PARTE SECONDA

I Love L.A.

 

. «Perché proprio a me? Perché, secondo lei, ha inviato a me quei terribili messaggi? E completamente assurdo, non le pare? Lei ci trova un senso in queste madri massacrate?

Hollywood è precipitata nella follia dopo queste morti, mi creda. Lo sporco segreto di Mary Smith uscirà allo scoperto.» Arnold Griner mi aveva già posto quelle domande diverse volte, nel corso del nostro colloquio. Eravamo in un ufficio tutto vetri a forma di L al centro di un grande open space nella sede del Los Angeles Times. Di tanto in tanto qualcuno faceva capolino da dietro una parete divisoria, ci lanciava una breve occhiata e scompariva subito. Griner diceva che i suoi colleghi sembravano cani della prateria, quando facevano così. Era seduto su un divanetto di pelle marrone e accavallava continuamente le gambe, stringendosi le ginocchia con le braccia. Ogni tanto, prendeva un appunto su un bloc-notes che teneva in grembo. Fino a quel momento avevamo parlato di lui e di ciò che aveva fatto nella vita: gli studi a Yale, seguiti da uno stage a Variety dove correggeva bozze e portava il caffè ai giornalisti che si occupavano di spettacolo. Poi la fama, ottenuta in maniera rapida ed eclatante grazie a un'intervista a Tom Cruise. Due anni prima, il Los Angeles Times lo aveva assunto offrendogli una rubrica tutta sua, chiamata «Dietro le quinte». Scriveva prevalentemente articoli su Hollywood e recensioni «graffianti». Era evidentemente molto pieno di sé. Non avevo trovato alcun nesso fra Griner e gli omicidi, a parte il mondo dello spettacolo, ma non credevo che fosse soltanto per caso che i messaggi di Mary Smith erano indirizzati a lui. Neanche Griner lo credeva. Era agitatissimo e continuava a tempestarmi di domande. A un certo punto mi sedetti vicino a lui. «Signor Griner, si rilassi, per favore.» «La fa facile lei» mi rispose. Ma si riprese immediatamente: «Mi scusi, mi scusi».

Si posò due dita sulla fronte e si fregò l'attaccatura del naso. «Sono nervoso di carattere. Sin da bambino, a Greenwich.» Avevo già visto quel tipo di reazione, a metà fra la paranoia e la rabbia, in chi si trovava nell'assurda situazione di Griner. Quando ripresi a parlare, tenni la voce piuttosto bassa per costringerlo a prestarmi attenzione. «So che ne abbiamo già parlato, ma le viene in mente un motivo per cui quei messaggi sono stati indirizzati proprio a lei? Era in contatto con Patsy Bennett, Antonia Schifman o il suo autista, Bruno Capaletti?» Griner si strinse nelle spalle e alzò gli occhi al cielo, cercando di controllare il respiro. «Potrei averli visti a qualche festa. Le due donne, almeno. Di certo ho recensito i loro film. L'ultimo è stato quello di Antonia, Canterbury Road. Non mi è piaciuto per niente, ma lei era bravissima e gliel'ho detto. Secondo lei è questo il nesso? Forse il killer legge i miei articoli.

Voglio dire, è chiaro, no? Che stranezza, però... Cosa c'entro io con i deliri di un'assassina?» Senza darmi il tempo di rispondergli, riprese con le domande. «Pensa che l'autista di Antonia sia morto solo perché era con lei? Dall'e-mail parrebbe che si sia semplicemente trovato nel posto sbagliato...» Chiaramente voleva che io gli dessi informazioni, sia per motivi personali che professionali. In fondo era un giornalista con un discreto potere negli ambienti hollywoodiani. Gli diedi la risposta standard che do sempre ai giornalisti. «E troppo presto per dirlo. Che cosa mi racconta di Patsy Bennett?

Ricorda quando è stata l'ultima volta che ha recensito un suo film? Una sua produzione? Faceva ancora la produttrice, di tanto in tanto, vero?» Griner annuì, quindi sospirò in maniera teatrale. «Secondo lei mi conviene sospendere la rubrica per un po'? Dovrei, vero? Sarebbe meglio, credo.» Quella conversazione sembrava una partita di ping-pong contro un ragazzino iperattivo. Alla fine riuscii a fargli tutte le domande che volevo, ma mi ci volle il doppio di quanto avessi messo in preventivo.

Griner cercava continuamente rassicurazioni e io mi sforzai di tranquillizzarlo il più possibile senza mentirgli. Era in pericolo, non lo si poteva negare. «Un'ultima cosa» disse quando stavo per andarmene.

«Dovrei scriverci su un libro, secondo lei? O è un'idea malata?» Non risposi a nessuna delle due domande: aveva studiato a Yale, no? Doveva essere in grado di rispondersi da solo.  Dopo il colloquio con Griner, mi sedetti alla sua scrivania con Paul Lebleau, il tecnico del Dipartimento di polizia di Los Angeles che doveva risalire alla fonte delle e-mail di Mary Smith. Digitando sulla tastiera di Griner, Lebleau mi riferì quello che aveva scoperto, parlando a raffica. «Due messaggi di posta elettronica arrivati da due server diversi. Il primo è un internet cafè di Santa Monica. Il che significa che Mary Smith è una delle diverse centinaia di persone che si trovavano lì a quell'ora.

Dispone di due indirizzi diversi, almeno per ora. Entrambi sono account generici, hotmail, e quindi non ci dicono nulla, a parte che il primo risulta sottoscritto presso la biblioteca della USC il giorno precedente al primo messaggio.» Dovevo concentrarmi per capire quello che diceva. Ma forse in California tutti seguivano una logica nel parlare che a me sfuggiva. «E il secondo messaggio?» chiesi.

«È stato inviato da un posto diverso. So solo questo.» «Sempre nell'area di Los Angeles, però?» «Non lo so ancora.» «E quando lo saprà?» «Probabilmente entro stasera. Non che sia un'informazione molto utile.» Abbassò la testa e strizzò gli occhi, guardando una serie di codici sullo schermo. «Mary Smith è una che sa quello che fa.» Riflettei che stavamo dando tutti per scontato che Mary Smith fosse una donna. In realtà, io non ero per nulla convinto di avere a che fare con un'assassina. La figura che emergeva dalle e-mail di Griner poteva essere inventata. Ma da chi? Ti stai divertendo in vacanza, Alex? Sei felice? Mi feci dare una copia dei due misteriosi messaggi di posta elettronica e andai al Dipartimento di polizia in North Los Angeles Street, a soli cinquecento metri dagli uffici del Times.

Era un miracolo, tenuto conto che tutti a Los Angeles dicono che per andare da un posto all'altro ci vogliono almeno tre quarti d'ora. Oh, è meraviglioso essere in ferie. Stiamo visitando tutte le attrazioni.

I ragazzi sono al settimo cielo. E anche Nana. Camminavo piano, rileggendo le due e-mail. Anche se il killer stava recitando una parte, era comunque lui a scrivere. Cominciai dal primo messaggio, che descriveva gli ultimi istanti di vita di Patsy Bennett. Faceva venire i brividi: pareva il diario di uno psicopatico. A: agriner@latimes.com Da: Mary Smith A: Patrice Bennett Sono quella che ti ha ucciso.

Non è una bella frase? Certo che lo è. Ed eccone un'altra, che mi piace moltissimo. Qualcuno, un perfetto sconosciuto, troverà il tuo cadavere nella galleria del Westwood Village Theater. Il tuo cadavere, Patrice Bennett. Perché è lì che sei morta oggi, guardando l'ultimo film della tua vita. Non era nemmeno un granché. The Village? Ma cosa avevi nella testa? Che cosa ti ha portato al cinema l'ultimo giorno della tua vita a vedere The Village? Saresti dovuta rimanere a casa, Patsy. A casa con le tue belle bambine. Una brava mamma sta vicino ai figli, non esce. Non credi? Invece tu passi il tempo a leggere sceneggiature e a parlare al telefono, a fare pubbliche relazioni. Mi ci è voluto così tanto per avvicinarti. Sei una Big, al tuo Studio, e io una nullità che guarda DVD e Entertainment To-night e Access Hollywood. Non sono neppure riuscita a superare il portico del tuo Studio. Vietato l'accesso ai non addetti ai lavori... Ho visto la tua Aston blu entrare e uscire, tuttavia, giorno dopo giorno. Sono molto paziente, sai? Ho imparato ad aspettare per ottenere ciò che voglio. A proposito di aspettare, quella casa incredibile che possiedi non si vede bene dalla strada. Ho solo intravisto le tue belle creature. Un paio di volte, non di più. E so che con il tempo sarei riuscita anche a capire come entrare, ma non è più necessario, adesso. Sei andata al cinema di pomeriggio, come dichiari di fare nelle interviste. Ti mancava l'odore dei popcorn, forse. Ci portavi mai le tue figlie, Patsy? Avresti dovuto, sai?

Come dicono, la vita è breve. All'inizio non ho capito il senso. Eri presissima dal lavoro, una vera Big.

Poi però ho capito. Tu fai film e devi vederli, ma hai anche una famiglia che ti aspetta tutte le sere.

Devi tornare a cena per Lynnie e Laurie. Quanti anni hanno adesso? Dodici e tredici? Ti vogliono vicina, e anche tu vuoi stare vicina a loro. È una cosa buona e giusta, davvero. Purtroppo però stasera tu non tornerai a cena. È triste, ma è così. Eri seduta nella nona fila, in galleria, lo ero nella fila numero dodici, invece. Ho aspettato, guardandoti da dietro, tenendo d'occhio il tuo caratteristico caschetto moro.

Pensavo, fantasticavo: è lì che le sparerò. Non è a questo che servono i film? A fantasticare, a evadere?

Peccato che la maggior parte dei film sia terribile, di questi tempi. O terribilmente stupida o terribilmente cupa. Ho tirato fuori la pistola solo quando è iniziato lo spettacolo. Non mi piaceva essere così spaventata. Avresti dovuto essere tu quella che aveva paura. Invece tu non ti sei accorta di niente, non sapevi neppure che c'ero. Eri inconsapevole di tutto. Mi sono messa lì, con la pistola in grembo, e te l'ho tenuta puntata addosso per un sacco di tempo. Poi ho deciso di avvicinarmi e ti sono venuta praticamente in braccio. Avevo bisogno di vederti negli occhi, dopo lo sparo, nel momento in cui avresti capito che stavi per morire, che non avresti rivisto mai più Lynnie e Laurie, non avresti mai più guardato un film, approvato un film, fatto la Big. Ma vederti sbarrare gli occhi e morire è stato sorprendente per me. Uno shock per il mio sistema nervoso, davvero. Che ne era stato del tuo famoso portamento aristocratico? Per questo sono dovuta uscire dal cinema di corsa, lasciarti sfatta. Non che te ne possa importare più di tanto, ormai. Che tempo fa lì dove sei adesso, Patsy? È caldo, immagino. Con tutte quelle fiamme... Ti mancano tanto le tue figlie? Hai dei rimpianti? Scommetto di sì. lo li avrei, fossi in te. Ma io non sono una Big. lo sono una nullità. Erano le nove di sera e non c'era niente che andasse bene. La stretta di mano dell'ispettore del Dipartimento di polizia di Los Angeles Jeanne Galletta era sorprendentemente molle. Eppure sembrava il tipo di donna che poteva stritolarti le ossa con una stretta di mano. Aveva braccia muscolosissime, le sporgevano i bicipiti dalla maglia dolcevita arancione con le maniche corte. Era snella, tonica, con un bel viso spigoloso e occhi castani molto penetranti. Non appena mi resi conto che la stavo fissando, distolsi lo sguardo. «Agente Cross, l'ho fatta aspettare?» chiese. «Non tanto» risposi. Mi ero trovato anch'io nella sua posizione.. Sei a capo delle indagini su un caso scottante e tutti ti vogliono parlare. E comunque la mia giornata era quasi alla fine, mentre l'ispettore Galletta sarebbe con ogni probabilità rimasta alzata tutta la notte. Con un caso del genere per le mani, non avrebbe potuto fare diversamente. Le era capitato fra capo e collo dodici ore prima. Benché l'omicidio avesse avuto luogo nel West Bureau, a Hollywood, essendo opera di un serial killer era stato automaticamente trasferito alla Special Homicide Unit. Tecnicamente Mary Smith non poteva essere considerata un serial killer finché non le fossero stati attribuiti quattro omicidi, ma il Dipartimento di polizia di Los Angeles aveva deciso di usare la massima cautela. Ero d'accordo, anche se nessuno aveva chiesto il mio parere. I media stavano parlando diffusamente del caso e quindi le pressioni sull'LAPD erano fortissime. Se la faccenda delle e-mail fosse trapelata, la tensione sarebbe salita ulteriormente. Jeanne Galletta, mi accompagnò in una saletta riunioni al piano di sopra, dove operava l'unità di crisi. Tutte le informazioni relative agli omicidi passavano di lì. Una parete era già coperta di verbali e rapporti, una mappa della città, alcuni schizzi delle scene del crimine e decine di fotografie delle vittime. Il cestino della spazzatura traboccava di bicchieri e piatti di plastica. A giudicare dai sacchetti, sembrava che il fornitore preferito di cibo fosse Wendy's. Due ispettori in maniche di camicia erano seduti al grande tavolo di legno, chini su pile di fogli. Uno spettacolo che trovai familiare in modo deprimente. «Potete farci un po' di posto?» domandò Jeanne Galletta ai due uomini. Non usò un tono aggressivo, tutt'altro: era così sicura di sé che non aveva bisogno di alzare la voce. I due ispettori si alzarono senza dire una parola. «Da dove vuole cominciare?» le chiesi. Jeanne Galletta esordì senza preamboli. «Che cosa pensa degli adesivi?» Mi indicò una fotografia formato A4 della parte posteriore di un sedile di cinema, in bianco e nero. Vi erano appiccicati gli stessi adesivi che avevo visto sulla limousine di Antonia Schifman, con le lettere A e B. Uno di essi raffigurava un pony con grandi occhi tondi, un altro un orsacchiotto sull'altalena. Perché all'assassino interessavano i bambini? E le mamme? «Mi sembra che vada giù pesante» le risposi. «Qui come in altre cose: le e-mail, per esempio. Il fatto che spari da distanza così ravvicinata. Che abbia sfigurato la Schifman a coltellate.

