccupa?»

Faccio un respiro, cerco le parole, ma poi scuoto la testa. «Troppo complicato.» Non sono solo le brutte poesie, o il non riuscire a trovare un posto per studiare in pace. È una sensazione più oscura, il terrore che in me ci sia qualcosa di sbagliato e irreparabile.

Immagino che a questo punto lui lasci perdere. Invece aspetta, come in classe aspetterebbe la risposta a una domanda difficile: è normale che ti sembri troppo complicato da spiegare, Vanessa, è così che dovrebbero farci sentire le domande difficili.

Inspiro. «Questo periodo dell’anno mi manda fuori di testa. Mi sembra che stia per scadere il tempo o qualcosa del genere. Come se stessi sprecando la mia vita.»

Il professor Strane batte le palpebre. Non se l’aspettava. «Sprecando la tua vita» ripete.

«Lo so che non ha senso.»

«Certo che ha senso. Eccome se ne ha.» Si appoggia all’indietro sulle mani, si volta a guardarmi. «Se fossi mia coetanea direi che la tua ha tutta l’aria di essere una crisi di mezza età.»

Sorride, e senza volerlo lo imito. Lui allarga il suo sorriso, io allargo il mio.

«Mi è sembrato che stessi scrivendo» dice. «Prodotto qualcosa di buono?»

Faccio spallucce, incerta se definire buona la mia scrittura. Mi sembra presuntuoso, non sta a me dirlo.

«Mi mostreresti quello che hai scritto?»

«Assolutamente no.» Quando afferro il quaderno e me lo stringo al petto, vedo nei suoi occhi un lampo d’allarme, come se il mio movimento brusco lo avesse spaventato. Correggo il tiro: «È che non ho ancora finito».

«Si può mai dire davvero di aver finito di scrivere?»

Sembra una domanda a trabocchetto. Ci penso su un attimo e rispondo: «Alcune cose possono essere più finite di altre».

Sorride. Gli è piaciuta. «Qualcosa di più finito da farmi leggere ce l’hai?»

Allento la presa e apro il quaderno. È pieno di poesie lasciate a metà, di versi cancellati e riscritti. Sfoglio le pagine più recenti per trovare quella a cui lavoro da un paio di settimane. Non è finita, ma non è tremenda. Gli passo il quaderno sperando che non noti gli scarabocchi ai margini, il tralcio fiorito che serpeggia lungo la piega.

Regge il quaderno con cura, e al vederlo tra le sue mani mi sento attraversare da una scarica. Nessun altro prima d’ora ha mai toccato il mio quaderno, né tantomeno lo ha letto. Arrivato alla fine della poesia, dice: «Ah». Resto in attesa di una reazione più intelligibile, che mi faccia capire se l’ha trovata valida o no, invece dice soltanto: «Adesso la rileggo un’altra volta».

Quando alla fine alza gli occhi e commenta: «È incantevole», espiro con tanta forza che mi scappa da ridere.

«Per quanto tempo ci hai lavorato?»

Pensando che presentarmi come un talento innato possa fare più colpo, mento con nonchalance. «Non molto.»

«Mi dicevi che scrivi spesso.» Mi restituisce il quaderno.

«Tutti i giorni, di solito.»

«Si vede. Sei brava. Lo dico da lettore, non da insegnante.»

Sono esaltata, rido di nuovo, e il professor Strane mi rivolge quel suo sorriso di dolce condiscendenza. «Lo trovi divertente?»

«No, è la cosa più carina che qualcuno abbia mai detto su quello che scrivo.»

«Stai scherzando? Questo è niente. Potrei dire cose molto più carine.»

«In realtà non l’ho mai fatta leggere a nessuno, la mia…» sto per dire “roba”, invece provo la parola che ha usato lui «…il mio lavoro.»

Restiamo in silenzio. Lui si appoggia sulle mani e osserva il paesaggio: il pittoresco centro del paese, il fiume in lontananza, le colline morbide. Io torno a guardare il quaderno, ma anche se fisso le pagine non le vedo. Sono troppo concentrata sulla sua vicinanza, la linea del suo petto sotto la camicia che tira, le gambe incrociate alle caviglie, il centimetro di pelle scoperta tra l’orlo dei pantaloni e gli scarponi da trekking. Ho paura che possa alzarsi e andarsene, e cerco di pensare a qualcosa per trattenerlo ma, prima che mi venga in mente, lui raccoglie da terra una foglia d’acero rossa, la fa roteare tenendola per il gambo, la osserva qualche istante e poi me la avvicina al viso.

