30

«Bellissima», sussurrò Malcolm socchiudendo gli occhi dietro le lenti d'ingrandimento per ammirare la bomba sul tavolo della cucina.

Con mano salda, spostò i cavetti rossi e verdi che collegavano l'esplosivo al detonatore a innesco e modellò il C-4, morbido come stacco, in maniera che entrasse nella ventiquattrore. «Peccato doverla distruggere», aggiunse, orgoglioso del proprio lavoro.

Michelle era entrata nella stanza in punta di piedi e gli aveva posato una mano tremante sulla spalla. Malcolm sapeva che aveva paura di quegli ordigni.

«Rilassati, tesoro. Non ti preoccupare: così com'è adesso questa roba è la più stabile del mondo.»

Julia era seduta per terra a guardare la TV. Si era tolta la parrucca, dopo il lavoro della sera prima. Il programma che stava seguendo fu interrotto per un aggiornamento sull'omicidio al Clift Hotel. «Sentiamo», disse, alzando il volume.

«Se la polizia non mette ancora in relazione la morte di Bengosian con l'attentato dinamitardo di domenica al guru dell'informatica, fonti attendibili sostengono che esisterebbe un legame fra i due episodi, confermato da alcuni indizi. Una donna mora di bell'aspetto sui venti o trent'anni sarebbe stata vista entrare in albergo assieme a George Bengosian ieri sera.»

Julia alzò ulteriormente il volume. «Di bell'aspetto?» sorrise. «Peccato che non lo posso scrivere nel mio book. Che ne dite?» Si mise in testa la parrucca e assunse una posa da modella.

Michelle finse di ridere, ma era preoccupata: aveva perso il suo spray. E poi lei non era come Julia che la sera prima aveva ucciso un uomo guardandolo in faccia, e adesso ci rideva sopra.

«Amore, sii gentile», disse Malcolm, voltandosi dalla sua parte. «Metti due dita qui, per favore.» Collegò il detonatore al C-4 e sistemò il cellulare nell'apposito incavo modellato nell'esplosivo. «Questa è la parte più delicata. Tienimi i cavetti rossi e verdi, per favore, in modo che non si incrocino... Perché se si incrociano succede un casino, lo sai, vero?»

Malcolm la prendeva sempre in giro. «Sei una vera oca del Wisconsin», le diceva ridendo. Ma adesso lei aveva dimostrato di che cosa era capace. Mise un dito sul cavetto, cercando di far vedere che era coraggiosa, che non era una stupida contadina.

«Non ti preoccupare», le disse Malcolm strizzandole l'occhio. «Questa storia dei cavetti che si incrociano e salta in aria tutto è roba da film. Il difficile è collegare i due cavetti alla suoneria e non alla batteria del cellulare, altrimenti ci trovano sparsi a pezzetti fino a Eau St. Claire.» Dov'era nata lei.

Le tremava il dito: non sapeva se Malcolm stava scherzando oppure no.

«Fatto.» Malcolm sospirò e si tolse gli occhiali, poi spinse all'indietro la poltroncina girevole. «È pronto. Basterebbe a far saltare in aria la cupola del municipio. Anzi, ora che ci penso: non sarebbe neppure una cattiva idea!» Poi chiese a Michelle: «Facciamo una piccola prova, cosa dici?» La ragazza era titubante. «E dài! Hai una faccia... Sembra che hai visto un fantasma!» le disse in tono beffardo. Poi le porse un secondo cellulare. «Il numero è già impostato. Fino al quarto squillo non succede niente. Voglio dire: il quarto squillo non lo devi sentire proprio. Avanti, cara, falla scoppiare.»

Michelle scosse la testa e gli restituì il cellulare. Malcolm sorrise.

«Non ti preoccupare, senza collegamento non scoppia. È tutto calcolato.»

Michelle trasse un respiro profondo e premette il tasto INVIO, per vedere se ne era capace. Un secondo dopo, il telefono sistemato nella valigetta suonò.

«Contatto.» Malcolm le strizzò l'occhio.

Michelle si sentì mancare. Malcolm era troppo sicuro di sé: è vero che aveva calcolato tutto, ma qualcosa poteva sempre andare storto. In Medio Oriente, un sacco di palestinesi saltavano in aria mentre preparavano le loro bombe.

Bip. Guardò la ventiquattrore. Secondo squillo. Cercò di darsi un contegno, ma le tremava la mano. «Ti prego, Malcolm.» Tentò di restituirgli il cellulare. «Guarda un po' tu. Io non...»

«Ti prego cosa, Michelle?» Malcolm le strinse un polso. «Non ti fidi di me?»

Il telefono nella bomba squillò di nuovo. Per la terza volta.

Michelle era terrorizzata. «Piantala, Mal.» Cercò il tasto di fine chiamata.

Il quarto squillo avrebbe voluto dire la fine. «Ti prego, Malcolm, mi fai paura.»

Invece di ascoltarla, Malcolm le prese la mano, immobilizzandogliela. Michelle non sapeva più che cosa aspettarsi. «Gesù, Mal, sta per...»

Bip. Quarto squillo.

Un rumore acuto e stridulo fendette l'aria. Michelle fissò il telefono, poi la bomba.

La quale cominciò a vibrare. Oh, merda! Michelle guardò Malcolm negli occhi.

Suonò un timer. Nessun lampo, solo un clic.

Malcolm rideva. Sollevò il detonatore ancora scollegato. «Te l'ho detto, tesoro: senza collegamento, non scoppia. Che cosa ne pensi, allora? A me sembra che funzioni bene.»

Michelle si rilassò, ma dentro di sé era furibonda. Avrebbe voluto prendere Malcolm a pugni, ma era troppo stanca. E aveva la T-shirt bagnata di sudore.

Malcolm si avvicinò di nuovo alla bomba, con il detonatore in mano. «Pensavi che volessi farla scoppiare?» Scosse la testa. «Non me lo sogno nemmeno. Ha una missione importante da compiere, questa qui. Deve far saltare in aria San Francisco.»

31

Verso le sette, ero di nuovo alla mia scrivania. Gli uomini della mia squadra erano in giro a seguire le varie piste che avevamo. Cindy mi aveva portato una copia di un libro intitolato Capitalismo vampiro, dicendo che mi avrebbe dato un'idea degli umori che si stavano diffondendo tra i nuovi radicali.

Scorsi i capitoli intitolati «Il fallimento del capitalismo», «Apartheid economico», «Economia dello sfruttamento» e «L'apocalisse dell'avidità».

Non mi ero accorta che sulla porta c'era Jill. Bussò, facendomi fare un salto sulla sedia. «Ti vedesse John Ashcroft... L'anima delle forze dell'ordine della città che legge Capitalismo vampiro

«Per lavoro.» Sorrisi, imbarazzata. «Mi serve per il serial killer bombarolo.»

Indossava un tailleur pantaloni rosso e un Burberry e aveva una cartella di pelle piena di documenti. «Ti andrebbe un aperitivo?»

«Molto volentieri, ma prima devo finire di leggere questo», dissi battendo il libro sulla scrivania. E le porsi un sacchetto di noccioline.

«Che cosa fai? Dirigi il reparto 'Autori sovversivi'?»

«Molto spiritosa», replicai. «Ti dirò una cosa che sicuramente non sapevi. Bill Gates, Paul Alien e Warren Buffy l'anno scorso hanno guadagnato più di trenta dei Paesi più poveri del mondo messi insieme, che costituiscono un quarto della popolazione mondiale.»

Jill sorrise. «È bene che sviluppi la tua coscienza sociale, dato il lavoro che fai.»

«C'è una cosa che mi turba, Jill. Il messaggio nello zainetto fuori della casa di Lightower, il foglietto appallottolato nella bocca di Bengosian... Gli assassini hanno dichiarato chiaramente il movente dei loro omicidi, però ci stanno provocando. Perché questo gioco?»

Jill posò una scarpa rossa sul bordo della mia scrivania. «Non saprei proprio. È il tuo lavoro, mica il mio. Io li sbatto dentro e stop.»

Ci fu un attimo di silenzio carico di tensione. «Ti spiace se cambio argomento?»

«Parliamo delle tue noccioline», disse con un'alzata di spalle, mettendosene una in bocca.

«Non so se è una scemenza o no. Mi sono un po' preoccupata, domenica, quando siamo andate a correre. Quei lividi che hai sulle braccia, Jill... Mi hanno fatto venire dei pensieri...»

«Di che tipo?»

La guardai negli occhi. «È ovvio che non te li sei procurata scivolando nella doccia, Jill. Capisco che per te sia difficile ammettere di essere umana come tutti noi. So che volevi quel bambino, poi è morto tuo padre... Okay, in apparenza hai tutto sotto controllo, ma forse non è proprio così. Però non vuoi parlarne con nessuno, nemmeno con noi. Insomma, Jill, io non so niente di quei lividi, ma vorrei che mi spiegassi da dove vengono.»

La luce caparbia nei suoi occhi per un attimo tentennò, come se fosse sul punto di arrendersi. Forse avevo esagerato, ma ero sicura che Jill fosse mia amica. E che avevo fatto bene a sollevare l'argomento.

«Su una cosa forse hai ragione», replicò dopo un po'. «Quei lividi non me li sono fatti scivolando nella doccia.»

32

Certi delitti sono brutali, ingiustificabili e disgustosi, ma il loro movente è chiaro. In determinati casi, riesco persino a capirli. Esistono poi le crudeltà nascoste, fatte per non essere mai scoperte, che non intaccano la superficie ma distruggono l'interiorità della persona, annientando quel che di umano c'è in ognuno di noi.

Sono proprio queste a mettermi più in crisi, a spingermi a chiedermi perché faccio questo mestiere.

Dopo che Jill mi ebbe confidato come stavano le cose fra lei e Steve, dopo averla consolata e aver pianto con lei come una sorella, tornai a casa confusa. Jill era sconvolta, oppressa da una vergogna che non avrei mai più potuto dimenticare. Oh, Jill, povera Jill!

Il mio primo istinto fu di andare a casa loro con una bella denuncia per Steve, quello stronzo pieno di arie che maltrattava la mia amica.

Non riuscivo a togliermi di mente Jill, la sua faccia, il suo sguardo spaurito. Sembrava una bambina, non la donna di successo che tutti conoscevamo, laureata a Stanford con il massimo dei voti, il sostituto procuratore che mandava in galera gli assassini.

Quella notte, non riuscii a dormire. La mattina dopo cercai di concentrarmi sul caso. Gli esami di laboratorio confermavano le ipotesi di Claire. George Bengosian era morto avvelenato dopo aver ingerito una forte dose di ricina.

Alla Corte di Giustizia la tensione era alle stelle e c'erano un sacco di agenti federali e di rappresentanti dei media. Mi sembrava di dovermi nascondere, per telefonare a Cindy e Claire.

«Ho bisogno di vedervi», dissi loro. «È importante. Facciamo da Susie's a mezzogiorno?»

Quando arrivai nel tranquillo caffè di Bryant Street, trovai Cindy e Claire già sedute in un séparé. Avevano l'aria preoccupata.

«Dov'è Jill?» mi chiese Cindy. «Pensavamo venisse anche lei.»

«Non l'ho invitata», risposi. Mi sedetti di fronte a loro. «È di lei che dobbiamo parlare.»

«Okay...» Claire annuì, confusa.

Raccontai loro dei lividi che le avevo visto sulle braccia quando eravamo andate a correre e dei miei sospetti. Spiegai che non mi erano affatto piaciuti e avevo temuto che, magari sconvolta dopo aver perso il bambino, se li fosse procurata da sola.

«Ma il bambino l'ha perso un sacco di tempo fa!» protestò Cindy. «Ormai dovrebbe aver superato la cosa...»

«Le hai chiesto spiegazioni?» domandò Claire, serissima.

Annuii, guardandola negli occhi.

«E cosa ti ha detto?»

«Che non se li era fatta da sola.»

Guardai Claire che mi scrutava, cercando di leggermi nel pensiero. Cindy sbatteva le palpebre: stava cominciando a capire.

«Oh, Gesù!» esclamò Claire. «Non mi dirai che Steve...»

Annuii.