Che prenda di mira personaggi famosi. Chiunque sia, vuole fare scalpore. Molto scalpore.» «Sì, sono d'accordo. Ma gli adesivi in sé? Che significato possono avere? Perché proprio questo tipo? E le A e le B, cosa vogliono dire? Devono avere un significato.» «In entrambe le occasioni fa cenno ai figli delle vittime. Nelle e-mail, intendo. I bambini fanno parte del puzzle, sono un elemento da non trascurare. Le confesso che non mi sono mai trovato di fronte una cosa del genere.» Jeanne Galletta si morse un labbro e guardò per terra. Aspettai, curioso di sentire che cosa aveva da dirmi. «Abbiamo due piste. Il mondo del cinema, Hollywood. E la maternità, il fatto che le due donne avevano dei figli. Nelle etnail non c'è alcun accenno ai mariti.» Parlava lentamente, meditabonda, come spesso facevo anch'io. «O è madre anche lei, oppure ce l'ha con le madri.» «Lei è sicura che Mary Smith sia una donna?» le chiesi.

. L'ispettore Galletta dondolò sui talloni delle Nike e mi guardò perplessa. «Non sa del capello? Chi le ha fatto il briefing?» Mi sentii di nuovo invadere dalla frustrazione: mi sembrava di perdere solo del tempo. Sospirai e chiesi: «Quale capello?» Mi spiegò che il Dipartimento di polizia di Los Angeles aveva trovato un capello umano sotto uno degli adesivi nel cinema di Westwood. Dalle analisi risultava appartenere a una donna bianca che non era Patrice Bennett. Il fatto che fosse rimasto intrappolato fra l'adesivo e la superficie liscia e verticale del sedile lo rendeva una prova abbastanza significativa, benché non incontrovertibile. Archiviai quell'informazione insieme con le altre che già avevo ed esposi a Jeanne Galletta l'idea che mi ero fatto riguardo a Mary Smith. L'istinto continuava a dirmi che non dovevamo dare per scontato che fosse una donna. «Naturalmente, la mia opinione va presa cum grano salis. E più che altro una sensazione.» Jeanne Galletta accennò un sorriso. «Ne terrò conto, dottor Cross. Bene: passiamo oltre.» «Come intende comportarsi con i media?» Volevo sottolineare il fatto che dipendeva da lei, che era una decisione tutta sua. Lo era, naturalmente. Io mi sarei occupato di Mary Smith quel giorno soltanto. Non c'era neppure bisogno di dirlo: presto avrei abbandonato il campo, punto e basta. «Glielo spiego subito.» Accese il televisore sulla parete. Passò da un canale all'altro e si fermò ovunque parlassero dei due assassina. «Lo scioccante duplice omicidio dell'attrice Antonia Schifman e del suo autista...» «E ora, in diretta da Beverly Hills...» «Abbiamo in linea la segretaria di Patrice Bennett...» Molti erano canali nazionali, dalla CNN a E! Entertainment Television. Jeanne azzerò l'audio. «Questo è il genere di cose in cui i media sguazzano. Le due scene del crimine sono piantonate ventiquattr'ore su ventiquattro per tenere alla larga curiosi e paparazzi. I media sono scatenati e la situazione è destinata a peggiorare. Lei lo sa perché ci è passato. Che cosa mi suggerisce di fare?» Be', qualche anno prima, ai tempi del famigerato cecchino di Washington, avevamo imparato tutti che arma a doppio taglio potevano essere i media. «La mia opinione è questa, per quel che vale. Non cerchi di frenare i giornalisti, perché è una battaglia persa» le risposi. «L'unica cosa che può controllare sono le informazioni che arrivano loro. Secreti tutto, raccomandi la massima riservatezza a tutti quelli che lavorano al caso. Proibisca le interviste non autorizzate dal Dipartimento.

So che le sembrerà una pazzia, ma metta due dei suoi uomini a telefonare a tutti gli ex ispettori di polizia per raccomandare loro di non rilasciare interviste, non fare commenti e non parlare con la stampa. Possono essere un problema, sa? Tanti adorano elaborare teorie assurde pur di farsi vedere in televisione.» Jeanne Galletta mi fece un altro dei suoi sorrisetti. «Anche questo suo consiglio è da prendere cum grano salis!» Mi strinsi nelle spalle. «Glielo dico per esperienza, mi creda.» L'ispettore passeggiava avanti e indietro per la stanza, guardando le prove appese al muro. Approvavo: è un ottimo modo per memorizzare i particolari, metterli da parte in maniera da poterli ritrovare all'occorrenza. Mi sembrava che Jeanne Galletta avesse un certo fiuto. Accompagnato da una buona dose di cinismo, certo, ma era una donna che sapeva ascoltare. Capivo come mai era già arrivata così in alto nonostante la giovane età. Ma sarebbe riuscita a risolvere quel caso così difficile? Aggiunsi: «Ho pensato un'altra cosa. Mary Smith probabilmente la terrà d'occhio, starà a vedere come si muove. Non rilasci dichiarazioni su di lei né sui suoi delitti, almeno per ora. Ho la sensazione che le piaccia avere i riflettori puntati addosso, che cerchi lo scandalo. Lei che ne dice?» «Sì, lo penso anch'io.» Si fermò e guardò il televisore muto. «Immagino stia già godendo come un porco a vedere tutto questo.» Ne ero convinto anch'io. Con quel tipo di assassino, bisognava andare con i piedi di piombo. Assassino o assassina?  Era mezzanotte passata, quando tornai finalmente in albergo a Disneyland e ricevetti altre cattive notizie. La prima era che Jamilla era già rientrata a San Francisco. Me l'aspettavo e immaginai che me l'avrebbe fatta pagare. Entrando nella stanza, vidi che Nana si era addormentata sul divano, con il lavoro all'uncinetto fra le mani. Dormiva beatamente, come un bambino. Non volevo disturbarla, ma si svegliò da sola. Faceva sempre così: quando ero piccolo, se non mi sentivo bene o avevo un incubo, bastava che mi avvicinassi al suo letto e apriva gli occhi. Diceva che non smetteva mai di starmi vicino, nemmeno quando dormiva. Che fosse ancora così? La guardai in silenzio per un momento. Non so se sia così per tutti, ma io volevo un gran bene a mia nonna... È stata lei a crescermi, da quando avevo nove anni. Mi chinai e le diedi un bacio sulla guancia. «Hai sentito il mio messaggio?» le chiesi. Nana lanciò un'occhiata distratta ai telefono, con la lucina rossa che lampeggiava. «No» mi rispose con un'alzata di spalle. Mi posò la mano sul braccio. «Oh, Alex. È venuta Christine e si è ripresa il piccolo Alex per riportarlo a Seattle. L'ha portato via...» Per un attimo, il mio cervello diede forfait. Ero d'accordo con Christine che Alex sarebbe tornato da lei dopo due giorni. Era affidato a lei, ma avevamo concordato il viaggio a Disneyland insieme... Aveva persino ammesso che era una bella idea... Mi lasciai cadere sul divano. «Non capisco. Perché l'ha portato via?

Che cosa è successo? Dimmelo.» Nana spostò il suo lavoro all'uncinetto. «Mi sono arrabbiata talmente tanto che le avrei messo le mani addosso. Sembrava un'altra persona, urlava... Mi ha gridato di tutto. E anche a Jamilla.» «Che diavolo è venuta a fare qui? Eravamo d'accordo che...» «È arrivata prima del previsto. La cosa peggiore è questa, Alex. Penso che fosse venuta per stare un po' con te e con il bambino. E, quando si è resa conto che eri andato a lavorare, è cambiata completamente. E diventata un mostro pieno di rabbia e di rancore. Non sono riuscita a parlarle. Non ho mai visto nessuno trasformarsi così per la collera.» Stava succedendo tutto troppo in fretta, le mie emozioni erano in subbuglio e, soprattutto, mi dispiaceva non aver potuto nemmeno salutare mio figlio. «E Alex? Come l'ha presa?» «Era confuso e molto triste, povero piccolo. Mentre la mamma lo trascinava via, chiedeva di te. Diceva che gli avevi promesso questa vacanza e che lui ci teneva tanto... Ci tenevamo tutti tanto, Alex. Lo sapevi.» Con il cuore stretto, pensai alla faccia che doveva aver fatto il piccolo Alex. Mi sembrava che la distanza fra noi due fosse sempre più incolmabile, come se se ne stesse andando un pezzo di vita. «E

Jannie e Damon? Come hanno reagito?» domandai. Nana fece un sospiro. «Da soldatini coraggiosi. Ma Jannie stasera ha pianto. E forse anche Damon. Lui nasconde meglio i suoi sentimenti. Poveretti, sono stati inconsolabili tutta la serata.» Rimanemmo lì seduti sul divano a lungo, in silenzio. Non sapevo che cosa dire. «Mi spiace di essere andato via, oggi» dissi alla fine. «Per quel che vale.» Nana mi fece una carezza e mi guardò negli occhi. Adesso comincia la predica, pensai. «Sei un brav'uomo, Alex, e sei anche un bravo padre. Non te ne dimenticare. E un momento difficile. E il tuo è un lavoro difficile.» Poco dopo entrai nella stanza in cui dormivano Jannie e Damon. Mi parvero piccoli piccoli e rimasi a guardarli intenerito per un bel po'. Non c'era niente in grado di rasserenarmi quanto quei due ragazzi. I miei bambini... Anche se ormai erano grandi. Jannie dormiva sul bordo del letto, con la trapunta ammucchiata da una parte. Mi avvicinai e la coprii. «Papà?» Il sussurro di Damon mi colse alla sprovvista. «Sei tu?» «Cosa c'è, Damon?» Mi sedetti sul bordo del letto e gli accarezzai la schiena. Lo facevo sin da quando era bambino e non avevo intenzione di smettere finché non me l'avesse detto lui.

«Devi lavorare anche domani?» mi chiese. «È già domani?» Non c'era rancore, nella sua voce. Era una persona troppo bella per serbare rancore. Se io ero un buon padre, Damon era un ottimo figlio. «No» risposi. «Domani non lavoro. Siamo in vacanza, no?» . Era la seconda volta in due giorni che venivo svegliato dal telefono. Questa volta era Fred Van Allsburg, vicedirettore della sede dell'FBI di Los Angeles. Avevo visto il suo nome sull'organigramma, ma non lo conoscevo di persona e non gli avevo mai parlato. Ciononostante, mi trattò come fossimo amici di lunga data. «Alex! Ti stai divertendo in vacanza?» mi chiese subito. Ma possibile che tutti sapessero i fatti miei? «Si, grazie» risposi. «Posso fare qualcosa per te?» «Intanto volevo ringraziarti di esserti reso disponibile ieri per il caso Mary Smith.

Stiamo collaborando strettamente con l'LAPD su questa cosa, direi in maniera abbastanza efficace. Ma senti, vado dritto al punto: vorremmo che fossi tu a rappresentare il Bureau per il resto delle indagini. E un caso importante per noi, di alto profilo. Il direttore ci terrebbe molto. Purtroppo, questi omicidi hanno una grande risonanza mediatica.» Mi venne in mente una battuta del Padrino parte III. «Adesso che credevo di esserne uscito, mi tirano di nuovo dentro». No, questa volta no. Avevo dormito poco, ma mi ero svegliato con le idee chiare: quel giorno non mi sarei occupato di Mary Smith né di altre inchieste. «Mi spiace, ma devo dirti di no. Ho impegni di famiglia a cui non posso rinunciare.» «Capisco» rispose Van Allsburg, troppo arrendevole perché io ci potessi credere. «Possiamo trovare un accordo, tuttavia. Chiederti solo un paio di ore al giorno.» «Mi dispiace, ma non è possibile. In questo momento, sono costretto a dirti di no.» Van Allsburg fece un sospiro. Quando riprese, usò un tono più misurato. Non so se interpretai giustamente, ma mi parve di percepire una nota di condiscendenza nella sua voce. «Sai con chi abbiamo a che fare, vero, Alex? Hai letto il giornale di oggi?» «Sto cercando di non leggere il giornale e di non guardare i notiziari, finché sono in ferie.

Vorrei godermi la vacanza, capito? Perché sono in vacanza e ho bisogno di rilassarmi, dopo la storia del Lupo...» «Senti, Alex, sappiamo tutti e due che l'assassino colpirà ancora. Sono morte delle persone.

Persone importanti.» Importanti? Che cosa voleva dire? Non so se se ne rendesse conto, ma continuava a ripetere il mio nome, a ogni frase che pronunciava. Capivo che era sotto pressione, ma non avevo intenzione di cedere nemmeno di un millimetro. «Mi dispiace, ma la risposta è no.» «Alex, preferirei che questa cosa restasse fra te e me. Non c'è motivo che Ron Burns la sappia, no?» «No, certo» risposi.

«Bene, perché...» Lo interruppi: «Perché fra un minuto spengo il cercapersone». Lo ammetto, quando riattaccai avevo il polso leggermente accelerato, ma provavo anche un certo sollievo. Sapevo che con ogni probabilità Ron Burns mi avrebbe difeso, e comunque non me ne importava niente. Dopo circa un'ora ero vestito e pronto per la mia giornata da turista. «Chi vuol fare colazione con Pippo?» chiesi. L'albergo offriva la prima colazione in compagnia di personaggi di Walt Disney e mi pareva un buon modo per rimetterci tutti quanti nello spirito della vacanza. Un po' sentimentale, certo, ma a volte il sentimento fa bene, molto bene, e aiuta a mantenere la giusta prospettiva. Jannie e Damon vennero nel salottino della suite, entrambi con aria un po' diffidente. Mostrai loro i pollici alzati. «Scegliete una mano per uno.» «Papà, siamo grandi ormai» protestò Jannie. «Ho undici anni. Non te ne sei accorto?» Feci la faccia sconvolta. «Davvero?» E riuscii a farli scoppiare in una bella risata. «E una cosa seria.