«Guarda qua» dice. «Lo stesso identico colore dei tuoi capelli.»

Mi paralizzo, sento che resto a bocca aperta. Tiene lì la foglia ancora per un attimo, con le punte che mi sfiorano i capelli. Poi scuote appena la testa e la lascia cadere a terra. Si alza – oscurando di nuovo il sole –, si pulisce le mani sui pantaloni e senza salutarmi si incammina verso l’edificio di studi umanistici.

Quando scompare dalla mia vista mi prende una frenesia terribile, un bisogno di fuggire. Chiudo di scatto il quaderno, raccolgo lo zaino e corro via in direzione del dormitorio, ma poi torno sui miei passi e scruto a terra in cerca di una cosa. Con la foglia d’acero al sicuro tra le pagine del quaderno, attraverso il campus come in volo, toccando a malapena terra tra un passo e l’altro. Solo quando ormai sono in camera mi torna in mente che ha detto di avermi vista dalla sua finestra, e chiudo forte gli occhi per scacciare il pensiero di lui che dalla classe mi vede mentre cerco la foglia.

Nel weekend torno a casa per il compleanno di papà. La mamma gli regala una cucciola di labrador gialla, che hanno abbandonato al canile indicando come motivo “pigmentazione troppo chiara”. Papà la battezza Babe, come il maialino del film, e in effetti assomiglia a un porcellino, con la sua pancia grassa e il tartufo rosato. Il nostro ultimo cane, morto durante l’estate, era un pastore tedesco di dodici anni, un ex randagio che mio padre aveva raccattato in città, quindi non avevamo mai avuto un cucciolo. Mi innamoro così perdutamente che me la porto dietro tutto il weekend come fosse un bebè, strofinandole i cuscinetti gelatinosi delle zampe e inspirando il suo alito dolce.

La sera, dopo che i miei vanno a letto, resto davanti allo specchio della mia stanza e mi studio il viso e i capelli cercando di vedermi come mi vede il professor Strane – una ragazza con i capelli rosso acero che porta abiti carini con stile –, ma non c’è altro che una bambina pallida con le lentiggini.

Quando è il momento di tornare alla Browick, mio padre resta a casa con Babe e nello spazio chiuso dell’abitacolo brucio dalla voglia di raccontare tutto a mia madre. Ma cosa c’è da raccontare? Che mi ha sfiorato la mano un paio di volte, che ha fatto un commento sui miei capelli?

Mentre attraversiamo il ponte che porta in città, con il tono più casuale che mi riesce, le chiedo: «Hai mai notato che ho i capelli color foglia d’acero?».

Mi lancia un’occhiata sorpresa. «Be’, di acero ne esistono diversi tipi» replica «e in autunno assumono colori diversi. C’è l’acero zuccherino, quello della Pennsylvania, l’acero rosso. A latitudini maggiori c’è l’acero di montagna…»

«Va bene, va bene. Lasciamo perdere.»

«Da quando in qua ti interessi di piante?»

«Stavo parlando dei miei capelli, non di piante.»

Mi chiede chi è che mi ha detto che ho i capelli come le foglie d’acero, ma non in tono sospettoso. La voce anzi è dolce, come se fosse intenerita.

«Nessuno» rispondo.

«Deve avertelo per forza detto qualcuno.»

«Non posso averlo notato da sola, un dettaglio su di me?»

Ci fermiamo al semaforo rosso. Alla radio, una voce legge le notizie dell’ora.

«Se te lo dico, mi devi promettere di non arrabbiarti.»

«Non sarebbe da me.»

Le rivolgo una lunga occhiata. «Prometti.»

«E va bene» cede. «Te lo prometto.»

Inspiro. «Me l’ha detto un insegnante.» Nel pronunciare quelle parole provo un sollievo che mi dà alla testa, per poco non scoppio a ridere.

L’espressione di mia madre diventa sospettosa. «Un insegnante?» ripete.

«Mamma, guarda la strada.»

«Maschio?»