Rimanemmo in silenzio per un po', a disagio. Arrivò la cameriera a prendere le ordinazioni. Quando se ne fu andata, guardai le mie amiche.

«Che stronzo!» Cindy scosse la testa. «Gli taglierei le palle.»

«Anch'io», esclamai.

«Da quanto va avanti questa storia?» chiese Claire.

«Non lo so. Jill dice che è per via del bambino, che Mister Tatto ha dato la colpa a lei dell'aborto. Pare l'abbia accusata di non valere niente come donna. Tanto brava nel lavoro, ma incapace di fare un figlio.»

«Dobbiamo aiutarla», dichiarò Cindy.

Sospirai. «E come?»

«Deve mollarlo», disse Claire. «Può venire a stare da una di noi. Lei che cosa dice?»

Dubitavo che Jill fosse d'accordo. «Non so se è pronta. Io credo che per adesso stia gestendo la vergogna che prova. Si sente inadeguata. Nei nostri confronti, forse anche in quelli di Steve. Ho l'impressione che una parte di lei voglia ancora dimostrargli che è in grado di essere anche una buona moglie e una buona madre.»

Claire annuì. «Dobbiamo parlarle. Quando?»

«Stasera», risposi.

Guardai Claire. «Va bene.»

La cameriera ci servì, ma a noi era passato l'appetito. Non mi chiesero neppure delle indagini. A un certo punto Claire scosse la testa e disse: «Come se non avessi già abbastanza problemi, tu».

«A proposito», intervenne Cindy, prendendo in mano la borsa. «Ho una cosa per te.» Prese un blocco e strappò una pagina.

Roger Lemouz, Dwinelle Hall, 555-0124.

«Insegna a Berkeley. Dipartimento di linguistica. Esperto di globalizzazione. Preparati, perché la sua visione del mondo potrebbe non coincidere esattamente con la tua.»

«Grazie. Dove te lo sei procurato?» Piegai il foglio e lo misi nella borsa.

«Te l'ho detto, a mille miglia di distanza da te», rispose Cindy.

33

Cercai di non pensare a Jill e telefonai a Roger Lemouz. Era in ufficio. Parlammo brevemente e riuscii a fissare un appuntamento.

Uscire mi fece piacere. In quel periodo andavo raramente in quella parte della baia. Parcheggiai vicino allo stadio, in una traversa di Telegraph Avenue, e mi avviai fra spacciatori e venditori ambulanti. Sproul Plaza era piena di sole e di studenti con sandali e zainetti che leggevano sulle scale dell'università.

L'ufficio di Lemouz era nella Dwinelle Hall, una costruzione di cemento dall'aria imponente al centro del campus. «Avanti», mi rispose una voce potente dall'accento europeo, quando bussai alla porta. Aveva un che di molto formale e colto, e mi chiesi se fosse inglese.

Il professor Lemouz era seduto a una scrivania disordinatissima, in un ufficio piccolo, pieno di carte e di libri. Aveva la pelle olivastra e le spalle larghe, capelli ricci scuri che gli ricadevano sulla fronte e la barba di un giorno o due.

«Tenente Boxer», mi disse. «Prego, si accomodi. Scusi il disordine.» Nella stanza c'era odore di chiuso e di fumo. Sulla scrivania c'erano un posacenere e un pacchetto di Rothmans senza filtro.

Mi sedetti di fronte a lui e tirai fuori il blocco per gli appunti, poi gli porsi il mio biglietto da visita.

«Squadra Omicidi», lesse Lemouz con una smorfia ammirata. «Ne deduco che non sia venuta da me per chiarire l'etimologia di qualche termine oscuro.»

«Infatti», risposi. «Volevo parlare di un altro argomento che credo sia di suo interesse. Lei è al corrente di quello che sta succedendo a San Francisco?»

Il professore sospirò. «Sì, anche noi topi di biblioteca ogni tanto mettiamo il naso fuori. Una tragedia. Del tutto controproducente, peraltro. Come diceva Fanon, la violenza è giudice e giuria di se stessa. Tuttavia, non mi ha sorpreso.»

L'atteggiamento fintamente comprensivo di Lemouz mi risultò molesto quanto il trapano di un dentista. «Può spiegarsi meglio, professore?»

«Ma certo, signorina. Se lei prima mi spiega come mai è qui.»

«Tenente, prego», lo corressi. «Sono il responsabile della Squadra Omicidi. Ho saputo che lei potrebbe avere notizie di prima mano su ciò che sta succedendo da queste parti. Che potrebbe conoscere il background ideologico degli autori dei recenti attentati. Che mi potrebbe spiegare come mai far saltare in aria una villa uccidendo tre persone nel sonno e ammazzare un uomo con un veleno potentissimo è considerato da alcuni un'accettabile forma di protesta.»

«Quando dice 'da queste parti', immagino si riferisca a Berkeley», disse Lemouz.

«Non in particolare, signor Lemouz. Ovunque ci sia gente capace di concepire delitti del genere.»

«Professore», mi corresse. «Sono il coordinatore delle cattedre di lingue romanze.» Sorrise.

«Questi omicidi non la sorprendono, ha detto.»

«Perché dovrebbero?» chiese, stringendosi nelle spalle. «Un malato dovrebbe sorprendersi se si scopre delle ulcere sul corpo? La nostra è una società malata, tenente, e chi è maggiormente responsabile dei suoi malanni si rifiuta di ammettere le proprie colpe. Sa che le multinazionali attualmente hanno bilanci superiori al prodotto interno lordo del novanta per cento dei paesi del mondo? Hanno più potere a livello sociale dei governi che li reggono. Siamo tutti pronti a deprecare l'immoralità dell'apartheid quando si tratta di soprusi razziali, ma in campo economico chiudiamo gli occhi, perché non riusciamo a vedere le cose dalla parte degli emarginati. Le viviamo dal punto di vista dei potenti, delle multinazionali, dei network televisivi.»

«Mi scusi, ma sono qui perché sto indagando su quattro omicidi. Sono morte delle persone.»

«Lo so benissimo, tenente. La gente muore.»

Avrei voluto prenderlo per il bavero della giacca e dargli una scrollata, ma mi limitai a tirare fuori la foto della baby-sitter e un identikit della donna ripresa in compagnia di George Bengosian dalle telecamere a circuito chiuso del Clift Hotel. «Ha mai visto queste due donne, professore?»

Lemouz quasi scoppiò a ridere. «Perché dovrei aiutarla, mi scusi? È lo Stato il responsabile di queste ingiustizie, non queste due donne. Mi dica, secondo lei chi ha commesso il sopruso più grave? Queste due indagate o questi brillanti esempi di come funziona il sistema?» E mi sbatté sotto il naso la prima pagina del Chronicle.

Guardai le foto di Lightower e di Bengosian.

«Se sta per scoppiare una guerra, che scoppi», disse Lemouz ridendo. «Si ricorda le ultime parole registrate dalla scatola nera dell'aereo che si ribellò ai kamikaze l'11 settembre, diventate poi simbolo della riscossa americana contro il terrorismo?» Sorrise. «Let's roll, tenente.»

Ripresi le foto, chiusi il blocco, riposi tutto nella borsa e mi alzai, stanca e disgustata. Uscii dall'ufficio del coordinatore delle cattedre di lingue romanze prima di cedere alla tentazione di mettergli le mani addosso.

34

Le affermazioni deliranti di Lemouz mi avevano innervosita oltremisura. Tornai in ufficio furente, anche perché mi pareva di non aver fatto alcun passo avanti verso la risoluzione dei delitti. Erano le sei passate. In preda a una cocente frustrazione, chiamai Cindy e le diedi appuntamento da Susie's, nella speranza di riuscire a concludere qualcosa almeno con le mie amiche, davanti a un piatto di quesadillas all'aragosta.

Avevo appena messo giù il telefono quando arrivò Warren Jacobi. «Yank Sing», decretò.

«Yank Sing?»

«I ristoranti cinesi sono più adatti alle confidenze. E il deem sum è molto meglio delle quesadillas. Dovresti saperlo, tenente. Dicono che il pollo allo zenzero è stato la vera causa della caduta della dinastia Qin. Dove sei stata, a proposito?» Si sedette. Capii dal suo sorrisetto che aveva scoperto qualcosa.

«A perdere del tempo nella repubblica popolare di Berkeley. Hai da dirmi qualcosa, a parte consigliarmi ristoranti?»

«Forse abbiamo scoperto dove si nasconde la baby-sitter», mi rivelò con un gran sorriso.

Mi balzò il cuore in gola.

«È arrivata una telefonata da un Safeway dall'altra parte della baia. Il ragazzo che faceva il turno di notte dice di averla riconosciuta. Ci sono delle riprese, ce le stanno mandando. Pare che adesso abbia i capelli rossi e vada in giro con gli occhiali scuri, ma quando se li è tolti per contare i soldi alla cassa, il cassiere l'ha vista in faccia. Giura che è lei.»

«Dove, esattamente?»

«Harmon Avenue, Oakland.» Feci mente locale. Arrivammo tutti e due alla stessa conclusione. «Vicino al McDonald's in cui è stata ritrovata la piccola Caitlin.»

Dal punto di vista geografico, le cose stavano cominciando ad assumere un senso. «Fai il giro dei negozi della zona con quella foto e vedi se la riconosce qualcun altro.»

«Già fatto, Lindsay.» Gli vidi una luce birichina negli occhi: mi stava nascondendo qualcosa.

«Abbiamo ricevuto un sacco di segnalazioni. Che cosa ti ha fatto pensare che questa avesse un senso?» gK chiesi in tono provocatorio, inclinando la testa da un lato.

Warren mi strizzò l'occhio. «Ha comprato un inalatore per l'asma.»

35

Cindy, Claire e io avevamo quasi finito le nostre Corona e un piatto di ali di pollo, quando arrivò Jill. Si tolse il cappotto e venne a sedersi con aria stanca e nervosa.

Ci rivolse un sorriso tirato, posò la ventiquattrore e si mise vicino a Claire. «Allora, chi comincia?»

«Rilassati», le dissi io. «Vuoi una di queste? Un sorso di birra?» Le versai nel bicchiere il fondo della mia bottiglia.

Brindammo. Jill era titubante. Ci fu un momento di silenzio in cui ognuna di noi cercò di trovare le parole giuste. Quante volte eravamo andate a cena fuori tutte insieme? Avevamo cominciato a frequentarci per risolvere un caso particolarmente spinoso e ci conoscevamo ormai da parecchio tempo.

«All'amicizia», disse Claire. «Alle amiche su cui si può contare quando si è in difficoltà. Sempre e comunque, Jill.»

«Sarà meglio che finisca di bere, prima di mettermi a piangere», disse Jill con gli occhi lucidi.

Scolò un terzo di quel che aveva nel bicchiere in un sorso solo, poi prese fiato. «Okay, non voglio nascondermi dietro a qualche stupida scusa. Siete tutte al corrente, dico bene?»

Annuimmo.

«Telefono, telegrafo, tele-Boxer.» Mi fece l'occhiolino.

«Se una di noi è in crisi, siamo in crisi tutte», disse Claire. «Sarebbe lo stesso, se invece che a te fosse capitato a un'altra di noi, no?»

«Lo so.» Jill annuì. «Immagino che adesso mi direte che non corrispondo esattamente al genere di donna che si fa maltrattare dal marito.»

«Penso che dovresti dirci come stai, piuttosto», replicai io.

«Già.» Jill trasse un profondo respiro. «Prima di tutto, non è che mio marito mi picchi. Litighiamo furiosamente e Steve è fisicamente molto forte, però non mi ha mai mollato pugni o sberle.»

Cindy stava per ribattere, ma Claire la trattenne.

«So che questo non lo discolpa né lo giustifica. Comunque, ci tenevo a precisarlo.» Si morse un labbro. «Non so dirvi come mi sento. Ho avuto a che fare con un sacco di donne maltrattate, per lavoro, e so che le emozioni che si provano sono contrastanti. La prima è la vergogna. Mi vergogno ad ammettere che succede proprio a me.»

«Da quanto tempo va avanti?» chiese Claire.

Jill si appoggiò allo schienale e sorrise. «Vuoi la cruda verità o quella che mi sono raccontata per un po', da qualche mese a questa parte? La cruda verità è che succede da prima che ci sposassimo.»