Non sto scherzando» dissi. «Forza, scegliete una mano, per piacere.» «Cosa c'è?» chiese Damon. Io non risposi. , Alla fine Jannie mi toccò la mano sinistra e Damon, stringendosi nelle spalle, indicò la destra. «Ottima scelta.» Girai le mani e aprii le dita. I miei figli si avvicinarono per vedere che cosa nascondevo. «Il cercapersone?» disse Damon. «L'ho appena spento. Adesso Nana e io usciamo nel corridoio e voi due dovete nasconderlo da qualche parte. Nascondetelo bene. Non voglio più vederlo, finché non saremo tornati a Washington.» I ragazzi fischiarono e batterono le mani e persino Nana lanciò un gridolino di gioia. Finalmente eravamo in vacanza. Forse c'era un lato positivo anche in tutta quella sofferenza e desolazione. Era poco probabile, ma non si poteva escludere. Arnold Griner sapeva di avere dei diritti sulla vicenda che lo coinvolgeva in prima persona e intendeva farli valere, una volta che quell'orribile pasticcio fosse stato risolto. Non gli sarebbe bastato ricavarne un telefilm: avrebbe pubblicato la storia a puntate sul suo giornale e poi l'avrebbe venduta a qualche studio cinematografico per un progetto di alto livello con un titolo tipo Hollywood sotto assedio, oppure La guerra contro le star. No, ci voleva un titolo migliore. Comunque il concetto era quello. Scosse la testa e tornò a guardare la strada. Aveva preso uno Xanax, che lo aveva un po' intontito, ma aveva anche tenuto alto il livello di caffeina per mantenere un certo equilibrio durante la giornata. Il viaggio sulla San Diego Freeway per andare al lavoro la mattina era la parte peggiore della giornata, per lui.

Rappresentava l'inevitabile transizione fra una calma comunque relativa e uno stress micidiale. Più si avvicinava all'ufficio, alla sua scrivania, al suo computer, più si sentiva in ansia. Quasi quasi avrebbe preferito essere sicuro che stava per arrivare un'altra sinistra e-mail: era l'incertezza a farlo star male.

Mary si sarebbe fatta viva di nuovo? Quel giorno? Ma perché gli scriveva? Arrivò in Times Mirror Square fin troppo presto. Lavorava nella parte più vecchia del complesso, in un palazzo degli anni Trenta al quale poteva dirsi addirittura affezionato. Il portone aveva grandi maniglie di bronzo ed era fiancheggiato da due imponenti statue raffiguranti due aquile. Quella mattina Griner lo superò per raggiungere l'ingresso sul retro ed entrare di lì. Fece anche le scale a piedi, fino al terzo piano. La prudenza non è mai troppa, no? Una cronista di nome Jennie Bloom gli si avvicinò non appena mise piede nella redazione. Fra tutti i giornalisti e i dipendenti che di colpo avevano preso a interessarsi di lui, era la più spudorata. Un atteggiamento odioso. «Ehi, Arnold, come va? Tutto bene? Che programmi hai per oggi?» Griner le rispose seccato: «Se in questo modo pensi di lanciarmi un amo, devi essere la donna più disperatamente sola di tutta Los Angeles!» Jennie Bloom sorrise e ribatté implacabile: «Senti chi parla! L'esperto di faccende di cuore. Okay, saltiamo i preliminari. Hai ricevuto altre e-mail? Hai bisogno di aiuto, dico bene? Okay, id sono qui per darti una mano. Il mio intuito femminile ti sarà molto utile». «Ho solo bisogno di un po' di calma, okay? Se mi serve qualcosa, te lo dico.» Le voltò le spalle e si allontanò deciso. «Non ci credo!» gli gridò dietro lei. «E fai bene» replicò lui senza fermarsi.

In un certo senso anche i rompiscatole erano una distrazione e, pertanto, un sollievo: non appena si fu lasciato alle spalle Jennie Bloom, la sua mente ripiombò nel circolo vizioso di prima. Perché proprio io?

Perché quella pazza di Mary se l'è presa con me e non con Jennie Bloom? Succederà anche oggi?

Ucciderà ancora? La risposta era sì.  Una voce femminile, calma e compassata, rispose: «911, mi dica». «Sono Arnold Griner del Los Angeles Times. Ho bisogno di parlare con l'ispettore Jeanne Galletta, ma non... non trovo più il suo numero. Mi scusi. Sono un po' scosso in questo momento. Non trovo nemmeno la mia rubrica.» «Ma si tratta di un'emergenza? Ha bisogno di aiuto?» «SI, si, è un'emergenza. Potrebbe essere stato ammazzato qualcuno. Non so quando, né se è successo veramente, ma... Avete per caso ricevuto una segnalazione riguardante una certa Marti Lowenstein-Bell?» «Mi dispiace, ma queste sono informazioni riservate.» «Okay, fa lo stesso. L'importante è che mandiate qualcuno a controllare. Credo che l'abbiano ammazzata. Ne sono quasi sicuro.» «Come fa a esserne sicuro?» «Lo sono, lo sono. Ne ho la quasi assoluta certezza.» «Mi dice l'indirizzo, per favore?» «L'indirizzo? Oddio, non lo so, l'indirizzo. Il cadavere dovrebbe essere nella piscina.» «Lei si trova sul posto?» «No, no. Senta, io non so come fare a spiegarmi... Mary Smith, ha presente? Quella che uccide le star. Be', ha colpito ancora.» «Okay, credo di aver capito. Mi ripete il nome, per cortesia?» «Lowenstein-Bell, Marti. So che il marito si chiama Michael Bell. Forse è meglio cercarla sotto il nome del marito. Non sono sicuro che sia morta, ma ho ricevuto un messaggio inquietante. Sono un giornalista dell'.A Times. Mi chiamo Arnold Griner. L'ispettore Galletta mi conosce.» «Ho preso nota.

Adesso la metto in attesa un momento...» «No, non...»Alle 08.42 alcuni agenti del Dipartimento di polizia di Los Angeles e un'ambulanza partirono alla volta della villa LowensteinBell, a Bel Air. Nel giro di pochi minuti il 911 aveva ricevuto due chiamate a proposito della stessa emergenza, una dal Los Angeles Times e l'altra dalla villa stessa. Gli agenti Jeff Campbell e Patrick Beneke furono i primi ad arrivare sul posto. Campbell aveva intuito subito che doveva essere stato ucciso un altro personaggio famoso, per via dell'indirizzo. Sembrava che la vittima fosse una donna, si era parlato di ferite da arma da taglio. I proprietari della villa erano entrambi piuttosto noti a Hollywood. In ogni caso, si preannunciavano grane a non finire. Una donna piccola e scura, in divisa bianca e grigia da cameriera, li aspettava camminando in tondo nel viale davanti alla villa con una specie di strofinaccio in mano.

Avvicinandosi, i due poliziotti videro che singhiozzava. «Perfetto!» commentò Beneke. «Ci mancava solo questa, una Carmelita che piange come un vitello, non sa una parola d'inglese e si comporta in modo muy loco.» Campbell reagì come al solito al fastidioso cinismo razzista del collega più giovane.

«Piantala, Beneke! Non vedi che è terrorizzata?» Appena scesero dalla volante, la cameriera si mise a gridare come un'isterica, indicando il portone. «Aqui, aqui, aquilAquil Aquil» La villa modernissima, tutta pietra e vetro, si trovava sulle alture di Santa Monica. Avvicinandosi, l'agente Campbell vide in trasparenza, oltre l'ingresso di vetro verde, il patio e la vista mozzafiato sul mare. Ma che cos'era quella roba appiccicata sul vetro della porta? Un'etichetta? Un adesivo? Sembrava completamente fuori luogo... Forse era una decalcomania messa da un bambino... Con una grossa A. Dovette aprire a forza le dita della cameriera, che gli si era aggrappata a un braccio. «Si calmi, per favore. Un momento, por favor. Como te llamas?» Non capì neppure se avesse sentito oppure no, perché la donna gli rovesciò addosso un fiume di parole in spagnolo velocissimo e per lui incomprensibile, indicando di nuovo più volte la casa. «Andiamo a vedere» disse Beneke. «È inutile perdere tempo con questa qua. È chiaro che fa una vida loca.» Nel frattempo erano arrivate altre due autopattuglie e un'ambulanza. Uno dei soccorritori parlò con la cameriera, ottenendo risultati decisamente migliori di Campbell. «Nella piscina sul retro» riferì. «Dice che in casa non c'è nessun altro. Che lei sappia, almeno.» «Ma se non sa un cazzo» commentò Beneke. «Andiamo a vedere» annunciò Campbell e, insieme a Beneke, partì in esplorazione sul lato nord della casa, con la pistola in pugno. Le altre due squadre andarono a controllare il lato sud, oltre una siepe. Mentre avanzavano tra folti cespugli di ortensie, Campbell sentì salire l'adrenalina. Un tempo intervenire sulla scena di un crimine gli piaceva, quasi lo divertiva, ma ormai gli dava soltanto un leggero capogiro e un senso di debolezza alle gambe. Scrutò meglio che poteva fra la vegetazione, ma da quel che sapeva degli omicidi di Hollywood era escluso che il killer fosse ancora nei paraggi. «Visto qualcosa?» bisbigliò al collega ventinovenne, un cowboy californiano che nella maggior parte dei casi si comportava da perfetto cretino. «Sì, un sacco di fiori» rispose Beneke. «Eravamo arrivati per primi. Perché hai lasciato andare avanti gli altri?» Campbell si trattenne dal dargli una rispostaccia e disse: «Tieni gli occhi aperti e taci. L'assassino potrebbe essere ancora qui». «È quello che spero, amico.» Arrivarono in un ampio patio lastricato di ardesia sul retro della villa, al centro del quale si trovava una grande piscina a sfioro dal fondo scuro, con l'acqua che arrivava a filo del pavimento. «Eccola» disse Campbell con un gemito. Il cadavere, bianchissimo, galleggiava a faccia in giù, con le braccia perpendicolari al busto. Era una donna, con un costume intero verde lime. I lunghi capelli biondi ondeggiavano lentamente sul pelo dell'acqua. Uno dei soccorritori si tuffò nella piscina e con un po' di fatica riuscì a girarla sul dorso e a tastarle la gola. Ma Campbell era già sicuro che non avrebbe sentito alcun battito. «Porca miseria!» Con una smorfia di disgusto, Campbell si voltò dall'altra parte, poi tornò a guardare, trattenendo il fiato per non vomitare. Chi poteva aver compiuto uno scempio simile? La poveretta era stata sfigurata: il suo viso era un ammasso di carne sanguinolenta che aveva tinto di rosso l'acqua della piscina. Beneke si avvicinò per guardare meglio. «E lo stesso killer, ci scommetto quello che vuoi. È lo stesso pazzo delle altre volte.» Poi si sporse per aiutare a tirar fuori dall'acqua la vittima. «Fermo!» gridò Campbell, gesticolando in direzione del soccorritore che si era tuffato. «Fuori dalla piscina, subito! Esca immediatamente dall'acqua.» Impietriti, tutti guardarono Campbell sapendo che aveva ragione. Nemmeno Beneke si azzardò a dire qualcosa. Non aveva senso contaminare ulteriormente la scena del crimine: in attesa dei tecnici della Scientifica, la vittima andava lasciata dov'era. «Ehi, voialtri!» gridò una voce. Campbell alzò la testa e vide un altro collega, Jerry Tounley, che chiamava da una finestra del primo piano. «Lo studio è completamente devastato! Quadri rotti, roba sparsa dappertutto, cocci... E sentite questa: il computer è ancora acceso, su un programma di posta elettronica! Sembra che qualcuno abbia spedito un messaggio prima di andarsene.» A: agriner@latimes.com Da: Mary Smith A: Marti Lowenstein-Bell Vi ho guardato ieri sera a cena, te e la tua bella famiglia con tre figlie. Una bella cenetta intima. «Di mamma ce n'è una sola». Con quelle vetrate pulitissime che hai, è stato facilissimo spiarvi. È stato bello assistere alla tua ultima cena con le bambine. Vedevo addirittura le prelibatezze che avevate nei piatti, preparate dal cuoco e dalla tata, naturalmente. Eravate felici, e a me va benissimo. Volevo che ti divertissi, l'ultima sera della tua vita, e soprattutto volevo che alle tue figlie rimanesse un bel ricordo. Ora anch'io ho un bel ricordo di loro.

Non dimenticherò mai le loro facce. Non le dimenticherò mai e poi mai, Marti, credimi. Che casa magnifica hai, Marti, una villa degna di uno sceneggiatore e di una regista così importanti. A proposito, vi ho citati nell'ordine giusto? Credo di sì. Sono entrata solo dopo, quando tu stavi mettendo a dormire le bambine. Hai lasciato di nuovo aperte le porte del patio, e questa volta io ne ho approfittato. Non ho potuto resistere. Volevo vedere le cose come le vedi tu, da dentro la casa. Continuo a non capire come fate voi ricchi a sentirvi al sicuro in casa vostra. I castelli che vi fate costruire non possono proteggervi, se non siete prudenti. E tu non lo sei! Sei stata sbadata, Marti. Eri troppo occupata a fare la mamma, o forse la star. Ti ho ascoltato, al piano di sopra, mentre le mettevi a letto. A momenti mi commuovevo, giuro. Probabilmente pensavi di essere l'ultima a dare loro la buonanotte. Invece no. Più tardi, quando dormivate tutti, ho guardato le bambine. Respiravano tranquille, sembravano angioletti, senza l'ombra di una preoccupazione. Non c'era bisogno che dicessi loro che non c'era nulla di cui preoccuparsi, perché lo sapevano già. Per te le cose erano un po' diverse. Ho deciso di aspettare fino al mattino, per poterti parlare da sola, signora Regista. E sono proprio contenta di aver aspettato. Oggi toccava a tuo marito Michael portare a scuola le bambine. È stata una bella fortuna per tutti, ma soprattutto per lui: è rimasto vivo e tu non hai dovuto guardarlo morire. Ti ho sorpreso proprio come volevo, nel modo che immaginavo da tanto tempo. Ecco com'è andata, Marti. L'ultima mattina della tua vita è cominciata come tutte le altre. Dopo i tuoi soliti esercizi di Pilates, sei andata a fare una nuotata in piscina.

Cinquanta vasche, come sempre. Dev'essere bello avere una piscina così grande. Riscaldata, oltre tutto.

Sono stata a guardarti andare avanti e indietro nell'acqua azzurrissima e anche così da vicino ci hai messo un sacco di tempo ad accorgerti di me. Quando finalmente hai guardato su, dovevi essere piuttosto stanca. Troppo stanca per gridare, immagino. Ti sei soltanto girata dall'altra parte, ma questo non mi ha impedito di spararti, né di tagliarti la faccia a striscioline. Vuoi sapere una cosa, Marti? La parte migliore è stata proprio quella. Le mutilazioni cominciano a piacermi molto. Adesso avrei un'ultima domanda da farti: sai perché dovevi morire? Sai che cosa hai fatto per meritarti questa fine?