«Che importanza ha?»

«Un insegnante non dovrebbe dirti cose del genere. Chi è stato?»

«Mamma.»

«Voglio saperlo.»

«Mi avevi promesso che non ti saresti arrabbiata.»

Stringe le labbra come per calmarsi. «È una strana osservazione da fare a una ragazzina di quindici anni, tutto qui.»

Attraversiamo la cittadina. Isolati di case vittoriane lasciate andare e poi frazionate in appartamenti, il centro deserto, gli edifici sparsi dell’ospedale, la statua sorridente di Paul Bunyan, il leggendario taglialegna, che con i suoi capelli e la barba neri assomiglia un po’ al professor Strane.

«Comunque sì, è un maschio» dico. «Pensi davvero che sia strano?»

«Sì» ribadisce. «Lo penso davvero. Vuoi che parli con qualcuno? Non ho nessun problema a fare una scenata.»

Me la immagino che irrompe negli uffici amministrativi pretendendo di parlare con la preside. Scuoto la testa. No, non voglio che parli con qualcuno. «Era solo una frase buttata lì» dico. «Non facciamone una questione di stato.»

A quel punto mia madre si rilassa un pochino. «Chi è?» insiste. «Non farò niente, voglio solo saperlo.»

«L’insegnante di politica e media» mento senza esitare. «Il professor Sheldon.»

«Il professor Sheldon» sibila, come se fosse il nome più idiota del mondo. «In ogni caso non dovresti frequentare gli insegnanti. Concentrati sulle nuove amicizie.»

Guardo la strada scorrere via. Per arrivare alla Browick ci sarebbe l’interstatale, ma mia madre si rifiuta di prenderla, dice che è una pista da corsa infestata da automobilisti rabbiosi. Preferisce la strada normale, che ci fa impiegare il doppio del tempo.

«Guarda che non ho niente che non va» le dico. Lei mi guarda accigliata. «Solo che preferisco stare per conto mio. È normale. Non dovresti farmelo pesare così.»

«Non te lo faccio pesare» ribatte, ma sappiamo entrambe che non è vero. Dopo un momento aggiunge: «Scusa. Sono solo preoccupata per te».

Per il resto del viaggio quasi non ci scambiamo più una parola, e guardando fuori dal finestrino non posso fare a meno di pensare che ho vinto io.

Sono in una postazione singola in biblioteca, con il libro di geometria spalancato davanti a cercare di concentrarmi, ma i pensieri sono come sassi che rimbalzano sull’acqua. Anzi no, come sassi che cozzano dentro un barattolo di latta. Tiro fuori il quaderno per buttare giù qualcosa e mi immergo nella poesia della ragazza sull’isola, a cui sto ancora lavorando. Quando rialzo la testa è passata un’ora, e le pagine di geometria sono ancora intonse.

Mi strofino la faccia, prendo la matita e cerco di fare i compiti, ma nel giro di qualche minuto sto già guardando fuori dalla finestra. Il sole sta per tramontare, e la luce accende gli alberi già rosso fuoco. Ragazzi con i pantaloncini da calcio tornano dal campo con le scarpette buttate sulle spalle. Passano due ragazze con le custodie di violino a mo’ di zaino, i loro codini oscillano a ogni passo.

Poi vedo la professoressa Thompson e il professor Strane che camminano insieme verso l’edificio di studi umanistici. Avanzano piano, con tutta calma, lui con le mani intrecciate dietro la schiena e lei che sorride e si tocca la faccia. Cerco di ricordare se li ho già visti insieme, di stabilire se la professoressa Thompson sia bella o meno. Ha gli occhi azzurri e i capelli neri, una combinazione che mia madre definisce sempre stupenda, ma è grassottella e ha il culo grosso, che sporge all’infuori. Il tipo di fisico che temo mi ritroverò crescendo, se non sto attenta.

Stringo gli occhi per vedere meglio in lontananza. Sono vicini, ma non si toccano. A un certo punto la professoressa Thompson butta indietro la testa e scoppia a ridere. Il professor Strane è un tipo divertente? Non l’ho mai sentito fare battute. Premo il viso contro il vetro e cerco di non perderli di vista, ma loro girano l’angolo e spariscono dietro la chioma arancione di una quercia.