Strinsi i denti.

«Per stupidaggini, tipo una mise particolarmente sexy o qualcosa che compravo per la casa e a lui non piaceva. Steve prova gusto a farmi sentire una cretina.»

«Una cretina?» esclamò Claire sbigottita. «Sei molto più in gamba di lui!»

«Steve non è un idiota. Solo che a volte è un po' limitato», disse Jill. «All'inizio mi prendeva per le spalle, mi stringeva sulle braccia. Diceva che non lo faceva apposta, che non si accorgeva di stringere tanto. Poi qualche volta mi ha tirato addosso degli oggetti, quando si arrabbiava. La mia borsa, per esempio. Una volta addirittura...» S'interruppe, ridendo di quel ricordo. «... un pezzo di Asiago.»

«Ma perché?» Cindy scuoteva la testa, incredula. «Perché fa così?»

«Nel caso specifico, avevo pagato una bolletta in ritardo. Ma poteva essere anche perché mi ero comprata un paio di scarpe quando avevamo pochi soldi sul conto.» Fece spallucce. «Il vero motivo è che io glielo lasciavo fare.»

«E questo da quando vi conoscete?.» domandai stupefatta.

Jill deglutì. «Non ve l'ho mai detto...» La cameriera portò le quesadillas. La musica in sottofondo era di Shania Twain. «Così non vale», disse intingendo una quesadilla nella purea di avocado e rise. «Dovrebbero interrogarli così, i testimoni chiave. 'Sì, so dove si nasconde Osama Bin Laden, ma ve lo dirò soltanto se mi darete un altro di quegli stuzzichini al formaggio.'»

Scoppiammo tutte a ridere. Jill sapeva farci divertire in qualsiasi circostanza.

«Litighiamo sempre per delle scemate», riprese. «Quando c'è un problema grosso, siamo solidali, veri compagni di vita. Abbiamo superato un sacco di momenti difficili, assieme. Nelle piccole cose, però, non ci capiamo. Se io accetto un invito a cena da qualcuno che a lui è antipatico, o se mi dimentico di dire alla domestica di ritirare le sue camicie in lavanderia, mi strapazza, mi fa sentire una cretina.»

«Sei tutto fuorché cretina», ribadì Claire.

Jill si asciugò gli occhi e sorrise. «Le mie fan... So che, se gli sparassi, voi mi dareste un premio.»

«Abbiamo già preso in considerazione questa ipotesi», disse Cindy.

«Voi ci scherzate, ma io ci ho pensato sul serio. Mi sono chiesta persino quale dei miei colleghi si sarebbe occupato del caso», disse Jill scuotendo la testa. «Va be', cerchiamo di non scivolare nel melodramma!»

Domandai: «Che cosa consiglieresti a una donna nelle tue condizioni, se venisse da te in procura? Cerca di affrontare il problema da professionista, non da parte in causa. Che soluzione proporresti?»

«Fargli causa immediatamente, in maniera da togliergli la voglia per il resto della sua vita», disse. E rise.

Una per una, ci unimmo alla sua risata.

«Okay, dici di aver bisogno di tempo», replicai, guardando Jill. «Non voghamo sconvolgerti l'esistenza dall'oggi al domani. Ma, conoscendoti, mi viene il dubbio che tu resti con Steve perché prendi troppo sul serio le tue responsabilità e vuoi a tutti i costi che il tuo matrimonio funzioni. Devi promettermi che non lascerai che succeda un'altra volta, però. Se accadrà di nuovo, ti avverto che verrò personalmente a casa tua a farti le valigie. Puoi venire a stare da me, o a casa di Claire, o da Cindy. No, lascia perdere Cindy: casa sua è un porcile. Insomma, puoi scegliere. E devi prometterci solennemente che la prossima volta che Steve fa anche solo il gesto di picchiarti, lo pianti.»

Negli occhi azzurri di Jill brillò una luce strana, che mi fece pensare che non l'avevo mai vista così bella.

«Prometto», disse arrossendo.

«Solennemente», la imbeccò Cindy.

Jill alzò una mano. «Parola di giovane marmotta.»

«Ah, be', se ci dai la tua parola di giovane marmotta...» disse Claire.

Incrociammo le mani in mezzo al tavolo. «Vi voglio bene, sorelline.»

«Anche noi ti vogliamo bene, Jill.»

«Okay, adesso ordiniamo?» fece lei. «Mi sento come se avessi appena dato l'esame da procuratore. Ho una fame da lupi.»

36

Forse fu perché non avevo dormito e mi ero rigirata nel letto tutta la notte a pensare e ripensare a quello stronzo che picchiava la mia amica, che la lasciava sola appena c'era da andare a giocare a golf e poi in pubblico faceva il marito adorante.

Non so perché, ma il pensiero di Steve mi tormentò tutta la mattina, tanto che a un certo punto non riuscii più a restarmene lì fingendo di occuparmi delle indagini e negandomi al telefono.

Presi la borsa. «Se Tracchio mi cerca, ditegli che torno fra un'ora.»

Dieci minuti dopo, parcheggiai davanti al 160 di Beale Street, un grattacielo di cristallo pieno di studi legali e di consulenza aziendale. Steve lavorava lì.

Salii furibonda al trentaduesimo piano. Ero quasi in iperventilazione, quando aprii la porta della Northstar Partnerships e la bella ragazza alla reception mi sorrise.

«Cerco Steve Bernhardt», le dissi, mostrandole il distintivo.

Senza aspettare che me lo chiamasse, entrai nel suo ufficio, dov'ero già stata una volta con Jill. Steve si dondolava sulla sedia in Lacoste verde mela e calzoni beige e intanto parlava al telefono. Senza cambiare tono, mi fece l'occhiolino e mi indicò una sedia. Ma va' a quel paese, tu e il tuo occhiolino!

Aspettai che concludesse la conversazione, irritata nel sentirgli usare una serie di cliché da grande manager.

Finalmente chiuse la comunicazione e si voltò verso di me. «Lindsay!» Mi squadrò, facendo finta di non capire il motivo della mia visita.

«Lascia perdere, Steve. Sai benissimo perché sono qui.»

«Veramente non ne ho idea.» Scosse la testa, quindi cambiò leggermente espressione. «Non sarà successo qualcosa a Jill, vero?»

«Sto cercando di trattenermi dal venire lì e ficcarti il telefono in gola. Jill ci ha detto tutto, Steve.»

Lui fece spallucce e incrociò i piedi sulla scrivania. «Che cosa vi ha detto?»

«Ho visto i lividi. Jill mi ha spiegato come se li è procurati.»

«Già.» Inarcò le sopracciglia. «Mi ha detto che usciva insieme a voi ragazze, ieri sera.» Guardò l'ora. «Senti, muoio dalla voglia di parlare con te dei nostri problemi coniugali, ma purtroppo sono impegnato e...»

Mi protesi verso di lui. «Sentimi tu, Steve. Sono venuta a dirti che questa cosa deve finire. E subito. Se alzi un'altra volta le mani su Jill, se la vedo con un'unghia rotta su cui non mi vuole dare spiegazioni o anche soltanto con la faccia triste, apro un'inchiesta a tuo carico per atti di violenza. Hai capito?»

Steve non cambiò espressione. Giocherellò con un ricciolo e ridacchiò. «Però! Sapevo che eri una rompicoglioni, ma non credevo arrivassi a tanto. Jill non aveva nessun diritto di parlarti dei fatti nostri. So che voi donne in carriera che vivete circondate da cani non date molto peso alla cosa, ma io e Jill siamo sposati. E quando si è sposati bisognerebbe risolvere i problemi in due.»

«Fino a un certo punto.» Lo fulminai con lo sguardo. «Gli atti di violenza sono perseguibili per legge, Steve. Non faccio altro che mandare in galera mariti che picchiano la moglie.»

«Jill non mi denuncerà mai», dichiarò. Quindi aggrottò le sopracciglia. «Oddio, si è fatto tardi... Se non ti dispiace, Lindsay, avrei un appuntamento.»

Mi alzai in piedi. Non capivo come facesse a comportarsi con tanta leggerezza quando stavamo parlando di Jill. «Cercherò di spiegarmi meglio», dissi. «Se alzerai ancora una volta le mani su di lei, non aspetterò che Jill ti denunci. Non vorrei che una sera, quando metti la macchina in garage molto tardi, sentissi dei rumori sospetti e dovessi dartela a gambe... Sta' attento, Steve.»

Andai verso la porta, sempre guardandolo in faccia. Steve rimase lì seduto, senza parole, furioso. «Spero che ci siamo intesi.»

37

Cindy Thomas era seduta alla sua scrivania nella redazione del Chronicle, agitata. Stappò una bottiglietta di succo di albicocca biologico e ne bevve un sorso, poi aprì il giornale e lesse la prima pagina. C'era un suo articolo nella colonna di destra, intitolato «Due imprenditori uccisi in pochi giorni. La polizia indaga».

Accese il computer per controllare la posta elettronica. La foto del modello iperpalestrato in canottiera che aveva come screen-saver riempì lo schermo. Aprì Internet Explorer e la casella di posta.

Aveva dodici nuovi messaggi.

Ne vide uno di Aaron, il pastore protestante con cui aveva troncato la relazione quattro mesi prima. «Il 22 maggio alle 20.00 si esibirà nella nostra chiesa Pumpkinseed Smith. Vuoi venire?» Pumpkinseed Smith era uno dei migliori cornisti del momento. «Certo che ci verrò!» rispose Cindy. «A costo di sorbirmi uno dei tuoi sermoni.»

Lesse velocemente gli altri messaggi. La risposta di un collaboratore del giornale che aveva incaricato di svolgere ricerche su Lightower e Bengosian. Sembrava che quest'ultimo fosse stato denunciato ben quarantasei volte da gente che si era vista rifiutare il rinnovo della polizza sanitaria.

Stava per eliminare l'ultimo messaggio perché non ne conosceva il mittente - SLAM@hotmail.com. - ma l'oggetto la colpì. Diceva: «Che cosa succederà adesso?»

Lo aprì, preparandosi a buttarlo nel cestino. Bevve un sorso di succo di albicocca.

Non chiedere come abbiamo avuto il tuo nome o perché ti stiamo contattando. Se vuoi collaborare, fa' la cosa giusta.

Cindy si avvicinò allo schermo.

I «tragici» avvenimenti della settimana scorsa sono solo la punta dell'iceberg.

I ministri delle Finanze delle grandi potenze del mondo si incontreranno la settimana prossima per spartirsi le ultime fette della «libera economia mondiale» dopo Bretton Woods, quel poco che ancora si è salvato dal loro sfruttamento selvaggio.

Cindy aveva il cuore in gola. Continuò a leggere.

Siamo pronti a uccidere una sanguisuga ogni tre giorni e lo faremo, finché qualcuno non capirà che il libero mercato è un virus globale che tiene le nazioni prive di risorse prigioniere della Grande Menzogna per cui il commercio le renderà libere, che ha ridotto le nostre sorelle in schiavitù negli sweatshop delle multinazionali, che ha mangiato i risparmi dei lavoratori americani, stritolati dalla corruzione di Wall Street.

Non siamo più voci isolate.

Siamo un esercito, feroce e letale quanto le superpotenze mondiali.

Cindy sbatté le palpebre, sbigottita. Doveva crederci o era una delle tante bufale che giravano su Internet? Qualcuno forse la trovava divertente?

Premette il tasto STAMPA e continuò a leggere, riordinando la scrivania con la cornetta sulla spalla.

Il motivo per cui ti abbiamo scelto è che i normali canali dei media sono corrotti ed egoisti come le multinazionali globali che li controllano. Fai parte anche tu di questo sistema corrotto? Presto lo vedremo.

Chiediamo ai politici che si riuniranno a San Francisco la settimana prossima per il G8 di compiere un'azione storica e sciogliere le catene, cancellare il debito dei Paesi poveri, lavorare per la libertà e non per il profitto, fermare la macchina della colonizzazione e aprire l'economia al mondo.

Finché non sentiremo questa voce, voi sentirete la nostra. Ogni tre giorni un porco bastardo morirà.