Lo sai, Marti, lo sai? Ne dubito. Il Drammaturgo sapeva che non era andata esattamente così. Ma naturalmente non voleva raccontare al Times e alla polizia tutto quanto, bensì solo ciò che gli faceva comodo che sapessero. Era una storia bellissima, una storia davvero eccezionale, modestia a parte.

Mary Smith! Perdio, che dramma! Un horror davvero speciale. A proposito di storie e racconti, l'altro giorno ne aveva sentita una bella: il «test dello psicopatico». Serviva a capire se avevi la mente da psicopatico, dicevano: se davi la risposta giusta, voleva dire che lo eri. La storia era questa: al funerale della madre, una donna conosce un tizio di cui si innamora pazzamente, ma non sa né nome, né numero di telefono, né niente su di lui. Qualche giorno dopo, la donna uccide la propria sorella. Il test era il seguente: perché la donna uccide la sorella? Se dai la risposta esatta, significa che ragioni come uno psicopatico. Il Drammaturgo, naturalmente, aveva dato la risposta giusta. Aveva indovinato subito: la donna uccide la sorella perché spera che il tizio che le piace si presenti al funerale. A parte gli scherzi, dopo aver ucciso Marti Lowenstein-Bell, il Drammaturgo era eccitatissimo. Ma sapeva di doversi controllare, almeno in parte: doveva salvare le apparenze. Così tornò in fretta e furia al lavoro. Fece un giro nei corridoi dell'ufficio di Pasadena e parlò con una decina di colleghi delle cose che gli facevano girare le scatole, quel giorno in modo particolare. Avrebbe voluto raccontare quello che era appena successo, parlare della propria vita segreta, del fatto che nessuno lo capiva, nessuno si rendeva conto di quanto era furbo e intelligente e di quanto era bravo a inventare e a realizzare progetti criminosi. Sì, era bravo. Bravo da morire. Tutti gli altri erano dei vigliacchi, non avevano idea di che cosa significasse veramente uccidere. Lui sì, invece. Lui lo sapeva, eccome. E sapeva anche un'altra cosa: uccidere gli piaceva ancora più di quanto avesse immaginato. A parte il fatto che gli riusciva bene. Ebbe la tentazione di tirar fuori la pistola li, in mezzo all'ufficio, e sparare a tutto ciò che si muoveva, respirava o parlava. Ma no, era solo una fantasia, un'innocua fantasticheria. Nulla di paragonabile alla storia vera, la storia di Mary, la sua storia, che era molto più avvincente.  «Alex, hanno telefonato tante di quelle volte dal tuo ufficio al-l'FBI che ho smesso di rispondere. Ma sono pazzi i tuoi colleghi?» Tia, la mia prozia, pontificava seduta al tavolo della cucina ammirando il foulard a colori vivaci che le avevo portato per ringraziarla di averci fatto da housesitter mentre noi eravamo in California. Accanto a lei era seduta Nana, intenta a smistare la posta arrivata durante la nostra assenza. Anche la gatta Rosie era in cucina, un po' più in carne di come l'avevamo lasciata, mi pareva. Mi si avvicinò e si strusciò contro la mia gamba come per dire: Sono offesa che ve ne siate andati, ma mi fa piacere che siate tornati. Tia è un'ottima cuoca. Anch'io ero contento di essere tornato a casa e penso che più o meno lo fossimo tutti: quando Christine si era riportata Alex a Seattle, di fatto la vacanza era finita per tutti, o perlomeno era finito il divertimento. Le avevo parlato una volta, in una telefonata carica di tensione e tristezza. Sia lei che io ci eravamo dovuti talmente controllare per non perdere le staffe e litigare che non era rimasto praticamente nulla da dirci. Christine mi preoccupava, però. Negli ultimi tempi andava soggetta a bruschi sbalzi di umore ed era particolarmente lunatica e piena di contraddizioni. Mi sarebbe piaciuto sapere com'era con nostro figlio quando io non c'ero. Il piccolo Alex non si era mai lamentato, ma si sa che in questi casi i bambini tendono a non dire nulla. Adesso che ero di nuovo nella mia cucina di Washington, mi sembrava quasi di non essere neppure stato via. Era giovedì e potevo non pensare al lavoro fino al lunedì successivo. La mia determinazione durò a dir tanto cinque minuti. Spinto dall'abitudine, andai nel mio studio in soffitta, buttai sulla scrivania la posta indirizzata a me e, meccanicamente, premetti il tasto play della segreteria telefonica. Fu un grosso errore. C'erano nove messaggi. Il primo era di Tony Woods del Bureau. «Salve, Alex. Ho provato a chiamarla ancora sul cercapersone, ma invano. Per piacere mi richiami nell'ufficio del direttore Burns appena può. Chieda scusa da parte mia alla sua housesitter, deve pensare che io sia un maniaco. In effetti la sto perseguitando, Alex. Mi richiami, per favore.» La battuta di Tony mi strappò un sorriso, ma anche il secondo messaggio era suo. «Alex, sono di nuovo Tony Woods. Per piacere, chiami in ufficio appena può. Ci sono sviluppi riguardo al killer californiano. A Los Angeles regna il panico. Il Los Angeles Times ha pubblicato la notizia delle e-mail di Mary Smith. Mi chiami, Alex, è importante.» Prudentemente, Tony non aveva voluto scendere nei particolari parlando con la mia segreteria telefonica, o forse sperava di incuriosirmi con la vaghezza del suo messaggio. E ci era riuscito. Ero quasi sicuro che anche l'ultima vittima fosse hollywoodiana e madre, ma non potevo fare a meno di chiedermi se ci fosse stata un'evoluzione nel modus operandi di Mary Smith. E le e-mail al Times?

Dalla televisione e dal web al massimo avrei appreso metà della storia. Se volevo saperne di più, dovevo per forza chiamare in ufficio. No, mi dissi: ho giurato di non lavorare fino a lunedì. Basta pensare alle indagini, basta pensare a Mary Smith. La segreteria emise un altro bip, seguito dalla voce di Ron Burns, conciso e puntuale come sempre. «Alex, ho parlato con Fred Van Allsburg a Los Angeles. Nulla di preoccupante, ma devo farle alcune domande. È importante. Bentornato a Washington, a proposito. Spero abbia fatto buon ritorno a casa.» Anche la chiamata successiva era di Ron Burns. Modulando con cura la voce, diceva: «Alex, abbiamo una teleconferenza in programma per la settimana prossima e non voglio che lei arrivi impreparato. Mi chiami a casa durante il fine settimana, se mai. Dovrebbe parlare anche con l'ispettore Galletta di Los Angeles, che è al corrente di cose di cui sarebbe bene fosse informato anche lei. Se non ha i suoi numeri di telefono, Tony glieli può procurare».

Il significato sottinteso era chiarissimo. Ron Burns non mi stava chiedendo se volevo continuare a occuparmi di quel caso, mi ordinava di farlo. Ero stufo e arcistufo di tutto: di tutti quegli omicidi, tutte quelle tragedie una dopo l'altra. Secondo le stime dell'FBI, negli Stati Uniti erano attivi più di trecento serial killer. Li dovevo catturare tutti io? Fermai la segreteria telefonica per riflettere un attimo e, senza volere, mi ritrovai a pensare a Mary Smith. Si era insinuata nei miei pensieri, aveva suscitato il mio interesse, la mia curiosità, probabilmente il mio orgoglio. Un serial killer donna: possibile? Una donna che uccideva altre donne... madri, per giunta? Com'era possibile? Non credevo che una donna potesse essere capace di una simile atrocità. Ma il fatto che a me paresse inconcepibile non significava che non potesse essere vero. Mi chiesi anche se Arnold Griner avesse ricevuto un'altra e-mail. Che ruolo avevano lui e il Los Angeles Times nella vicenda? Mary Smith aveva già deciso chi sarebbe stata la sua prossima vittima? Qual era il suo movente? Fu soprattutto il pensiero della prossima vittima a colpirmi.

A Los Angeles c'era una donna, una madre ignara, che stava per perdere la vita. C'erano un marito e probabilmente dei figli che sarebbero rimasti soli. Non potevo non identificarmi in loro. Burns probabilmente - anzi, no, sicuramente - ci aveva pensato, quando mi aveva telefonato. Avevo perso mia moglie, Maria, colpita da un proiettile sparato da un'auto in corsa. Era morta fra le mie braccia. Il colpevole non era mai stato trovato. Per me si trattava del caso più importante della mia carriera, ma non ero riuscito a risolverlo. Era completamente assurdo. Non avevo bisogno della mia specializzazione in psicologia per capire che l'attuale serie di omicidi a Los Angeles rappresentava per me una sfida dal punto di vista personale, oltre che professionale. Potrei fare un salto in ufficio, pensai.

A parte il fatto che Burns aveva ragione, non potevo presentarmi impreparato alla riunione del lunedì mattina. Maledizione, Alex, stai cedendo. Squillò il telefono. Risposi, ma con mia sorpresa sentii che Damon aveva già tirato su e stava parlando. «Sì, anche a me sei mancata. Certo che ti ho pensato, tutto il tempo, giuro.» Poi sentii una risata di ragazza. «Che cosa mi hai portato dalla California, Day? Un paio di orecchie da topo? Qualcosa mi avrai comprato, no?» Mi imposi di riattaccare con discrezione, senza che se ne accorgessero. Sì, anche a me sei mancata. Chi era questa ragazzina? E da quanto tempo Damon aveva dei segreti? Mi ero illuso che, il giorno in cui si fosse trovato una fìdanzatina, mio figlio me ne avrebbe parlato, ma di colpo mi resi conto che era stata una sciocchezza da parte mia. Avevo avuto anch'io tredici anni. Che cosa credevo? Quella era solo la prima di una serie infinita di sorprese che mio figlio adolescente mi riservava. Decisi di aspettare cinque minuti prima di dirgli che avevo bisogno del telefono libero e nel frattempo tornai alla segreteria telefonica, dove mi aspettava un altro messaggio. Devastante.  «Alex, sono Ben Abajian, è giovedì ed è l'una e mezzo, ora di Seattle. Ho brutte notizie per lei, purtroppo... Sembra che il legale di Christine abbia chiesto di anticipare la data dell'udienza per l'affidamento definitivo. Non so se riuscirò a fermarla, e non so neppure se ci conviene, veramente. Avrei anche altre cose da dirle, ma preferisco aspettare di parlarle di persona. Mi chiami appena può, per cortesia.» Mi si accelerò subito il battito cardiaco: Ben Abajian era l'avvocato cui mi ero rivolto quando Christine aveva portato con sé a Seattle il piccolo Alex. Da allora ci eravamo parlati una ventina di volte, sempre a mie spese, naturalmente. Era un ottimo professionista ed era anche un brav'uomo, e il suo messaggio mi parve un gran brutto segno. Immaginai che Christine, interpretato a modo suo quel che era successo in California, si fosse precipitata dal suo legale. Data la differenza di fuso orario con la West Coast, trovai Ben Abajian ancora in ufficio. Cercò di sottolineare i lati positivi che la richiesta di anticipazione dell'udienza poteva avere per me, ma il tono era cupo. «Alex, ha chiesto che le venga impedito di vedere il bambino fino all'udienza definitiva. E il giudice ha accolto la richiesta. Mi dispiace.» Strinsi con forza il telefono: mi era difficile rispondere, o anche solo digerire quello che Ben mi stava dicendo. Christine non era mai stata così aggressiva, mentre adesso stava addirittura cercando di impedirmi di vedere il piccolo Alex. Anzi, me l'aveva già impedito, anche se solo temporaneamente. «Alex, è ancora in linea?» «Sì, Ben, ci sono. Mi scusi. Mi lasci riflettere un attimo.» Posai il telefono e presi fiato. Sarebbe stato inutile e controproducente scoraggiarmi proprio adesso, oppure prendermela con Ben. Non era colpa sua. Ripresi il telefono e chiesi: «Che motivazioni ha addotto?» Come se non lo sapessi, o non lo immaginassi. «Si è detta preoccupata per la sicurezza del piccolo. Cita le pericolose attività investigative cui lei ha partecipato quando era in California con il bambino. E sostiene che ha mancato ai suoi doveri di padre quando era a Disneyland.» «Ben, sono tutte stronzate. Christine sta travisando i fatti. Ho semplicemente fatto una consulenza al Dipartimento di polizia di Los Angeles su un caso.» «Io le credo» replicò il mio legale. «L'avvocato di Christine, Anne Billingsley, è una che tende a esagerare. Non si lasci impressionare, mi raccomando.» Poi Ben proseguì: «A parte il fatto che un lato positivo in tutto questo c'è, mi creda. Prima si terrà l'udienza, meno tempo resterà in vigore questo provvedimento temporaneo. In teoria il giudice non deve tener conto dei provvedimenti provvisori, ma le situazioni dopo un po' tendono a cristallizzarsi: meno tempo passa, meglio è. Quindi per noi è un bene che l'udienza sia così presto». «Assolutamente sì. Proprio una gran fortuna» commentai. Ben mi chiese di scrivere un resoconto preciso dei fatti avvenuti in California.

Dietro suo consiglio, da un po' di tempo tenevo un diario in cui annotavo tutte le volte che vedevo Alex, scrivevo le mie osservazioni su di lui, conservavo foto di famiglia e annotavo anche la cosa che forse era la più importante di tutte, ovvero gli eventuali problemi con Christine: il fatto che si fosse portata via il bambino due giorni prima del previsto, per esempio. Christine era sempre stata un po' instabile e mi chiedevo se non fosse nuovamente peggiorata. «C'è anche un'altra cosa che forse non le piacerà» disse Ben. «Se riesce a trovare qualcosa che mi piace in tutta questa faccenda, le raddoppio la parcella.» «Be', uno degli argomenti più forti che lei ha dalla sua è il rapporto di Alex con i fratelli.» «Jannie e Damon non andranno a testimoniare» ribattei in tono piatto. «Lo escludo nella maniera più assoluta, Ben. Non lo permetterò.» Quante volte avevo visto massacrare in aula testimoni adulti e più che capaci? Troppe per poter anche solo pensare di esporre i miei figli a una prova del genere. «No, no, non dicevo questo» mi rassicurò Ben. «Se presenziassero all'udienza, però, l'impatto sarebbe positivo.

