Entriamo ora nella nostra casa allo Château des Brouillards, come si presentava al momento della mia nascita. Poi descriverò i vicini.

La casa era il villino 6 del numero 13 di rue Girardon. Aveva due piani e la soffitta era stata trasformata in studio. Nel giardino c’erano dei rosai e un albero da frutta. Era largo circa quindici metri e lungo venticinque. Un sentiero centrale conduceva alla scalinata, che aveva quattro o cinque gradini solo da un lato. La ringhiera era di ferro dipinto di nero. All’interno un ingresso, che terminava con una scala, dava a sinistra sul salotto, a destra sulla sala da pranzo, e in fondo sulla cucina e su una dispensa. La scala era rotonda come quella di una torre e da questo dipendeva la bizzarra forma della cucina, che si trovava dall’altro lato; la scala si restringeva per scendere in cantina, ma la parte che conduceva ai piani superiori era abbastanza comoda. Mio padre aveva fatto dipingere le pareti delle stanze in bianco e le porte in grigio Trianon, come in tutte le case dove abitava. Era fissato sulla composizione di quel grigio, che richiedeva un olio di lino di prima qualità, un bianco mescolato con un nero carbone e non con un nero livido. Gli piaceva il vero grigio derivato da un vero bianco e da un vero nero avorio, il migliore. Rimproverava al nero livido di «sentimentalizzare il grigio», dandogli un riflesso azzurrognolo.

Le stanze più grandi misuravano all’incirca quattro metri per cinque. Nella sala da pranzo Renoir aveva dipinto in trasparenza una parte dei vetri con soggetti mitologici. Non so che fine abbiano fatto. Gli altri due piani erano divisi come il pianterreno. Mia madre dormiva al primo piano sopra la sala da pranzo; mio fratello Pierre, quando veniva il sabato, sopra il salotto; Gabrielle sopra la cucina. Sopra la dispensa c’era una specie di stanza da bagno; si trattava per la verità soltanto di una stanza munita di uno scarico per l’acqua sporca, e ci si lavava la faccia in catini poggiati su tavole coperte di marmo. I bagni completi si facevano in tubs di zinco rotondi e alti una ventina di centimetri. Ci si bagnava il corpo con delle spugne enormi. Come sapete, l’acqua si andava ad attingere con la pompa all’inizio del viale principale. Renoir dormiva al secondo piano, dove c’era un’altra camera destinata agli amici di passaggio, e una terza in fondo, sopra quella dove dormiva Gabrielle, che veniva occupata nel caso ci fosse stato bisogno di qualche altra serva. Veniamo ora ai vicini.

Di alcuni di essi mi è rimasto un ricordo molto chiaro. Di altri mi resta solo un’intonazione, un gesto. Le mie vere impressioni sullo Château des Brouillards provengono quasi certamente dalle visite che vi facevamo quando ormai non abitavamo più là, ed io mi avvicinavo all’età della ragione. Mi ricordo dell’irritazione che provavo nei confronti dell’accoglienza festosa che mi riservavano le nostre antiche vicine. «È un giovanotto ormai! Non fa più la pipì a letto!». Sfuggivo alle gentilezze degli adulti per rifugiarmi nell’angolo dei bambini. Ero convinto che quella casa fosse ancora nostra e che in rue La Rochefoucauld fossimo in viaggio. Ebbi una violenta crisi di pianto quando vidi uno sconosciuto tirare fuori di tasca una chiave ed entrare nel nostro appartamento come se fosse casa sua. Per consolarmi, la signora Brébant mi regalò un piattino di ceramica decorato a stampo. Quel dono mi commosse, perché sapevo vagamente che mio padre ne aveva dipinto alcuni. Quello che mi aveva regalato era assai brutto, ma credo che i bambini, anche se cresciuti in mezzo alle tele di Renoir, non si lascino facilmente offendere dalla bruttezza. Ricordo benissimo la signora Brébant nell’atto di darmi quel piatto. Doveva aver passato da poco la sessantina, ma mi sembrava d’una vecchiaia sovrannaturale. Era vestita come agli inizi del Secondo Impero, prima che diventassero di moda le crinoline. Vedo ancora un mucchio di gale nere. Avanzava lentamente nel giardino tenendo il piatto in una mano e nell’altra un ombrello col manico pieghevole; era preceduta dalle sue due piccole levriere, Finette e Falla, che abbaiavano con acuti latrati. Quando le sentiva, mio padre dichiarava di approvare i cinesi che mangiano i cani. Il figlio, Maurice Brébant, si teneva a una certa distanza. Mi fece un segno amichevole e capii che sarebbe venuto a parlarmi non appena la madre se ne fosse andata. Aveva una quarantina d’anni, era grasso, calvo e molto gentile. Accorgendosi della sua presenza, la madre gli fece cenno di avvicinarsi ed egli obbedì con sforzo evidente. La signora disse a mia madre: «Dovete fare ogni giorno un clistere al vostro piccolo Jean. È facile che i bambini siano stitici. È successo anche al mio piccolo Maurice!». Quest’ultimo fece un gesto spazientito e si allontanò verso il fondo del giardino. Passava una delle figlie dei Vari; lui la fermò e ostentò di parlarle a voce bassa per dimostrarci chiaramente la propria indipendenza. Le ragazze Vari abitavano con i genitori in una delle casette ai piedi della scarpata, in place de la Fontaine-du-But. Erano belle e così numerose che si rinunciava a contarle. Una di loro aveva la mia età e veniva a giocare con me. Sia i genitori che le ragazze posavano come modelli; anche mio padre si servì di alcune di esse. La signora Brébant sorrideva con l’aria di chi sa il fatto suo. «Maurice fa sempre di testa sua. Eccolo lì che parla con una di quelle ragazze! Come se questo potesse impressionarmi!». Mi sono spesso domandato, in seguito, come Maurice avesse avuto il coraggio di far costruire il tramezzo di mattoni che divideva il suo alloggio da quello della signora Brébant. Mia madre era del parere che si fosse dovuto trincerare dietro una ragione apparentemente affettuosa, per esempio il rumore che faceva russando. Tutti sapevano che la vecchia signora aveva il sonno leggero.

Oltre a Finette e a Falla, la signora Brébant possedeva alcuni uccellini. Un giorno andò a trovare Gabrielle: «Non dite alla signora Renoir che il mio piccolo Fifi è morto. Le dareste un tale colpo!». Fifi era un canarino.

La signora Brébant era molto ricca. Possedeva tutti i terreni intorno a rue Saint-Vincent. L’altro lato dello Château des Brouillards apparteneva al vecchio Griès, e lei avrebbe perduto tutto in degli stupidi processi. La sua mania di dominare le procurava continue grane che la riempivano di gioia, perché le piacevano le cause. Per il resto, un cuore d’oro, uno degli ultimi esemplari di una borghesia che era stata grande.

La portinaia era la marchesa di Paillepré; suo marito, infatti, discendeva da una nobile famiglia. Uno dei suoi antenati si era rovinato con Beaumarchais a causa dello scandalo della fornitura di armi agli americani insorti e, più tardi, si era fortemente compromesso con le sue idee ultrarivoluzionarie e la sua amicizia per Robespierre e Marat. Sembra che avesse anche contribuito a far cadere la testa di qualche suo nobile collega, ed era stato anch’egli ghigliottinato dopo la caduta della Montagna. Al suo ritorno nel 1815, Sua Maestà Luigi XVIII aveva ritenuto sufficienti quelle ragioni per non aiutare la vedova e i figli che erano riusciti a conservare le loro terre sotto Napoleone, ma che in seguito dovettero venderle a poco a poco per provvedere alla loro sussistenza. L’ultimo dei Paillepré era un uomo simpatico al quale mio padre voleva bene. Faceva il fattorino da Dufayel ed era del tutto soddisfatto della propria sorte. Dopo il lavoro gli piaceva fumare la pipa guardando Renoir che dipingeva in giardino. Non faceva nessun apprezzamento sul quadro, ma raccontava volentieri la sua giornata, cercando di descrivere i clienti a cui aveva portato delle credenze in stile Enrico II o una di quelle imitazioni delle lanterne in ferro battuto e a vetri colorati care a Courteline.

Quel genere di conversazione si confaceva perfettamente a mio padre, che si sentiva a suo agio quando lavorava in mezzo a persone che seguivano la propria strada senza tentare di interferire con la sua. Il soggiorno allo Château des Brouillards fu per Renoir molto proficuo. Fu lui stesso a definirlo così, e se si pensa alla mole straordinaria della sua produzione abituale, dev’essere stato davvero un periodo stupefacente. Evidentemente quel luogo gli era favorevole.

Il titolo nobiliare che aveva ereditato per nascita irritava il signore di Paillepré, e se qualcuno vi faceva allusione, alzava le spalle. «Non ne parliamo!». Sua moglie, la portinaia, accettava invece la sfida. Di origini modeste, aveva il gusto della lotta. Dopo aver svuotato i recipienti dei rifiuti, indossava una lunga veste che le nascondeva i piedi, secondo la moda dell’epoca, e passeggiava lentamente su e giù per il viale sventagliandosi con aria volutamente indifferente. Interrompendo quel gioco, la signora Brébant le diceva: «Signora marchesa, state spazzando con la gonna lo sterco dei miei cani». E la signora di Paillepré, dimenticando il suo personaggio, scoppiava a ridere di cuore.

Nella villetta accanto alla nostra abitava Paul Alexis, poeta e giornalista. «Un uomo pieno di vita, generoso, sempre allegro ed entusiasta». Era grande amico di Zola che, a quell’epoca, veniva abbastanza spesso a trovare mio padre. Renoir, che non aveva dimenticato il comportamento dello scrittore nei confronti di Cézanne, cercava di nascondere come meglio poteva i suoi veri sentimenti; temeva di addolorare Alexis, per il quale Zola era un dio. I nemici del poeta sostenevano che avesse trovato moglie in un bordello; Renoir non ci credeva affatto e rispettava la signora Alexis, «una donna di una distinzione rara». Gli Alexis avevano una graziosissima bambina che posava spesso per mio padre. Le figlie del signor Lefèvre, un altro vicino, flautista all’Opéra, appaiono nel quadro intitolato Bambine che giocano al croquet. Un’altra giovane vicina che mio padre amava ritrarre era Marie Isembart. Il signor Isembart era professore in un liceo parigino.

Sempre in rue Girardon, ma più avanti, all’angolo di rue Norvins, abitava la famiglia di Clovis Hugues con la quale i miei genitori si vedevano spesso; gli Hugues erano dei «perfetti meridionali». Lui faceva lo scrittore e il deputato di Montmartre. Mio padre lo considerava «notevole e davvero eloquente» e affermava che, se fosse stato meno scapestrato, sarebbe diventato Presidente della Repubblica. «Purtroppo in politica ci vuole ipocrisia, niente carattere e un tono misurato. Solo i mediocri non fanno paura». Una decina d’anni prima gli Hugues si erano trovati immischiati in un grosso scandalo. La moglie aveva sparato alcuni colpi di rivoltella contro un ricattatore che la perseguitava, ma era stata assolta dopo un processo rimasto celebre. Tutto questo era da tempo dimenticato. Allo Château des Brouillards nessuno vi accennava mai.

Clovis Hugues andava a raccontare a Renoir tutti i pettegolezzi del quartiere. Gli anticlericali si agitavano per la costruzione del Sacré-Coeur e, per rispondere a una simile provocazione, progettavano di dare alla strada che portava alla basilica il nome del Cavaliere de La Barre, torturato e messo a morte ad Abbeville venticinque anni prima che scoppiasse la Rivoluzione, per non aver salutato al passaggio di una processione e per aver cantato una canzone licenziosa su Maria Maddalena. Clovis Hugues trovava che l’importanza attribuita a quel «bravo giovane» fosse esagerata: «Mettere il nome di un vinto di fronte a quel loro pan di spagna?59 Dovremmo invece glorificare un vincitore! E perché non Robespierre? Lui, almeno, aveva scacciato Gesù Cristo da Notre-Dame e lo aveva sostituito con una bella ragazza travestita da dea Ragione. Il suo nome fa ancora tremare i preti».

Ciò che divertiva mio padre in questa storia era l’importanza che la parola «Robespierre» assumeva sulla bocca di quel meridionale: «Il rullo di un tamburo. Sembrava che avesse dieci r. La signora Hugues si dedicava alla scultura e si tingeva i capelli di rosso. Mireille Hugues, che aveva circa dodici anni, appare nel quadro delle Bambine che giocano al croquet insieme alle piccole Lefèvre. Un giorno si presentò a mia madre con mezza testa rossa e l’altra bruna; aveva voluto provare la tintura della madre, ma c’era rimasto solo il fondo del flacone. Nonostante fosse cresciuta a Parigi, aveva conservato il suo accento. Era molto esuberante, giocava come una pazza, cadeva, urtava dappertutto, ed era coperta di lividi. Un giorno, mentre guardava passare un funerale, si sporse talmente che cadde dal secondo piano. Si rialzò ridendo, tutta pesta ma troppo orgogliosa per ammetterlo. «Un gatto» diceva di lei mia madre. «Una gatta,» rispondeva mio padre «si addice di più a una ragazza». Durante la prima guerra mondiale Mireille si comportò eroicamente e fu decorata. Vedevamo meno Marianne, che ormai era quasi una signorina. Talvolta, quando gli veniva voglia, faceva un salto da noi. Le comari guardavano stupite la sua veste di velluto turchino che faceva a pugni con le calze bucate. Blanchette pensava solo alla musica; si sospettava che fosse innamorata di un tenore dell’Opéra Comique. La quarta sorella si chiamava Marguerite. Nel quartiere, gli atteggiamenti «da artiste» delle figlie di Clovis Hugues erano criticati; mio padre invece li approvava. Dopo molti anni, quando nelle nostre conversazioni ricorrevano i nomi di quelle gentili vicine, non riusciva a trattenere un sorriso commosso. «Amavano divertirsi, andavano a ballare al Moulin de la Galette, ma erano delle brave ragazze». Ricordandomi dell’affetto di mio padre per quella famiglia, fu con emozione che, un quarto di secolo dopo, rividi Marianne; aveva un ristorante che portava il suo nome in boulevard de Clichy. Eravamo entrambi molto cambiati.

Una mattina, dramma: dovendosi recare alla Camera dei Deputati, Clovis Hugues aveva trovato solo uno dei suoi stivaletti di vernice e percorreva il quartiere in calzini sollevandolo in alto e reclamando l’altro a gran voce. Le figlie avevano litigato e si erano tirate addosso alcuni oggetti, fra cui lo stivaletto che era volato dalla finestra. Lo ritrovarono su un mucchio di foglie morte davanti alla casa della signora Brébant.

Un altro abitante di rue Girardon era l’egittologo Feuardent, che veniva a prendere una boccata d’aria sotto gli alberi dello Château des Brouillards. Dicevano che fosse un tipo tranquillo e buono; mi dava dei buffetti amichevoli sulle guance, e questo mi rendeva furioso. Tra le altre conoscenze c’era anche la giornalaia, la cui sorella Blanchette di quarantatré anni, era una povera deficiente e giocava a mosca cieca con le bambine. Il tappezziere del quartiere si chiamava Leboeuf. Sposò la signorina Leveau. Il lavandaio era sempre ubriaco, ma ispirava tenerezza a mia madre e a Gabrielle, perché il suo accento della Nièvre gli ricordava quello di Essoyes; purtroppo lasciava cadere la biancheria nel fiume, così mia madre a malincuore decise di sostituirlo. Questa importante decisione segnò l’ingresso nella nostra casa della famiglia Mathieu.