Sai che cosa devi fare, Thomas. Non perdere tempo a cercare di scoprire chi siamo, altrimenti non ci faremo mai più vivi con te.

Cindy aveva la bocca improvvisamente secca. SLAM@hotmail.com. Esisteva veramente o era uno scherzo?

Scorse il messaggio fino in fondo alla pagina e, per qualche secondo, rimase impietrita.

La firma era August Spies.

38

Quando mi risedetti alla mia scrivania, vidi che mi avevano lasciato un messaggio sia Traccino sia Jill.

«E il Chronicle ti sta aspettando», mi avvertì Brenda, la mia segretaria.

«Il Chronicle

Alzai gli occhi e scorsi Cindy, seduta su una pila di pratiche fuori del mio ufficio. Si alzò in piedi appena mi vide. Purtroppo non avevo tempo per lei.

«Cindy, scusami, ma in questo momento non posso. Abbiamo una riunione alle...»

«No», mi interruppe lei, decisa. «Devo farti vedere una cosa. Ti assicuro che è una priorità assoluta, Lindsay.»

«È successo qualcosa?»

«Temo di sì.»

Ci chiudemmo nel mio ufficio e Cindy tirò fuori un foglio dal suo zainetto. Sembrava la stampa di una e-mail.

«Siediti», mi ordinò. Posò il foglio sulla scrivania e si sedette vicino a me. «Leggi qua.»

La guardai negli occhi e capii che era una cosa grave.

«Mi è arrivata stamattina», spiegò. «Il mio indirizzo è sul sito del Chronicle. Non so chi me l'abbia mandata, né perché. Ma mi fa venire i brividi.»

Cominciai a leggere. «Non chiedere come abbiamo avuto il tuo nome o perché ti stiamo contattando...» Più leggevo, più mi veniva la pelle d'oca. «Siamo pronti a uccidere una sanguisuga ogni tre giorni e lo faremo...» Alzai gli occhi.

«Vai avanti», mi consigliò Cindy.

Abbassai gli occhi e finii il messaggio, cercando di capire se era vero oppure no. Arrivata in fondo alla pagina, capii che non era una bufala.

August Spies.

Avevo il cuore in gola: improvvisamente mi era chiaro dove volesse andare a parare quella gente. Volevano tenere in scacco la città seminando il terrore. L'obiettivo era il G8, in programma di lì a dieci giorni. Anzi, nove. I ministri delle Finanze dei Paesi più industrializzati del mondo si sarebbero riuniti a San Francisco...

«Chi ne è al corrente?» domandai a Cindy.

«Tu, io e loro», mi rispose lei.

«Vogliono che tu pubblichi le loro richieste», osservai. «Vogliono parlare al mondo attraverso il Chronicle.» Stavo prendendo in considerazione tutte le opzioni possibili. «A Tracchio verrà un colpo.»

Il conto alla rovescia era già cominciato. Ogni tre giorni. Era giovedì. Sapevo che quella e-mail doveva essere resa pubblica. E sapevo anche che, da quel momento, il caso non sarebbe stato più mio. Prima, però, dovevo fare ancora una cosa.

«Proviamo a risalire all'indirizzo di posta elettronica», propose Cindy. «Conosco un hacker che...»

«Lascia perdere, non scopriremo niente», tagliai corto io. «Piuttosto, cerchiamo di capire come mai hanno contattato proprio te. Il Chronicle è pieno di reporter. Dev'esserci un motivo...»

«Be', potrebbe essere perché ho scritto un articolo sul caso. O perché ho i miei agganci a Berkeley, non so. Anche se sono dieci anni che ho finito l'università...»

«Potrebbe essere qualcuno che conosci? Che frequentavi ai tempi dell'università? Quel coglione di Lemouz?»

Ci guardammo negli occhi. «Che cosa vuoi che faccia?» mi domandò alla fine Cindy.

«Non so...» Avevano stabilito un contatto. Era evidente che cercavano un dialogo e che noi, pur di evitare un altro tragico assassinio, avremmo parlato con loro.

39

Tutto sembrava puntare verso Berkeley. La fonte degli account di posta elettronica. Il luogo in cui era stata ritrovata Caitlin Lightower. Lemouz. Il tesserino rubato a Wendy Raymore. Una nuova vittima entro tre giorni. Il conto alla rovescia era già cominciato...

Ero stufa di aspettare che succedesse qualcosa. I nostri uffici erano pieni di agenti dell'FBI che studiavano il messaggio ricevuto da Cindy, cercando di risalire a chi lo aveva mandato e di estrapolarne tutti i possibili significati. Era ora di prendere in mano la situazione, di reagire.

Jacobi e io andammo da Joe Santos e Phil Martelli, due colleghi di Berkeley che adesso svolgevano soprattutto lavoro d'intelligence. Santos era nella polizia dagli anni '60; si era occupato di furti, rapine, omicidi... Insomma, ne aveva viste di tutti i colori. Martelli era leggermente più giovane e veniva dalla Narcotici.

«Qui nella repubblica popolare di Berkeley si trova di tutto», commentò Santos con un'alzata di spalle, mettendosi in bocca una mentina. «Eserciti di liberazione, irlandesi, arabi, libertà di parola, libero mercato... Scontenti di tutti i tipi, insomma.»

«Gira voce che il popolo di Seattle stia arrivando qui in sordina per fare casino al G8», aggiunse Martelli.

Tirai fuori le foto della casa di Lightower dopo l'esplosione e del cadavere di Bengosian. «Secondo me, chi ha fatto questo è ben più spietato del popolo di Seattle.»

Martelli sorrise a Santos, che lo capì al volo. «C'è uno dei nostri che lavora sotto copertura e tiene d'occhio un tizio che ce l'ha con la Pacific Gas and Electric», cominciò. «Sono dei ladri, veramente, e non c'è nessuno in California che non si sia sentito derubato da loro almeno una volta nella vita, dal caso Enron in poi.»

«È vero, stanno sulle palle a tutti quanti», intervenne Jacobi. «Me compreso.»

«Comunque, questo tizio rompe i coglioni più del normale al servizio clienti, organizza picchetti intorno alla sede della società, distribuisce volantini in cui esorta la cittadinanza a non pagare le bollette della luce. Il movimento si chiama Free People's Power Initiative e il suo motto è 'energia gratis per il popolo'», continuò Santos. «Ma abbiamo la sensazione che sia un'iniziativa isolata di un tizio molto arrabbiato e basta.»

Proseguì Martelli. «Questo psicopatico va sempre in giro con un tascapane e noi pensavamo ci tenesse dentro i volantini. Un giorno un nostro collega lo ferma e glielo fa aprire. Dentro c'era un lanciarazzi M49. Gli perquisiamo la casa e troviamo granate, C-4, detonatori. Capito la Free People's Power Iniziative? Volevano far saltare in aria la società elettrica!»

«Dicevi che si sta muovendo gente per il G8, Joe», ripresi io. «Potremmo cominciare da lì.»

«Oppure...» Santos si mise in bocca un'altra mentina. «Sappiamo che oggi è in programma una specie di manifestazione davanti alla filiale della Bank of America in Shattuck Avenue. Perché non andate a dare un'occhiata? Così vi rendete conto con che gente abbiamo a che fare.»

40

Venti minuti dopo, fermammo la macchina priva di contrassegni di Santos e Martelli a due isolati dalla Bank of America. Intorno alla filiale della banca si erano radunati un centinaio di manifestanti, alcuni dei quali reggevano cartelli con scritte del tipo: UN POPOLO È LIBERO SOLO SE È LIBERO IL SUO SISTEMA BANCARIO e MORTE AL WTO.

Un manifestante in jeans e maglietta era in piedi sul tettuccio di una jeep nera e gridava al megafono: «La Bank of America schiavizza le bambine del Terzo Mondo. La Bank of America succhia il sangue al popolo!»

«Ma contro che cosa protesta questa gente?» domandò Jacobi. «I tassi dei mutui?»

«Chi lo sa», replicò Santos. «Lo sfruttamento della manodopera minorile in Guatemala, il WTO, le multinazionali, il buco nell'ozono. La maggior parte probabilmente non ha uno straccio di lavoro, piglia il sussidio di disoccupazione ed è disposto a vendersi per un pacchetto di sigarette. A me interessano solo i leader.»

Prese una macchina fotografica e cominciò a scattare foto di gente nella folla. Fra la banca e i manifestanti c'era un cordone di agenti di polizia armati di manganello.

Mi tornarono in mente alcune delle cose che mi aveva detto Cindy, che cominciavano ad assumere un significato. Per esempio il fatto che molti di noi vivono la loro vita tranquilli e sereni e voltano la pagina tutte le volte che leggono di gente sotto la soglia della povertà e senza assicurazione sanitaria o dei Paesi in via di sviluppo strozzati dal debito. Ma che c'è anche gente che non volta pagina, che non ci riesce. Mi aveva detto che ero a mille miglia di distanza da quella realtà. Be', non era più così.

Sul tetto della jeep sali un altro oratore. Rimasi sbigottita: era Lemouz. Guarda guarda...

Il professore prese il megafono e cominciò a gridare: «Chi fa parte della Banca Mondiale? Sedici istituti di ogni parte del mondo. Uno di essi è la Bank of America. Chi prestava denaro a Morton Lightower? Chi si occupava dei collocamenti azionari della X/L Systems? La Bank of America!»

L'umore della folla improvvisamente cambiò. «Questi bastardi devono morire!» gridò una donna.

Uno studente intonò uno slogan: «Banchieri assassini, sfruttatori di bambini».

I manifestanti si stavano agitando. Un ragazzo gettò una bottiglia contro una vetrina della banca. Temetti fosse una Molotov, ma per fortuna non esplose.

«Vedete con chi abbiamo a che fare?» disse Santos. «Il guaio è che per certi versi hanno anche ragione.»

«Infatti», concordò Jacobi.

Due agenti cercarono di fermare il ragazzo che aveva lanciato la bottiglia, ma i manifestanti serrarono le fila per non lasciarli passare e permettere al ragazzo di scappare in una via laterale.

Improvvisamente si alzarono delle grida, qualcuno finì a terra. Non sapevo come fosse cominciato il parapiglia.

«Cazzo!» Santos posò la macchina fotografica. «Non vorrei che la situazione ci sfuggisse di mano.»

Un agente colpì con il manganello un ragazzo dai capelli lunghi, in ginocchio per terra. Cominciarono a volare bottiglie, pietre, oggetti contundenti. Due agitatori lottavano con i poliziotti, che li gettarono a terra immobilizzandoli.

Lemouz continuava ad arringare la folla. «Vedete a che cosa ricorrono le istituzioni? Ai manganelli. Spaccano la testa a donne e bambini.»

Non potevo più restare lì ferma ad ascoltare. «Vado a dargli una mano», dissi, facendo per aprire la portiera.

Martelli mi trattenne. «Se ci facciamo vedere, siamo fregati.»

«Io sono già fregata», protestai, prendendo la pistola dalla fondina alla caviglia. Attraversai la strada, seguita da Martelli.

I manifestanti stavano lanciando una grandine di pietre contro i poliziotti. «Porci! Fascisti!»

Mi feci largo tra la folla. Una donna si tamponava una ferita alla testa con una sciarpa. Un'altra teneva in braccio un bambino urlante, cercando di allontanarsi dai disordini: mi rallegrai che ci fosse ancora qualcuno con la testa sul collo.

Lemouz mi vide e mi guardò negli occhi. «Guardate come la polizia affronta chi osa alzare la propria voce per protestare contro le ingiustizie! Ad armi spianate!»

Poi aggiunse, sorridendo: «Signorina Boxer, vedo che continua a interessarsi a certi argomenti. Mi dica, che cosa ha imparato di nuovo oggi?»

«È colpa sua!» gridai, meditando se arrestare quel sobillatore per istigazione a delinquere. «Questa gente era tranquilla, prima che arrivasse lei a fomentare i disordini!»

«Che vergogna! Purtroppo, però, delle dimostrazioni pacifiche sui giornali non si parla. Invece, guardi qua!» Mi indicò il furgone di un'emittente televisiva che aveva appena raggiunto il luogo della manifestazione. Un giornalista e un cameraman scesero e cominciarono a riprendere.