Lei vuole riavere Alex, no? Il nostro obiettivo è questo, vero? Perché, se non è così, a me non interessa seguire il suo caso.» Mi guardai intorno nello studio come in cerca di una risposta magica. «Ci devo pensare. Le farò sapere» dissi poi. «Non perda di vista l'obiettivo principale, Alex. La cosa non sarà piacevole, tutt'altro, ma alla lunga ne sarà valsa la pena. Possiamo vincere e vinceremo.» Era tranquillo, imperturbabile. Certo, me lo aspettavo, ma in quel momento non ero dell'umore adatto per un colloquio calmo e razionale con il mio avvocato. «Ci possiamo sentire domani mattina presto?» «Va bene. Ma mi raccomando, non si lasci prendere dalla disperazione. Lei si dovrà presentare davanti al giudice intimamente convinto di essere il genitore migliore che ci sia per suo figlio. Questo non significa che dobbiamo denigrare Christine Johnson, ma lei non può arrivare con l'aria da perdente. E non deve sentirsi sconfitto. Chiaro?» «Non mi sento sconfitto, neanche lontanamente. Non posso perdere mio figlio, Ben. Non voglio perdere Alex.» «Farò il possibile affinché questo non succeda. Ci sentiamo domani. Mi chiami in studio o a casa. Ha il mio numero di cellulare?» «Sì.». Non so se salutai Ben Abajian, o se scagliai il telefono contro il muro prima ancora di riattaccare. «Che cosa è successo?» gridò Nana dal piano di sotto. «Alex? Tutto bene? Che cos'è stato?» Guardai il telefono distrutto per terra e mi resi conto di essere sconvolto. «Tutto a posto. Mi è caduta una cosa, non ti preoccupare» risposi. Non mi piaceva dire bugie, nemmeno a fin di bene, ma in quel momento non me la sentivo di guardare in faccia nessuno, neanche Nana. Spinsi all'indietro la sedia e posai la testa sulle ginocchia.

Maledetta Christine, che cosa le era preso? Era un'ingiustizia, e lei lo sapeva benissimo. Oltre a tutto non avrebbe potuto scegliere modo peggiore per affrontare la faccenda. Era stata lei ad andarsene, a dire che non se la sentiva di fare da madre al piccolo Alex. Me l'aveva detto chiaro e tondo: non mi sento in grado. Cambiava continuamente idea, mentre la mia posizione era sempre la stessa: volevo bene ad Alex e desideravo stargli vicino. Mi pareva di vedere il suo viso, il suo sorriso timido, la strizzatina d'occhi che aveva imparato a fare ultimamente. Mi pareva di sentire la sua voce. Avevo voglia di stringerlo in un abbraccio interminabile. Era una tale ingiustizia, una cosa così sbagliata...

Pieno di rabbia, provavo quasi odio per Christine e questo mi faceva stare ancora peggio. Ero pronto a battermi in tribunale, se era questo che voleva, ma trovavo assurdo che fossimo giunti a questo punto.

Respira, mi dissi. In teoria ero abituato a mantenere la calma anche nelle situazioni più difficili. Ma mi sentivo punito da Christine per il lavoro che facevo, perché ero un poliziotto. Non so per quanto tempo rimasi chiuso nello studio, tuttavia quando scesi di sotto la casa era buia e silenziosa. Jannie e Damon dormivano ognuno nella propria cameretta. Entrai e diedi loro ugualmente il bacio della buonanotte.

Tolsi a Jannie il cerchietto con le orecchie di Minnie e lo posai sul comodino. Poi andai in veranda, sollevai il coperchio del pianoforte e mi misi a suonare. La mia terapia. Di solito la musica mi assorbiva completamente e mi aiutava a elaborare o a dimenticare le preoccupazioni. Quella sera però il blues mi riusciva male, rabbioso. Passai a Brahms, più rilassante, ma non servì nemmeno quello. I pianissimo erano troppo forti e gli arpeggi sembravano passi pesanti su e giù per ripide scale. Dopo un po' mi fermai a metà di una frase, con le mani sulla tastiera. Nel silenzio sentii il rumore del mio stesso respiro, quando mi sfuggì un grido incontrollato. E se perdo il piccolo Alex? Non riuscivo a immaginare niente di peggio. Qualche giorno dopo partimmo tutti quanti alla volta di Seattle per presenziare all'udienza per l'affidamento: la famiglia Cross saliva di nuovo su un aereo per la West Coast, ma questa volta non stava andando in vacanza. La mattina seguente Jannie, Damon e Nana erano in tribunale insieme a me, seduti ad aspettare che cominciasse l'udienza. Nessuno parlava e il silenzio era teso, ma il solo fatto che fossero lì con me mi era di grande aiuto. Rimisi in ordine per la decima volta i fogli che avevo davanti. Probabilmente dal di fuori sembravo tranquillo, ma dentro ero distrutto, completamente svuotato. Ben Abajian e io eravamo seduti al banco del convenuto, sulla sinistra. L'aula era ben arredata ma impersonale, con pannelli di legno chiaro alle pareti e anonimi mobili moderni. Era senza finestre, ma non importava: Seattle quella mattina ci stava mostrando il suo lato più tetro e piovoso. Christine arrivò, fresca e composta. Non so che cosa mi aspettassi esattamente, forse qualche piccolo segno del fatto che quelle circostanze erano dolorose per lei quanto per me.

Aveva i capelli più lunghi, raccolti in una treccia, e un tailleur blu scuro con camicetta di seta grigia alla coreana, più tradizionale e severa del solito. Un look da avvocatessa, perfetto per quella situazione.

Quando i nostri sguardi si incrociarono, mi fece un piccolo cenno di saluto, fredda. Per un attimo ricordai come mi guardava ai tempi in cui andavamo da Kinkead's, il nostro ristorante preferito a Washington. Stentavo a credere che fossero gli stessi occhi, che lei fosse la stessa persona. Salutò Jannie, Damon e Nana. I ragazzi risposero educatamente, ma molto riservati, cosa che apprezzai.

Soltanto Nana si mostrò un po' ostile e la seguì con sguardo severo fino al banco del ricorrente. «Che delusione!» borbottò. «Oh, Christine, Christine, che razza di donna sei? Sai benissimo che non si deve far soffrire così un bambino.» Christine si voltò a guardare Nana con aria spaventata. Non l'avevo mai vista così. Di che cosa aveva paura? L'avvocato Billingsley era seduta a sinistra di Christine e Ben alla mia destra, in modo tale che non ci potevamo vedere. E questo probabilmente era un bene. Non avevo voglia di guardarla in faccia in quel momento. Non ricordavo di aver mai provato tanta rabbia nei confronti di nessuno in vita mia, meno che mai una persona cara. Ma the cosa stai facendo, Christine? Non ti riconosco più... Continuai a rimuginare anche quando l'udienza venne aperta e Anne Billingsley esordì con una dichiarazione abilmente preparata. Quando sentii le parole «nato in cattività», però, ritrovai di colpo la concentrazione. Anne Billingsley stava parlando delle circostanze in cui era venuto alla luce il piccolo Alex, dopo che Christine era stata sequestrata durante una vacanza con me in Giamaica che era stata l'inizio della fine della nostra relazione. Cominciavo a rendermi conto che era davvero una vipera come me l'aveva descritta Ben. Il viso rugoso e i capelli grigi tagliati corti le conferivano qualcosa di teatralmente avvocatesco. Sottolineava con enfasi le parole chiave di ogni suo intervento. «Vostro onore, parleremo dei molti pericoli corsi dal figlio della signora Johnson e dalla signora stessa durante la breve e tempestosa relazione con il dottor Cross, che notoriamente si occupa di indagini delicatissime, mettendo a repentaglio la vita dei suoi cari.» E avanti così, una serie di affermazioni una più pesante dell'altra. Lanciai una rapida occhiata verso Christine, che però guardava fisso davanti a sé. Era davvero questo che voleva? Dove voleva andare a parare? Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a interpretare la sua espressione indecifrabile. Quando l'avvocato Billingsley ebbe finito di denigrarmi, smise di camminare avanti e indietro e si sedette. Subito si alzò Ben, che però rimase al mio fianco per tutta la durata della dichiarazione introduttiva. «Vostro onore, non farò perdere molto tempo alla corte, a questo punto. Lei ha letto la documentazione e conosce già i punti fondamentali di questa controversia. Sa che la necessità di una procedura arbitrale è sorta il giorno stesso in cui la signora Johnson ha abbandonato il figlio neonato. Sa anche che il dottor Cross ha dato ad Alex Junior nel primo anno e mezzo di vita tutto l'affetto e la stabilità necessari a un bambino. E sicuramente sa che il legame più forte e duraturo per ognuno di noi, quello con i fratelli e le sorelle, il piccolo Alex lo ha stabilito a Washington, vivendo con quella che fino all'anno scorso era la sua unica famiglia. Infine sappiamo tutti che, nella sfortunata ipotesi della separazione dei genitori, la cosa migliore per un bambino è avere una vita strutturata che gli dia la possibilità di esprimere appieno le proprie potenzialità. Io sostengo inoltre - e credo che lei ne converrà con me - che vivere insieme con il padre, la bisnonna, un fratello e una sorella e nelle vicinanze di numerose zie e cugini sia un'esperienza più sana e formativa per un bambino che essere allevato da una madre che vive a cinquemila chilometri di distanza dai pochi parenti che le restano e che ha già cambiato idea due volte riguardo all'affidamento. Detto questo, non sono qui per denigrare la signora Johnson, che a detta di tutti è una madre assolutamente normale, quando vuole. Sono qui per ricordarle la conclusione che il buonsenso suggerisce in una vicenda come questa, ovvero che per il figlio del mio cliente, come per tutti i bambini, è meglio vivere con un genitore che non viene meno ai suoi doveri, non lo ha fatto in passato né da segno di poterlo fare in futuro.» Nei colloqui prima dell'udienza, Ben e io avevamo deciso di comune accordo di essere il più corretti possibile e sapevo già che cosa avrebbe detto, ma in aula, e davanti a Christine, le sue parole mi fecero un effetto diverso. La tesi del mio avvocato mi parve terribilmente aggressiva, non molto diversa dalle cose che aveva detto Anne Billingsley di me. Mi sentii un po' in colpa. Anche se l'avvocato di Christine era deciso a infangare la mia reputazione, alla fine io ero responsabile delle mie azioni, e anche di quelle che facevo fare al mio avvocato: era un principio che Nana mi aveva inculcato fin da piccolo. Di una cosa ero sicuro: volevo riportare con me a Washington il mio figlio minore. Tuttavia, ascoltando Ben Abajian, ebbi la sensazione che in quella causa non ci sarebbero stati vincitori. Si trattava solo di vedere chi avrebbe perso di meno. E speravo con tutto il cuore che il vero sconfitto non fosse il piccolo Alex.  «Signora Johnson, ci può dire con parole sue che cosa si aspetta di ottenere dall'udienza di oggi?» Mi chiesi se gli altri si accorgevano di quanto era nervosa Christine al banco dei testimoni. Teneva le mani con le dita intrecciate affinché non si vedesse che le tremavano. Non riuscii a trattenere una smorfia: mi faceva male vederla in quello stato. Anche se se l'era cercata. Quando cominciò a rispondere alle domande di Anne Billingsley, però, lo fece con voce calma e apparentemente a suo agio. «E ora che mio figlio faccia una vita stabile, che abbia una sistemazione definitiva. Voglio che abbia tutta la tranquillità e la sicurezza di cui ha bisogno.» L'avvocatessa rimase seduta al suo posto con un atteggiamento di assoluta tranquillità che non sapevo se provava veramente. «Potrebbe raccontarci gli eventi che la portarono a separarsi dal signor Cross?» Christine abbassò gli occhi e rimase assorta per un momento. Non volevo credere che stesse recitando: la sua sincerità era uno dei motivi per cui mi ero innamorato di lei... Ma quella che avevamo vissuto assieme sembrava una vita precedente, ormai. «Poco dopo essere rimasta incinta, fui rapita e tenuta in ostaggio per dieci mesi» disse quando rialzò gli occhi. «Il vero bersaglio dei miei sequestratori era Alex.