Alla simulazione del test di ammissione al college me la cavo decentemente, ma non come la gran parte degli altri studenti del secondo anno, che iniziano a ricevere nella casella delle lettere le brochure delle università più prestigiose. Compro un’altra agenda per cercare di organizzarmi meglio. La cosa viene notata dagli insegnanti e riferita alla professoressa Antonova, che premia l’ottima iniziativa con una scatolina di caramelle alla nocciola.

A lezione di letteratura leggiamo Walt Whitman, e il professor Strane spiega l’idea che le persone contengano moltitudini e contraddizioni. Comincio a far caso alle sue, di contraddizioni: laureato a Harvard ma con una riserva di aneddoti sulla sua infanzia povera, eloquio fluente punteggiato di parolacce, giacche di buon taglio e camicie stirate abbinate a scarponi da trekking logori. Anche il suo modo di insegnare è contraddittorio. Intervenire durante la lezione è sempre rischioso con lui, perché se gli piace quello che dici, batte le mani e corre alla lavagna a sviluppare il brillante concetto che hai espresso, ma se non apprezza non ti lascia neanche finire: ti interrompe con un «Va bene, basta così» che affonda fino all’osso. Ho sempre paura a parlare, anche se a volte lui, dopo aver posto una domanda alla classe, mi guarda dritto negli occhi come se volesse sapere proprio cosa ne penso io.

A margine degli appunti mi annoto tutti i dettagli che si lascia sfuggire su di sé: è cresciuto a Butte, nel Montana; prima di andare a Harvard a diciott’anni non aveva mai visto l’oceano; vive nel centro di Norumbega, di fronte alla biblioteca; non gli piacciono i cani, da quando da bambino uno l’ha aggredito.

Un martedì dopo il club di scrittura creativa – Jesse è già uscito ed è arrivato a metà corridoio – il professor Strane mi dice che ha una cosa per me. Apre l’ultimo cassetto della cattedra e tira fuori un libro.

«È per il corso?» chiedo.

«No» dice. «È per te.» Fa il giro della cattedra e mi mette in mano Ariel di Sylvia Plath. «L’hai mai letta?»

Scuoto la testa, rigiro il libro. Ha una copertina di tela azzurra, consunta. Dalle pagine spunta un pezzetto di carta, un segnalibro improvvisato.

«Lei è un po’ sopra le righe» dice. «Ma le donne giovani la adorano».

Non capisco cosa intenda con “sopra le righe”, ma preferisco non indagare. Sfoglio le pagine – lampi di poesie – e mi fermo su quella con il segnalibro; il titolo, Lady Lazarus, è in grassetto maiuscolo.

«Perché c’è il segno su questa?»

«Aspetta, ti faccio vedere.»

Mi viene accanto, gira pagina. A stargli così vicina, mi sembra che debba inghiottirmi; non gli arrivo alla spalla.

«Qui.» Indica alcuni versi.

Dalla cenere

sorgo con i miei capelli rossi

e divoro gli uomini come aria.

«Mi hanno ricordato te» dice. Poi allunga la mano alle mie spalle e mi tira la coda.

Fisso il libro come se stessi studiando la poesia, ma le strofe sono solo chiazze nere sulla pagina ingiallita. Non so come reagire. Forse devo ridere. Mi chiedo se stia flirtando, ma non può essere. Flirtare dovrebbe essere divertente, e questa situazione è troppo pesante per essere divertente.

«È un problema se mi ha ricordato te?» mi chiede a voce bassa.

Mi inumidisco le labbra, alzo le spalle. «No.»

«Non vorrei mai passare il segno.»

Passare il segno. Neanche stavolta capisco bene cosa intenda, ma il modo in cui mi guarda mi ferma dal fare domande. Di colpo sembra imbarazzato e allo stesso tempo speranzoso: se gli dicessi che è un problema potrebbe mettersi a piangere.

Allora sorrido, faccio segno di no con la testa. «Non sta passando il segno.»

Espira. «Bene» dice allontanandosi da me e tornando alla cattedra. «Leggilo e dimmi cosa ne pensi. Forse ti ispirerà un paio di poesie.»