Sulla Butte non ci si scambiavano visite, ma ci si vedeva di continuo. Non si facevano mai inviti a colazione o a pranzo; si diceva semplicemente: «Ho una fricassea di vitello, vi andrebbe?». E, in caso affermativo, si aggiungeva un piatto. Simili avvenimenti al giorno d’oggi si preparano con molto anticipo. Ci si telefona, si riuniscono le persone che vanno d’accordo evitando gli incontri pericolosi. Sembra quasi che si tratti di una riunione diplomatica. Le signore che abitavano allo Château des Brouillards non venivano mai ricevute in salotto; comparivano nella cucina dell’amica per chiederle un po’ d’insalata o per portarle un assaggio del vino che il marito aveva appena imbottigliato. Quella comunità non si sottometteva alla monotona tirannia delle abitudini. La scappellata dei signori alle mogli dei vicini, la riverenza delle bambine alle persone anziane erano piuttosto una traduzione parigina del «tu ed io siamo dello stesso sangue» di Mowgli.

 

 

Risaliamo all’epoca in cui mia madre era incinta di me ed ebbe l’idea di far venire una cugina da Essoyes perché l’aiutasse. Gabrielle Renard aveva quindici anni e non era mai uscita dal suo villaggio natale. Le suore le avevano dato una buona istruzione. Sapeva cucire e stirare. Doveva il beneficio di quell’educazione religiosa al padre, che voleva fare un dispetto al maestro laico, che riteneva un presuntuoso. L’insegnamento delle buone suore era largamente completato dalle lezioni che la giovane Gabrielle riceveva in seno alla famiglia. A dieci anni sapeva riconoscere l’annata di un vino, prendere le trote con le mani senza farsi pescare dalla guardia campestre, badare alle vacche, aiutare a scannare il maiale, andare a cercare l’erba per i conigli e raccogliere lo sterco dei cavalli che tornavano dai campi. Quello sterco era un tesoro bramato da tutti. Non appena cadeva in mucchietti fumanti sulla strada bianca, un’orda di rivali si precipitava armata di pala e di secchio. Tutti i ragazzi di Essoyes erano fieri del letamaio che troneggiava in mezzo al cortile di casa, e volevano arricchirlo. Da qui le epiche lotte da cui Gabrielle usciva in genere vittoriosa, ma con i vestiti a brandelli. Sua madre, insensibile alla bellezza del bottino, metteva fine all’avventura con un paio di schiaffi. Le madri avevano le mani leste, a Essoyes. I bambini urlavano, ma non sembravano soffrirne molto. Gabrielle si infilava le scarpe solo per entrare dalle suore al mattino, e la sera, uscendo, se le toglieva subito. Quando le suore la incontravano per strada, le dicevano che una bambina che cammina a piedi nudi non sarebbe mai diventata come la signorina Lemercier, orgoglio del villaggio, che portava la veletta, si era diplomata e stava per sposare un funzionario coloniale. Gabrielle rispondeva che non ci teneva a somigliare alla signorina Lemercier. Generalmente le suore riuscivano a dare alle loro allieve una parvenza di buone maniere, ma con Gabrielle non c’era nulla da fare.

Suo padre era un appassionato cacciatore. D’inverno, in casa Renard, si mangiava spesso cinghiale e ci si disputava la testa, che è il pezzo migliore. Per mettere tutti d’accordo il signor Renard alla fine se lo prendeva per sé. Un giorno portò a casa un piccolo cinghiale vivo, che divenne il compagno prediletto di Gabrielle. Quando fu più grande gli saliva in groppa e l’animale partiva in un galoppo sfrenato per la via che portava alla chiesa e finiva per liberarsi della sua cavallerizza che rotolava nella polvere recando gravi danni al vestito; cosa che le costava una nuova distribuzione di schiaffi. Gabrielle se ne infischiava allegramente. I bambini di Essoyes conoscono un trucco: tirano leggermente indietro la testa nel momento preciso in cui la mano sta per raggiungere la guancia, così si attenua il colpo. Il movimento poi dev’essere accompagnato da urli da gatto scorticato, dopodiché la madre ritorna soddisfatta alla sua occupazione principale, che consiste nel raccontare alle vicine storie di disgrazie e di malattie: neonati uccisi, vignaioli schiacciati sotto le ruote di pesanti carri, bambini annegati nelle acque nere della gòra; più l’avvenimento era spaventoso e maggiore era di conseguenza il successo della narratrice.

Il piccolo cinghiale di Gabrielle divenne enorme e ci mancò poco che non sventrasse una vacca che non gli andava a genio. Lo si dovette uccidere e trasformare in prosciutti e salsicce.

La domenica Gabrielle andava alla messa con sua madre e, a disagio in un vestitino inamidato, distribuiva il pane benedetto, cosa che non le impediva di unirsi a dei monelli che seguivano il parroco per la strada imitando il gracchiare dei corvi. Essoyes era fiera della sua solida e antica tradizione anticlericale. Le donne andavano in chiesa, ma gli uomini ci mettevano piede di rado. Anzi, era anche uno degli ultimi villaggi in cui si seguisse ancora quell’usanza in cui gli uomini si riuniscono il Venerdì Santo sul sagrato della chiesa a mangiare del salame. Quel gesto simbolico voleva significare chiaramente che l’età delle superstizioni medioevali era ormai passata per sempre.

Gabrielle arrivò a Parigi una sera dell’estate del 1894. Mia madre la aspettava alla Gare de l’Est. Gabrielle conosceva già mio padre, che aveva visto ad Essoyes, ma in quel momento lui si trovava in Normandia da Gallimard. Quando arrivò allo Château des Brouillards, la ragazza esclamò: «Che bel giardino! Non c’è il letamaio!». L’indomani mattina mia madre, non vedendola comparire, bussò alla sua porta. Nessuno rispose. Gabrielle se ne stava in mezzo alla strada a giocare con i ragazzi del quartiere. La mamma pensò che fosse di buon auspicio; infatti tutto quello che contava di chiedere alla giovane cugina, quando fossi venuto al mondo, era di giocare con me. Per la cura e il nutrimento dei figli si fidava di se stessa.

Qualche mese dopo, all’inizio dell’inverno del 1895, mi buscai una bella bronchite. Il clima era estremamente rigido e le mura dello Château des Brouillards offrivano una ben misera difesa contro i rigori del freddo. Per più di una settimana mia madre e Gabrielle non chiusero occhio un istante. Mentre una di loro portava di sopra la legna per alimentare il caminetto, l’altra mi faceva scaldare i pannolini. Dovevo esser tenuto continuamente in braccio. Appena mi posavano su un letto, iniziavo a soffocare. Alla fine si decisero a inviare un telegramma a mio padre, che stava dipingendo nel Midi, a La Couronne, vicino Marsiglia, insieme alla mia madrina Jeanne Baudot e ai suoi genitori. Renoir abbandonò tela e pennelli, corse alla stazione senza prendere neppure la valigia e saltò sul primo treno per Parigi. Arrivò giusto in tempo per dare il cambio alle due donne sfinite. A forza di tenerezze quelle tre creature riuscirono a sottrarmi a quella che molto probabilmente sarebbe stata la mia morte. Passato il pericolo non se ne parlò più e se non fosse per Gabrielle, ora non ne saprei nulla.

Se riferisco questa vecchia storia non è per un interesse esagerato nei confronti delle mie malattie infantili, ma perché dimostra chiaramente come ci si comportasse in casa mia. La grande caratteristica di mio padre, e di tutti quelli che gli vivevano intorno, era il pudore; diffidavano istintivamente di tutti i sentimenti troppo visibili. Renoir avrebbe dato senza esitare la vita per i figli, ma avrebbe giudicato indecente rendere partecipe dei propri sentimenti chiunque, forse anche se stesso.

Si rifaceva davanti al cavalletto. Lì, sì, non c’era più alcun ritegno. Col suo pennello acuto e tenero si dedicava con tutto il cuore ad accarezzare le fossette del collo, le piccole pieghe dei polsi dei suoi bambini, e a gridare al mondo intero tutto il suo amore paterno.

Una tale ombrosa discrezione non si limitava ai suoi sentimenti verso i figli; tutto ciò che lo toccava profondamente lo teneva per sé come un tesoro nascosto. A proposito del gesto di Déroulède, che portava in Francia un po’ di terra d’Alsazia, diceva: «Non mi piace. Se anche il nostro patriottismo comincia ad assumere aspetti pubblicitari, è segno che andiamo molto male».

A furia di parlare con Gabrielle dello Château des Brouillards, dove trascorsi i miei primi tre anni di vita, non so più quale sia la parte diretta dei miei ricordi. Gabrielle sosteneva che non potevo aver dimenticato. «Io ricordo benissimo le nozze di Auguste Philippe a Essoyes, quando si sposò con Virginie Manger e avevo due anni e mezzo. Certo, bisogna essere svegli. C’è chi, come i montoni, non vede più lontano della groppa del vicino». «Ma io la bronchite l’ho avuta a sei mesi, non credi che fossi un po’ piccolo...». «Che tu abbia dimenticato la bronchite, te lo concedo, ma lo Château des Brouillards!... Non ricordi la cucina rotonda, come una specie di torre? E di quanto eri cattivo quando ti portavo in braccio? E la piccola vicina che ti chiamava “il bel piccolo Dan”? E tu le sorridevi tendendo le braccine...». Si trattava della piccola Itier. Aveva tre anni. I genitori, che abitavano anch’essi in rue Girardon, venivano dal Nord. Il padre lavorava in un ministero. Era la grande epoca delle biciclette. I francesi avevano scoperto la «reginetta» e si precipitavano pedalando per le strade polverose. Il signor Itier condivideva quella passione nazionale e l’aveva comunicata alla moglie. Appena avevano un po’ di tempo libero, inforcavano il tandem e andavano alla scoperta di nuovi orizzonti; lui in pantaloni e calze all’inglese, lei con quelle brache da ciclista che furoreggiavano tra le donne sportive. La bambina partecipava alla festa, sistemata su un seggiolino di vimini fissato al manubrio. Questo faceva tremare mio padre, sempre preoccupato per i bambini. Un giorno il tandem degli Itier slittò e tutti e tre rotolarono per una ripida scarpata. Mentre i genitori si rialzavano contusi, la bimba era morta sul colpo, con il cranio fracassato. Dopo sessant’anni Gabrielle si commuoveva ancora al ricordo di quella tragedia. «Era così carina quando mi si avvicinava in punta di piedi per paura di svegliarti e mi sussurrava all’orecchio: “Fammi vedere il tuo bel piccolo Dan!...”».

Ero un bambino viziato. Gabrielle, nonostante mia madre disapprovasse, mi portava sempre in braccio. La nostra duplice sagoma che percorreva le strade di Montmartre era così familiare che Faivre ne fece una caricatura in cui apparivo in braccio a Gabrielle circondata dalle comari del quartiere; sullo sfondo si vedeva una ghigliottina che aveva appena finito di funzionare e la testa di un uomo che rotolava nel paniere. E le donne mi dicevano, facendo mille smancerie: «Ormai è grande. Ha più cervello di suo padre!».

Dopo la morte della piccola Itier divenni villano con le persone che volevano avvicinarmi. Tolleravo a malapena i bambini ma, se si avvicinava una persona adulta, mi mettevo a urlare: «A tou Dan», che può tradursi con: «ha osato toccare Dan».

Dopo i vani tentativi di riuscire a pronunciare il nome di Gabrielle, alla fine decisi, dopo essere passato per Gabibon, di chiamarla più semplicemente Bibon. Questo nome le rimase fino all’infanzia del mio futuro fratello Claude che, sette anni dopo, doveva battezzarla Ga, nome che le sarebbe rimasto per il resto della sua vita.

Per andare e tornare dallo Château des Brouillards a rue Tourlaque mio padre attraversava il Maquis quattro volte al giorno. Mia madre, Gabrielle ed io ci andavamo a cercare lumache. La spedizione presentava qualche pericolo, perché il terreno era selvaggiamente difeso da densi cespugli di biancospino. Le baracche degli abitanti sembravano soffocate dalla vegetazione, che cominciava dietro il recinto del vecchio Griès e scendeva fino a rue Caulaincourt. L’attuale boulevard Junot era un cumulo di rosai. La sopravvivenza di quelle baracche costruite dagli stessi abitanti, senza preoccupazione alcuna delle regole di sicurezza o dell’igiene, sfuggendo alle tasse e ai regolamenti, era dovuta al fatto che l’instabilità del terreno argilloso non consentiva la costruzione di grandi edifici. I proprietari ricavavano così qualche soldo dall’affitto di quei terreni altrimenti inutilizzabili. I contratti erano di lunga durata, altrimenti gli occupanti non si sarebbero dati la pena di costruire. Le loro bicocche, fatte di assi trovate tra i rifiuti dei cantieri di costruzione delle case vicine, riflettevano il gusto di quegli architetti improvvisati e andavano dal genere cottage, con il tetto inclinato e le finestre incorniciate di vite americana, fino alla capanna vacillante coperta alla svelta con un pezzo di cartone bitumato. Cani e gatti pullulavano. Un vecchio signore che indossava estate e inverno una redingote sdruscita e ornata con delle palme accademiche preparava da vent’anni un numero destinato a un baraccone da fiera, che consisteva in una corsa di carri romani con i topi che facevano i cavalli e i sorci da cocchieri: Ben-Hur prima dell’avvento del cinema! Ma il diavolo gli aveva insufflato la mania della perfezione, sicché il suo numero non era mai pronto. Lo rispettavano perché godeva di una pensione governativa.

La polizia ignorava il Maquis; ci si avventurava il meno possibile e solo per motivi precisi, ad esempio quando voleva arrestare i falsari. Questi erano due giovani molto per bene, che facevano gli incisori e abitavano in una delle case più eleganti dell’agglomerato, una specie di villetta svizzera, naturalmente di legno. Avevano seminato dell’erba davanti alla porta, piantato un piccolo abete e costruito delle rocce di cemento. Grazie a un accurato innaffiamento quel paesaggio in miniatura restava verdissimo e poteva far pensare quasi a un praticello svizzero. Mio padre gli diceva che ci mancava una mucca e quelli rispondevano che ci avrebbero pensato loro. L’interno della casa era decorato in stile svizzero, con delle travi marroni dipinte, i mobili in legno scolpito e dei cucù che uscivano dalla scatola per segnare le ore e le mezz’ore. Avevano avuto la bella idea di adornare il giardino con campanacci da mucca che pendevano dappertutto, intorno alle porte, lungo il tramezzo, dai rami dell’abete. I visitatori erano accompagnati da un vero e proprio carillon. Una cosa molto originale. Possedevano anche un grosso cane che raccomandavano di non accarezzare. Venivano spesso a trovare Renoir, ne ammiravano la pittura e gli raccontavano di sperare in un’eredità. La polizia, dopo aver attraversato il giardino al suono dei campanacci, trovò la casa vuota. I giovani erano scappati da una finestra che dava su un sentiero che sboccava direttamente in rue Lepic, sopra il Moulin de la Galette. Ci mancò che il cane divorasse un agente. Joséphine, da cui ci servivamo per il pesce, andò a calmare l’animale. I giovani glielo avevano regalato qualche giorno prima in previsione di quell’improvvisa partenza. Si trovò un’attrezzatura completa per falsificare le banconote. Qualcuno sosteneva che ne avevano spacciate per più di cinquecentomila franchi e che si erano comprati un castello in Svizzera. C’era chi, naturalmente, li sospettava di essere degli invertiti. Il poeta Jean Lorrain, che li aveva conosciuti, giudicava ridicola una simile accusa; la loro associazione era puramente professionale.