Dopo quella terribile esperienza, mi resi conto che non sarei più riuscita a condurre una vita normale insieme con lui. Avrei voluto, ma non era più possibile.» «Per chiarezza, quando dice Alex intende il signor Cross?» Non l'agente Cross, o il dottor Cross, ma il signor Cross. L'avvocato di Christine non perdeva occasione per cercare di sminuirmi. Persino Christine trasalì, ma rispose: «Esatto». «Grazie, Christine. Adesso vorrei tornare un po' indietro nel tempo. Suo figlio nacque in Giamaica, mentre lei era ancora nelle mani dei rapitori, giusto?» «Sì.» «Nacque in un ospedale giamaicano, o comunque sotto controllo medico?» «No. Partorii in una baracca nella foresta, in mezzo alla giungla. Portarono una specie di levatrice, ma non parlava inglese, o perlomeno non con me, e non ricevetti alcun genere di assistenza ginecologica. Mi rallegrai che Alex Junior fosse nato sano e che crescesse bene, perché in quei mesi praticamente vivemmo in una cella.» Anne Billingsley si alzò, attraversò la stanza e porse un fazzoletto di carta a Christine. «Signora Johnson, questo rapimento fu la prima occasione in cui la relazione con il signor Cross portò violenza nella sua vita?» «Obiezione!» Ben Abajian scattò in piedi immediatamente. «Riformulerò la domanda, vostro onore.» Anne Billingsley si voltò di nuovo verso Christine con un sorriso pieno di sollecitudine. «Ci furono altri episodi di violenza, prima o dopo la nascita di suo figlio, legati alla professione del signor Cross, che influirono direttamente su di lei?» «Ce ne furono parecchi» rispose Christine senza esitazione. «Il primo fu poco dopo che ci eravamo conosciuti. Mio marito venne ucciso dal killer a cui Alex stava dando la caccia in quel periodo, responsabile di numerosi altri terribili omicidi. In seguito, dopo la nascita di nostro figlio, quando Alex Junior era con suo padre a Washington, mi risulta che almeno una volta il bambino fu fatto evacuare da casa durante la notte per motivi di sicurezza. Per la precisione, tutti i figli di Alex furono allontanati da casa perché un serial killer lo aveva preso di mira.» Anne Billingsley, in piedi al banco del ricorrente, aspettò quel momento per estrarre da una busta di cartoncino una serie di fotografie. «Vostro onore, vorrei che queste foto venissero ammesse come prove. Vi si vede chiaramente la casa del signor Cross la notte di una di queste evacuazioni di emergenza. Vedrete qui il figlio della mia assistita che viene portato via in braccio da una persona che non è di famiglia in una situazione di caos totale.» Avrei voluto gridare «obiezione!» di fronte a quelle sedicenti prove. Sapevo per certo che era stato John Sampson, e non uno sconosciuto, a portare via Alex Junior quella notte. Christine aveva piazzato davanti a casa mia un fotografo, un investigatore privato. Nessuno aveva corso alcun pericolo, perché avevamo agito con prudenza e tempestività. Ma le foto furono mostrate senza spiegare nulla, almeno per il momento. E da lì in poi le cose peggiorarono ancora. Anne Bilhngsley fece ricostruire a Christine una serie di eventi che riguardavano il mio lavoro in maniera del tutto fuorviante, mettendole praticamente le parole in bocca. La sceneggiata si concluse con il viaggio a Disneyland, che l'avvocato descrisse come un campo minato irto di pericoli per il piccolo Alex, che io avevo «abbandonato» nel Sud della California per andare a caccia di uno psicopatico che avrebbe potuto mettere di nuovo in pericolo la mia famiglia. Poi venne il mio turno. L'interrogatorio cui mi sottopose Ben al banco dei testimoni fu una delle prove più ardue della mia vita. Mi aveva raccomandato di non rivolgermi direttamente al giudice, ma era difficilissimo non farlo, dal momento che il futuro di mio figlio era nelle sue mani. Il giudice era June Mayfield, una signora sulla sessantina con una messa in piega rigida che faceva pensare più alla provincia americana negli anni Cinquanta che alla Seattle del nuovo millennio. Persino il nome suonava antiquato. Mentre mi sedevo al banco dei testimoni, mi chiesi se avesse figli. Magari era divorziata, magari aveva vissuto un'esperienza analoga alla nostra... «Non sono qui per parlare male di nessuno» cominciai lentamente. Ben mi aveva chiesto se avevo delle perplessità su Christine come madre. «Voglio soltanto parlare di ciò che è meglio per Alex. Tutto il resto non mi interessa.» Capii dal cenno del capo e dall'incresparsi delle labbra del mio avvocato che era la risposta giusta. O aveva fatto quella faccia solo a uso e consumo del giudice? «Sì, certo» disse. «Potrebbe allora spiegare gentilmente alla corte come mai Alex Junior visse con lei fino all'età di un anno e mezzo?» Da dove ero seduto vedevo benissimo Christine e mi parve una buona cosa, perché non volevo dire nulla che non avrei detto anche in faccia a lei. Spiegai nel modo più chiaro possibile che Christine non se la sentiva di vivere con me o di tirare su un figlio dopo quel che le era successo in Giamaica. Non ebbi bisogno di aggiungere altro. Christine aveva scelto di non esserci, punto e basta. Mi aveva detto lei stessa che non si sentiva in grado di tirare su Alex. Come avrei potuto dimenticarlo? «E quanto tempo passò, secondo lei, da quando la signora Johnson abbandonò...?» «Obiezione, vostro onore! L'avvocato Abajian sta imbeccando il teste.» «Respinta» disse il giudice Mayfield. Cercai di non farmi illusioni, ma quella risposta mi rincuorò moltissimo. Ben riprese a interrogarmi. «Quanto tempo passò tra l'abbandono e il successivo incontro della signora Johnson con il figlio?» Non ebbi bisogno di riflettere.

«Sette mesi. Passarono sette mesi» risposi pronto. «Dunque, la signora Johnson stette sette mesi senza vedere il bambino. Lei che cosa pensò?» «Quando si rifece viva, più che altro rimasi sorpreso. Avevo cominciato a pensare che non sarebbe tornata mai più. E lo stesso pensava il piccolo Alex.» Era la verità, ma non era facile dirla a voce alta in un'aula di tribunale. «Tutti in famiglia rimanemmo sorpresi, prima dalla partenza di Christine poi dal suo ritorno improvviso. «E, dopo quella volta, quando tornò a farsi viva?» «Be', quando disse che voleva portare con sé a Seattle il piccolo Alex. A quel punto si era già rivolta a un avvocato di Washington.» «E quanto tempo era passato?» chiese Ben. «Erano passati altri sei mesi.» «Quindi la signora abbandonò il figlio, lo rivide dopo sette mesi, se ne andò di nuovo e poi tornò all'improvviso decisa a fargli da madre? E così che andarono le cose?» Sospirai. «Più o meno sì.» «Dottor Cross, può dirci, in tutta sincerità, perché chiede l'affidamento del bambino?» Le parole mi vennero dal cuore. «Perché gli voglio bene, e voglio che cresca con suo fratello e sua sorella, e con mia nonna, che mi ha allevato dall'età di nove anni. Penso che Jannie e Damon siano la prova vivente del fatto che, nonostante i miei difetti, sono più che capace di tirare su dei figli felici e, modestia a parte, molto in gamba.» Guardai verso Jannie, Damon e Nana, che mi sorrisero. Poi però Jannie si mise a piangere e dovetti concentrarmi su Ben per non crollare anch'io. Notai che persino il giudice Mayfield aveva guardato i miei ragazzi con preoccupazione. «I miei figli sono la cosa che amo di più al mondo, ma la nostra famiglia non è completa senza il piccolo Alex, o Ali, come gli piace essere chiamato. È uno di noi. Gli vogliamo tutti bene. Non possiamo lasciarlo né per sei mesi, né per sei minuti» ripresi.

Con la coda dell'occhio vidi che Nana annuiva. Aveva l'aria infinitamente più saggia del giudice Mayfield sul suo scranno, con la sua toga nera, soprattutto in materia di educazione dei giovani.

«Continui pure, Alex. Va benissimo così, vada avanti» mi incoraggiò Ben. «Se fosse dipeso da me, Christine non se ne sarebbe andata da Washington. Ali merita di avere vicino entrambi i genitori. Ma se questo è impossibile, dovrebbe almeno vivere con quanti più familiari possibile. Non credo che si trovi male qui a Seattle, ma stiamo parlando di garantirgli le condizioni di vita migliori possibili. E poi, come ho già detto, per quello che vale, io gli voglio troppo bene. È il mio bambino, un pezzo del mio cuore.» A quel punto mi vennero davvero le lacrime agli occhi, e non per fare scena o per impressionare il giudice. Le testimonianze continuarono per tutto il pomeriggio e buona parte della mattina successiva, e ci furono altri momenti durissimi. Dopo le dichiarazioni conclusive dei due legali, aspettammo nel corridoio che il giudice Mayfield decidesse come procedere. «Sei stato bravissimo, papà» mi disse Jannie prendendomi per un braccio e nascondendomi il viso sulla spalla. «Come sempre.

Alex tornerà con noi, vedrai. Me lo sento.» Le cinsi le spalle con il braccio libero. «Mi dispiace avervi coinvolto, ma sono felice che siate venuti.» Proprio in quel momento un addetto del tribunale ci invitò a tornare in aula con un'espressione impenetrabile. Mentre entravamo, Ben mi disse sottovoce: «Sarà solo una formalità. Probabilmente il giudice vorrà riflettere sulla vicenda e ci convocherà per la decisione tra un minimo di due settimane e un massimo di sei. Nel frattempo presenterò un'istanza di revisione dei diritti di visita. Sono sicuro che non ci saranno problemi. E stato bravissimo durante la testimonianza, Alex. Non si preoccupi, si rilassi».  Appena fummo tutti di nuovo in aula, il giudice Mavfield entrò e si sedette in cattedra. Si aggiustò la toga e, senza preamboli, disse: «Ho preso in considerazione tutte le testimonianze e le prove che mi sono state presentate e sono giunta a una decisione. In base a quanto ho visto e sentito, la situazione mi sembra chiara». Il mio avvocato mi guardò con aria pensosa; non capii che cosa intendesse comunicarmi con quell'occhiata. «Ben?» sussurrai. «La corte si pronuncia a favore della richiedente. L'affidamento resta presso la signora Johnson, al cui legale rappresentante chiedo di facilitare il raggiungimento di un accordo sui tempi delle visite da parte dell'altro genitore. Per qualsiasi controversia relativa a tale accordo, richiederò una mediazione prima di convocare nuovamente le parti in quest'aula.» Il giudice si tolse gli occhiali e si sfregò gli occhi, come se rovinare la vita al prossimo facesse parte della sua routine quotidiana. Poi riprese: «Data la lontananza, tuttavia, invito le parti a trovare soluzioni creative. Il dottor Cross avrà diritto a stare con il figlio almeno quarantacinque giorni l'anno, o l'equivalente. È tutto». E, come se niente fosse, si alzò e uscì dall'aula. Ben mi posò una mano sulla spalla. «Alex, non so che cosa dire.

Sono sgomento. Erano cinque anni che non vedevo un giudice prendere una decisione immediata. Mi dispiace moltissimo.» Quasi non lo sentii e quasi non vidi i miei familiari che mi si radunavano intorno.

Alzai gli occhi e vidi Christine e Anne Billingsley che ci passavano accanto per uscire. «Che cosa ti è preso?» esclamai, incapace di trattenermi. Era come se, dopo essermi controllato con tutte le mie forze per giorni, avessi ceduto di colpo. «È questo che volevi? Punirmi? Punire la mia famiglia? Perché, Christine?» Poi intervenne Nana Marna: «Sei cattiva ed egoista, Christine. Mi fai pena». Christine ci voltò le spalle e si allontanò a passo svelto senza dire una parola. Quando arrivò alla porta dell'aula, si chinò in avanti e si portò una mano davanti alla bocca. Non la vedevo bene, ma penso che fosse scoppiata a piangere. L'avvocato Billingsley la prese per un braccio e l'accompagnò fuori. Non capivo.

Aveva vinto, ma singhiozzava come se avesse perso. Era questo che pensava? Perché? Che cosa le era scattato dentro? Un attimo dopo anch'io uscii dall'aula, stordito. Nana mi teneva per una mano, Jannie per l'altra. Christine se n'era già andata. In compenso ad aspettarmi c'era una persona che non avevo nessuna voglia di vedere. Non so come, James Truscott era riuscito a introdursi in tribunale. Ed era accompagnato dalla solita fotografa. Cosa diavolo voleva da me? Perché era venuto fin lì proprio in quel momento? Che razza di articolo stava scrivendo? «Le è andata male, eh, dottor Cross?» disse ad alta voce nel corridoio. «Vuole commentare la sentenza?» Gli passai davanti con i miei senza degnarlo di uno sguardo, ma la fotografa invadente scattò varie foto, tra cui più di una di Damon e Jannie. «Non si azzardi a pubblicare una sola foto della mia famiglia» ingiunsi a Truscott. «Altrimenti?» ribatté in tono di sfida, con le mani sui fianchi. «La diffido dal far uscire le foto della mia famiglia sulla sua rivista. Chiaro?» Strappai la macchina alla fotografa e me la portai via. Quello stesso giorno, qualche ora più tardi, il Drammaturgo viaggiava in direzione nord sulla 405, la San Diego Freeway.

Guidando a poco più di sessanta chilometri all'ora nel traffico scorrevole, ripassava mentalmente l'elenco delle vittime designate. Chi erano le prossime persone da far fuori, quelle che voleva sicuramente uccidere prima di arrivare al punto in cui avrebbe dovuto smettere? Smettere. Di colpo come aveva cominciato. Fine della storia. Chiuso. Basta. Prese un appunto sul bloc-notes che teneva sempre a portata di mano nella tasca della portiera. Era difficile scrivere guidando e la macchina sbandò leggermente. Un cretino sulla sua destra gli strombazzò ripetutamente. Il Drammaturgo si voltò a guardare: era un idiota al volante di una Lexus nera decappottabile, che gli faceva gestacci e gridava: «Vaffanculo, stronzo! Vaffanculo, vaffanculo!» Il Drammaturgo non riuscì a trattenersi dal ridergli in faccia. Quell'imbecille paonazzo era proprio fuori di testa. Se solo avesse saputo con chi aveva a che fare! Che ridere! Si sporse verso il finestrino del passeggero e l'uomo a bordo della Lexus, nel vederlo sghignazzare, si arrabbiò ancora di più. «Credi di essere spiritoso, stronzo che non sei altro? Cos'hai da ridere?» gridò. Il Drammaturgo continuò a ridere, ignorandolo come se non esistesse, come se valesse meno di una merda di cane. Purtroppo per lui, però, quel tizio esisteva e gli stava dando sui nervi, cosa niente affatto consigliabile. Dopo un po' il Drammaturgo rientrò nella corsia di marcia normale, accodandosi alla Lexus come se si fosse arreso, o pentito. La decappottabile nera uscì al secondo svincolo che si presentò. Anche il Drammaturgo uscì. Non era nel copione, stava improvvisando.

Continuò a seguire le luci di posizione della decappottabile su per le colline di Hollywood, lungo una strada secondaria e poi su per una ripida salita. Si chiese se il cretino alla guida se n'era accorto e, per togliergli ogni dubbio, cominciò a suonare il clacson e continuò per quasi un chilometro. A quel punto l'uomo della Lexus doveva essersi sufficientemente spaventato, pensò. Al suo posto, lui Se la sarebbe fatta sotto dalla paura, soprattutto se avesse saputo a chi aveva mancato di rispetto in autostrada. Si spostò al centro della carreggiata per sorpassare la Lexus. Una scena davvero emozionante, un vero sballo, con tutti i finestrini aperti e il vento che gli soffiava in faccia... Il tizio della Lexus lo guardò.

Aveva smesso di imprecare e di fare gestacci. Era pentito? Finalmente gli mostrava un po' di rispetto?

Il Drammaturgo sollevò la mano destra, prese la mira e gli sparò quattro volte in faccia, poi stette a guardare la decappottabile che andava a sbattere contro la parete rocciosa dall'altra parte della strada, rimbalzava, tornava sulla carreggiata e di nuovo andava a fracassarsi contro la roccia. Poi più nulla.