«La tengo d'occhio, Lemouz.»

«Ne sono lusingato, tenente. In fondo sono solo un povero professore di materie non più molto in voga, ahimè. Sa, dovremmo andare a bere qualcosa insieme, io e lei. Mi piacerebbe, davvero. Purtroppo però adesso devo lasciarla. Non posso trascurare l'ennesimo episodio di sopruso da parte della polizia.»

S'inchinò e mi guardò con un'arroganza che mi fece accapponare la pelle, poi si rivolse ai manifestanti e cominciò ad agitare le braccia scandendo slogan.

41

Charles Danko entrò nell'atrio anonimo del grande edificio pubblico. A sinistra c'era un gabbiotto con due agenti di guardia che controllavano borse e valigette. Strinse con maggior forza il manico della ventiquattrore.

Naturalmente in quel momento non si chiamava Danko, ma Jeffrey Stanzer. In precedenza era stato anche Michael O'Hara e Daniel Browne. Cambiare nome era facile come procurarsi una patente falsa e lui ne aveva cambiati tanti negli ultimi anni, assumendo un'identità diversa ogni volta che rischiava di essere scoperto. L'unica costante nella sua vita era l'ideale che lo animava, la convinzione di avere una missione, la consapevolezza di fare una cosa importante, il senso del dovere nei confronti del popolo, di tutti quelli che erano morti per le loro idee.

Ma la cosa spaventosa era che non era vero niente.

Charles Danko non credeva in nulla ed era animato soltanto dall'odio.

Controllò le guardie nel gabbiotto: facevano il loro lavoro, come al solito. Li aveva osservati spesso. Si avviò verso il metal detector e si svuotò le tasche. Lo aveva fatto talmente tante volte, in quelle ultime settimane, che sarebbe potuto passare per uno che lavorava lì. Sapeva già che cosa stavano per dirgli: Posi la borsa qua, per favore.

E infatti: «Posi la borsa qua, per favore», disse la guardia, liberando un po' di posto sul tavolo. Mentre l'apriva e ne radiografava il contenuto, gli chiese: «Si è messo a piovere?»

Danko scosse la testa, trattenendo appena il fiato. Malcolm questa volta aveva fatto un capolavoro, modellando perfettamente l'esplosivo nella valigetta, e comunque quei due cretini non avrebbero riconosciuto un ordigno esplosivo neppure se glielo avessero messo sotto il naso.

Danko passò sotto il metal detector, facendo scattare un allarme. Si tastò la giacca e parve sorpreso di trovarsi il cellulare in una tasca.

«Mi scusi», disse alla guardia con un sorriso. «Mi ricordo di averlo solo quando squilla.»

«A me telefonano soltanto i miei figli», replicò la guardia, cordiale.

Era proprio facile. La gente dormiva a occhi aperti, nonostante lo stato di allerta. Un'altra guardia spinse la sua valigetta in fondo al nastro trasportatore. Danko era entrato nella Corte di Giustizia.

E avrebbe potuto farla saltare in aria uccidendo tutti quelli che c'erano dentro. Senza il minimo rimorso, senza il minimo rimpianto.

Per un attimo restò lì a guardare la gente che andava avanti e indietro indaffarata, ripensando alla vita monotona e banale che aveva condotto per anni. Gli cominciarono a sudare le mani. Nel giro di qualche minuto avrebbero saputo che lui poteva colpire ovunque, anche al cuore dei palazzi del potere, nel centro nevralgico delle indagini.

Vi troveremo, per quanto grandi siano le vostre dimore e potenti i vostri avvocati...

Con quello che aveva in mano, poteva far saltare un intero piano della Corte di Giustizia.

Entrò in un ascensore pieno di gente e premette il pulsante numero tre. Molti dipendenti stavano rientrando dopo la pausa per il pranzo. C'erano poliziotti, investigatori della procura, pedine del sistema. Quando erano assieme alle loro famiglie, ai loro cani e gatti, quando guardavano le partite dei Giants forse non si sentivano responsabili. Ma lo erano. Tutti, anche quello che spazzava le scale. Era anche colpa loro, in fondo. E, se non lo era, chi se ne frega.

«Mi scusi», disse Danko uscendo dall'ascensore insieme ad altre due o tre persone. Vide passare due agenti in divisa, ma non si scompose. Anzi, sorrise. Era così facile... In quel palazzo c'erano il procuratore, il capo della polizia e gli ispettori che indagavano su di lui.

E lui era lì, a pochi passi da loro! Lo avevano lasciato arrivare fin lì! Imbecilli!

Credevano di avere la situazione sotto controllo, ma lui avrebbe dimostrato al mondo che erano una massa di incompetenti.

Trasse un lungo respiro e si fermò davanti alla stanza 305. SQUADRA OMICIDI, diceva la targa.

Rimase lì un momento a guardarla senza mostrare il minimo segno di titubanza, poi si voltò e tornò verso l'ascensore.

La prova generale è andata benissimo, si disse, premendo il tasto per tornare al pianterreno.

L'addestramento è tutto Ma la prossima volta

Bum! Con tanti auguri da August Spies.

PARTE TERZA

42

Quando me ne andai da Berkeley per tornare in ufficio erano le quattro. Incrociai la mia segretaria, Brenda, nel corridoio. «Ti ha cercato due volte il sostituto procuratore Bernhardt, ma prima devi andare dal capo. Ti aspetta di sopra.»

Quando bussai alla porta di Traccino, la task force si era già riunita. Non rimasi sorpresa nel vedere Tom Roach, dell'FBI della California. I federali si stavano occupando del caso da quando Cindy aveva ricevuto quella e-mail. C'erano anche Gabe Carr, il vicesindaco, responsabile dei rapporti con le forze dell'ordine, e Steve Fiori, il nostro addetto stampa.

Nel gruppo c'era anche una persona che non avevo mai visto. Un uomo robusto, con i capelli folti e scuri. Aveva scritto in faccia che era lì in avanscoperta per controllare le misure di sicurezza previste per il G8. Vedrai che questo mi fa venire l'ulcera, pensai.

Rivolsi un cenno di saluto alle persone che conoscevo e lanciai una rapida occhiata a Mister G8. «Il tenente adesso ci aggiornerà sulla situazione», disse il capo.

«Certo», risposi. Avevo lo stomaco in subbuglio. Non sapevo di dover tenere una presentazione ufficiale. Tracchio mi aveva messo in mezzo all'ultimo momento, come suo solito.

«Molti elementi indicano un legame con Berkeley», cominciai. Spiegai quali piste stavamo seguendo. Parlai della baby-sitter, della manifestazione di quel giorno, di Lemouz.

«Ritieni che il professore sia coinvolto?» mi chiese Traccino.

«Ho controllato se ha precedenti e non ho trovato nulla, a parte un paio di denunce per manifestazioni non autorizzate e resistenza a pubblico ufficiale», dissi. «Ma in entrambi i casi non c'è stato processo. Non sembra un criminale. O, se lo è, è molto in gamba.»

«Sono stati identificati taggants nell'esplosivo?» domandò Tracchio. Pensai che volesse fare bella figura con lo sconosciuto vestito di marrone. Mi chiesi chi fosse esattamente. «L'ATF ci sta lavorando», risposi.

«Queste persone comunicano con noi da Internet point e ci minacciano», disse.

«Non si possono controllare tutti gli Internet point della Bay Area», replicai. «Avete presente quanti sono?»

«Duemilacentosettantanove», rispose l'uomo vestito di marrone, sbandierando un foglietto. «Nella Bay Area ci sono per l'esattezza duemilacentosettantanove pubblici accessi a Internet fra università, biblioteche, caffè e aeroporti. Il numero comprende anche due terminali nei centri di reclutamento di San Jose, che non credo valga la pena di controllare.»

«Ah be'», commentai. «Questo ci facilita parecchio il compito.»

«Scusate, ma sono arrivato da Madrid venti minuti fa. Pensavo di dover valutare le misure di sicurezza per il G8 della prossima settimana, e invece mi ritrovo nel bel mezzo di una terza guerra mondiale.»

«Lindsay Boxer», mi presentai.

«So chi è», replicò il federale. «L'anno scorso si è occupata della sparatoria alla chiesa di La Salle Heights, giusto? Al dipartimento di Giustizia se ne è parlato. Pensa che riusciremo a contenere i facinorosi, la prossima settimana?»

«Contenere i facinorosi?» Ma come parlava?

«Non c'è da scherzare, tenente. I ministri delle Finanze dei Paesi più industrializzati del mondo s'incontreranno qui a San Francisco. Abbiamo una minaccia alla sicurezza pubblica e, come ha detto il signor Traccino, pochissimo tempo per gestirla.»

I suoi modi diretti mi piacquero subito. Non sembrava il solito burocrate washingtoniano.

«Non si rimanda il vertice, dunque», disse Gabe Carr, il vicesindaco.

«Come?» l'uomo di Washington si guardò intorno. «I luoghi in cui si terranno gli incontri sono sicuri, giusto? Abbiamo abbastanza uomini, signor Tracchio?»

«Tutti quelli in forze alla polizia saranno a sua disposizione la prossima settimana», replicò Tracchio.

Mi schiarii la voce. «E la e-mail che abbiamo ricevuto? Che cosa ne facciamo?»

«Lei che cosa ne farebbe, ispettore?» domandò l'uomo in marrone.

Avevo la bocca asciutta. «Io risponderei», dissi. «Aprirei il dialogo. 'Mapperei' i terminali da cui comunicano, vedrei che cosa dicono. Più gli parliamo, più possibilità abbiamo di scoprirli...»

Seguì un silenzio teso e lunghissimo, in cui mi chiesi se stavo per essere esonerata dalle indagini.

«Va bene, risponda», mi disse l'agente federale, strizzandomi l'occhio. «Non c'era bisogno di tanti melodrammi, volevo solo vedere con chi ho a che fare. Piacere, Joe Molinari», concluse sorridendo e porgendomi il suo biglietto da visita.

Mentre lo leggevo, cercando di non cambiare espressione, mi venne il batticuore.

DIPARTIMENTO DELLA SICUREZZA NAZIONALE, diceva il biglietto. JOSEPH P. MOLINARI, VICEDIRETTORE.

Cazzo, se veniva dalle alte sfere!

«Apriamo pure un dialogo con questi bastardi», dichiarò.

43

Dopo l'incontro con Molinari la testa mi girava ancora. Prima di tornare in ufficio, feci un salto da Jill.

Una donna stava passando l'aspirapolvere nel corridoio, ma la luce nel suo ufficio era ancora accesa.

Sentii una canzone di Eva Cassidy in sottofondo e Jill che dettava un testo.

«È permesso?» bussai alla porta con discrezione. «Ho saputo che mi hai cercato, ma ho avuto una giornata pesantissima. Sapessi...»

«So», replicò Jill, gelida. «So che cosa hai fatto stamattina.»

Forse meritavo il suo tono brusco.

«Senti, capisco che tu ti sia arrabbiata un pochino, ma...» Entrai e andai a fermarmi di fronte a lei, posando le mani sulla spalliera della sedia.

«Sì, lì per lì mi sono arrabbiata un pochino», rispose Jill.

«E poi?»

«E poi mi sono incazzata da morire, Lindsay.»

Non stava scherzando. Aveva la faccia serissima. Jill sapeva essere molto dura, a volte.

«Calmati, per favore», dissi, sedendomi. «So di aver esagerato, ma lascia che ti spieghi.»

Jill rise. «Effettivamente minacciare di mandare un sicario a mio marito mi è sembrato un tantino sopra le righe.»

«Mai parlato di sicari», precisai. «Volevo mettergli solo un po' di paura, ma non ha importanza, adesso. Purtroppo tuo marito è un grandissimo stronzo.» Avvicinai la sedia al lato della scrivania. «Senti, Jill, ho sbagliato, lo so. Non ero andata da lui per minacciarlo, ma mi ha provocato. È stato così indisponente...»

«Forse gli ha dato fastidio vedersi sbandierare sotto il naso i nostri panni sporchi. Io ti ho parlato in confidenza, Lindsay.»

«Hai ragione», replicai. «Scusami.»