Joséphine, loro vicina, aveva una cinquantina d’anni. Tutte le mattine, prima dell’alba, si recava ai Mercati Generali e tornava con due grandi ceste piene di pesce. Era piccola e magra, rapida nei movimenti, e annunciava l’arrivo del pesce con una voce che attraversava le mura dello Château des Brouillards, cosa che mio padre considerava lungi dall’essere un’impresa. Joséphine lo conosceva bene, perché a volte lui si fermava ad ascoltare le sue chiacchiere quando tornava a casa la sera da rue Tourlaque. Al mattino i loro orari non coincidevano. Mentre scendeva il pendio del Maquis, lei andava in giro per le vie di Montmartre a vendere la sua merce. Mia madre le ordinava in anticipo il pesce che pensava potesse piacere a Renoir. Il suo piatto preferito era l’aringa, ma solo quando era a buon mercato, e questa era la prova che i banchi partiti dal Mare del Nord per la migrazione annuale stavano costeggiando la Francia. Quando i prezzi salivano significava che le aringhe erano state pescate più lontano e, dopo la pesca, avevano viaggiato. Prima di tornare a Joséphine, vorrei informare i lettori di una cosa che mi sembra importante: le aringhe venivano arrostite su carbone di legna e servite con senape. Non terminerò del resto questa scorsa nel passato senza aver prima annotato alcune ricette di mia madre e dato un’idea del nostro regime alimentare.

Joséphine abitava nel Maquis, in una grande baracca piuttosto malandata. Pezzi di tela incerata servivano a chiudere i buchi del tetto. Il suo pezzo di terreno era più grande di quello degli altri. Allevava pollame e conigli, che commerciava insieme al pesce. Possedeva anche delle capre che, con nostra sincera ammirazione, divoravano con grande appetito i cespugli spinosi della collina. I suoi animali erano molto ben curati. Gabrielle mi portava spesso a trovarla, perché davanti alla casa c’era un bel mucchio di letame che le ricordava Essoyes. A Joséphine piaceva terminare tutti i suoi lavori al mattino; nel pomeriggio si riposava, faceva la signora, riceveva i vicini e dava il suo parere sugli avvenimenti politici. Troneggiava accanto al letamaio in una grande poltrona dorata, regalo di una delle sue figlie. Non nascondeva il proprio disprezzo per la Repubblica e per i suoi ministri «usciti non si sa da dove». Auspicava il ritorno del re, circondato dai suoi cortigiani in costumi ricamati e parrucche bianche. «Quelli sì che sapevano parlare alle donne!» sospirava, mormorando i nomi di Diane de Poitiers, della Pompadour e della Du Barry. «E pensare che oggi le mogli dei ministri vanno al mercato e discutono sul prezzo dei naselli!». All’interno, la casa di Joséphine era zeppa di testimonianze di affetto «delle piccole». Le scatole d’argento cesellato e i cestini da lavoro coperti di raso stavano accanto alle sedie sbilenche e contrastavano con le assi mal piallate delle pareti. Una delle figlie era una ballerina dell’Opéra, aveva per amico un anziano e noto chirurgo, ostentava un’eleganza discreta ed era specializzata nel fare dei regali utili: maglioni di lana, fornelli perfezionati, un utensile per fabbricare i sorbetti, ecc... L’altra figlia aveva preso una brutta strada. Andava a trovare la madre in una victoria a due cavalli con il cocchiere in livrea. Da lei provenivano la poltrona dorata e il grosso anello che non lasciava mai il dito di Joséphine. Le due sorelle si evitavano, ma talvolta il caso faceva coincidere le loro visite e la conversazione assumeva ben presto un tono agrodolce. Quella della carrozza insisteva sul disgraziato errore di un chirurgo che aveva dimenticato gli occhiali nel ventre di un operato. La ballerina rispondeva alludendo a certe stuoie su cui andava a rotolarsi tutta Parigi. Nel momento in cui gli insulti stavano per degenerare e le due ragazze erano sul punto di prendersi per i capelli, Joséphine le riportava al senso delle buone maniere con l’aiuto di una buona scarica di legnate. Con in mano una bacchetta, le inseguiva attraverso la casa, il cortile e il pollaio. Gli animali sottolineavano la punizione facendo un gran fracasso. Tutto il quartiere restava con le orecchie tese. Il cocchiere in livrea fingeva di accomodare la briglia di uno dei cavalli. Il litigio terminava fra lacrime e abbracci. L’etèra si offriva di accompagnare a casa la ballerina e il cocchiere apriva con gesto cerimonioso gli sportelli della victoria alle due ragazze.

Gabrielle amava ricordare lo Château des Brouillards, soprattutto negli ultimi tempi prima di morire, in California. «Ti ricordi quando la figlia di Joséphine aveva pestato lo sterco di un cane e il cocchiere faceva il disgustato: “Signora, il mio tappeto!”. E la ragazza gli aveva risposto con fierezza: “Mio caro, se non vi piace la m... dovete cercarvi un altro posto”». E Gabrielle insisteva: «Sicuramente ti ricordi di quella bella faccia di lacchè!». «Ti giuro di no!». Ora che lei non c’è più chi si ricorda di Joséphine e delle sue figlie? Chi mi aprirà uno spiraglio su di un passato che ora mi appare come dovette apparire l’Eden ad Adamo, dopo che ebbe assaporato il frutto dell’albero della conoscenza?

Mentre Gabrielle apriva i miei occhi alla conoscenza di un mondo ancora relativamente innocente, mia madre lavorava a maglia, cuciva, stirava. Mio padre guadagnava ormai abbastanza da consentirci di vivere comodamente, ma lei seguitava a diffidare. I mercanti d’arte insistevano che Renoir tornasse alla sua prima maniera, che stava diventando di moda; questo lo mandava in bestia. Sua moglie era terrorizzata al pensiero che il bisogno di denaro potesse distrarlo dalla sua costante ricerca di un fine che lei non sapeva precisare e che forse neppure intuiva, ma nel quale credeva con tutta l’anima. Le signore si ritrovavano a lavorare in giardino. La signora Lefèvre, sempre elegantissima, raccontava l’ultimo melodramma rappresentato al Théâtre Montmartre, dove aveva un palco insieme ai coniugi Hugues. Il venerdì, e nessuno ne conosceva il motivo, tirava fuori i suoi pizzi. Si univano al gruppo la signora Brébant, con il suo vestito a strascico, e la signora Isembart. Finette e Falla, sdraiate ai piedi della poltrona, difendevano le frequentatrici di quel luogo dall’avvicinarsi di qualsiasi volto nuovo. La signora Alexis leggeva racconti di viaggi. Il flauto del signor Lefèvre forniva a quelle riunioni campestri l’accompagnamento perfetto. La domenica, quando non era al Sainte-Croix, mio fratello Pierre giocava «al teatro» con le figlie di Clovis Hugues; si mettevano addosso delle vecchie tende e imitavano i melodrammi che i grandi avevano visto al Théâtre Montmartre. «Pierre farà l’attore» diceva mia madre, che non sapeva d’indovinare così bene.

Un altro angolo del Maquis dove Gabrielle mi portava spesso era lo studio di un pittore molto grasso di cui, al momento delle nostre conversazioni in California, aveva dimenticato il nome. Sua moglie era grassa quanto lui. Entrambi non facevano che sgranocchiare torrone. Lui dipingeva sempre lo stesso quadro: alcuni cavalieri con armature che si riposano sotto una quercia insieme ai loro cavalli. Spiegava a Bibon che, avendo messo a punto una volta per tutte quel soggetto, avendone eliminato tutti gli errori e i difetti, offriva in tal modo al cliente la garanzia di una perfezione resa possibile soltanto da una così rigorosa specializzazione. «Se cambiassi soggetto, dovrei ricominciare tutto!». La croce che si vedeva sul cavaliere al centro, ad esempio, era nera, ma l’aveva dipinta bianca per molto tempo, commettendo un errore cronologico. Ogni martedì se ne andava via a piedi col suo quadro sotto braccio e andava a offrirlo a diversi mercanti. Se con essi non faceva affari, ripiegava sui tappezzieri decoratori, sui caffè, sui bordelli, o magari sui teatri ambulanti. Era un buon venditore e quasi tutte le settimane piazzava un quadro che l’indomani mattina ridipingeva in qualche ora.

Un’altra figura del Maquis era rimasta impressa nella fantasia di Gabrielle: «Bibì la miseria», un poeta sempre affamato. Andava a recitare versi a mia madre che, in cambio, gli offriva una fetta di carne fredda con cetriolini, di cui lui vuotava il vasetto insieme alla bottiglia di vino che accompagnava la colazione. Mio padre, che durante quelle visite si trovava sempre nel suo studio, lo incontrò un giorno nel Maquis. «Buongiorno, signor Renoir. Sono Bibì la miseria, il poeta. La padrona mi conosce bene». «Siete voi che mi vuotate i vasetti di cetriolini?». «Sì, e approfitto dell’occasione per chiedervi un favore. Dovreste dire alla signora Renoir che sono troppo salati. Io non oso farlo. Potrei offendere il suo amor proprio». «Grazie,» disse mio padre «non mancherò».

Gabrielle tornava spesso sull’argomento del grande freddo che mi aveva causato la bronchite e aveva fatto tornare mio padre dal Midi. «La fontana vicino alla portineria era tutta ghiacciata. Andavo a prendere l’acqua a quella sull’angolo tra rue Lepic e rue Tholozé. Mi ricordava Essoyes quando andavo al pozzo nella piazza della chiesa». Fu così che parlò per la prima volta con Toulouse-Lautrec. «Lo conoscevo bene di vista. Era venuto varie volte a trovare il padrone e sapevo che era un cliente dell’osteria all’angolo...». Quel giorno le sue amiche Koudoudja e Alida, le false spagnole di boulevard de Clichy, se ne stavano raggomitolate in un angolo, cercando di riscaldarsi con delle tazze di vino caldo. Si rifiutavano di tornare nel loro alloggio, in rue Constance, dove l’acqua gelava nelle brocche. Toulouse-Lautrec era perfettamente a suo agio. Uscì per chiamare Gabrielle che entrò nel locale col suo secchio d’acqua. Le offrì del vino caldo che lei accettò e le parlò di suo padre, «uno scapestrato più scapestrato di lui». Il vecchio gentiluomo non era forse venuto a Parigi, dal suo castello semidiroccato che stava a seicentocinquanta chilometri dalla capitale, a cavallo di una giumenta e senza un soldo in tasca? La notte dormiva sulla paglia accanto alla sua cavalcatura, di cui beveva il latte quando ne aveva. Raccontandomi questa storia, Gabrielle aggiungeva: «La gente allora aveva molto tempo da perdere... fatta eccezione per il padrone che dipingeva di continuo!». Mi disse anche: «Toulouse-Lautrec era beneducato; salutava sempre la moglie dell’oste togliendosi il cappello. Era pulito. Camicia bianca bene inamidata; qualche volta senza cravatta. Quando ne portava una, era nera. Un uomo curato, allegro e di piacevole compagnia. Dapprima la gente si faceva beffe di lui e lo chiamava “culo basso”. Lui se ne infischiava. Poi, si erano abituati. Ci si abitua a tutto. Tuo padre diceva: “Non si nota”».

Il mio tentativo di darvi un’idea delle persone che circondavano Renoir all’epoca della mia nascita sarebbe incompleto se non vi presentassi la famiglia Mathieu e i suoi componenti difficili da classificare. Posso dire che erano degli aristocratici del proletariato parigino. Il signor Mathieu esercitava il mestiere di terrazziere. Era un bell’uomo di una cinquantina d’anni, piuttosto alto e corpulento, con un viso pieno, ornato da un magnifico paio di baffi. Portava stupendamente l’abbigliamento tipico del suo mestiere: pantaloni ampi di velluto e cintura di flanella rossa. La moglie, di nome Yvonne, faceva la lavandaia e aiutava le famiglie del vicinato in ogni specie di lavori casalinghi. Anche lei era di bell’aspetto. Rivedo nitidamente la sua espressione acuta, accentuata dal naso a punta e dagli occhi neri penetranti sotto una capigliatura scura che cominciava appena a incanutire. Avevano diverse figlie e un figlio. Mi ricordo di Odette, quando si sposò. Era molto bella, ma mio padre non la fece posare mai perché ragionava troppo. «Dopo due sedute, mi avrebbe dato lezioni di pittura». Vollard la prese con sé perché gli pulisse l’appartamento «senza toccare i quadri». Mi ricordo anche di Raymonde, che faceva più intimamente parte della casa. Vedevamo meno spesso l’altra sorella, Yvonne, che era impiegata in un negozio, e il figlio Fernand, che era in Marina a Tolone e veniva raramente in licenza. La sua divisa non mi piaceva; mi sembrava che il berretto e il collo aperto abbassassero i marinai al rango di ragazzini. Ammirai in seguito Fernand quando sua sorella Odette mi raccontò le sue gesta acrobatiche. Prima di trasferirsi in rue Girardon avevano abitato in rue Ravignan, in una delle nuove costruzioni a sei piani lungo le scalinate. Dalla parte del declivio, la casa aveva dieci piani e loro abitavano sotto il tetto. Fernand passava da una finestra all’altra, passeggiando lungo le grondaie, penzolando appeso per i piedi e mettendo in subbuglio l’intero quartiere finché non interveniva una guardia. «La finite, sì o no, di fare l’acrobata?». «Ma io sto studiando. Voglio diventare davvero un acrobata». La guardia non sapeva che rispondere e tutta la famiglia, che non poteva soffrire i gendarmi, se la rideva sotto i baffi.

Il signor Mathieu lavorava di rado. Non andava d’accordo né con i padroni né con i sindacati. Prima di accettare un posto, prendeva un pugno di terra, la tastava, l’annusava e spesso concludeva: «Spiacente, signor imprenditore, ma io non lavoro con questa terra!». Quando per caso accettava, sua moglie Yvonne accoglieva la notizia come una catastrofe. Bisognava vederla, all’ora dell’intervallo, curva sotto il peso di un enorme paniere pieno di pasticci, carni fredde, bottiglie di vino, senza dimenticare l’acquavite per la digestione. Il signor Mathieu non mancava mai di affermare che il dovere di un lavoratore è quello di nutrirsi. La sua solenne ingenuità piaceva moltissimo a Renoir che faceva in modo di poter ascoltare, senza averne l’aria, le conversazioni che si svolgevano in cucina. Lasciando aperta la porta della sala da pranzo, dove spesso restava a dipingere, non ne perdeva una parola. Il vecchio Mathieu era particolarmente brillante nella descrizione indignata delle orge a cui si abbandonavano le suore di un certo convento insieme ai frati di un convento vicino che andavano a raggiungerle attraverso un sotterraneo. Parlava lentamente, con tono pomposo, e le sue storie acquistavano una specie di comicità involontaria. Aveva una risposta pronta per tutto. Alla moglie, che gli rimproverava di aver fatto un buco nella parete che divideva il loro alloggio da quello dei Vari e di aver mascherato quel buco con un pezzo di legno che staccava quando le ragazze Vari si spogliavano, rispose maestosamente: «Signora, io mi documento!». Alla figlia Odette, che prendeva lezioni di pianoforte e suonava Wagner disse: «Figlia mia, limitati a Gounod!». La figlia minore, Raymonde, piccola parigina dall’aria svelta e graziosa, aveva ereditato le sue maniere solenni. Ci avrebbe seguiti in molti dei nostri trasferimenti. Le sue osservazioni acide e d’altronde assolutamente banali, pronunciate con voce lenta, staccando le parole, suscitavano le pazze risate dei miei genitori. Lei non comprendeva affatto una simile reazione, convinta com’era che i suoi commenti fossero l’espressione della saggezza assoluta. In treno, a un elegante giovanotto che le offriva una sigaretta di lusso spiegandole che poteva fumare solo le Abdullah, rispose: «Fareste meglio a lavarvi i piedi». A una cameriera di Nizza, molto elegante e che si vantava di seguire un regime: «Mangiate come un uccello ma cacate come un cammello». A un calvo troppo galante: «Grazie, non gioco a biliardo». A un ubriaco che vomitava: «Non gettatene più, il cortile è pieno». Del padre diceva: «È un grande artista, un violinista di prim’ordine, ma per disgrazia non ha mai saputo reggere l’archetto a causa del suo dito mozzo!». Quel dito perduto quand’era bambino conferiva al signor Mathieu una grande importanza. «Voltaire fu davvero grande quando divenne impotente». E attendeva fiducioso che la mano gli si paralizzasse del tutto per eguagliare Voltaire. Il signor Mathieu era al tempo stesso antimilitarista e antitedesco. Diceva a mio padre: «Il vostro Wagner vi giocherà un brutto tiro». Affermava che i tedeschi erano tutti omosessuali. «Se le mie figlie vorranno andare in Germania, avranno l’autorizzazione paterna; ma mio figlio Fernand mai!». Spiegava che re Federico II aveva imposto la pederastia a tutti i prussiani. In caso di guerra, il signor Mathieu sapeva come si potevano fermare le «orde teutoniche» alla frontiera: «Opporremo loro la barriera della nostra dignità». La famiglia Mathieu piaceva a mio padre, probabilmente perché rappresentava abbastanza bene il popolino di Parigi, così abile nel mascherare le ristrettezze di una vita difficile con la ricchezza del vocabolario. Renoir diceva: «La loro fierezza non è simulata. Se sapessero curvare la schiena, forse sarebbero ricchi».