Quel rompiscatole era morto. E se l'era meritato, stupido coglione. L'unico rammarico del Drammaturgo, l'unico vero peccato, era che prima o poi avrebbe dovuto smettere. O perlomeno quello era il progetto, ciò che la storia prevedeva.  L'ispettore Jeanne Galletta premette a fondo l'acceleratore della sua Thunderbird. Aveva viaggiato anche più veloce di così, ma mai nel centro di Los Angeles. Vedeva passare le vetrine di Van Nuys sfocate per la velocità, con la sirena che ululava a ritorno costante sopra la sua testa. Davanti al cafre c'erano già due macchine della polizia e sul marciapiede di fronte si stava radunando una folla agitata. Ben presto sarebbero arrivate anche le telecamere delle varie reti televisive e gli elicotteri dei media, Jeanne Galletta ne era sicura. «Com'è la situazione?» gridò al primo agente che vide, intento a cercare di controllare la folla. «Il locale è stato completamente circondato» rispose questi. «Ci siamo avvicinati in silenzio, davanti e sul retro.

Abbiamo anche alcuni uomini sul tetto. All'interno ci sono una ventina di persone tra clienti e personale.

Se era qui quando siamo arrivati, non può essere scappata.» Quel se rappresentava una grossa incognita, ma era sempre meglio che niente, pensò Jeanne Galletta. Mary Smith potrebbe trovarsi ancora qui.

Questa storia potrebbe finire adesso. Ti prego, Signore, fa' che sia così. «Okay. Altre due unità dentro, non appena riuscite a entrare, e due per controllare la folla. Continuiamo a sorvegliare gli accessi davanti, dietro e sul tetto.» «Ma... ispettore, questa non è la mia squadra.» «Non mi interessa di chi è la squadra, ubbidisca e basta.» Si fermò a guardare negli occhi l'agente. «Sono stata chiara? Ha capito?» «Sì, ho capito, ispettore.» Jeanne Galletta entrò. Il locale era formato da una grande sala rettangolare, con un banco bar davanti e file di postazioni computer in fondo. I terminali erano sistemati su tavoli separati da divisori che arrivavano all'altezza delle spalle per assicurare un minimo di privacy agli utenti. Tutti i presenti erano stati radunati al centro della sala, sulle sedie e sui divani scompagnati.

Jeanne Galletta passò velocemente in rassegna le facce. Studenti, yuppy, pensionati e qualche alternativo un po' hippy di Venice Beach. Un agente le riferì che erano stati perquisiti tutti senza che fossero state trovate armi. Non che questo significasse un granché. Per il momento erano tutti considerati sospetti. Il gestore del locale era un ragazzo giovanissimo, molto spaventato, con occhiali dalla montatura di tartaruga e uno dei casi di acne peggiori che Jeanne Galletta avesse visto dai tempi in cui frequentava il liceo nella San Fernando Valley. Sulla targhetta a forma di mini CD-ROM che aveva appuntata sul petto era scritto in pennarello rosso BRETT. Mostrò a Jeanne una delle postazioni in fondo alla sala. «Lo abbiamo trovato là» disse. «C'è un'uscita da quella parte?» chiese lei indicando uno stretto corridoio alla propria sinistra. Il gestore annuì. «I poliziotti hanno già guardato. E hanno chiuso tutti gli accessi.» «Prendete i nomi di chi usa i computer?» Il ragazzo le indicò l'apparecchio per la lettura delle carte di credito. «Devono usare quello. Non so come si fa ad accedere ai dati, ma posso informarmi.» «Ci pensiamo noi» replicò Jeanne Galletta. «L'unica cosa che le chiedo di fare è tener buoni i presenti, perché ci vorrà un bel po' di tempo. E se le chiedono un caffè, glielo dia decaffeinato.» Gli strizzò l'occhio e gli sorrise, anche se non ne aveva nessuna voglia, e il poveraccio parve calmarsi un po'. «E dica all'agente Hatfield, laggiù, di venire da me.» Aveva avuto un breve incontro con l'agente Bobby Hatfield in un'altra occasione e se lo ricordava ancora perché si chiamava come uno dei due Righteous Brothers. Si sedette davanti al computer e tirò fuori un paio di guanti di lattice. «Che cosa avete scoperto finora?» chiese a Hatfield. «Stesso genere di messaggio, indirizzato allo stesso giornalista del Times, Arnold Griner. Potrebbe anche essere un imitatore che ha visto le altre e-mail, ma ho la sensazione che si tratti proprio di lei. Ha sentito parlare di Carmen D'Abruzzi, vero?» «La cuoca? Certo. A volte guardo la sua trasmissione, anche se non mi piace far da mangiare.» La Trattoria D Abruzzi era un ristorante di Hollywood molto alla moda in quel periodo sia per la cena che per il dopocena. Ma soprattutto, come ben sapeva Jeanne Galletta, Carmen DAbruzzi era la conduttrice di un programma televisivo trasmesso su più reti, in cui cucinava per il bel marito e i due splendidi figli. Era tutto un po' troppo perfetto per i suoi gusti, ma di tanto in tanto anche Jeanne lo guardava. Annuì.

«Maledizione, Carmen D'Abruzzi è proprio la vittima ideale del nostro killer. Non l'avete ancora trovata?» «Il problema è proprio questo» rispose Hatfield. «Sta bene, non le è successo niente. E un po' spaventata, forse, ma sta benone. Idem per la sua famiglia. Abbiamo già mandato una pattuglia a casa sua. Controlli anche lei: il messaggio non è mai stato spedito, e neppure finito...» Jeanne Galletta restò sbalordita. «Come? Non l'ha spedito?» «Forse per qualche motivo si è spaventata, si è agitata, se n'è andata. Magari non le piaceva il caffè che fanno qui. Personalmente, non le do torto: fa schifo.» Jeanne Galletta si alzò e guardò di nuovo il gruppetto di clienti e dipendenti del locale. «Magari è ancora qui.» «Lei crede?» «No, veramente no. Non è mica cretina. Però vorrei lo stesso parlare con tutti. Il locale resterà chiuso fino a nuovo ordine. Lei farà un primo screening, ma nessuno è autorizzato ad andarsene senza prima aver parlato con me, chiaro? Nessuno. Per nessun motivo. Nemmeno se ha la giustificazione della mamma.» «Sì, sì, ho capito» rispose Hatfield. Mentre l'agente si allontanava, Jeanne Galletta lo sentì borbottare qualcosa del genere «...meglio calmarsi un po'». Tipico. I poliziotti uomini hanno il vizio di reagire in un modo agli ordini che ricevono dagli uomini e in un altro a quelli delle donne. Alzò le spalle e tornò a concentrarsi sul messaggio lasciato a metà sullo schermo. Lasciato a metà? Ma che diavolo...?  A: agriner@latimes.com Da: Mary Smith A: Carmen D'Abruzzi Hai spignattato nel tuo ristorante fino alle tre del mattino ieri, vero? Ma quanto lavori, mia cara! Poi hai fatto un bel tratto a piedi da sola per arrivare alla tua macchina parcheggiata due isolati più in là. È questo che credevi, vero? Di essere sola. Invece non lo eri, Carmen. C'ero anch'io su quel marciapiede con te. Non mi sono nemmeno dovuta sforzare di non farmi vedere, talmente eri assorta. Non sei tanto furba, sempre lì a pensare a te stessa. Forse non guardi nemmeno il telegiornale, ignori i notiziari. Forse non ti interessa che ci sia qualcuno in giro che fa la posta a gente proprio come te. Sembra quasi che tu voglia farti uccidere. Meno male, perché io voglio ucciderti. Seguendoti, cercando di imitarti, non ho potuto fare a meno di chiedermi se hai mai raccomandato ai tuoi figli amatissimi di guardare da tutte e due le parti prima di attraversare la strada. Di sicuro non hai dato un buon esempio a Anthony e Martina ieri notte. Non ti sei guardata intorno nemmeno una volta. E questo è un peccato per tutti, per tutta la tua bella famigliola che ci mostri alla tua trasmissione di cucina. Non si può mai sapere quando i propri figli si troveranno per strada da soli, senza nessuno, no? Adesso dovranno imparare ad attraversare la strada da qualcun altro. Perché tu sei...Finiva così, a metà di una frase. Ma anche se il messaggio fosse stato completato, la vicenda aveva preso comunque una piega diversa. Carmen D'Abruzzi non era morta e il messaggio minatorio era stato individuato per tempo. Era già qualcosa, no?

Jeanne Galletta chiuse gli occhi e si concentrò per cercare di elaborare velocemente e correttamente quelle nuove informazioni. Forse Mary Smith si preparava in anticipo le bozze delle e-mail e scriveva la versione definitiva solo dopo gli omicidi. Ma perché aveva lasciato lì quella lettera? L'aveva fatto apposta? Era stata davvero lei a scriverla? Poteva anche darsi di no. Gli interrogativi a cui bisognava trovare risposta sembravano non finire mai, in quel caso. Le sarebbe piaciuto incominciare a trovarne almeno qualcuna. Pensò ad Alex Cross, a una cosa che diceva nel suo libro. «Continuate a fare domande finché non avrete trovato la chiave di volta, l'elemento da cui dipendono tutti gli altri.

Partendo da quella, potrete cominciare a ricostruire il resto e a trovare anche tutte le altre risposte.» La domanda cruciale, la chiave di volta. Qual era in quel caso? Be', sei ore dopo per Jeanne Galletta restava ancora un mistero. Era già buio quando finalmente lasciò andare l'ultimo dei clienti entrati nel locale quella mattina. I cinque che avevano notato la persona che aveva usato la postazione incriminata ne avevano dato ognuno una descrizione diversa; gli altri non avevano memorizzato assolutamente nulla. Nessuno le parve sospetto, anche se su tutti e ventisei sarebbe stato necessario un approfondimento. Le veniva male solo al pensiero di tutte le scartoffie che andavano compilate. Come prevedibile, la carta di credito di Mary Smith risultò rubata. Era di una signora ottantenne di Sherman Oaks, una certa Debbie Green, che non si era neppure accorta di averla persa. Non erano stati fatti altri addebiti, non c'erano indizi, niente. È prudente e organizzata, per essere la pazza furiosa che innegabilmente è. Jeanne Galletta chiese a Brett, il gestore, un espresso ristretto, quindi tornò in ufficio intenzionata a riesaminare gli avvenimenti della giornata finché il ricordo era fresco. Un vicino di casa le aveva promesso di portar fuori il cane, e il take-away cinese sulla strada per l'ufficio le avrebbe fatto trovare la cena pronta entro venti minuti. La vita le sorrideva, no? No! Si chiese se sarebbe riuscita a rincasare per mezzanotte e se, una volta a casa, avrebbe potuto prendere sonno. La risposta molto probabilmente era no a entrambe le domande. Qual era allora il quesito cruciale che doveva porsi?

Dove si nascondeva la chiave di volta? O Alex Cross raccontava solo delle gran balle? . «Non ha mai saputo che cosa voleva, Sugar, e forse non lo sa nemmeno adesso. Christine mi piaceva, ma dopo quel che successe in Giamaica non è stata più la stessa. Ha bisogno di cambiare vita, e tu anche.» Sampson e io ci eravamo rintanati da Zinny's, uno dei nostri locali preferiti nel quartiere. Il jukebox suonava /

Done Got Wise di B.B. King. L'unica musica che mi andava di ascoltare, quella sera, era il blues.

Raphael, il barista, che ci conosceva ed era generoso nel versarci da bere, compensava l'atmosfera non proprio allegra del locale. Osservai il bicchiere di whisky che avevo davanti cercando di ricordare se era il terzo o il quarto. Miseria, quanto ero stanco. Mi tornò in mente una battuta di uno dei film di Indiana Jones: «Non sono gli anni, tesoro. Sono i chilometri che ho fatto». «Il problema però non è Christine, vero, John?» Lo guardai in tralice. «Il problema è il piccolo Alex. Ali. Adesso gli piace essere chiamato così. Comincia ad avere una sua personalità.» Sampson mi batté con la mano sulla testa. «Il problema è qui nella tua zucca, Sugar. Adesso stammi bene a sentire.» Aspettò che mi fossi seduto dritto e fossi pronto ad ascoltare attentamente, poi alzò gli occhi al cielo, li chiuse e fece una smorfia. «Oh, merda, mi sono dimenticato che cosa ti volevo dire. Peccato, perché era una cosa che ti avrebbe fatto sentire molto meglio. Ne sono sicuro.» Non potei fare a meno di ridere. Sampson sapeva sempre quando era il momento di sdrammatizzare con me, fin da quando avevamo dieci anni e giocavamo assieme a Washington. «Be', consoliamoci come possiamo» disse facendo cenno a Raphael di portarci altri due drink. «Non sai mai che cosa sta per succedere» dissi io, fra me e me. «Quando ti innamori. Non ci sono garanzie.» «E vero» convenne Sampson. «Mi avessi detto che avrei fatto to un figlio, mi sarei messo a ridere. Invece eccomi qui, con una bambina di tre mesi. Roba da matti. E nello stesso tempo la situazione potrebbe cambiare di nuovo, così» disse facendo schioccare le dita. Sampson ha le mani più grosse che io abbia mai visto. Sono alto uno e novanta, non proprio palestrato ma nemmeno troppo magro, e in confronto a lui sembro un fuscello. «Billie io stiamo bene insieme, non c'è dubbio» continuò seguendo una sua logica. «Questo non significa che un giorno o l'altro non possa andare tutto a rotoli. Per quel che ne so io, tra dieci anni potrebbe cacciarmi di casa. Non si sa mai. Ma no, la mia Billie non mi farebbe mai una cosa simile» concluse, ed entrambi scoppiammo a ridere.

Rimanemmo seduti a bere in silenzio per qualche minuto e, automaticamente, il nostro umore si incupì.

«Quando rivedrai il piccolo Alex?» mi chiese John Sampson a voce più bassa. «Ali. Mi piace.» «La settimana prossima andrò a Seattle, John. Dobbiamo finalizzare l'accordo sui diritti di visita.» Detestavo quell'espressione. Diritto di visita? Era questo tutto ciò che mi spettava, con mio figlio? Ogni volta che pronunciavo quelle parole ad alta voce, mi veniva voglia di spaccare qualcosa. Una lampada, una finestra, un vetro. «Come diavolo farò?» dissi. «Sul serio. Come posso guardare in faccia Christine e Alex e fingere che vada tutto bene? D'ora in avanti, ogni volta che lo andrò a trovare sarà uno strazio.