Jill gradualmente si ammorbidì e a un certo punto si girò sulla poltroncina e mi si avvicinò.

«Senti Lindsay, sono una donna adulta. Lascia che combatta da sola le mie battaglie. Mi sono confidata con te in quanto amica, non in quanto tenente di polizia.»

«Okay.»

«Ho bisogno della tua amicizia, non della tua protezione.» Mi prese le mani e me le strinse. «Di solito fra amiche ci si ascolta, ci si invita a pranzo, ci si presentano i colleghi più carini. Piombare nell'ufficio di mio marito per minacciarlo, di morte o quant'altro, non è propriamente un comportamento da amica, Lindsay.»

Risi e vidi che anche a lei scappava da ridere. La sua corazza di ghiaccio si stava incrinando.

«Okay, da amica: come vanno le cose fra te e quello stronzo, adesso?» chiesi con un sorriso.

Jill sorrise a sua volta e si strinse nelle spalle. «Non malissimo... Abbiamo preso in considerazione l'idea di andare da un consulente.»

«Legale o matrimoniale?»

«Ti prego, Lindsay, cerca di capire. E poi abbiamo cose più importanti di cui parlare. Che cosa sta succedendo a San Francisco?»

Le dissi del messaggio di posta elettronica che Cindy aveva ricevuto quella mattina e di come le indagini avessero preso un'altra piega, da quel momento. «Hai mai sentito nominare un certo Joe Molinari, dell'antiterrorismo?»

Jill ci pensò un momento su. «Ricordo un Joe Molinari procuratore, a New York. Ottimo professionista, si occupò anche dell'attentato al World Trade Center. Non male, peraltro. Poi si trasferì a Washington, credo.»

«Si. Adesso lavora nella Sicurezza Nazionale. E si occupa del mio caso.»

«Be', poteva andarti peggio», replicò Jill. «Come ho detto, è belloccio.»

«Non mi interessa», tagliai corto, arrossendo.

Jill piegò la testa di lato. «Di solito i federali non ti piacciono.»

«Perché di solito sono burocrati incapaci che sfruttano il nostro lavoro per far carriera. Invece questo Molinari sembra in gamba. Potresti farmi un controllino?»

«Che genere di controllino? Vuoi il suo curriculum vitae o il suo stato civile? Lindsay, non mi dire che sei già così presa da questo agente speciale!»

«Vicedirettore del Dipartimento della Sicurezza Nazionale», precisai, arricciando il naso.

«Un uomo con una posizione, quindi.» Annuì, con aria di approvazione. «Gran bell'uomo, dico bene?» Sorrise. Scoppiammo a ridere tutte e due.

Dopo un po', le presi la mano. «Mi dispiace di essere andata da Steve stamattina, Jill. Come se non tu avessi già abbastanza problemi... Scusa. Non posso prometterti di restarne fuori, però. Sei mia amica, Jill, e sono preoccupata per te. Lo siamo tutte. Ti do la mia parola, comunque, che non gli manderò nessuno né a ucciderlo né a gambizzarlo. Perlomeno non senza averti chiesto il permesso.»

«Okay.» Jill annuì e mi strinse la mano. «So che sei preoccupata per me, Lindsay, e te ne sono grata. È solo che voglio sbrigarmela da sola, capisci? E lascia a casa le manette, la prossima volta.»

«Okay», risposi. E le sorrisi.

44

Per essere svizzero, Gerdhard Propp aveva acquisito gusti e abitudini molto americani, per esempio la pesca al salmone. Posò sul letto della sua camera al Governor Hotel di Portland il giubbotto da pescatore che aveva appena comprato, assieme a un raffio e ad alcune esche di silicone.

Il suo lavoro di economista all'ocSE, a Ginevra, poteva sembrare piuttosto noioso, ma lo portava negli Stati Uniti diverse volte l'anno e gli aveva fatto fare amicizia con alcuni appassionati di pesca al salmone.

L'indomani aveva in programma di andare a pescare e quindi dare gli ultimi ritocchi all'intervento che avrebbe letto al G8 di San Francisco la settimana successiva.

S'infilò il giubbotto nuovo e si guardò allo specchio. Sembro proprio un professionista! Si sistemò il cappello e gonfiò i pettorali, sentendosi energico e virile come un divo hollywoodiano.

Bussarono. Pensò che fosse il cameriere, visto che aveva chiesto che gli stirassero un vestito.

Quando aprì, rimase sorpreso nel vedere un individuo che non indossava una divisa da cameriere, ma un passamontagna sul volto.

«Herr Propp?» chiese il ragazzo.

«Sì?» fece Propp, aggiustandosi gli occhiali. «Chi è lei?»

Prima che potesse aggiungere altro, vide il giovane tendere una mano e si sentì stringere il collo. Poi cadde malamente per terra.

Cercò di capire che cosa stava succedendo. Aveva perso gli occhiali e gli usciva il sangue dal naso. «Mio Dio, che cosa...?»

Il ragazzo entrò nella stanza e chiuse la porta. Di colpo gli apparve nella mano un oggetto metallico. Propp rimase di stucco. Era miope, ma non aveva dubbi: il giovane impugnava una pistola

«Lei è Gerhard Propp?» chiese di nuovo lo sconosciuto. «Economista all'OCSE di Ginevra? Non cerchi di negare.»

«Sono io», rispose Propp. «Con che diritto mi piomba in camera in questo...»

«Il diritto di centinaia di migliaia di bambini che muoiono in Etiopia ogni anno», lo interruppe il giovane. «Per malattie che si potrebbero curare, se il debito estero del loro Paese non fosse sei volte superiore agli stanziamenti statali per la sanità.»

«Che cosa?» balbettò Propp.

«Il diritto dei malati di AIDS in Tanzania», continuò il giovane. «Che il governo lascia morire perché è troppo occupato a ripagare il debito che lei e gli altri sciacalli come lei gli imponete.»

«Sono soltanto un economista», si difese Propp. Ma per chi lo aveva preso quell'uomo?

«Lei è Gerhard Propp, economista capo dell'OCSE, che si adopera affinché le nazioni economicamente avvantaggiate esproprino sempre più risorse ai Paesi più deboli, riducendoli a discariche per l'Occidente.» Prese un guanciale. «Lei è fra coloro che hanno messo a punto il MAI.»

«Si sbaglia», replicò Propp, ormai nel panico. «Gli accordi che abbiamo concluso hanno permesso ad alcuni Paesi in via di sviluppo di entrare nel mondo moderno, creando posti di lavoro e dando la possibilità di esportare a nazioni che altrimenti non avrebbero potuto competere.»

«È lei che si sbaglia!» gridò il giovane. Andò ad accendere la TV. «I vostri accordi hanno portato soltanto avidità, miseria e sfruttamento. E queste stronzate in televisione.»

La CNN stava trasmettendo alcune notizie sull'economia internazionale. Propp guardò con occhi sbarrati il giovanotto inginocchiarsi accanto a lui, mentre il giornalista in televisione parlava della crisi in Brasile.

«Che cos'ha intenzione di fare?» chiese Propp con un filo di voce, strabuzzando gli occhi.

«Quello che vorrebbero farle migliaia di donne incinte e malate di AIDS, Herr Doktor.»

«La prego», implorò Propp. «Lei sta commettendo un grosso errore...»

Il giovanotto sorrise, guardando gli attrezzi da pesca allineati sul letto. «Vedo che è appassionato di pesca. Anch'io me ne intendo un po'.»

45

Arrivai in ufficio alle sette e mezzo, il mattino seguente, e rimasi stupefatta di fronte a Molinari seduto alla mia scrivania, intento a parlare al telefono. Doveva essere successo qualcosa.

Mi fece segno di chiudere la porta. A quanto capii, stava parlando con la sede di Washington, per farsi dare delle informazioni. Aveva in grembo una serie di scartoffie, su cui ogni tanto prendeva appunti. Lessi soltanto: «9mm» e «itinerario».

«Che cosa è successo?» gli domandai, appena ebbe concluso la telefonata.

Mi fece cenno di sedermi. «C'è stato un omicidio a Portland. Un cittadino svizzero è stato assassinato nella sua camera d'albergo. Era un economista e stava per andare a Vancouver per una battuta di pesca.»

Non volevo suonare blasé ma, dal momento che stavamo indagando su due casi della massima importanza e avevamo addosso gli occhi di tutti i leader del mondo, non potei fare a meno di chiedere: «Mi dispiace per lui. Perché ci riguarda?»

Molinari voltò verso di me una cartellina contenente alcune foto del morto che si era fatto spedire via fax. La vittima indossava un giubbotto da pesca su cui si vedevano chiaramente i fori provocati da due colpi di pistola. Aveva la camicia strappata e una scritta incisa sul petto: MAI.

«La vittima era un economista, tenente», ripeté Molinari. «Lavorava all'OCSE.» Mi guardò e fece un sorriso tirato. «Le è chiaro, adesso?»

Mi sedetti, con lo stomaco sottosopra. Sì, mi era chiaro. Era stato commesso il terzo omicidio. Osservai le foto con più attenzione. L'assassino gli aveva sparato al petto e alla fronte. In una busta di plastica per la raccolta di prove c'era un raffio, un lungo amo da pesca con il quale era stata incisa sul petto del morto la sigla MAI. «Che cosa vuol dire, secondo lei?»

«Glielo spiego in aereo», rispose Molinari, alzandosi in piedi.

46

L'aereo che Molinari aveva predisposto per il nostro viaggio era un Gulfstream G3 con uno stemma bianco, rosso e blu e la scritta GOVERNO DEGLI STATI UNITI sulla fusoliera. Quell'uomo era decisamente un pezzo grosso.

Era la prima volta che salivo su un jet nel terminal del San Francisco International Airport riservato ai voli privati. Quando i portelloni si chiusero e i motori si misero in moto, un attimo dopo che ci fummo seduti, mi sentii emozionata. «Ci metterei la firma a viaggiare sempre così», dissi a Molinari. Lui non mi contraddisse.

Il volo fino a Portland durò poco più di un'ora. Molinari passò al telefono i primi minuti del viaggio. Quando chiuse la comunicazione, attaccai discorso.

Guardai le foto della scena del delitto. «Deve ancora spiegarmi che cosa vuol dire questa sigla, MAI.»

«È un accordo commerciale segreto», mi disse. «Sottoscritto alcuni anni fa dai Paesi più ricchi del WTO, estendeva ad alcune multinazionali diritti che in certi casi andavano oltre quelli dei governi. Secondo molti, dava loro carta bianca nello sfruttamento delle economie più deboli. Venne abolito nel 1998 in seguito a una campagna di protesta mondiale, ma a quanto mi risulta l'OCSE, per cui lavorava Propp, ne stava preparando una versione riveduta e corretta per riproporlo. Indovini in quale sede.»

«Il G8 della prossima settimana?»

«Precisamente. A proposito...» Aprì la ventiquattrore. «Forse farebbe bene a guardare questi.» Mi porse un fascio di fogli: erano le informazioni che avevo richiesto su alcuni esponenti del cosiddetto «popolo di Seattle». Ogni fascicolo recava il timbro TOP SECRET, PROPRIETÀ DELL'FBI.

«Non le perda, per favore», mi disse, strizzandomi l'occhio. «Se venisse fuori che le ho fatte vedere in giro, potrei finire nei guai.»

Cominciai a leggere. Alcuni avevano precedenti penali per istigazione alla rivolta, resistenza a pubblico ufficiale e porto d'armi illegale.. Altri sembravano semplici studenti impegnati politicamente. La scheda su Robert Alan Rich aveva un'annotazione dell'Interpol che ne segnalava il ruolo di fomentatore dei disordini al World Economic Forum di Gstaad. C'erano anche una Terri Ann Gates, con un precedente per incendio doloso, e un ex studente del Reed College con i capelli scuri legati in una coda di cavallo, di nome Stephen Hardaway, che aveva commesso una rapina a Spokane.

«Bombe telecomandate, ricina... Tecnologie abbastanza sofisticate», dissi, pensando ad alta voce. «Qualcuno di questi personaggi sarebbe stato in grado di compiere questi atti terroristici, secondo lei?»

Molinari si strinse nelle spalle. «Con i contatti giusti, si La tecnologia si può comprare. Ma potremmo anche avere a che fare con un coniglio bianco.»