Dopo essere uscita vado dritta al Gould, mi infilo a letto e leggo Ariel da cima a fondo. Le poesie mi piacciono, ma mi interessa di più capire perché gli hanno ricordato me, e in quali circostanze: il pomeriggio della foglia, forse? Capelli rosso acero. Mi chiedo da quanto avesse il libro nel cassetto della cattedra, se abbia aspettato un po’ prima di decidersi a darmelo. Forse doveva trovare il coraggio.

Sul pezzetto di carta che ha usato come segnalibro per Lady Lazarus scrivo con una bella calligrafia “Sorgo con i miei capelli rossi” e lo attacco alla bacheca di sughero che ho sopra la scrivania. Solo gli adulti mi fanno i complimenti per i miei capelli, ma questo è più che un complimento. Lui mi pensa. Mi pensa così tanto che certe cose gli ricordano me. Vorrà pur dire qualcosa.

Prima di restituirgli Ariel aspetto qualche giorno. Alla fine della lezione cincischio finché non sono usciti tutti e poi gli allungo il libro sulla cattedra.

«Allora?» Si sporge in avanti appoggiandosi sui gomiti, ansioso di sentire il mio parere.

Esito, arriccio il naso. «È una un po’ egocentrica.»

Al che ride, ride di gusto. «Ci sta. Apprezzo la sincerità.»

«Però mi sono piaciute» aggiungo. «Soprattutto quella su cui aveva messo il segno».

«Lo immaginavo.» Va verso le librerie a muro, ispeziona i ripiani. «Tieni» dice porgendomi un altro volume: Emily Dickinson. «Vediamo come ti sembra questo.»

Non ci metto molto a restituirglielo. Il giorno successivo, dopo la lezione lascio cadere il libro sulla cattedra. «Non è il mio genere.»

«Stai scherzando.»

«L’ho trovato un po’ noioso.»

«Noioso!» Si preme la mano sul petto. «Così mi spezzi il cuore, Vanessa.»

«Ha detto che apprezzava la sincerità» ribatto ridendo.

«Vero. Solo che la apprezzo di più quando sono d’accordo.»

Il nuovo libro che mi presta è di Edna St. Vincent Millay, che secondo lui è quanto di più lontano possa esserci dalla noia. «E poi lei era una ragazza dai capelli rossi del Maine» aggiunge. «Proprio come te.»

Mi porto sempre dietro i suoi libri e li leggo ogni volta che posso, in ogni istante libero, anche durante i pasti. Inizio a intuire che per lui il punto non è tanto stabilire se mi piacciano o meno; il punto sono le diverse lenti che mi dà per vedere me stessa. Le poesie sono indizi per aiutarmi a capire come mai è così interessato, che cosa, di preciso, vede in me.

Le sue attenzioni mi danno il coraggio di mostrargli le bozze delle mie poesie quando mi chiede di leggere altri miei lavori, e lui me le restituisce con dei giudizi, non soltanto lodi, ma suggerimenti concreti per migliorarle. Cerchia parole di cui già ero poco convinta e commenta: “Sicura?”. Altre parole le cancella direttamente e scrive: “Puoi fare di meglio”. Su una poesia composta nel cuore della notte dopo un sogno in cui mi trovavo in un luogo che era un mix tra la sua aula e la mia stanza a casa mia, scrive: “Questa mi fa un po’ paura, Vanessa”.

Prendo l’abitudine di trascorrere l’ora di ricevimento dei professori nella sua classe, studiando al tavolo da seminario mentre lui lavora alla cattedra e dalle finestre la luce di ottobre entra a posarsi su di noi. A volte arrivano altri studenti in cerca di aiuto con i compiti, ma siamo quasi sempre solo noi due. Mi chiede di me, di com’è stato crescere sul lago, cosa penso della Browick, cosa farò da grande. Dice che per me non ci sono limiti, che la mia è un’intelligenza rara, non quantificabile con i voti o i risultati dei test.

«A volte sono preoccupato per gli studenti come te» dice. «Quelli cresciuti in paesi minuscoli, con scuole mediocri. È facile che in un posto come questo si sentano travolti, persi. Ma mi pare che tu te la stia cavando bene, o sbaglio?»

Annuisco, ma mi domando che cosa abbia in mente quando dice “mediocri”. La scuola da cui vengo non era così male.