Nel 1895, all’inizio dell’anno, mentre si trovava nel Midi dov’era andato a dipingere con Cézanne, Renoir apprese la notizia della morte di Berthe Morisot. Fu un brutto colpo per lui. Di tutti i compagni di lotta degli inizi, era il pittore con cui aveva mantenuto le relazioni più strette. Nella vita dei grandi creatori si cercano sempre i momenti essenziali. Quella perdita fu, per Renoir, uno di questi momenti. «All’inizio eravamo un gruppo. Ci stringevamo gli uni agli altri, ci facevamo coraggio. E poi, un bel giorno, più nessuno! Gli altri se ne sono andati. Una cosa che dà le vertigini!». Non era solo la morte a disperdere gli impressionisti. I loro gusti diversi avevano lentamente diradato i loro incontri. Il Mediterraneo attirava sempre più Renoir. Monet non lasciava più la Normandia. Pissarro trascorreva molto tempo a Éragny nell’Oise, dove si dedicava all’incisione con il figlio Lucien, e quando tornava a Parigi le mostre lo tenevano troppo occupato perché avesse il tempo di arrampicarsi fino allo Château des Brouillards. C’era andato una volta, prima della mia nascita, e aveva trascorso parte della giornata con mia madre. Attraversava un periodo difficile ma evitava di parlarne. Mia madre diceva di lui: «Era davvero elegante!». La intrattenne invece a lungo sulle sue ricerche tecniche, su Seurat e sul puntinismo. Sisley rimaneva fedele alla foresta della loro giovinezza e dipingeva a Moret, a dieci chilometri da Fontainebleau. Il suo stato di salute era precario. Degas teneva il broncio a Renoir, rimproverandogli gli scherzi a proposito del suo antisemitismo. Quanto a Cézanne, non aveva mai fatto completamente parte degli «intransigenti» dell’epoca eroica. L’amicizia profonda che lo univa a Renoir era fondata su altre basi che cercherò di spiegare.

Quando Renoir ricevette il telegramma di mia madre che gli comunicava la morte di Berthe Morisot, stava lavorando con Cézanne allo stesso soggetto, piuttosto lontano in mezzo alla campagna. Ripiegò la sua roba e corse alla stazione senza neppure ripassare dal Jas de Bouffan. «Mi pareva di essere solo in un deserto. Mi ripresi in treno pensando a tua madre, a Pierre e a te. In certi momenti, è una bella cosa essere sposati e avere dei figli». Prima di morire Berthe Morisot aveva chiesto che mio padre si occupasse della figlia Julie, che aveva allora diciassette anni, e delle nipoti Jeannie e Paule Gobillard. Quest’ultima, un po’ più anziana, prese in mano le redini di casa Manet, come i miei genitori chiamavano il palazzo al numero 40 di rue de Villejust. Jeannie avrebbe sposato Paul Valéry, da cui il nuovo nome della via. Paule, tutta presa dalle sue responsabilità di sorella maggiore, non si sposò. Julie, anch’essa pittrice, avrebbe sposato il pittore Rouart. L’ambiente dei Manet, all’epoca di Berthe Morisot, era stato un autentico centro della civiltà parigina. Mio padre che, invecchiando, diffidava come della peste degli ambienti artistici e letterari, amava di tanto in tanto trascorrere un’ora in rue de Villejust. In casa di Berthe Morisot non si incontravano intellettuali, ma semplicemente persone di piacevole compagnia. Uno degli assidui frequentatori della casa era Mallarmé. Berthe Morisot era una calamita di un tipo particolare; attirava solo ciò che aveva valore; aveva il dono di smussare gli angoli. «Accanto a lei, persino Degas diventava gentile». Le «piccole Manet» continuarono la tradizione. L’ingresso in famiglia prima di Rouart e quindi di Valéry non fece che rafforzarla. Quando vado a fare visita alle mie vecchie amiche, ho la sensazione di respirare un’aria più fine, come se in casa loro si fosse attardata una corrente di quella brezza che soffiava nel salotto di Manet, un residuo di quel vento del Parnaso che rinfrescava l’Agorà.

Mia madre ebbe l’idea di far conoscere le «piccole Manet» a Jeanne Baudot. Fu l’inizio di un’amicizia eterna, e data la loro fede in un’esistenza futura posso permettermi di usare questo aggettivo. Paule Gobillard non è più fra noi e la mia madrina Jeanne è morta di recente nella casa di Louveciennes, che mio padre aveva fatto acquistare dai suoi genitori. Fino all’ultimo istante guardò un Renoir che mi ritraeva all’età di sei anni. Ognuno dei quadri che ha dipinto è un affettuoso omaggio a Renoir, unico amore della sua vita. I rapporti fra mio padre e la mia madrina sono sempre rimasti su un piano puramente spirituale, come d’altronde quelli fra lui e Berthe Morisot. Invecchiando, a Renoir era stato concesso di godere sempre di più del dono dell’amicizia femminile. Partiva per un viaggio con Jeanne Baudot; dormivano in alberghi di villaggio, quando pioveva troppo si rifugiavano in qualche fattoria; ridevano molto; dipingevano continuamente; divoravano i cibi campagnoli. Quando, bambino esigente, gliene lasciavo la possibilità, anche mia madre si univa a loro. Dopo la morte di Berthe Morisot portò le piccole Manet a Essoyes. A Tréboul, nei pressi di Douarnenez, dove andammo tutti insieme a passare la seconda estate della mia vita, prese in affitto una vecchia casetta bretone che aveva una pozza d’acqua in mezzo alla cucina, «per le anatre d’inverno». C’era anche un buco nel muro per consentire a quegli animali di entrare e uscire. Ci si lavava al pozzo nel cortile e si cucinava nel grande focolare accanto alla pozza d’acqua. «Una mattina» mi raccontò Gabrielle «fummo svegliati da un gran baccano. Le donne di Tréboul si erano radunate lungo un sentiero che si affacciava sul mare in tempesta. Le loro voci superavano il frastuono delle onde. Urlavano imprecazioni selvagge in una lingua misteriosa, probabilmente le stesse dal tempo dei druidi. I loro uomini si erano imbarcati il giorno prima per Terranova, vacillanti, ubriachi fradici, appena in grado di trascinarsi fino alle barche». Altro racconto di Gabrielle: «Le ragazze andavano a pregare davanti alla statua di san Pietro portando con sé una chiave e domandando al Santo di dare loro un marito; se non le accontentava, tornavano e lo colpivano con la chiave. La statua era mutilata».

Julie Rouart e Jeannie Valéry mi parlano spesso di mio padre. Mi dicono quanto fosse allegro e come quella sua allegria fosse contagiosa. Ricordano l’ardore che metteva nella sua pittura, senza «complessi», senza «stati d’animo» almeno apparenti. Ecco come andavano le cose con Bazille, Monet, Berthe Morisot, Pissarro, Sisley e i suoi primi compagni di lavoro: uno di loro sceglieva un posto e piantava il cavalletto, gli altri lo seguivano. Il passante si fermava davanti a un gruppo di signori barbuti che, tutti intenti, lo sguardo fisso, la mente a mille miglia di distanza dalle contingenze materiali, depositavano sulle loro tele piccole macchie di colore. E spesso, ad accentuare la singolarità di quello spettacolo, una donna vestita di chiaro, Berthe Morisot, si univa al gruppo. La mia madrina Jeanne, non molto tempo fa, mi portò a visitare una radura nella foresta di Marly dove era stata a dipingere con Renoir. «Si fermava come per caso. Se cominciava a canticchiare, era segno che il luogo gli piaceva. Sistemava il cavalletto e io facevo altrettanto. Dopo qualche momento, dipingevamo come due pazzi furiosi».

Un’altra caratteristica dei rapporti fra Renoir e i suoi amici era una specie di comunione degli alloggi. Se desiderava dipingere in campagna, mio padre trovava del tutto naturale piombare in casa Gallimard in Normandia, da Berthe Morisot a Mézy o da Cézanne al Jas de Bouffan e di mettersi lì a dipingere. Da parte sua, lasciava volentieri il suo studio a Jeanne Baudot, che se ne serviva quando eravamo in viaggio. Prestava di continuo il suo appartamento agli amici.

Berthe Morisot fece un dono postumo a mio padre: Ambroise Vollard. Aveva intuito che quello strano personaggio era, nel suo genere, un genio e gliene aveva parlato. Era il 1895, prima che mio padre si recasse ad Aix. La morte di Berthe Morisot ritardò la visita del suo protetto, che si presentò allo Château des Brouillards in autunno. Ecco come egli descrive quell’avvenimento nel suo libro La Vie et l’œuvre de Pierre-Auguste Renoir: «Desideravo sapere chi avesse posato per un quadro di Manet da me posseduto. Era il ritratto di un uomo che campeggia in mezzo al Bois de Boulogne... Mi era stato detto: “Renoir dovrebbe sapere di chi si tratta”. Andai a trovare Renoir che abitava a Montmartre in una vecchia costruzione chiamata lo Château des Brouillards. Nel giardino, una bambinaia con l’aria da zingara mi aveva appena pregato di attendere indicandomi il corridoio della casa, quando sopraggiunse una giovane signora che aveva tutta la rotondità e la bonarietà di certi pastelli di Perroneau che raffigurano le dame borghesi dell’epoca di Luigi XV. Era la signora Renoir».

Ecco ora l’arrivo dello stesso Vollard allo Château des Brouillards raccontato da Gabrielle. Come avrete intuito, era lei la zingara del racconto precedente: «Mi trovavo con te in giardino. Tu giocavi a tirarmi i capelli. Un tipo alto e magro, con una barbetta, mi chiamò da sopra il recinto. Voleva parlare col padrone. Indossava un vestito piuttosto liso. Il volto assai bruno e il bianco degli occhi gli davano l’aria di uno zingaro, certamente di un selvaggio. Credetti si trattasse di un venditore di tappeti e gli dissi che non avevamo bisogno di nulla. In quel momento arrivò tua madre e lo fece entrare; aveva detto che veniva da parte di Berthe Morisot. Faceva talmente pena che gli offrì un pezzo di torta con le uvette e una tazza di tè. Poi scese giù Renoir, che stava lavorando con una delle piccole Lefèvre nello studio sotto il tetto». Mio padre rimase piacevolmente impressionato da un certo aspetto «fiacco» del nuovo arrivato. «Aveva l’andatura stanca di un generale cartaginese». Ancora di più lo impressionò il suo atteggiamento davanti alle tele che gli mostrò. «La gente ragiona, trova paragoni, tira fuori tutta la storia dell’arte prima di formulare un giudizio. Quel giovane stava davanti a un quadro come un cane da caccia davanti alla selvaggina». Mio padre sarebbe stato lieto di cedergli qualche tela, anche dopo che Vollard, con quella sua aria di finta innocenza che sarebbe divenuta celebre, gli ebbe confessato che non poteva pagarle. Ma temeva che l’arrivo di un simile rivale non sarebbe stato preso bene dal vecchio Durand.

«Sembrava che Vollard stesse sempre sonnecchiando; ma i suoi occhi brillavano dietro le palpebre semichiuse». A volte dormiva davvero, nel bel mezzo di una rappresentazione teatrale, di un grande pranzo, di una conversazione mondana o estetica. Per un mistero che non si è mai chiarito, appena stava per succedere o per venir detto qualcosa che lo interessava, si svegliava spalancando gli occhi e drizzando le orecchie. Aveva il genio di sconcertare l’avversario con delle domande idiote, per metà ingenue e metà combinate. A volte sbagliava bersaglio e provava il suo sistema con Renoir. «Ditemi, signor Renoir, a che servono i pantaloni sotto la gonna?...», alludendo a un nuovo accessorio di moda femminile che era l’argomento delle conversazioni delle modelle. «Servono per i cavalli!» rispondeva mio padre spazientito. E Vollard se ne stava zitto per dieci minuti. Cominciava tutte le sue frasi con «ditemi». Sedeva sempre sulla stessa poltrona, evitando di guardare la tela che desiderava. Bisogna dire che quella tattica era comune a tutti gli acquirenti di quadri. «Ditemi, signor Renoir, perché la Tour Eiffel è di ferro e non di pietra come la torre di Pisa?». Renoir non rispondeva. Vollard si riaddormentava e si risvegliava con un’altra domanda: «Ditemi, signor Renoir, perché in Svizzera non fanno le corse dei tori... con le loro vacche?...».

Per tornare a quel primo colloquio, mio padre ebbe la brillante idea di spingere Vollard a interessarsi a Cézanne, il quale, disgustato da Parigi, dalle mostre e dai critici, non lasciava quasi più Aix. «Ho quel tanto che mi basta per mangiare e me ne infischio di loro!». Renoir intuì che quell’Otello avrebbe potuto anticipare di vent’anni un trionfo inevitabile. Vollard naturalmente conosceva la pittura di Cézanne, ma è possibile che sia stato Renoir a fargliene capire il valore, «ineguagliato dalla fine dell’arte romanica». Durante queste conversazioni, mio padre dimenticava completamente che esisteva anche lui.

Mio fratello Pierre arrivava ogni sabato sera dal Sainte-Croix, indossando quell’uniforme che ancora non mi faceva un grande effetto. Aveva appena il tempo di abbracciarci e subito scompariva sulla scia delle figlie di Alexis, di Clovis Hugues, di Lefèvre o di Isembart. Qualche volta, la domenica, andavamo a Louveciennes. Dopo la morte del nonno, mia nonna viveva con la figlia Lisa e il genero Leray nella casa sulla strada per Saint-Germain. Con noi veniva anche mio padre, che si fermava davanti a ogni bottega, restava a fantasticare davanti alle cianfrusaglie dei bazar o si stupiva leggendo i nomi dei prodotti di bellezza affissi sulla vetrina dei barbieri. I cartelli pubblicitari che facevano appello senza pudore alla stupidità del pubblico – dai dentifrici che trasformavano i denti in perle alle tinture che ridavano ai capelli l’aspetto di quando avevano vent’anni – lo sprofondavano in una dolce ilarità. Ci raggiungeva dopo pochi passi e raccontava a mia madre quello che aveva visto. Quest’ultima e Bibon cercavano di approfittare del diversivo per poggiarmi a terra. «Le gambe ce le hai, usale». Ma io brontolavo, camminavo con una lentezza esasperante, mi facevo trascinare e alla fine dovevano decidersi a portarmi in braccio. Pierre, ignorando queste piccolezze, camminava qualche passo davanti a noi, commentando un verso di Racine a una giovane vicina che mia madre aveva invitato. A dodici anni, mio fratello maggiore già faceva colpo sulle ragazze con quella gravità sincera che forse fu alla base del suo talento di attore.