«Un coniglio bianco?»

«Chiamiamo così chi resta in clandestinità per lunghi periodi di tempo. Prenda i Weathermen, attivi negli anni '60: la maggior parte di loro ormai si è integrata nella società. Hanno famiglia, un lavoro. Ma alcuni non hanno rinunciato ai loro ideali.»

Si aprì la porta della cabina e il secondo pilota ci annunciò che stavamo iniziando la discesa. Misi le carte nella mia valigetta, favorevolmente impressionata dalla velocità con cui Molinari aveva soddisfatto le mie richieste.

«Ha altre domande?» mi chiese, allacciandosi la cintura. «In genere quando atterro trovo un manipolo di funzionari dell'FBI ad aspettarmi.»

«L'ultima», dissi. «Come vuole che la chiami? Vicedirettore suona un po' stalinista, a mio parere.»

Molinari scoppiò a ridere. «In genere, i miei subordinati mi chiamano 'signore'. Ma per i collaboratori sono semplicemente 'Joe'.» Mi sorrise. «Vogliamo darci del tu, Lindsay?»

«Sissignore.»

47

Fummo scortati dal terminal riservato fuori Portland al Governor Hotel, nel centro della città, da un gruppo di agenti di polizia. Era un albergo ristrutturato da poco e non vi era mai accaduto nulla di drammatico.

Mentre Molinari parlava con il capo della sede locale dell'FBI, io presi appuntamento con Hannah Wood, ispettore della Omicidi di Portland, e con il suo collega Rob Stone.

Molinari mi diede il tempo di controllare la camera in cui si era consumato il delitto, decisamente brutale. Propp doveva aver aperto la porta al suo assassino, che gli aveva sparato tre colpi di pistola, due al petto e uno alla testa. Uno dei proiettili era stato ritrovato conficcato nel pavimento dove aveva terminato la sua corsa. Ma Propp era stato anche torturato con una lama seghettata. Il coltello era ancora sul pavimento.

«Abbiamo ritrovato questi», mi disse Hannah Wood, mostrandomi una bustina contenente un proiettile da 9mm appiattito e un raffio.

«Impronte?» domandai.

«Una, parziale, sulla maniglia interna. Probabilmente di Propp. Il consolato svizzero ha contattato la famiglia», mi spiegò la Wood. «Sarebbe dovuto andare a cena con un amico ieri sera e stamattina partire per Vancouver con il volo delle sette. A parte questo, non aveva altri impegni o appuntamenti.»

M'infilai un paio di guanti, aprii la ventiquattrore sul letto di Propp e guardai i suoi appunti. Aveva qualche libro, prevalentemente di argomenti tecnici.

Entrai nel bagno. Il necessaire era aperto vicino al lavabo. Nulla di strano.

«Sarebbe meglio se ci dicesse che cosa cerca, tenente», mi suggerì Stone.

Non potevo. Il nome August Spies non era stato ancora reso noto. Mi concentrai sulle foto del morto. La scena era raccapricciante, sangue dappertutto e la sigla incisa nella carne del cadavere: MAI.

Gli assassini stavano mettendo in atto il loro piano per farsi conoscere: ma qual era il messaggio che volevano diffondere?

«Senta, tenente, non è difficile capire come mai siete venuti qui, lei e il vicedirettore», disse Hannah Wood. «Gli omicidi di San Francisco sono collegati alla morte di quest'uomo, vero?»

Prima che potessi rispondere, ci raggiunsero Molinari e l'agente federale Thompson. «Ha visto tutto?» mi chiese Molinari.

Thompson aveva in mano il cellulare. «Se non avete obiezioni, avverto l'antiterrorismo di Quantico che l'assassino ha colpito ancora.»

«Tenente?» Molinari mi guardò.

Scossi la testa. «Meglio di no.»

L'agente dell'FBI mi squadrò sbigottito. «Come ha detto, tenente?»

«Ho detto che, a mio parere, ci conviene aspettare», dissi, scandendo bene le parole. «Io non credo che questo omicidio sia opera della stessa mano. Ne sono quasi certa.»

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A giudicare dallo sguardo dell'agente federale Thompson, sembrava che gli fosse appena crollato il soffitto sulla testa. Molinari, invece, non ebbe reazioni di sorta e mi guardò, aspettando che io mi spiegassi.

«Lei sa che mestiere faceva Gerhard Propp? E perché si trovava negli Stati Uniti?» domandò l'agente Thompson.

«Sì», risposi.

«Sa dove sarebbe dovuto andare la settimana prossima?»

«Sì, sono stata informata dei progetti della vittima», risposi. «Come lei.»

Thompson sorrise a Molinari. «Dunque questo sarebbe un altro maniaco assassino che ce l'ha con il G8?»

«Sì», risposi. «È esattamente quello che penso.»

Thompson scoppiò a ridere e aprì il cellulare. Cominciò a cercare un numero sulla rubrica, ma Molinari lo fermò. «Prima sentiamo che cosa ha da dire il tenente.»

«Okay», cominciai. «In primo luogo, il delitto presenta caratteristiche molto diverse rispetto agli altri. Tanto per cominciare, l'assassino è di sesso maschile, come si evince dalla forza con cui ha sbattuto per terra la vittima. E poi le condizioni del corpo sono totalmente differenti. I primi due omicidi sono stati freddi e calcolati, mentre questo presenta chiari aspetti emotivi, un movente più personale. L'assassino ha mutilato il corpo, ha usato una pistola e un coltello...»

«Sta dicendo che c'è differenza fra mettere una bomba in una casa e avvelenare uno oppure fargli questo?» chiese Thompson.

«Lei ha mai sparato nell'esercizio delle sue funzioni, agente?»

Thompson si strinse nelle spalle, ma arrossì. «No. Ma cosa c'entra?»

Presi una delle foto del morto. «Sarebbe in grado di ridurre una persona in questo stato?»

L'agente era titubante.

«Diversi assassini, diversi temperamenti», intervenne Molinari. «Questo potrebbe essere un sadico.»

«Va bene. Ma consideriamo la tempistica. Il messaggio di ieri diceva che ci sarebbe stata una vittima ogni tre giorni. Che la prossima, cioè, sarebbe stata domenica. Siamo in anticipo.»

«Probabilmente gli conveniva farlo fuori adesso», obiettò Thompson. «Non possiamo aspettarci che un terrorista tenga fede alla propria parola, giusto?»

«Non sono d'accordo», ribattei. «Ho indagato su abbastanza omicidi seriali per sapere che l'assassino costruisce un legame con noi e vuole che noi gli crediamo. Per i terroristi è lo stesso: anche loro hanno bisogno di dimostrare la massima credibilità. Altrimenti, come faremmo a essere sicuri che dietro questi omicidi ci sia sempre lo stesso gruppo?»

Thompson guardò Molinari in cerca di aiuto, ma Molinari guardava me. «Continui, per favore.»

«L'elemento più importante, in ogni caso, è che questo delitto non è stato firmato, al contrario dei due commessi a San Francisco», feci notare. «L'assassino di San Francisco vuole farsi riconoscere, e anche in maniera eclatante. Pensateci: davanti alla villa dei Lightower ha lasciato uno zainetto con una rivendicazione. A Bengosian ha infilato un foglio in bocca.»

Feci spallucce e guardai Molinari. «Potete pure far venire i vostri esperti criminologi dell'FBI o del Consiglio di Sicurezza Nazionale, per quanto mi riguarda... Ma io vi dico che, a mio avviso, non si tratta dello stesso assassino.»

49

«Io chiamo», annunciò Thompson guardando Molinari e ignorando completamente quello che avevo appena detto. La cosa mi offese e non cercai di nasconderlo.

«Fammi capire», disse Molinari guardandomi in faccia. «Secondo te chi ha ammazzato Propp non fa parte della stessa organizzazione che sta dietro i due omicidi di San Francisco? Secondo te si tratta di un emulatore?»

«Potrebbe trattarsi di un emulatore, oppure di una cellula impazzita della stessa organizzazione. La cosa di cui sono certa è che questo non è il terzo omicidio di una serie. Benché, se lo fosse, sarebbe tutto molto più facile.»

«Non capisco», disse Molinari, sbattendo le palpebre.

«Se non si tratta della stessa organizzazione, vuol dire che abbiamo a che fare con più gruppi terroristici.»

Molinari annuì lentamente. «Dirò al Bureau di trattare questi omicidi come casi separati, agente Thompson. Almeno per ora.»

Thompson sospirò.

«Nel frattempo, occupiamoci di Propp. Cerchiamo di capire chi lo ha ammazzato», disse Molinari. «Siamo tutti d'accordo?»

«Certamente», disse Thompson, rimettendo il cellulare nella tasca della giacca.

Rimasi di stucco: Molinari aveva preso le mie parti. Mi accorsi che anche Hannah Wood era sorpresa.

Passammo il resto della giornata nell'ufficio dell'FBI di Portland. Interrogammo la persona con cui Propp aveva appuntamento a Vancouver e il suo collega della Portland State University. Molinari mi coinvolse anche in due telefonate con la sede di Washington, in cui appoggiò la mia teoria secondo cui Propp era stato ucciso da un terrorista diverso dai primi.

Verso le cinque, mi resi conto che non potevo trattenermi oltre. Dovevo occuparmi di altri casi importanti a San Francisco. Brenda mi disse che c'era un volo alle 18.30.

Bussai alla porta della stanza che Molinari stava usando come ufficio. «Se non avete più bisogno di me, io tornerei a casa. Comunque mi è piaciuto giocare a fare l'agente federale per un giorno.»

Molinari sorrise. «Peccato, speravo ti fermassi. Avremmo potuto cenare assieme.»

Cercai di fare finta di niente e di rimanere impassibile. Nonostante i miei preconcetti riguardo i federali ero incuriosita. E chi non lo sarebbe stato, peraltro?

Dovevo evitare, però, e lo sapevo benissimo. Avevo un sacco di lavoro da sbrigare, prima di tutto. In secondo luogo, Molinari era un vero pezzo grosso, uno degli uomini più importanti del Paese. E poi sentivo che la mia corazza si stava incrinando e non mi pareva il caso di cedere nel bel mezzo di un'indagine della massima priorità.

«C'è un volo alle 23», insistette Molinari. «Giuro che non te lo faccio perdere. Dai, fermati, Lindsay.»

Vedendo la mia esitazione, si alzò in piedi. «Se non ti fidi della Sicurezza Nazionale, di chi ti fidi?»

«A due condizioni, però», replicai.

«Sentiamo», fece lui.

«Mangiamo frutti di mare», dissi.

Molinari accennò un sorriso. «Conosco il posto giusto...»

«E niente agenti dell'FBI.»

Molinari scoppiò a ridere. «E chi li vuole?»

50

«Il posto giusto» si rivelò essere un locale che si chiamava Catch, in Vine Street, una strada molto simile a Union Street a San Francisco, piena di ristoranti di tendenza e di boutique. Il maitre ci accompagnò a un tavolo in fondo alla sala.

Molinari mi chiese il permesso di scegliere il vino e ordinò un pinot nero dell'Oregon. Mi confidò di essere un «cuoco mancato» e di sentire la mancanza di una vita normale in cui dedicarsi alla preparazione di pietanze prelibate.

«E io dovrei crederci?» Sorrisi.

Molinari scoppiò a ridere. «Be', almeno ci ho provato.»

Quando arrivò il vino, alzai il bicchiere. «Grazie di aver preso le mie parti, oggi.»

«Non mi devi ringraziare», rispose. «L'ho fatto perché sono convinto che tu abbia ragione.»

Ordinammo e parlammo di tutto fuorché di lavoro. Joe amava lo sport, ma anche la musica, la storia e i classici del cinema. Mi resi conto che mi piaceva chiacchierare con lui, che la serata stava andando bene e che mi stavo dimenticando le brutture del lavoro.

A un certo punto, Joe parlò della sua ex moglie e della figlia, che stavano a New York.

«Credevo che i pezzi grossi della Sicurezza Nazionale avessero tutti famiglia», dissi.