«Ricordati sempre che sei speciale» dice. «Hai qualcosa che questo esercito di primi della classe si sogna.» E lo dice indicando con un gesto le sedie vuote attorno al tavolo. Io penso a Jenny, alla sua ossessione per i voti, a quella volta che ero tornata in camera e l’avevo trovata a letto che singhiozzava, con gli stivali ancora ai piedi, il sale raccattato sui vialetti sparso sulle lenzuola e il compito di metà semestre di introduzione all’analisi matematica spiegazzato a terra. Aveva preso 88. “È pur sempre una B, Jenny” le avevo detto, senza riuscire a consolarla. Si era girata verso il muro in lacrime, con il viso nascosto tra le mani.

Un pomeriggio, mentre sta battendo al computer la traccia delle prossime lezioni, il professor Strane dice all’improvviso: «Mi chiedo cosa pensino del fatto che passi così tanto tempo con me».

Non so a chi alluda, se ad altri studenti o altri insegnanti, o forse a tutti, riducendo il mondo intero a un’alterità collettiva.

«Fossi in lei, non me ne preoccuperei» dico.

«E come mai?»

«Perché nessuno nota mai quello che faccio.»

«Non è vero» protesta. «Io lo noto sempre.»

Alzo la testa del quaderno. Ha smesso di digitare, le dita posate sui tasti, e mi guarda con una tale dolcezza che mi sento gelare.

Da quel momento, mi immagino il suo sguardo su di me quando faccio colazione con la faccia ancora addormentata, quando vado in paese a piedi, quando sono sola in camera mia, mi sciolgo la coda e mi infilo a letto con l’ultimo libro che ha scelto per me. Nella mia mente lui mi osserva voltare le pagine, folgorato da ogni mio minimo gesto.

Arriva il weekend della visita delle famiglie, tre giorni in cui la Browick sfoggia il meglio di sé. Venerdì sono previsti un aperitivo riservato ai genitori e poi, in refettorio, una cena formale per tutti, con piatti che di solito non compaiono nel menu: roast-beef, patate al forno, torta ai mirtilli servita tiepida. I colloqui con gli insegnanti si tengono il sabato prima di pranzo, al pomeriggio ci sono le partite e, per chi si ferma fino a domenica, la mattina si scende in paese per la messa o per il brunch.

L’anno scorso i miei hanno fatto l’en plein, inclusa la messa domenicale, ma quest’anno mia madre mi confessa: «Vanessa, se ci sottoponiamo di nuovo a tutto questo, io e tuo padre perderemo ogni voglia di vivere», così arrivano direttamente il sabato per i colloqui. Mi va benissimo, la Browick è il mio mondo, non il loro. È probabile che preferirebbero votare un repubblicano piuttosto che attaccare al paraurti uno di quegli adesivi con la scritta MIA FIGLIA VA ALLA BROWICK.

Dopo i colloqui salgono a vedere la mia stanza. Mio padre porta un cappellino dei Red Sox e una camicia di flanella a scacchi rossi e neri, mia madre cerca di compensare con un twin-set di maglioncino e cardigan. Papà si aggira per la stanza studiando la libreria, mamma si stende sul letto accanto a me e cerca di prendermi la mano.

«Ma dài» dico tirando via la mano di scatto.

«Fatti almeno annusare il collo» dice. «Mi manca tanto il tuo profumo.»

Incasso la testa tra le spalle per tenerla a distanza. «È inquietante, mamma» dico. «Non è una cosa normale.» L’anno scorso, durante le vacanze natalizie mi ha chiesto di lasciarle la mia sciarpa preferita, per metterla in una scatola e tirarla fuori per annusarla quando sentiva la mia mancanza. È uno di quei pensieri che devo scacciare all’istante, perché altrimenti mi sento così in colpa che resto senza fiato.

Mia madre comincia a parlare dei colloqui, e anche se l’unica cosa che voglio sapere è quello che ha detto il professor Strane, aspetto che esaurisca tutto l’elenco dei docenti, perché non voglio destare sospetti mostrando un interesse eccessivo.

Finalmente dice: «Il prof di letteratura sembra proprio un uomo interessante».

«Era quello con il barbone?» chiede papà.

«Sì, quello che è andato a Harvard» conferma lei, insistendo sulla parola “Harvard”.