Di solito, per andare alla Gare Saint-Lazare, attraversavamo il Maquis, scendevamo per rue Caulaincourt e prendevamo per rue Amsterdam. Portavamo sempre con noi qualche formaggio comprato da Granger, un pasticcio di Bourbonneux oppure un’anguilla affumicata di Chatriot.

Appena arrivati, chiedevo alla zia Lisa di portarmi a vedere i conigli. Renoir saliva al primo piano e si perdeva in lunghe conversazioni con sua madre. Le raccontava i suoi viaggi e lei rimpiangeva di non conoscere l’Italia, la Spagna, l’Algeria e i paesi del Sud. L’Inghilterra non la attirava. «Troppo carbon fossile». Quando le pareva di aver atteso abbastanza, ricordava che era l’ora di pranzo battendo col bastone sul pavimento. Mi sembra ancora di sentire quei colpi regolari che più tardi avrei identificato con quelli che a teatro annunciano l’alzarsi del sipario, e mi capita di sognare l’azzurro profondo degli occhi di Marguerite Merlet, mia nonna.

La sera tornavamo a casa carichi di legumi e di frutta, dono di Lisa, orgogliosa del suo orto. Al ritorno prendevamo il treno a Marly, perché la strada era in discesa. Mia madre, infatti, restava senza fiato facilmente. La prima parte del viaggio andava bene, ma, arrivati a Parigi, la salita di rue Amsterdam diventava meno piacevole, e durante gli ultimi cento metri dell’assalto alla collina di Montmartre, mia madre, Gabrielle e Pierre erano presi da una gran voglia di buttare nel ruscello i doni di Lisa. Renoir mi prendeva spesso dalle braccia di Gabrielle e, poggiandomi sulla sua spalla, filava avanti. Quando gli altri arrivavano allo Château des Brouillards, mi trovavano seduto sulla panchina in giardino insieme a una vicina. Mio padre era scomparso nel suo studio e confrontava un vecchio disegno di Louveciennes con le sue impressioni della giornata.

Un bel pomeriggio di primavera Lisa venne ad annunciarci la morte della nonna. I miei genitori erano assenti. La notizia non mi commosse. Ridevo, felice di vedere la zia che ripeteva: «Non capisce, è troppo piccolo». La mia allegria le spezzava il cuore. Pronunciò perfino la parola «orfano». Gabrielle la calmò, ricordandole che ero soltanto il nipotino e, piena di compassione, le offrì una fetta di torta alle fragole che Yvonne Mathieu stava tirando fuori dal forno proprio in quel momento. Le tre donne si concessero quel piacere e, per mandare giù il boccone, Gabrielle andò in cantina a prendere una bottiglia di vino di Essoyes. Lisa aveva portato al fratello uno scialletto a fiori che era appartenuto a Marguerite Merlet. Mio padre si trovava a Bayreuth e si mordeva le unghie per l’impazienza di fronte ai Nibelunghi: «Non si ha il diritto di affliggere la gente fino a questo punto. Mi veniva voglia di urlare: basta con il genio!».

Mia madre era andata a Essoyes per trattare l’acquisto della casa vicino alla nostra. Quell’aggiunta avrebbe consentito di trasformare due locali al pianterreno in uno studio. Sognava di riuscire a trattenere il marito a Essoyes durante i mesi estivi, non a causa di un esagerato campanilismo, ma soltanto perché il cibo degli alberghi non era più adatto a Renoir. Forse intuiva anche che ormai per lui il tempo dei viaggi era finito. La calma serena che sempre più si sprigionava dai suoi quadri era un appello a una vita lontana da ogni agitazione fisica.

L’unica cosa che Renoir temeva, a Essoyes, era la presenza della suocera. «Una scocciatrice». Approvava incondizionatamente il suocero, di cui vi riferisco in poche parole la storia. Si era pressappoco nel 1865. Il signor Charigot era un vignaiolo che possedeva alcuni dei migliori vigneti del paese. Vendeva bene il suo vino, aveva una bella casa, lavorava molto ed era felice con la giovane moglie, che era bella, brava in cucina e teneva stupendamente la loro casa: una di quelle belle costruzioni con gli angoli in pietra da taglio e pavimenti di quercia lucidi come specchi, di cui la signora Charigot andava orgogliosa, ma che sarebbero stati la sua rovina. Passava ore intere a lustrarli. La sera, quando il marito, di ritorno dai vigneti, lasciava impronte di fango su quella superficie immacolata, lei provava una fitta al cuore. Un giorno glielo disse, con tutta la gentilezza possibile. Il marito sfregò le scarpe sulla grande lastra di pietra che formava la soglia di casa e andò a mettersi le pantofole. L’indomani lei gli fece la stessa osservazione e così pure il giorno dopo. La cosa durò per un certo tempo. Lui pazientava davanti alla piccola Aline, ancora neonata, che sorrideva senza capire. Un giorno che le sue scarpe erano più infangate del solito, non aspettò neppure il rimprovero di mia nonna. Disse che si era dimenticato di comprare il tabacco e tornò indietro. Non si fermò finché non ebbe messo l’oceano Atlantico fra lui e la moglie. I miei cugini americani sono i suoi pronipoti.

Il signor Charigot dissodò terre e costruì una delle prime fattorie nella Valle del Fiume Rosso, nel Nord Dakota. All’infuori di lui e di un padre gesuita, gli unici abitanti del luogo erano degli indiani. Tornò in patria nel 1870 per combattere contro i prussiani, fu ferito e se ne ritornò nel paese di cui poteva a buon diritto considerarsi uno dei pionieri. Mia nonna vendette la grande casa e andò a Parigi con la sua bambina. Il nonno si risposò con una ragazza di origine canadese.

Un giorno mio cugino Eugène, venuto a trascorrere l’estate a Essoyes, fu preso da un accesso di galanteria e propose alla nonna Mélie di sistemarle un mucchio di legna consegnato poco prima da un boscaiolo. Lui, che in tutta la vita non aveva mai portato neppure un pacchetto, si mise ad accatastare i ciocchi sotto lo sguardo critico della vecchia signora. A un tratto questa gli disse: «Quel mucchio è fatto molto male, state mettendo i pezzi grossi insieme a quelli piccoli». «Avete ragione» rispose calmo Eugène. Aprì le braccia, lasciò cadere il carico e se ne tornò in casa a fare un sonnellino. Questo breve aneddoto completa lo schizzo della gentile ma insopportabile signora Charigot.

Ecco due lettere scritte da mia madre a mio padre. Non mi ricordo più di Quiqui, ma me ne parlarono molto spesso. Sembra che fosse un perfetto bastardo di fox-terrier e un ammirevole mascalzone, certamente non il grazioso piccolo pechinese della Colazione dei canottieri.

Mio caro,

Quiqui è morto. Ha avuto delle convulsioni che gli sono durate circa mezz’ora. Sono molto addolorata. Credo di portare sfortuna agli animali. Penso di farlo impagliare. Ne parlerò a Lestringuez. Mi costerà trentacinque franchi. Ti bacio.

Aline

 

 

Mercoledì sera

 

Mio caro,

l’apertura nel tuo studio non è ancora stata fatta. Gli operai dovevano venire lunedì ma era giorno di nozze. Martedì era festa. Oggi ha piovuto sempre e ora aspettano che il tempo si rimetta. Spero però che tutto sia finito per quando tornerai. Ho mostrato il disegno del tuo letto al signor Charles. Lo farà al tuo ritorno. Ha da farti qualche osservazione in proposito. Sai che ha la testa dura. Non so che cosa ci trovi di troppo alto. Vi metterete d’accordo voi due.

Non so se il denaro basterà per arrivare alla fine del mese, perché devo comprare dell’altra tela. Ne manca per fare i tendoni dalla parte della vetrata più grande, dove entra più sole; verso ovest, credo. Il signor Charles non aveva capito che bisognava metterli là. Non è così che gli avevi detto di fare? Le tende di calicot da un lato della trave e quelle di tela dall’altra parte.

Potrei comprare appena la quantità necessaria. Ho trovato un negoziante che ne vende al dettaglio; siccome ho già speso quaranta franchi per te ho paura di non avere denaro sufficiente per comprare la tela. Se non vieni prima della fine del mese, ti prego di mandarmene.

Dimmi, mio povero caro, se a Dieppe soffri il freddo. A Parigi si gela.

Lavori molto? Finirai presto i ritratti? Com’è lungo un mese! Il nostro viaggio di quest’inverno mi è sembrato più breve di queste due ultime settimane.

Scrivimi a lungo e dammi notizie sulla tua salute.

Ti bacio.

Aline

Il «viaggio di quest’inverno» deve essere quello a Beaulieu-sur-Mer, durante il quale ebbe luogo l’incidente dei carciofi che ho raccontato prima.

 

 

Renoir era contrario a qualsiasi tentativo d’insegnamento nei confronti dei bambini. Voleva che fossero loro stessi a stabilire i loro primi contatti con il mondo. Tollerava a malapena che si mettesse dell’aloe sul pollice dei piccoli, ma non era affatto sicuro che non si trattasse di un abuso di potere. Del resto si contraddiceva insistendo sul tipo di colori e di oggetti che dovevano circondare il bambino. Le sue raccomandazioni non avevano nulla di teorico. Si sarebbe opposto a un ambiente «artistico». Quello che voleva intorno a noi erano buoni e onesti oggetti comuni, possibilmente non fabbricati meccanicamente. Una simile condizione, ai giorni nostri, costituirebbe un lusso proibitivo. Voleva che gli occhi dei neonati si posassero su camicette chiare di donne, su dei muri allegri e non monotoni, su dei fiori, dei frutti, e sul viso di una mamma in buona salute. Tuttavia disapprovava l’usanza di certe contrade meridionali in cui si appendono oggetti brillanti sull’orlo delle culle, perché pensava che, essendo troppo vicini, quegli oggetti avrebbero potuto farli diventare strabici. Era contrario alle scosse, ai contrasti violenti, alla luce artificiale troppo forte vicino agli occhi, o al buio assoluto. Nelle nostre camere c’erano sempre dei lumi da notte. Temeva i rumori troppo forti, gli spari, accusandoli di diminuire la sensibilità dell’udito. Ma il nemico numero uno era, per Renoir, l’allattamento artificiale. «Non solo perché il latte delle donne è stato inventato apposta per i loro figli, ma perché occorre che il neonato affondi il naso nel seno della madre, lo annusi e lo palpi con la sua manina». Era convinto che i bambini allevati col biberon sarebbero diventati uomini a cui «manca il senso della dolcezza, solitari che avranno bisogno di droghe per calmare i nervi, o, peggio ancora, bestie feroci sempre pronte a credere che le si voglia assalire». Insisteva sul bisogno che hanno i neonati di una protezione animale, di un calore proveniente da una specie di materasso vivente. «Privandoli di questo, prepariamo generazioni di psicopatici». Una madre che non allattava suo figlio meritava, secondo lui, i peggiori castighi. Un giorno disse di una di queste che era «peggio di una puttana», ma subito si riprese ricordando di aver conosciuto puttane assolutamente rispettabili e piene di affetto per il loro bambino.

Altra regola di Renoir riguardante l’educazione dei bambini più grandicelli: non lasciare mai mobili con spigoli acuti all’altezza della loro testa. La prima cosa che faceva entrando in una nuova abitazione era quella di spezzare gli angoli delle lastre di marmo dei caminetti a colpi di martello. Poi li arrotondava con carta vetrata. Faceva questo lavoro molto bene. Gli angoli dei tavoli subivano la stessa sorte con l’unica differenza che per quelli usava la sega. Proibiva che si desse la cera per terra e faceva lavare il pavimento con molta acqua. Odiava le vasche da bagno in porcellana verniciata: «Ci si muove come su una buccia d’arancia e ci si spacca la testa». Sceglieva lui stesso i nostri spazzolini da denti e li voleva molto morbidi perché non ci rovinassero lo smalto. Ogni ferita, ogni colpo inflitto a un corpo umano era per lui una diminuzione tale da distruggere il valore di quel corpo e anche dello spirito. Credeva infatti che il corpo e lo spirito fossero intimamente legati. Raccomandava sempre di non lasciare fra le mani dei bambini aghi, coltelli, fiammiferi o pezzi di vetro e di coprire con un’assicella la parte inferiore delle porte a vetri. In casa l’uso della candeggina era proibito. Per giustificare una simile decisione con la signora Mathieu, che pensava fosse una misura retrograda, Gabrielle le raccontò una storia che mi procurò incubi atroci. Un operaio della segheria di Essoyes, tornato a casa con qualche bicchiere in corpo, e desideroso di bere un altro goccio, si era attaccato alla prima bottiglia che aveva trovato e si era accorto troppo tardi che non si trattava di vino, ma di candeggina. Era morto fra sofferenze terribili, «vomitando le viscere da tutte le parti». Dovevano essere esclusi dalla nostra cucina anche i più innocenti prodotti per la pulizia o medicinali: lucido da scarpe Lion Noir, catrame di carbon fossile in saponette Le Boeuf, sublimato corrosivo, acqua di rame detta «Brillant Belge». Per la pulizia degli utensili di rame Renoir consigliava la cenere dei nostri caminetti in cui si bruciava solo legna, ma la signora Mathieu e Gabrielle la pensavano diversamente e dicevano che la cenere non fa brillare a dovere. Gli utensili di smalto erano anch’essi proscritti dalla preparazione dei cibi; mio padre raccontava un episodio a proposito di quegli oggetti: faceva colazione con Gallimard in un grande albergo di Nizza e aveva ordinato uova al tegame. Sentì a un tratto qualcosa di duro in bocca. Era un pezzetto di smalto della grandezza di una moneta da cento soldi e sottile come la lama di un rasoio. Un bambino, meno prudente di una persona adulta, avrebbe potuto inghiottirlo correndo il rischio di una perforazione intestinale. Il cameriere prese delicatamente fra le dita il corpo del reato e disse: «Ci capita di continuo. Lo smalto dei nostri piatti non regge. Dobbiamo essere incappati in una serie scadente».

Solo quando ebbi tre anni permise a Gabrielle di accompagnarmi al teatro delle marionette. Sconsigliò quello degli Champs-Élysées, i cui personaggi, vestiti con sete dai colori troppo violenti, gli davano fastidio, e ci mandò a quello delle Tuileries, rimasto fedele alla buona tradizione lionese. La prima rappresentazione a cui assistei fu un’esperienza che non dimenticherò mai. Il sipario, tradizionalmente dipinto ad imitazione di un tendaggio rosso e oro, mi ipnotizzava. Quali terribili misteri avrebbe svelato? L’orchestra consisteva in una fisarmonica il cui suono stridente rendeva l’attesa ancora più insopportabile. Quando il sipario si alzò, scoprendo una pubblica piazza, non riuscii a trattenermi e mi feci la pipì nei pantaloni. Devo essere sincero e ammettere che questo criterio mi serve ancora a valutare le qualità drammatiche di un inizio. Non dico di arrivare al punto di farlo, ma ne sento un certo desiderio, per fortuna controllabile, che è come una piccola voce interiore che mi dice: «Attento, ecco un grande inizio». Confessai a mio padre questa debolezza e lui mi rispose: «Succede anche a me!». Provammo insieme quella sensazione deliziosa alla rappresentazione di Petruška.