«Siamo stati sposati quindici anni e siamo divorziati da quattro. Isabel è rimasta a New York, quando io mi sono trasferito a Washington. All'inizio doveva essere una cosa temporanea, ma poi...» Mi fece un sorriso amaro. «Tornassi indietro, mi comporterei in maniera diversa. E tu, Lindsay?»

«Anch'io sono divorziata», risposi. E mi ritrovai a parlargli della mia vita, del mio matrimonio appena finiti gli studi, del divorzio tre anni dopo. Colpa mia? Colpa sua? Che differenza faceva? «Ho avuto un'altra relazione importante due anni fa, che poi è finita.»

«A volte è meglio così», disse con un sospiro.

«No», replicai. «È morto. In servizio.»

«Oh.» L'avevo messo a disagio. Ma fece una cosa stupenda: mi posò una mano sul braccio. Non era un'avance, ma un gesto di conforto. Ritirò la mano quasi subito.

«Negli ultimi tempi mi sono un po' chiusa», dissi, alzando gli occhi. Poi, per alleggerire l'atmosfera, risi. «Era parecchio che non accettavo un invito a cena.»

«Anch'io era parecchio che non ne facevo.» Sorrise.

In quel momento gli squillò il cellulare. Molinari si mise una mano in tasca. «Scusa...»

Rimase in ascolto per un po'. «Certamente. D'accordo», ripeteva. Anche i pezzi grossi hanno un capo, pensai. A un certo punto disse: «Capisco. La informerò appena avrò delle novità. Senz'altro. Grazie mille».

Chiuse la comunicazione e si rimise il cellulare in tasca. «Washington...» si scusò.

«Il direttore della Sicurezza Nazionale?» Mi faceva piacere vedere che anche Molinari doveva rispondere a qualcuno.

«No.» Scosse la testa e riprese a mangiare il pesce. «La Casa Bianca. Era il vicepresidente degli Stati Uniti. Interverrà al G8.»

51

Anch'io mi impressiono, a volte.

«Se non fossi un tenente della Omicidi, ci crederei», dissi. «Hai appena parlato con il vicepresidente degli Stati Uniti?»

«Vuoi che faccia *69 per dimostrartelo?» disse Molinari. «Anche se preferirei che cercassimo di stabilire un rapporto di fiducia.»

«È questo che stiamo facendo stasera? Stabiliamo un rapporto di fiducia?» domandai con un sorriso.

Avevo il batticuore e la fronte sudata. La maglia mi prudeva sulla pelle. Molinari mi faceva tornare in mente Chris.

«Vorrei che ci fidassimo l'uno dell'altra», disse dopo un po'. «Per ora, mi basterebbe questo.»

«Come vuole lei, signore.»

Joe pagò il conto e mi aiutò a rimettere la giacca. Quando mi sfiorò, provai un brivido. Guardai l'ora. Erano le nove e mezzo. Per arrivare all'aeroporto ci volevano quaranta minuti.

Facemmo un paio di isolati a piedi lungo Vine Street, ma io guardai le vetrine solo distrattamente. Era una serata fresca, ma piacevole. Che cosa stavo facendo? Che cosa stavamo facendo?

«Lindsay», mi disse a un certo punto Joe, fermandosi per guardarmi in faccia. «Non vorrei dire qualcosa di sbagliato, ma...» Non ero sicura di che cosa sperassi che dicesse. «Il mio autista è qui vicino, se vuoi. Ma c'è un volo anche domani mattina alle sei.»

«Senti...» Avrei voluto posargli la mano sul braccio, ma mi trattenni, non so neppure io perché.

«Dimmi», fece.

Sorrisi. «Era questo che avevi in mente, quando mi hai portato qui?»

Joe prese la mia borsa e disse: «No, è che mi dispiace che tu ti sia portata un cambio di vestiti per niente».

Mi fido di lui, pensai. Joe Molinari mi ispirava fiducia. E mi piaceva un sacco. Ma non ero sicura che fosse una buona idea e questo mi bastò per prendere una decisione.

«Ti sembrerò più dura di quello che sono, ma penso che prenderò il volo delle undici», replicai, mordendomi un labbro.

«Capisco...» Annuì. «Non te la senti.»

«No, non è questo...» Gli accarezzai una mano. «Il fatto è che non ho votato per questo presidente...» Molinari scoppiò a ridere. «Comunque stai tranquillo, non hai detto niente di sbagliato.»

Anche questo lo fece sorridere. «È tardi», disse. «Io devo rimettermi a lavorare. Ci vediamo presto.»

Fece un cenno alla Lincoln nera che lo stava aspettando. L'autista si avvicinò, scese dall'auto e mi aprì la portiera. Non ero ancora sicura di stare facendo la cosa giusta, ma salii.

Di colpo mi venne in mente una cosa. Abbassai il finestrino. «Senti, non so nemmeno il numero del volo.»

«È tutto a posto, non ti preoccupare», disse Molinari. Mi salutò agitando la mano e fece segno all'autista di partire.

Appena fummo sulla superstrada, chiusi gli occhi e ripensai a quella giornata, e specialmente alla cena con Molinari. Dopo un po' l'autista mi disse: «Siamo arrivati, signora».

Guardai fuori e vidi che eravamo in un terminal deserto. Sì, anch'io mi impressiono, a volte. Ad aspettarmi c'era il Gulfstream G3 con cui eravamo arrivati quella mattina.

52

Jill aveva stabilito un piano che le pareva perfetto. Nella sua testa, andava tutto bene.

Era tornata a casa presto e aveva preparato uno dei piatti preferiti di Steve, il coq au vin. In realtà, era anche uno dei pochi piatti che le riuscivano quasi sempre bene.

Voleva parlare con lui del futuro. Aveva il nome di un consulente matrimoniale e sperava che Steve finalmente decidesse di andarci sul serio.

Il soffritto era pronto. Stava per aggiungere il vino quando arrivò Steve. Le rivolse uno sguardo penetrante. «Sembriamo la coppia perfetta della pubblicità», disse.

«Be', quantomeno ci proviamo», replicò Jill. Si era messa un paio di jeans con una maglietta rosa scollata a V e si era lasciata i capelli sciolti, come piacevano a lui.

«Peccato però che io stia per uscire.» Steve gettò il giornale da una parte.

Jill ebbe un tuffo al cuore. «Perché? Steve, guarda: ho cucinato!»

«Frank mi deve parlare di un affare promettente.» Prese una pesca dal cestino della frutta. Sembrava quasi contento di quella situazione, come se provasse gusto a rovinare la serata.

«Non potete discuterne domani mattina? Te l'avevo detto, che volevo parlare con te, e avevi risposto che andava bene. Sono tornata prima apposta per cucinare...»

Steve diede un morso alla pesca e rise. «Una sera che decidi di uscire dall'ufficio prima delle otto e ti metti in testa di interpretare il ruolo della brava mogliettina, accusi me di rovinare la sceneggiata?»

«Non è una sceneggiata, Steve.»

«Vuoi parlare?» Diede un altro morso alla pesca. «Parla. Se te lo sei dimenticata, ti ricordo che è con i miei soldi che ti compri le tue Manolo. Il mercato non è dei migliori, sai? Gli affari promettenti sono più rari delle frigide con le voglie, di questi tempi. È per questo che, tra una cena con te e una di lavoro, scelgo l'affare promettente.»

«Questa te le potevi risparmiare», ribatté Jill, fulminandolo con un'occhiata. Tuttavia era decisa a non perdere le staffe. «Volevo passare una bella serata con te.»

«Grazie del pensiero.» Steve alzò le spalle e continuò a mangiare la pesca. «E comunque fai ancora in tempo a chiamare una delle tue amichette. Vedrai che passerai comunque una bella serata.»

Jill si guardò riflessa nel vetro e si sentì di colpo ridicola. «Sei uno stronzo, Steve.»

Lui alzò le spalle.

Jill buttò la spatola sul bancone della cucina, spruzzando sugo da tutte le parti.

«Stai sporcando dappertutto, Jill. La nostra cucina extralusso...»

«Ma va' al diavolo!» gridò Jill, con gli occhi improvvisamente pieni di lacrime. «Se penso a quanto mi impegno per andare d'accordo con te...» Era finita. Non aveva senso continuare ad attaccarcisi con le unghie e con i denti...

«Mi umili, mi sminuisci, mi fai sentire una merda. Volevi uscire? Vai, hai la mia benedizione. Anzi, già che ci sei, esci dalla mia vita definitivamente. Me lo dicono tutti che sono matta a cercare di salvare questo matrimonio di schifo.»

«Tutti o tutte?» Jill vide il suo sguardo velenoso, lo scatto d'ira irrefrenabile. Steve la prese per un braccio e glielo strinse con forza, facendola cadere per terra. «Ti fai dire dalle tue amiche come vivere la tua vita! Stai a sentire loro, invece che me. Jill!»

Jill cercò di non singhiozzare. «È finita, Steve. Io e te non...»

«Lo dico io, quando è finita!» gridò lui. «Ti rendo la vita impossibile e vuoi che me ne vada, Jill? Me ne andrò. Ma deciderò io quando. E, fino ad allora, tu te ne stai brava e zitta. Capito?»

«Vattene subito», disse Jill rialzandosi.

Steve le mostrò il pugno, ma Jill non si scompose. Questa volta no, non batté ciglio. Steve fece per colpirla e Jill tenne duro. «Vattene, Steve.»

Steve sembrò impallidire di colpo. «Volentieri», replicò, indietreggiando. Prese un'altra pesca dalla fruttiera e se la pulì sulla camicia. Poi lanciò un'occhiata sdegnosa verso i fornelli.

«Lasciami qualcosa, mi raccomando.»

Appena sentì chiudersi la porta al piano di sotto, Jill scoppiò in singhiozzi. Era finita! Non sapeva se chiamare Claire o Lindsay. Ma prima doveva fare un'altra cosa. Prese le Pagine Gialle e cercò un numero, agitata.

Le tremavano le mani, ma questa volta era decisa a non tornare più indietro. Ti prego, ti prego, rispondi!

«Grazie a Dio!» esclamò, sentendo una voce che diceva «Serrature di sicurezza, buonasera.»

«Fate servizio emergenze?» domandò Jill, in lacrime. «Ho bisogno di cambiare una serratura. Adesso.»

53

La spia della mia segreteria telefonica lampeggiava.

Era l'una del mattino, quando tornai a casa.

Gettai la giacca del tailleur sulla sedia e mi tolsi la maglia, quindi premetti il pulsante per ascoltare i messaggi.

17.28 Jamie, il veterinario, mi diceva che potevo passare a prendere Martha l'indomani mattina.

19.05 Jacobi che voleva solo vedere se c'ero.

19.16 Jill, con voce tesa. «Ti devo parlare, Lindsay. Ho provato anche sul cellulare, ma era staccato. Chiamami appena arrivi.»

23.15 Di nuovo Jill. «Lindsay? Chiamami appena torni. Sono ancora alzata.»

Doveva essere successo qualcosa. Feci il numero e lei mi rispose al secondo squillo. «Ciao, sono Lindsay. Ero a Pordand. Tutto bene?»

«Non lo so», rispose. Pausa. «Ho sbattuto Steve fuori di casa.»

A momenti lasciavo cadere per terra la cornetta. «Sul serio?»

«Stavolta sono decisa. È finita, Lindsay.»

«Oh, Jill...» Pensai che doveva stare malissimo, se mi aveva chiesto di chiamarla a qualsiasi ora. «Che cosa ti ha fatto?»

«Non voglio parlartene adesso, ma ti assicuro che non succederà più», mi rispose. «L'ho sbattuto fuori, Lindsay. Ho cambiato la serratura.»

«L'hai chiuso fuori? Per la miseria! E adesso dov'è?»

Jill fece un verso a metà fra la risata e il colpo di tosse. «Non ne ho la più pallida idea. È uscito verso le sette e, quando è tornato alle undici e mezzo, ho sentito che bussava e strepitava. Avrei voluto vedere la faccia che ha fatto quando si è accorto che la sua chiave non funzionava più. Passerà domani a prendere le sue cose.»

«Sei sola? Hai chiamato qualcuno?»

«No», mi rispose. «Ho aspettato te, amica mia.»

«Ti raggiungo subito», le dissi.