Mi domando come questa informazione sia capitata nel discorso, se il professor Strane l’abbia buttata lì o se siano stati i miei a notare il diploma incorniciato dietro la cattedra.

«Un uomo davvero interessante» ripete mia madre.

«Cosa intendi?» chiedo. «Che cosa vi ha detto?»

«Che la settimana scorsa hai scritto un buon tema.»

«Tutto qui?»

«C’era altro che avrebbe dovuto dirci?»

Mi mordo le guance, mortificata dal fatto che parli di me come di una studentessa qualsiasi. “La settimana scorsa ha scritto un buon tema.” Forse per lui non sono nulla di più.

Mia madre prosegue: «Sai chi non mi ha fatto per niente una buona impressione? L’insegnante di politica, quello Sheldon». Mi lancia un’occhiata penetrante e aggiunge: «Mi è sembrato un vero stronzo».

«E dài, Jan» dice papà. Detesta che lei dica parolacce in mia presenza.

Salto giù dal letto, spalanco l’armadio e mi metto a trafficare con i vestiti per non essere costretta a guardarli mentre discutono se restare a cena o ripartire prima che si faccia buio.

«Ti dispiace molto se non ci fermiamo?» mi chiedono.

Fisso gli abiti appesi e mormoro che non fa niente.

Dopo averli salutati con i miei soliti modi bruschi, mi accorgo che mia madre ha gli occhi lucidi, e cerco di reprimere il fastidio.

Il venerdì prima di un’importante consegna – la tesina su Whitman – il professor Strane passeggia attorno al tavolo da seminario e ci chiama in ordine sparso perché leggiamo a voce alta la frase che illustra il nostro assunto di base. Ci dà una valutazione sul momento, commentando a seconda dei casi che la frase è “buona ma bisogna lavorarci” oppure che dobbiamo “cestinarla e ricominciare daccapo”, e l’ansia ci divora. A Tom Hudson tocca “cestinarla e ricominciare daccapo”, e per un attimo penso che stia per mettersi a piangere, ma in realtà è Jenny a dover ricacciare indietro le lacrime quando si sente dire che la sua è “buona ma bisogna lavorarci”. Una parte di me vorrebbe correre da lei, buttarle le braccia al collo e intimare al professor Strane di lasciarla in pace. Quando è il mio turno, dice che la mia frase è perfetta.

Dopo le valutazioni restano ancora quindici minuti di lezione, e il professor Strane ci chiede di usare questo tempo per sistemare le nostre frasi. Non so bene cosa fare, dato che mi ha detto che la mia è perfetta così, quando sento che mi chiama. Ha in mano la poesia che gli ho consegnato all’inizio della lezione, e mi fa segno di andare alla cattedra. «Volevo parlarti di questa» dice. Mi alzo, e la mia sedia gratta sul pavimento proprio mentre Jenny lascia cadere la matita per sciogliere un crampo alla mano. Per un attimo i nostri occhi si incontrano, e mentre vado alla cattedra me li sento addosso.

Mi siedo di fianco a lui e noto che la mia poesia non ha alcuna annotazione a margine. «Vieni un po’ più vicino, così parliamo piano» dice, e prima che io possa muovermi aggancia lo schienale della mia sedia e la tira a sé, così che tra noi resta meno di una trentina centimetri.

Se qualcuno si sta interrogando su cosa stiamo facendo, non lo dà a vedere. Attorno al tavolo tutte le teste sono chine e concentrate. È come se loro fossero in un mondo e io e il professor Strane in un altro. Lui spiana il foglio dove l’avevo piegato e comincia a leggere. Siamo così vicini che sento il suo odore – caffè e polvere di gesso – e mentre legge gli guardo le mani, le unghie piatte e smangiate, i peli scuri sul polso. Perché ha voluto parlarmi della mia poesia, se non l’ha ancora letta? Chissà che impressione gli hanno fatto i miei genitori, papà con la sua camicia da boscaiolo e la mamma con la borsa stretta al petto. “Ah, quindi è stato a Harvard”, devono aver detto messi in soggezione dalla cosa.

Puntando la penna sul foglio il professor Strane sussurra: «Nessa, te lo devo chiedere: questo punto voleva essere sexy?».

Di scatto volo con gli occhi alle righe che sta indicando.