A Renoir piaceva il teatro dei burattini lionese perché era rimasto fedele alle sue origini. Sappiamo che non credeva alla tradizione che si insegna nelle scuole e che di tradizionale ha solo il nome; ma apprezzava la solidità degli insegnamenti basati sulle risorse e sui costumi di una regione. Le scene del teatro lionese dei burattini, che rappresentavano le rive della Saône con le loro case tristi, piatte, dalle finestre simili a buchi, monotone, senza sculture né cornici, e i suoi personaggi dai costumi grigio scuro o marrone come il cielo di Lione: Guignol con il suo bicorno e il nastro nei capelli, e Gnafron con il suo berretto di pelliccia, gli sembrava formassero uno spettacolo degno di un bambino, cosa che, nella sua bocca, non era un complimento da poco. Spesso gli amici a cui racconto i miei ricordi mi fanno notare che una simile educazione non avrebbe potuto preparare un bambino alla lotta per la vita. Hanno ragione, ma mio padre non ci teneva a fare di noi dei lottatori. I miei genitori ci armarono contro le avversità insegnandoci a fare a meno del lusso materiale e anche delle comodità. «Il segreto consiste nell’avere pochi bisogni». I miei fratelli ed io avremmo potuto vivere di zuppa di cavoli in una baracca e saremmo stati perfettamente felici. Non poteva non piacerci «tutto ciò che si mangia normalmente». Se uno di noi rifiutava un piatto di fagioli, poteva stare sicuro che avrebbe trovato a ogni pasto nient’altro che fagioli, finché non avesse accettato di mangiarli di buon grado. Questa severità non era motivata solo dal desiderio di renderci più facile l’esistenza, ma anche dalla convinzione di Renoir che una delle caratteristiche della cattiva educazione è quella di mostrarsi difficili a tavola. Avrebbe accettato probabilmente l’idea di vederci diventare dei mendicanti, ma a nessun costo dei villani.

Avevamo di quelle lampade a olio che un bambino può far cadere senza rischio d’incendio. Erano assai complicate. Il loro funzionamento dipendeva da una pompetta che bisognava schiacciare di continuo. La luce che emanava era molto tenue, e ciò soddisfaceva Renoir, sempre desideroso di preservare gli occhi dei figli e i propri. Solo quando raggiunsi l’età della ragione passammo alle lampade a petrolio. Quando mio fratello Claude arrivò a quell’età insopportabile, ormai avevamo l’elettricità. «Con un buon paralume che impedisce di avere la luce diretta negli occhi, è ancora ciò che c’è di più sicuro». Vi ho già detto che, quando mio fratello Pierre era piccolo, mio padre e mia madre andavano a vederlo dormire durante gli intervalli degli spettacoli a cui assistevano. Quando si trasferirono in rue La Rochefoucauld semplificarono le cose del tutto non uscendo più la sera. Abbandonarono quest’abitudine solo quando diventai abbastanza grande da poterci andare con loro.

Mia madre non metteva mai profumi. Non le piaceva e poi «falsa l’odorato, proprio come il carbon fossile e le fughe di gas». Al minimo sospetto di odore, tutti si precipitavano ad aprire le finestre. L’acqua di Colonia, invece, non solo era tollerata ma raccomandata; in Francia non è considerata un profumo, ma una lozione. La mattina, dopo il bagno, mia madre mi frizionava energicamente, facendomi diventare tutto rosso. Un altro articolo bandito da casa erano le candele steariche, che danno una luce «volgare». Le nostre candele erano di cera. Citerò ancora, in questo mio racconto, alcuni esempi della prudenza di Renoir. Eccone uno: non usare mai quei fiammiferi che si possono accendere su qualsiasi superficie rugosa, perché la salute degli operai che li fabbricano è gravemente compromessa dai vapori che ne esalano. Pretendere i fiammiferi detti amorfi, la cui fabbricazione è meno dannosa.

Già sappiamo che qualsiasi ferita inflitta al corpo umano era da lui considerata un sacrilegio. L’uso del rasoio, che rischia di far uscire il sangue, lo spaventava, e non avrebbe mai tollerato che mia madre lo usasse per depilarsi le gambe. Accettava a malapena il mento ben rasato di mio fratello Pierre.

Consigliava di non esporsi mai al sole senza cappello. Non temeva tanto le insolazioni quanto l’azione potente della luce sul cervelletto. «Soprattutto ora, con questa stupida moda dei capelli corti!». Situava nella parte posteriore del cranio la sede della percezione e della valutazione delle sfumature. Esponendo quella zona delicata ai raggi ultravioletti, si rischiava di perdere non la facoltà di accumulare le conoscenze, ma quella più importante di distinguere un grigio da un altro grigio, oppure un suono da un altro suono. «Vadano pure a testa nuda quelli che vogliono essere un Michelet o un Pasteur, ma, se vogliono essere un Rubens, è meglio che si mettano un cappello». Era contrario agli occhiali scuri, che falsano l’equilibrio dei colori della natura. Si indignava al pensiero che la gente potesse guardare i quadri attraverso delle lenti di protezione.

Erano naturalmente bandite le stufe a fuoco lento e continuo, tipo Salamandre o Choubersky, tanto più che intorno a noi erano capitate due disgrazie provocate da questi apparecchi: la signora Zola e mia zia Mélanie, moglie di Edmond Renoir. «L’avevano trovata la mattina nel suo letto, morta e tutta livida» raccontava Gabrielle.

Non ho ancora finito di parlare delle cose che piacevano e di quelle che non piacevano a mio padre. Ma se non lo faccio io, chi potrà farlo? E forse gli uomini del futuro si interesseranno di più a questi particolari che non agli avvenimenti che oggi vengono considerati importanti. Sarei davvero felice se qualcuno mi dicesse che cosa mangiava lo Scriba accovacciato, mentre non mi interessa affatto conoscere l’elenco delle vittorie di Ramsete II.

L’appartamento di rue La Rochefoucauld era al quarto piano, all’angolo con rue La Bruyère. Quando sono a Parigi, passo di lì quasi tutti i giorni. Alzo la testa e guardo il grande balcone che si affaccia sulle due strade, e che era il mio regno. Mio padre, per paura che potessi scavalcarlo, lo aveva rialzato con una rete da pollaio. Avevo la mania di arrampicarmi. Renoir non aveva avuto il tempo di far ridipingere le pareti in grigio chiaro, e conservo ancora l’immagine di quei rivestimenti in legno scuro. Sulle pareti i quadri si toccavano. Il visitatore aveva l’impressione di entrare in un giardino dai colori smaglianti in cui le piante si alternavano a volti e corpi. Per me, questo era il mondo normale e la sensazione di trovarmi in un’atmosfera fantastica la provavo quando andavo in visita nelle case degli altri.

Queste incursioni fuori dalle nostre frontiere avvenivano sotto la guida di mia madre. Mio padre se ne stava nel suo studio, situato a qualche centinaio di metri dall’appartamento. Gabrielle, entrata ormai per sempre a far parte della nostra vita, si occupava delle faccende di casa. Io continuavo a chiamarla Bibon. Ancora non posava nuda e non entrava nello studio senza di me, sia che figurassimo nello stesso quadro, sia la sera quando andavamo a chiamare mio padre. Scendevamo poi insieme per rue La Rochefoucauld e ogni volta costringevo i miei due compagni a fermarsi davanti al commissariato di polizia. Le uniformi degli agenti mi impressionavano e da adulto sognavo di dedicarmi a quel mestiere. Arrivati a casa, Renoir faceva una capatina in cucina, una bella stanza luminosa che dava a sud su rue La Bruyère. Non volle mai abitare in un appartamento che non avesse una cucina «allegra». Durante la giornata, le donne di servizio o le modelle occupavano tutte le altre stanze. Mia madre dirigeva i lavori, rammaricandosi molto di non poter fare tutto da sé. Ma si stancava presto. Avremmo saputo in seguito il motivo di quegli accessi di debolezza: aveva il diabete. L’insulina non esisteva ancora.

Il mio passatempo preferito, al di fuori delle ore passate nella piazza alberata della Trinité sotto la sorveglianza di Bibon, era quello di cacciarmi fra i piedi di tutti. La cuoca era ancora la signora Mathieu, che non cessava di ripetere che alla mia età suo figlio Fernand andava a scuola da molto tempo, anche se purtroppo era stata costretta a mandarlo dai frati, gli unici disposti a occuparsi dei bambini non ancora in età da frequentare le scuole comunali. La sera, quando tornava a casa, suo padre non mancava di metterlo in guardia contro le menzogne dei preti. «Se ti dicono che la terra è quadrata, fa come Galileo, taci e pensala come ti pare!». Nonostante i ripetuti consigli della signora Mathieu, mio padre si rifiutava di lasciarmi imparare qualsiasi cosa. «Non prima che abbia dieci anni. Si rimetterà in pari in pochi mesi». Per un motivo di ordine pratico, e cioè la nascita di mio fratello Claude, abbassò per me quel limite a sette anni. Del resto, estendeva la sua teoria dell’individuo alle nazioni, ai secoli, e alle generazioni. Attribuiva la prosperità dell’America al fatto che gli americani erano i figli di poveri emigranti e che avevano dietro di sé intere generazioni di antenati analfabeti. «Il risultato, ora che hanno delle scuole e che dissodano quelle terre vergini, è sorprendente. Ma i loro pronipoti, dopo due generazioni di genitori istruiti, saranno istupiditi come noi».

Non voleva che mi si tagliassero i capelli. Alcuni biografi di Renoir hanno attribuito il fatto che egli volesse mantenere intatta la mia chioma rossa al desiderio di dipingerla. È vero, ma a questa ragione se ne aggiungeva un’altra altrettanto forte. I capelli sono una protezione contro le cadute e gli urti, senza contare il pericolo del sole di cui ho parlato prima. «Se non lasciamo ai bambini le loro difese naturali, siamo costretti a chiedergli di fare attenzione, e questo è un modo nefasto di modellarne lo spirito, al pari dell’istruzione prematura». I bambini prodigio gli ispiravano un senso di pietà. «Dei poveri mostricciattoli!». Ne ammetteva soltanto uno: Mozart. «Aveva del genio, il che cambia tutto». Mia madre era pienamente d’accordo con lui sulle questioni relative alla salute, come sul fatto di lasciarmi fare pipì appena ne manifestavo l’intenzione. Perciò, anche in casa delle persone più sostenute, non esitavo a urlare: «Mamma... Bibon... pipì!». Le signore sorridevano con aria di disapprovazione, cosa di cui mia madre si infischiava nel modo più assoluto. Il dottor Baudot, padre della mia madrina, approvava. Mia madre era invece meno d’accordo quando, alla scampanellata di Vollard, mi precipitavo alla porta e annunciavo il visitatore al grido di: «Mamma, c’è lo scimmione!»; oppure: «Mamma, c’è il negro!». Forse avevo sentito Degas che, odiando i «meteci» e dubitando della purezza di origini di Vollard, lo indicava a quel modo. Mio padre diceva a mia madre: «Se gli proibiamo di chiamare negro Vollard, Jean crederà che un negro sia un essere inferiore, il che sarebbe idiota». Aveva una gran paura che valutazioni arbitrarie mi inducessero a stabilire una scala di valori. Mia madre pensava che una buona sculacciata avrebbe chiarito una situazione tanto più falsa in quanto io adoravo Vollard. Ricordo un giorno in cui lo avevo chiamato scimmione. Se ne stava in piedi, avvilito, davanti a mia madre e ripeteva: «Ditemi, signora Renoir, sono davvero così brutto?». Era questa la tragedia di Vollard. Quell’uomo straordinario voleva essere bello. Lo era, infatti, ma la sua bellezza si manifestava solo a un Renoir, a un Cézanne. La gente comune lo trovava strano. Otello in giacca stupirebbe l’uomo della strada. La situazione finì col chiarirsi da sola perché Vollard capì che il mio affetto era sincero e che le mie esclamazioni non avevano niente di insultante.

Certe mode spaventavano mio padre. Conosciamo il suo timore nei confronti dei corsetti e dei tacchi alti per le donne. Le sue descrizioni erano talmente drammatiche, che a lungo credetti che le ragazze alla moda non potessero camminare se non a prezzo di inenarrabili sofferenze. «Questo provoca per forza l’abbassamento della matrice» mi diceva, dimenticando la mia età. Avevo sei anni e il pensiero di quella matrice che scendeva giù a precipizio mi procurava degli incubi.

I soggiorni nel Midi si prolungavano, a poco a poco arrivarono a durare tutti i sei mesi freddi dell’anno. Renoir sapeva ora di aver bisogno degli ulivi d’argento della Provenza come, trentacinque anni prima, aveva avuto bisogno dei sottoboschi azzurrini di Fontainebleau. Mia madre organizzò senza scosse quel mutamento di esistenza. È così che, nato a Parigi, da bambino fui naturalizzato meridionale. Pierre rimase come collegiale al Sainte-Croix di Neuilly, che gli piaceva molto e dove i suoi insegnanti gli facevano fare teatro.

Dal momento in cui ci trasferimmo in rue La Rochefoucauld, posso parlare di mio padre in base ai miei ricordi diretti. L’uomo che la sera veniva a baciarmi quando ero già a letto è presente in maniera molto netta nella mia mente, e non ho più bisogno dei suoi ricordi o di quelli di amici per ricostruirne l’immagine. Quello che mi colpisce quando mi riporto all’epoca del risveglio della mia coscienza, è la certezza che mi è rimasta della immutabile solidità di Renoir. I suoi gesti avevano per me un carattere ineluttabile. Tutti i bambini credono che il proprio padre sia il centro del mondo. Ma io questo non lo credevo. Mio padre era troppo convinto lui stesso del fatto che ognuno abbia su questa terra il suo compito, né più né meno importante di quello del vicino, per non averci influenzato in tal senso. Ma ero consapevole che quello che lui faceva era esattamente ciò che doveva fare e che la sua funzione era esattamente quella per cui era stato creato. Il mio istinto di bambino mi diceva chiaramente che mio padre non aveva dubbi. Ed era vero. Più tardi me ne parlò. «Non sapevo se quel che facevo era buono o cattivo, ma avevo raggiunto il punto in cui me ne infischiavo completamente». Il «turacciolo» aveva trovato la corrente riservatagli dal destino. Fino a quel momento aveva fatto finta di accettare certi consigli, di subire delle influenze; ma presto, come sapete, tornava al proprio linguaggio. Spero di essere riuscito a spiegare che la sua debolezza era solo apparente e che, sotto quella superficie esitante, si nascondeva una volontà non ragionata, oso dire una volontà involontaria. «Ma questo mi faceva perdere del tempo». Da quando ha lasciato lo Château des Brouillards non dà più ascolto a nessuno. Non va nemmeno più a visitare i musei. Nonostante le affermazioni e le dichiarazioni contenute nella sua prefazione al libro di Cennino Cennini, non guarda più le opere degli antichi maestri. La sua tecnica si precisa, ed è soltanto sua. E più andrà avanti negli anni, più si allontanerà da tutto ciò che era stato fatto prima di lui. Se la sua pittura, soprattutto negli ultimi tempi, raggiunge quella dei grandi classici, se Renoir si unisce alla stirpe dei Tiziano, dei Rubens, dei Velázquez, è semplicemente perché appartiene alla loro stessa famiglia. Mio padre detesterebbe sentirsi dire questo; ma è trascorso abbastanza tempo dalla sua morte perché io possa dimenticare il pudore ipocrita che si ostenta nei confronti degli esseri che ci toccano da vicino.

Il Renoir al quale correvo ad aprire la porta appena ne sentivo il passo per le scale era dunque un Renoir che aveva trovato la sua strada, e vi procedeva con passo sicuro. Godeva di una perfetta salute, perché il clima caldo del Midi gli aveva cancellato qualsiasi traccia di bronchite. Aveva la mente più lucida che mai. Era sobrio, andava a letto presto, era felice con sua moglie, con i figli e con gli amici, e poteva dedicare un numero incredibile di ore alla ricerca di quell’unico segreto che per lui aveva importanza. Già molte nebbie si erano dissipate, molti schermi si erano allontanati, le rivelazioni si succedevano avvicinandolo al momento in cui avrebbe potuto dire a se stesso: «Penso che ci siamo!». Ma un incidente banale doveva compromettere il successo di quell’esplorazione.

Prima di cominciare a parlare dell’ultimo periodo, desidero ancora dilungarmi sull’esuberanza spirituale e fisica degli anni che lo precedettero. Riferirò ancora opinioni, sentimenti, particolari in apparenza insignificanti. E tenterò anche di far rivivere i principali frequentatori di rue La Rochefoucauld all’epoca in cui Renoir era nel pieno possesso delle sue capacità fisiche. Comincio con Paul Durand-Ruel, cioè col «vecchio» Durand. Questo appellativo era affettuoso, ma Bibon ed io non osavamo servircene in sua presenza. Lo descrivo com’è ancora nel mio ricordo: piccolo, in confronto a Faivre, che mi sembrava gigantesco, piuttosto grassottello, di carnagione rosea, una pelle alla Renoir, molto curato e pulito, vestito da «signore». Per molto tempo, quando leggevo un romanzo che si svolgeva in una casa di gente «per bene», mettevo il signor Durand-Ruel a capo di quella famiglia immaginaria. I suoi baffetti bianchi erano delicati come i suoi gesti. Sorrideva spesso. Non ricordo di averlo mai sentito alzare la voce. Quando gli aprivo la porta, mi intimidiva abbastanza per trattenermi dall’urlare: «Bibon, mamma, c’è il vecchio Durand!». Ma nonostante il mio rispetto, ero in confidenza con lui. Gli sussurravo dei segreti, come quello del garzone del macellaio che, venendo a portarci una bistecca, aveva cantato a Raymonde Mathieu che si trovava sola in cucina il seguente ritornello a quanto pare osceno: «C’est un p’tit bou-bou – C’est un p’tit boucher – qui vend d’la bibi – qui vend-d’la bidoche»,60 e aveva quindi cominciato a tirarsi giù i pantaloni. Raymonde aveva interrotto l’operazione menandogli un colpo con la scopa e ci aveva pregato di non riferire in giro un incidente che poteva nuocere alla sua reputazione. «Questione d’onore».

Joseph Durand-Ruel, il figlio, andava a genio a Renoir per la sua precisione. Suo padre aveva portato il commercio dei quadri dal campo della decorazione a uso di ricchi amatori, a quello della speculazione. Joseph e Georges, mio padrino, avrebbero ampliato, insieme ad altri grossi mercanti, la compravendita delle opere d’arte al punto da farne l’equivalente della borsa valori. Se ai giorni nostri i quadri sono quotati come azioni, con relativi alti e bassi, e questo a prescindere dalle preferenze del pubblico, lo dobbiamo in parte ai Durand-Ruel. È un bene o un male? Mio padre era contrario a una simile speculazione, pur riconoscendo che avrebbe arricchito i pittori. La sua diffidenza nei confronti del commercio in grande stile non toglieva nulla alla sua amicizia sincera per i figli di Durand. Pensava che gli uomini di valore dovessero camminare di pari passo con l’epoca in cui vivevano. È il loro destino. Ma, pur accettando l’azione dei moderni mercanti di quadri, Renoir non poteva fare a meno di ringraziare i Medici. «Non è più un quadro quello che ora si appende alla parete, ma un oggetto di valore. Perché non mettere in cornice un’azione di Suez?». Subito aggiungeva: «Però, quando mi trovo in viaggio e chiedo un anticipo al vecchio Durand, è una bella comodità!». E concludeva: «Le banche non sono certo una bella cosa, ma il mondo moderno è fatto così, e non se ne può più fare a meno. È come per le ferrovie, per le fognature, per il gas e per le operazioni di appendicite».

Mia madre avrebbe desiderato che Jeanne Baudot e Georges Durand-Ruel si sposassero e gli aveva chiesto, proprio per riunirli, di farmi rispettivamente da padrino e madrina. Facciamo ora un passo indietro, al mio battesimo nella chiesa di Saint-Pierre de Montmartre. Quel giorno, la mamma aveva nutrito qualche speranza. La giornata era stupenda. Le vesti chiare di mia madre e delle sue amiche spiccavano felicemente sul nero delle giacche. Gli ombrellini di pizzo si alternavano ai cappelli a cilindro. I panciotti scozzesi di Faivre e di Lestringuez apparivano timidi accanto ai cappelli delle piccole Hugues, enormi cesti coperti di uccelli impagliati e di fiori dai petali di seta. L’invitato che si notava maggiormente era il cugino Eugène in divisa della fanteria coloniale, con le medaglie che evocavano le sue campagne in paesi sconosciuti. Joséphine, la venditrice di pesce del Maquis, aveva dichiarato che era il più bel battesimo che avesse visto a Montmartre. Jeanne Baudot e Georges Durand-Ruel gettarono una tale quantità di confetti ai ragazzi che questi, rimpinzati, rinunciarono alle solite battaglie. Mio padre aveva fatto venire da Frontignan una botte di vino e Gabrielle, in giardino, serviva da bere a chi lo desiderava. Lui stesso era andato da Bourbonneux a ordinare i vol-au-vent e a scegliere le brioches da Mangin, «le uniche brioches di Parigi». Gli invitati erano i soliti amici, tutti i Caillebotte, compreso il fratello minore che era prete, Faivre, Lestringuez, il cugino Eugène, alcuni vicini, ecc... Lì per lì, la presenza dell’abate Caillebotte intimidì la compagnia; ma, dopo che egli ebbe raccontato la storia di una sua penitente che era andata da lui a chiedergli il permesso di spogliarsi per fare un bagno, tutti si sentirono a loro agio. Faivre voleva cambiare il suo vestito con la tonaca dell’abate. Mio fratello Pierre, di solito silenzioso, aveva bevuto un po’ di vino d’Essoyes e recitava la battaglia del Cid alle piccole vicine. Alla frutta, Faivre incominciò a raccontare una storia un po’ spinta e mio padre gli tirò un gran calcio sotto la tavola, per ricordargli la presenza di Jeanne Baudot: non tollerava le barzellette sudicie davanti alle fanciulle. La Fontaine, Boccaccio e la Regina di Navarra erano fra i suoi autori preferiti, ma pensava che le figlie dei suoi amici avevano tutto il tempo per scoprire quella letteratura e dovevano farlo da sole. Per precisare il suo pensiero, che credo di conoscere, temeva che il tono che i narratori si sentivano in obbligo di usare raccontando delle storielle libere desse alle giovani ascoltatrici l’idea sciocca dell’esistenza del «pornografico». C’era inoltre, in lui, un immenso rispetto per le opinioni e le usanze degli altri. Dato che i genitori disapprovavano quel genere di storie, non toccava a lui suggerire ai figli che la loro opinione era sbagliata. Le menti, un giorno o l’altro, si sarebbero liberate e Renoir le aiutava dipingendo i nudi più puri di tutta la storia dell’arte. Comunque sia, il suo atteggiamento rispettoso nei confronti delle donne mi fu spesso descritto dai suoi amici che lo definivano cavalleresco. «Renoir» diceva Rivière «avrebbe potuto vivere ai tempi delle corti d’amore».

Al termine del pranzo di battesimo gli invitati si sparsero sotto gli alberi dello Château des Brouillards e andarono ad ammirare una capra appena acquistata dal signor Griès che, nonostante il caldo, aveva in testa il suo solito berretto di pelo di coniglio. Al momento di prendere congedo, il mio padrino baciò «la sua comare», Jeanne Baudot. Mia madre lo fece notare a mio padre, che se ne rallegrò. Pochi giorni dopo, Georges Durand-Ruel invitò i miei genitori a pranzare in casa sua insieme a una signora che presentò come la sua compagna. Era un’americana che aveva incontrato negli Stati Uniti, dove andava spesso a rappresentare gli interessi della famiglia. I Durand-Ruel avrebbero perfino costruito, in seguito, un edificio per accogliervi la galleria d’esposizione sulla 57a strada. Mio padre e mia madre trovarono l’americana «perfetta» e rinunciarono ai loro progetti matrimoniali.

Il mio padrino mi viziava molto. Un giorno, in rue La Rochefoucauld, mi portò un pulcinella grande come me. Urlai di terrore. Non so perché odiassi tanto quel personaggio nella sua variante inglese di Punch; mi piaceva solo il pulcinella alla napoletana, con i vestiti bianchi troppo larghi. La mia passione erano «i soltati tell’impero», che era il mio modo di pronunciare «soldati dell’impero». Ne ebbi una gran quantità. Anche a mio padre piacevano molto. Preferiva quelli piccoli e sottili di stagno, fabbricati a Norimberga. Un suo amico gli disse che tutti quei soldati in miniatura rischiavano di farmi diventare militarista. Renoir rispose: «Allora dovrei proibire anche i giochi di costruzione, che rischiano di fare di Jean un architetto». Conosciamo le sue riserve nei confronti di questi professionisti. Fu molto peggio quando lo stesso amico si accorse che mio fratello Pierre giocava con un altare in miniatura fornito di tutti gli accessori per dire la messa. «Che cosa farai quando sarai grande?» chiese Renoir. «L’attore» rispose Pierre. Mio padre restò pensieroso e poi disse all’amico: «Forse avete ragione, attore o prete, è un po’ la stessa cosa!».

Sono debitore al mio padrino di grandi scoperte. Gli devo il mio primo fonografo, naturalmente a rulli. Girando un bottone si sostituiva la puntina con una lama che incideva i suoni emessi davanti alla tromba. Il regalo era accompagnato dagli auguri di buon anno del donatore, registrati da lui stesso. Quando sentii la sua voce uscire da quella macchina urlai entusiasta e misi in agitazione tutta la casa. Bibon dovette subito registrare la sua voce. Il cugino Eugène, testimone dell’esperimento, alzò le spalle e dichiarò che «il nasale» non era perfetto. Mio padre vide in quell’oggetto il simbolo di un grave pericolo che minacciava la nostra civiltà. «Aggiunto allo strepito delle automobili, questo strumento rischia di distruggere una grande ricchezza: il silenzio!». Dovetti più tardi al mio padrino, che aveva una proprietà nel Périgord, la scoperta dei tartufi, serviti non in miserevoli fettine come nei pasticci, ma interi come patate. Oltre a queste meravigliose rivelazioni, Georges Durand-Ruel mi parlava dell’America. Gli facevo ricominciare dieci volte la descrizione dei vagoni letto Pullman. Potete immaginare la mia fierezza quando gli aprivo la porta. Annunciavo a tutti, gonfio d’orgoglio: «Bibon, mamma, papà, c’è il mio padrino!».

Il dottor Baudot è per me inseparabile dal ricordo di Renoir. Indossava la redingote, portò a lungo il cappello detto tubo di stufa, abbandonandolo solo per l’homburg, una specie di via di mezzo tra il cilindro e la bombetta, perché quest’ultima gli sembrava frivola. Aveva il viso cosparso di macchioline rosse e i favoriti color sale e pepe. Il suo labbro inferiore mi sembrava piuttosto accentuato e di colore violaceo. Da un nastro nero gli pendeva l’occhialino, di cui si serviva di continuo per osservare le persone che incontrava. Sapeva diagnosticare in maniera eccellente e gli piaceva informarsi sulla salute del prossimo. Appena entrava in casa, mi issava su una grande cassa che serviva da panca nell’ingresso. Alla luce della finestra mi guardava gli occhi, mi tastava il polso e mi faceva tirare fuori la lingua. La sua conclusione era sempre la stessa: «Venti grammi di sale inglese». Per gli adulti, arrivava fino a trenta grammi. Questo rimedio innocente gli procurava lunghe discussioni con gli impiegati delle Ferrovie dell’Ovest, di cui sorvegliava la salute con occhio paterno. Lo pregavano di ordinare rimedi costosi, con belle etichette e nomi promettenti. Il sale inglese costava due soldi. Come si può avere fiducia in un rimedio da due soldi? Ma il dottor Baudot teneva duro e poi spiegava a mio padre: «Non hanno assolutamente nulla. I francesi godono in genere di un’ottima salute. Però mangiano troppo! Cibi abbondanti, aperitivi, e il bicchierino di cognac per digerire. Approvo; perché astenersi quando con un po’ di sale inglese ci si libera delle tossine?». Aveva uno studio immenso, con delle finestre che si affacciavano sulle vetrate della Gare Saint-Lazare, quella che Monet aveva dipinto trent’anni prima. Signori con giacche dai bottoni dorati e dal berretto gallonato venivano a parlare pieni di rispetto col dottor Baudot. Io non mi muovevo dal mio cantuccio.

A Natale, quando avevo mangiato troppi marrons glacés, mi facevano ingoiare il rimedio consigliato dal nostro amico in un bicchierone d’acqua tiepida. Una cosa ignobile. Poi, per far andar giù il sale inglese, trangugiavo un bicchiere di limonata, anch’essa tiepida. Credevo di stare molto male e giuravo di non mangiare più marrons glacés e, per qualche settimana, mantenevo la parola data. Il dottor Baudot era un ottimo medico e uno psicologo, ma mio padre non sembrava molto convinto della sua teoria di «rimpinzarsi e poi purgarsi». Era per la moderazione senza sale inglese, ma per non addolorare il buon dottore, fingeva di purgarsi regolarmente una volta al mese.

Un personaggio il cui arrivo metteva Renoir di buonumore era Gallimard. «Un vero francese del XVIII secolo». Mi sembra di aver capito che la sua fortuna provenisse dai terreni che la famiglia possedeva a Neuilly. Un suo nonno era stato proprietario di un vivaio, cosa che nella fantasia di mio padre evocava l’immagine di campi monotoni, interrotti regolarmente da file di intelaiature a vetri, «con il sole che ci batte sopra e si riflette negli occhi». Perciò accettava di buon grado che quel paesaggio odiato avesse lasciato il posto a «trianon in miniatura», abitati per la maggior parte da mantenute. Faceva una sola obiezione: «Non ci sono che muri. Qualcosa succederà al di là di essi, ma le strade sono sinistre». Gli piacevano i quartieri con molte botteghe e la gente «occupata nei suoi piccoli affari». Di Neuilly diceva inoltre: «Un bel cimitero, ma preferisco Père-Lachaise». Gallimard, che aveva abbandonato Neuilly per i Boulevards, portava con sé una meravigliosa atmosfera di «vita parigina». Era aureolato dalla fama delle brillanti serate che si erano svolte nel suo teatro, il Variétés. Mio padre ci aveva raccontato così spesso dei passi dell’Orfeo all’inferno, chiedendo ad Abel Faivre di mettersi al piano e di suonare quelle arie incantevoli, che io non potevo nascondere la mia ammirazione per un signore che viveva sullo stesso piano di Giove, Cupido e della bella Elena. Quest’ultimo personaggio prese vita nelle sembianze dell’attrice Diéterle, che conservava, anche fuori dal palcoscenico del Variétés, il fascino delle dee di Offenbach. Era biondissima, «una pelle di latte cosparsa di lentiggini». Non chiedeva altro che posare e Renoir le fece diversi ritratti, uno dei quali nella sua villa di Chatou. Suo padre era un capitano in pensione, assai meticoloso, ligio al protocollo. Gabrielle gli si metteva davanti sull’attenti e lo chiamava «signor capitano». Lui ne era felice.