Con il ventre viola e delicato lei si muove nel sonno,

scalcia via le coperte con i piedi dallo smalto sbeccato,

spalanca la bocca in un enorme sbadiglio

per lasciare che lui le guardi dentro.

La domanda mi spacca in due, è come se il mio corpo restasse lì accanto a lui e la mia mente battesse in ritirata verso il tavolo da seminario. Nessuno ha mai usato la parola “sexy” con me, e solo i miei mi chiamano Nessa. Mi chiedo se mi abbiano chiamata così ai colloqui con i professori. Forse il professor Strane ha notato quel nomignolo e l’ha tenuto per sé.

Volevo essere sexy? «Non lo so.»

Si stacca da me con un movimento impercettibile ma che noto comunque e dice: «Non volevo metterti in imbarazzo».

È un test, me ne rendo conto. Vuole vedere la mia reazione all’essere definita sexy, e l’imbarazzo significa che non l’ho superato. Scuoto la testa. «Non sono in imbarazzo.»

Allora prosegue nella lettura, fa un punto esclamativo accanto a un altro verso e sussurra, più a se stesso che a me: «Bellissimo, questo».

Da qualche parte in corridoio una porta sbatte con violenza. Al tavolo da seminario, Gregg Akers si scrocchia le nocche a una a una, e Jenny sfrega la gomma avanti e indietro su quella frase riassuntiva che proprio non le viene. Vago con lo sguardo fuori dalla finestra e noto qualcosa di rosso. Osservando meglio, vedo che è un palloncino impigliato con il filo a un ramo spoglio dell’acero. Fluttua al vento, urtando contro le foglie e la corteccia. Da dove cavolo arriva un palloncino? Lo fisso per un tempo che mi pare molto lungo, così concentrata che non batto nemmeno le palpebre.

A un certo punto la gamba del professor Strane mi tocca la coscia nuda, subito sotto l’orlo della gonna. Con gli occhi sempre alla poesia e la punta della penna che scorre lungo le righe, ha appoggiato il ginocchio contro di me. Mi irrigidisco. Al tavolo da seminario le nove teste sono chine e concentrate. Fuori dalla finestra, un palloncino rosso penzola da un ramo.

All’inizio penso che non se ne sia accorto, che abbia scambiato la mia gamba per la scrivania o per il bordo della sedia. Aspetto che si renda conto di ciò che ha fatto, di dove è finito il suo ginocchio, che sussurri un rapido “scusa” e si sposti, ma il ginocchio resta premuto contro di me. Quando cerco educatamente di spostarmi, mi segue.

«Ho idea che io e te siamo molto simili, Nessa» sussurra. «Lo capisco da come scrivi che sei una romantica dark come me, un’anima inquieta.»

Protetto dal pannello della cattedra, allunga la mano e mi dà qualche pacca leggera sul ginocchio, come si fa con un cane quando non si è ancora sicuri che non si rivolterà e non morderà. Non lo mordo. Non mi muovo. Non respiro neppure. Lui continua ad annotare la poesia mentre con l’altra mano mi accarezza il ginocchio, e la mia mente esce da me. Sale fino a sfiorare il soffitto, così riesco a vedermi dall’alto: spalle curve, lo sguardo perso nel vuoto, i capelli rosso acceso.

Suona la campanella. Lui si scosta, lasciando sul mio ginocchio una zona fredda in corrispondenza di dove teneva la mano, e la stanza si anima, tra zip che scorrono, libri che si chiudono di scatto, risate, chiacchiere, tutti ignari di cosa è successo proprio lì, davanti ai loro occhi.

«Aspetto con impazienza la prossima» dice il professor Strane e mi porge la poesia annotata come se fosse tutto normale, come se ciò che ha fatto non fosse mai accaduto.

Gli altri nove studenti mettono via le loro cose ed escono dall’aula per continuare la loro vita, diretti ad allenamenti, prove, incontri dei club. Anch’io esco, ma non faccio parte del gruppo. Loro sono sempre gli stessi, io sono cambiata. Adesso non sono più umana. Niente mi tiene più legata. Mentre loro camminano per il campus, ordinari e attaccati a terra, io mi libro nell’aria lasciandomi dietro una cometa rosso acero. Non sono più io, non sono nessuno. Sono un palloncino rosso impigliato tra i rami di un albero. Non sono niente.