Un altro frequentatore della casa era Murer, celebre pasticciere e pittore dilettante. Era un grande amico del dottor Gachet e si recava spesso ad Auvers. Il nome di Gachet è legato nella mia memoria a quello di una bambina che non ho mai visto: Margot. Credo che il suo cognome fosse Legrand. Mio padre me ne parlò varie volte. Margot era gravemente malata. Lui domandò al dottor Gachet di curarla e questi lo fece con grande abnegazione, anche se invano. Le sofferenze di Margot avvicinarono i due uomini, che non si muovevano dal suo capezzale. Doveva essere bellissima, commovente e coraggiosa. Sorrideva nonostante il dolore insopportabile che la faceva soffrire. Paul, il figlio del dottore, ha pubblicato le lettere che i nostri padri si scambiarono su questo argomento, dove Renoir parla di bolle di vaiolo. Gachet si buscò un reumatismo che lo costrinse a letto, per cui Renoir si trovò solo con Margot, smarrito e col desiderio che la morte giungesse presto a liberarla. Chiamò un suo vecchio amico, il dottor De Bellio, che dichiarò che per la piccola ormai non c’era più speranza; ma su richiesta di mio padre, le ordinò alcune medicine per farle credere che avrebbe potuto guarire. Il 25 febbraio 1879 Renoir annunciò a Gachet la morte della bambina.

Quella misteriosa bambina morta mi commuove infinitamente. Chi era? Perché Renoir se ne interessava con tanta ansia? Chi erano i suoi genitori? Dove si trovavano mentre era malata? Sono altrettanti enigmi ignorati anche dal figlio del dottor Gachet, che mi scrisse a riguardo. Riesco però a immaginare i capelli biondi sparsi sul cuscino, le bolle sulla pelle e il sorriso smarrito rivolto al grande amico che si chinava per baciarla.

Un’altra persona che ebbe nella nostra vita un ruolo considerevole fu il pittore Deconchy,61 con la sua barba quadrata, gli occhietti furbi e i cappelli rotondi di feltro. Fu lui infatti che consigliò a Renoir di andare a dipingere a Cagnes. E anche lui, essendo di salute delicata, andava a passare l’inverno in quel villaggio allora sconosciuto dai turisti. Qualche inglese freddoloso e tranquillo occupava l’albergo Savournin, in fondo al villaggio sulla via principale che, a quel tempo, era anche la strada maestra. Deconchy si innamorò della signorina Savournin, la sposò e la presentò a mio padre nella casa di rue La Rochefoucauld. Mia madre e la giovane sposa simpatizzarono e quel sentimento contribuì a decidere il nostro viaggio a Cagnes. Fu una decisione carica di conseguenze. Quel paese avrebbe finito con l’assorbire Renoir e la sua famiglia come aveva fatto con Deconchy.

 

 

Mia madre aveva capito che l’esistenza materiale di Renoir doveva essere autentica come la sua pittura. Se io e i miei fratelli siamo cresciuti in un ambiente dove non era tollerato nessun oggetto falso, lo dobbiamo a lei. I mobili di legno chiaro, come ho già detto, rispondevano perfettamente ai gusti di Renoir; usavamo anche mobili Thonet fabbricati in quella parte dell’Impero austriaco che sarebbe in seguito diventata la Cecoslovacchia. Erano fatti di legno ricurvo e paglia di Vienna. Ne avevamo di ogni specie, comprese alcune sedie a dondolo. Renoir diceva che erano gli unici oggetti fabbricati che non fossero pretenziosi; rappresentano una parte importante dello scenario della mia giovinezza e ancora oggi sento stranamente la mancanza delle loro curve di legno nero, che finivano a forma di chiocciola. Quando i miei genitori rinunciavano al legno chiaro o ai mobili Thonet, era per acquistare degli oggetti antichi di buona qualità. Mio padre non poteva soffrire i mobili di lusso contemporanei, perché non ci sentiva più «la mano». Manifestava un’avversione ostinata anche nei riguardi di certe opere del passato. Ricordo ad esempio le sue alzate di spalle davanti alle ceramiche di Bernard Palissy: «Ha bruciato mobili autentici del Rinascimento per cuocere quei frutti che sembrano fatti di sapone». Ho accennato al suo disprezzo per ininnoli di Meissen o di Sèvres. Gli arazzi dei Gobelins lo irritavano; ammetteva solo quelli di basso liccio, «perché l’alto liccio ha consentito di copiare pedissequamente dei quadri che non sono arazzi, o peggio ancora, di imitare la natura!». In fondo a questa scala di valori metteva i pettini di celluloide, le tele cerate usate come tovaglie, i sali versati nella caraffa per imitare l’acqua di Vichy, il burro servito a quadratini o a conchigliette. Non parliamo poi della margarina. O faceva a meno del burro, oppure sulla tavola voleva quello vero, in panetti.

In contrasto con questa raffinatezza, Renoir giudicava di cattivo gusto lo sfoggio di servizi da tavola e di cristalli. «Un ammasso di forchette, coltelli, bicchieri di tutte le misure per avere alla fine un uovo alla coque con un goccio di vinello!». Devo dire che i nostri pasti si componevano di un unico piatto principale e che, in genere, in cantina avevamo una sola qualità di vino, che ci veniva spedito in una botte dal vignaiolo. Quando eravamo allo Château des Brouillards, ce lo veniva a imbottigliare l’oste di rue Lepic. Avremmo considerato un segno di decadenza comprare il vino dal droghiere. Renoir non si fidava dei vecchi vini che appesantiscono e che bisogna «sorseggiare invece di bere. Diventa una cerimonia. Sembra di essere a messa!». Prendeva in giro le smorfie dei «conoscitori che si sciacquano le gengive come con un dentifricio e alzano gli occhi al soffitto con aria estatica. Non ne capiscono più di me».

Mia madre continuava a tenere la tavola imbandita ogni sabato sera e manteneva la tradizione del bollito; il che non significa che l’amico che giungesse all’improvviso un altro giorno non fosse nutrito a dovere. Gabrielle correva dal macellaio e portava una bistecca mentre Raymonde puliva l’insalata. Mia madre, dato il numero di domestiche che teneva in casa – perché «la loro pelle non respingeva la luce» e soprattutto perché si stancava subito –, smise quando era ancora abbastanza giovane di preparare lei stessa le pietanze; ma aveva avuto dal cielo il dono dell’autorità e i cibi che si cucinavano in casa nostra erano proprio come lei li aveva sempre fatti. Aveva raccolto ricette un po’ dovunque, soprattutto da Marie Corot, ma le aveva modificate a modo suo, o meglio, secondo il gusto di suo marito. Trascriverò qui alcuni dei suoi consigli, trasmessi poi a mia moglie da Gabrielle.

Regola generale: non mettere mai in acqua i legumi freschi. I piselli, ad esempio, venivano cotti senza una goccia d’acqua. Qualche foglia di lattuga forniva l’umidità sufficiente perché la casseruola non si spaccasse.

Altra regola: non perdere tempo, fare presto. Quando ero giovane, i francesi arrostivano troppo a lungo il manzo e l’agnello, come ancora oggi fanno gli inglesi, gli americani, i tedeschi e molti altri popoli che credono nelle salse. A casa nostra il tempo di cottura di un pezzo di manzo o di un cosciotto di agnello era di dodici minuti per ogni mezzo chilo.

Evitare, se possibile, di far cuocere gli arrosti in forno. L’umidità che viene fuori dalla carne ne fa un bollito o quasi; in tal caso, fate piuttosto una buona pentola di lesso. Lo spiedo dà risultati migliori perché il pezzo di carne è a contatto dell’aria, diventa meno molle e consente alle tossine di evaporare. Noi, per arrostire, usavamo una «conchiglia», cioè una specie di mezza sfera di lamiera, aperta verso il camino e attraversata da uno spiedo la cui posizione si poteva cambiare per mezzo di tacche. Il sugo si raccoglieva in fondo alla conchiglia. A Essoyes, davanti al grande camino, avevamo un sistema a molla che faceva girare lo spiedo automaticamente.

Non tentare di spremere le cose fino in fondo; bisogna saper sprecare. Diffidare delle pentole a pressione. Fare il caffè in un recipiente d’acqua bollente privo di coperchio. Ci vuole più caffè, si perde metà della caffeina, ma non rovina i nervi. Fatta eccezione per le carni arrostite davanti al camino dove ardevano i ciocchi, cucinavamo su fornelli a carbone di legna. Erano griglie quadrate di circa venti centimetri di lato disposte su un piano di mattonelle di ceramica. La cenere cadeva sotto. Sopra, c’era una cappa per l’aspirazione dei vapori. Lo spazio in cui cadeva la cenere era chiuso da uno sportellino metallico regolabile per il tiraggio. Si accendeva il fuoco con pezzetti di legno di cui una estremità era imbevuta di resina. Si aggiungeva il carbone di legna, che veniva coperto con una specie di imbuto a rovescio sormontato da un tubo che provocava il tiraggio. Quando il carbone ardeva, si toglieva l’imbuto e si chiudeva lo sportello del tiraggio. Eravamo praticamente gli ultimi parigini a usare quel sistema per cucinare. Nelle altre case, regnava ormai il gas. Oggi, il mondo scopre di nuovo l’uso del barbecue e dell’hibachi giapponese, e cuoce le bistecche come faceva mia madre.

Come arrostire una bistecca? Non mettere troppo carbone di legna. Basta che la griglia del fornello o dell’hibachi sia ben alimentata. Aspettare che il fuoco abbia fatto la prima fiammata e si sia un po’ abbassato. Mettere dapprima la griglia con la carne a contatto dei carboni ardenti per meno di un minuto da una parte e dall’altra, quindi allontanare la griglia di qualche centimetro perché il calore abbia il tempo di penetrare fino al centro. Se il pezzo è molto grosso, il fuoco dovrà evidentemente essere più intenso e la carne dovrà esserne tenuta più lontano. Il sistema più facile e diffuso è quello di passare prima a fuoco vivo; quindi si aspetta più o meno tempo a seconda che la carne piaccia ben arrostita o al sangue. Una bistecca per due persone non deve cuocere più di cinque minuti. Se si hanno dei tralci di vite, si può fare un gran fuoco nel camino; si lascia abbassare la fiamma e si getta la carne tagliata a fettine sottili direttamente sulle braci. È un delizia. E soprattutto, niente salse. Per chi non ama la carne abbrustolita, si può ammorbidirla sfregandola con un po’ di burro appena tolta dal fuoco. Salare dopo la cottura. Un manzo di buona qualità, arrostito su carbone di legna di buona qualità, non ha bisogno di condimenti.

Nel 1895 il sindaco di L’Estaque dette a mio padre e a Cézanne la sua ricetta per la bouillabaisse; si tratta di una ricetta classica: pesci di scoglio rosolati in olio d’oliva con cipolle e pomodori. Quindi acqua calda e molto aglio. L’aglio non deve mai essere rosolato. Aggiungere gli odori. I pesci grossi e i crostacei vengono messi a lessare quando il «fondo» è cotto. Ci vogliono gli scorfani. Lo zafferano solo in ultimo. La zuppa, dopo essere stata passata, si versa su delle fette di pane arrostito e sfregato d’aglio. Niente salsa che nasconda il gusto delicato dei pesci di scoglio e che è un’invenzione delle trattorie d’infimo ordine. Mio padre mi raccontava le esperienze culinarie che aveva fatto a L’Estaque. Un pescatore che conoscevano di vista, fermava lui e Cézanne per la strada: «Ieri sera avete mangiato la bouillabaisse da Marius». «Sì». «Non la sa fare. Venite stasera a casa mia e vedrete!». Il giorno dopo, altro incontro: «Ieri sera, avete mangiato la bouillabaisse da Saturnin... lui non la sa fare...». E così di seguito, fino a che il sindaco metteva tutti d’accordo invitando i vari concorrenti e i «pittori» a una bouillabaisse definitiva.

Quando non avevamo invitati, ci limitavamo a carni arrosto o bollite, evitando le padelle il più possibile. La bouillabaisse era riservata alle grandi occasioni come pure quel pollo fritto che mia madre considerava il suo capolavoro. Tagliare a pezzi il pollo; farlo rosolare con pochissimo olio d’oliva in una casseruola spessa. A mano a mano che i pezzi sono rosolati, metterli da parte su un piatto caldo. Togliere l’olio e rimettere il pollo nella casseruola con un po’ di burro, pochissimo. Aggiungere due cipolle non molto grosse tagliate a fettine sottili, due pomodori pelati, un po’ di prezzemolo e di timo, uno spicchio d’aglio, alloro, pochissima acqua calda, sale e pepe. Girare spesso stando attenti a non far bruciare il condimento. Cuocere a fuoco bassissimo. Mezz’ora prima di servire, aggiungere qualche fungo, olive nere greche, italiane o provenzali, e il fegato. Un bicchierino di cognac nella casseruola scoperta perché evapori. Al momento di servire, cospargere con prezzemolo e aglio tritati finissimi.

Andavamo pazzi per le patate cotte sotto la cenere e, d’inverno, per le castagne cotte allo stesso modo. La cucina di mia madre era come lei, rapida, senza complicazioni, chiara e pulita. Niente odori di grasso cotto, perché l’olio e il burro servivano una volta sola e la casseruola veniva quindi ripulita a fondo. Tutto questo andava d’accordo anche con la regola fondamentale di Renoir: fare cose buone con poco; usare solo il meglio, ma con parsimonia.

Non si fidava di chi non beve vino: «Sono degli ubriaconi di nascosto», e neppure di chi non fuma: «Devono avere un vizio segreto!». Mia madre era golosa «come una gatta» e Renoir diceva che era il suo modo di onorare Cerere e Bacco. Si rifiutava di credere che gli dèi greci avessero abbandonato del tutto la partita.

Prima di lasciare rue La Rochefoucauld, riporto uno dei rari esempi di severità di mio padre nei miei confronti. Scendevamo a piedi, qualche volta, fino ai Grands Boulevards, che amava per la loro animazione. Un giorno che faceva caldo, durante una di quelle passeggiate, mia madre espresse il desiderio di bere una birra. Sedemmo sulla terrazza di un caffè. Renoir si accorse di non avere più sigarette. Mia madre propose di mandare me a comprarle. Renoir esclamò: «Da solo sui Grands Boulevards!...». «Bisogna pure che si abitui». Conoscevo bene la tabaccheria all’inizio di rue Laffitte, accanto al negozio di Vollard. Mi mostrai così fiero all’idea di camminare da solo per Parigi, «come mio fratello Pierre», che Renoir, divertito, si lasciò convincere. Partii e mi misi a ripetere fra me le parole che avrei dovuto rivolgere alla tabaccaia. I miei frequenti soggiorni nel villaggio di mia madre mi avevano fatto prendere un sonoro accento borgognone. Arrotavo le r proprio come Colette Willy. Questo faceva ridere la gente e mi rendeva furibondo. Mentre camminavo, riuscivo a imbastire una frase dalla quale era esclusa la consonante rivelatrice. «Madame datemi un pacchetto di bionde». Avevo eliminato le parole Maryland e sigarette. Mi accorsi a un tratto che avevo da un pezzo oltrepassato la tabaccheria e che mi trovavo vicino alla chiesa di Notre-Dame-de-Lorette. Sgomento all’idea che i miei genitori stessero in pensiero, tornai indietro di corsa e ansimante mi trovai davanti mio padre pallido e distrutto. «Credevo che ti fossi fatto mettere sotto». Per reazione, si lasciò andare a uno scatto di collera. «Come si fa ad esser così distratto! Non combinerai mai nulla di buono nella vita». Scoppiai in lacrime e non potei mangiare la mia cassata. Mio padre tenne il broncio per un’ora. Tornati a casa, dimenticò l’accaduto davanti a delle anguille che si mise a dipingere nonostante l’opposizione di mia madre che voleva farle alla marinara. Quando lo sentii canticchiare, dimenticai i miei dispiaceri e mi misi a giocare con i «soltati tell’impero». Lui mi disse: «Non ci sono soltanto le macchine che possono metterti sotto. Ci sono anche i ladri di bambini che possono rapirti e l’Esercito della Salvezza che ti costringerebbe a cantare con l’accento inglese».