Anche ammesso che riesca a far finta di niente, non penso sia questo il modo di tirare su un figlio.» «Ali se la caverà» mi rassicurò Sampson. «Stai tranquillo, Alex, sei un ottimo padre. E poi, prendi noi due: non ti sembra di essere venuto su bene? Non ti sembra che io sia una persona a posto, nonostante tutto?» Sorrisi. «Non avresti un esempio migliore?» Sampson ignorò la mia battuta. «Tu e io non abbiamo avuto un'infanzia tranquilla, eppure siamo diventati due individui normali. A quanto mi risulta, non sei un tossico, non ti sei dato alla macchia, non picchi i tuoi figli. E anch'io, che da piccolo ne ho viste di tutti i colori, sono pur sempre il secondo nella classifica dei migliori agenti della polizia di Washington.» Si interruppe e si diede una gran manata sulla fronte. «Ma cosa dico? Adesso che tu sei un passacarte federale, il poliziotto migliore di Washington sono io!» Di colpo mi sentii sopraffare dalla nostalgia per il piccolo Alex, ma anche dall'affetto per John Sampson. Gli dissi: «Grazie di esistere, amico mio». John mi mise un braccio sulle spalle e mi diede uno scrollone. «Grazie a te, Alex!»  Mi svegliai di soprassalto e mi trovai davanti una hostess che mi guardava perplessa. Mi ricordai che ero su un volo United per Los Angeles e che doveva essere la mattina del giorno successivo. Dall'espressione interrogativa della hostess capii che doveva appena avermi chiesto qualcosa. «Scusi?» dissi. «Le dispiace chiudere il tavolino e raddrizzare lo schienale della poltrona?

Stiamo per atterrare.» Quando mi ero addormentato stavo pensando a James Truscott e a come era comparso all'improvviso nella mia vita. Coincidenza? Siccome stentavo a crederlo, prima di partire avevo chiamato un'amica che lavorava a Quantico e le avevo chiesto di fare una piccola ricerca.

Monnie Donnelley mi aveva promesso più informazioni sul conto di Truscott di quante volessi saperne.

Raccolsi i miei fogli. Non era il caso di lasciarli così in vista e, soprattutto, non era da me, così come non era da me essermi addormentato in aereo. Ero un po' sottosopra, ultimamente. Ma solo un po', vero?

Il mio dossier su Mary Smith si era gonfiato parecchio, in pochi giorni. L'ultimo falso allarme era un vero e proprio mistero. Per la verità, non ero nemmeno sicuro che dietro ci fosse veramente lei.

Leggendo i rapporti sui vari omicidi, mi ero fatto un quadro di un killer, probabilmente donna, che stava diventando sempre più aggressivo e sicuro di sé. Stava accorciando le distanze con le sue vittime, nel senso letterale del termine. Il primo omicidio, quello di Patrice Bennett, era avvenuto in un luogo pubblico. Antonia Schifman era stata colpita davanti a casa. Adesso tutti gli indizi facevano pensare che Mary Smith avesse passato parte della notte dentro la villa di Marti Lowenstein-Bell, prima di ucciderla nella sua piscina. Ero di nuovo a Los Angeles. Appena fuori dell'aeroporto noleggiai una macchina, anche se probabilmente avrei potuto chiedere all'agente Page di venirmi a prendere. Gli uffici dell'FBI a Los Angeles erano molto più belli della sede centrale a Washington. Invece del dedalo di angusti corridoi e delle stanzette da claustrofobia cui ero abituato, occupavano nove piani, con molti open space, vetrate e tanta luce naturale. Dalla postazione che mi assegnarono, al quindicesimo piano, avevo una splendida vista sul Getty Museum e dintorni. La maggior parte delle volte che lavoravo fuori sede mi potevo considerare fortunato se mi toccavano una sedia e una scrivania. L'agente Page cominciò a ronzarmi intorno circa dieci minuti dopo il mio arrivo. Sapevo che era un ragazzo in gamba, molto ambizioso, che con un po' di rodaggio sarebbe diventato un ottimo elemento, ma l'ultima cosa di cui avevo voglia in quel momento era un collega che mi curiosava da dietro le spalle. Già avevo il direttore Burns che mi stava con il fiato sul collo, per non parlare del mio biografo personale, James Truscott, che continuava a seguirmi come un'ombra. Page mi chiese se avevo bisogno di qualcosa. Gli mostrai il dossier. «Questo è di almeno ventiquattr'ore fa. Ho bisogno di avere copia di tutto il materiale in mano all'ispettore Jeanne Galletta dell'LAPD. Possibilmente, voglio saperne più di lei. Ti spiacerebbe...?» «Sarà fatto» disse Page e sparì. L'incarico che gli avevo dato non era una scusa per togliermelo dai piedi. Mi servivano davvero dati aggiornati. Se poi Page, per procurarmeli, doveva allontanarsi per un po', tutto di guadagnato. Presi un foglio bianco e buttai giù alcune domande su cui avevo riflettuto in macchina durante il tragitto dall'aeroporto. M. Lowenstein-Bell: come ha fatto l'assassino a introdursi nella villa? Il killer segue una lista nera, un ordine prestabilito? Che nessi ci sono tra le vittime designate? Devono esserci altri elementi in comune, oltre ai più ovvi! Una formula sempre valida nel mio mestiere è la seguente: 0623 come + perché = chi. Se volevo scoprire chi era Mary Smith, dovevo tener conto delle somiglianze e delle differenze tra i vari omicidi. A cominciare da dove erano stati commessi. E questo voleva dire andare a fare un sopralluogo in casa Lowenstein-Bell.

Scrissi anche: Autore delle e-mail?/Colpevole? Continuavo ad arrovellarmi su quel punto. In che misura la personalità del killer coincideva con quella dell'autore delle e-mail? Quanto era sincera Mary Smith, se di sincerità si poteva parlare? E quanta parte dei suoi messaggi era, invece, volta a confondere chi li leggeva? Finché non fossi riuscito a capire tutto questo, era come se dovessi inseguire due sospettati diversi. Ma con un po' di fortuna, l'appuntamento a cui stavo per andare avrebbe gettato un po' di luce sui messaggi di posta elettronica. Presi un altro appunto indirizzato a me stesso: Strumenti? Armi del delitto? La maggior parte dei serial killer usava più di uno strumento, come Mary Smith. Innanzi tutto l'arma del delitto vera e propria. In questo caso erano stati impiegati senza dubbio una pistola, che sapevamo essere sempre la stessa, e un coltello, sul quale avevamo meno certezze.

C'era poi da considerare il mezzo di trasporto, che doveva essere un'automobile, perché qualsiasi altro modo per andare e venire dalla scena del crimine sembrava improbabile. Poi c'erano gli «strumenti» destinati a soddisfare le esigenze psicologico-emozionali dell'assassina: le figurine con le A e le B e gli stessi messaggi e-mail. Di solito per gli omicidi seriali rivestivano quasi più importanza delle armi vere e proprie. Erano un modo per dire «Sono stato qui», «Sono stato io». O per affermare, in modo ancora più inquietante, «Questa è la persona che voglio farvi credere di essere». In ogni caso erano una sorta di provocazione, una sfida. Un modo per dire «Prendetemi, se ci riuscite». Presi nota anche di quella considerazione. Poi mi scrissi una cosa che non riuscivo a mandare giù: Truscott. Comparso sei settimane fa. Chi è? Che cosa vuole? Guardai l'orologio e mi resi conto che era già ora di andare, se non volevo arrivare in ritardo al primo appuntamento. Chiedere di usare un'auto del Bureau avrebbe significato avere ancora più persone a controllare le mie mosse. Era anche per questo che all'aeroporto avevo noleggiato un'auto. Uscii senza dire a nessuno dove ero diretto. Se dovevo ricominciare a indagare su un omicidio come quando ero nella polizia, tanto valeva farlo come si deve. . Finalmente ero tornato a fare del vero lavoro investigativo: mi ci buttai con rinnovata energia e grande entusiasmo.

Ero gasatissimo. Quando la professoressa Deborah Papadakis mi fece cenno di accomodarmi nel suo studio pieno di libri al numero ventidue del Rolfe Building della UCLA, ero tutt'orecchi. La professoressa prese una pila ordinata di dattiloscritti dall'unica sedia a disposizione e li posò per terra.

«Vedo che ha molto da fare, professoressa. Grazie di avermi ricevuto.» «Se posso esserle d'aiuto, più che volentieri. Non ho mai visto tanta tensione a Los Angeles da... mah, forse dai tempi di Rodney King. Mi dispiace.» Poi alzò una mano e si affrettò ad aggiungere: «Ma non è la stessa cosa, vero?

Comunque sia, la sua è una richiesta un po' insolita per me. Io mi occupo soprattutto di racconti e biografie, la cronaca nera non mi interessa. Neanche i gialli, a dir la verità. Anzi no: leggo Walter Mosley, ma in realtà lui è un sociologo». «Mi dia comunque un parere» le dissi porgendole una copia di tutti i messaggi di posta elettronica di Mary Smith. «A rischio di ripetermi, le chiedo di mantenere la massima riservatezza.» Lo dissi tanto nell'interesse delle indagini quanto mio personale: non avevo alcuna autorizzazione ufficiale a mostrare quei messaggi né alla professoressa Papadakis né a nessun altro. La professoressa mi versò una tazza di caffè da un'antiquata caffettiera elettrica e si mise a leggere e rileggere le e-mail mentre io mi guardavo intorno. Lo studio si trovava in una parte dell'edificio che doveva essere molto ambita, perché aveva una bella vista su un cortile e su un giardino pieno di statue dove gli studenti leggevano e si godevano il sole della California del Sud, mentre la maggior parte degli uffici dava sulla strada. La professoressa Papadakis, con la sua scrivania d'epoca e l'attestato di un O. Henry Award appeso al muro, doveva avere una posizione più che consolidata nell'ateneo. A parte mormorare qualche «mm» ogni tanto, lesse in silenzio. Alla fine, alzò la testa e mi guardò. Era leggermente impallidita. «Bene» disse prendendo fiato. «Le prime impressioni sono sempre importanti, quindi comincerò da quelle.» Afferrò una matita rossa, io mi alzai e andai a mettermi alle sue spalle per leggere insieme a lei. «Vede qui? E qui? Gli incipit sono attivi. Frasi tipo 'Sono quella che ti ha ucciso' e 'Vi ho guardato ieri sera a cena' sono formulate in modo tale da attirare l'attenzione del lettore, o perlomeno con questa intenzione.» «E da ciò che cosa deduce?» domandai.

Avevo la mia teoria in proposito, ma ero lì per sentire il suo parere. La professoressa scosse la testa. «È un approccio che tende a suscitare interesse, ma che è poco spontaneo. Anzi, direi che è studiato.

Siamo di fronte a una persona che si esprime con grande attenzione, che non si lascia andare a uno sfogo tipo flusso di coscienza.» «Che cos'altro nota nello stile di scrittura? I suoi commenti mi sono di grande aiuto, professoressa Papadakis.» «Be', c'è un senso di... di distacco, se vogliamo chiamarlo così, dalla violenza del personaggio.» Mi guardò come in cerca di approvazione e questa sua incertezza mi parve strana, in una docente universitaria altrimenti molto pragmatica e sicura di sé. «Tranne, forse quando parla dei bambini.» «La prego, continui. Mi interessa l'aspetto bambini. Che cosa ne pensa, professoressa?» «Quando descrive il proprio operato, lo fa in modo molto esplicativo. Con frasi semplici, quasi lapidarie. Potrebbe essere una scelta stilistica, ma anche una forma di evitamento. È tipico di chi scrive su argomenti che lo intimoriscono. Se fosse una mia studentessa, le direi di approfondire la tematica e di cercare di maneggiarla con maggiore padronanza.» Si strinse nelle spalle.

«Naturalmente non sono una psichiatra.» «Lo so, ma le sue opinioni sono illuminanti. Gliene sono davvero grato.» Liquidò il complimento con un gesto della mano e disse: «Posso fare ancora qualcosa per lei? C'è nulla in cui la posso aiutare? Tutto questo è molto interessante. Ma probabilmente la mia è curiosità morbosa, lo so». La osservai: stava riflettendo su qualcosa che evidentemente non voleva dire.

«Cosa c'è?» insistetti. «La prego, mi dica tutto quello che pensa. Non abbia paura di sbagliare.» La professoressa posò la matita rossa. «Be', il problema è capire se stiamo analizzando un individuo reale o un personaggio fittizio. In altre parole: il distacco che ho notato nasce dall'inconscio dell'autore o è un artificio letterario? E difficile stabilirlo. Ma il dilemma è proprio questo, vero?» Era esattamente lo stesso interrogativo che mi ero posto anch'io e, sebbene la professoressa non mi stesse dando una risposta, ero rincuorato dal fatto che anche lei la trovasse una domanda significativa. Tutto a un tratto scoppiò in una risatina nervosa. «Spero proprio che lei non dia troppa importanza alle mie valutazioni.

Non vorrei mai portarvi fuori strada. Questa cosa è troppo importante.» «Non si preoccupi» la rassicurai. «La sua valutazione è soltanto uno dei molti elementi di cui terremo conto. Questo è un caso di una complessità incredibile. Un vero rompicapo psicologico, analitico, letterario.» «Dev'essere un lavoraccio, correre di qua e di là a caccia di informazioni in questo modo. Io non ce la farei.» «Per la verità, i colloqui come questo sono la parte più facile del mio lavoro» dissi in tutta sincerità. Era l'appuntamento successivo, infatti, a preoccuparmi assai di più.  Fui fermato da un addetto alla sicurezza armato al cancello della villa dei Lowenstein-Bell a Bel Air, Beverly Hills. Più avanti altre due guardie mi controllarono di nuovo i documenti e, finalmente, fui autorizzato ad avvicinarmi alla casa, che si trovava lungo un viale sinuoso non lontano dal Bel Air Hotel. C'ero stato una volta ed era uno dei posti più belli e tranquilli che avessi visto in vita mia. Suonai alla porta e venne ad aprirmi Michael Bell in persona. La casa era tutta una vetrata e lo vidi arrivare da lontano. Capii il suo stato d'animo dal modo in cui camminava: a passi lenti, strascicati. Incontrare i parenti delle vittime è sempre un esercizio di alta acrobazia: il momento in cui gli investigatori hanno bisogno di più informazioni è anche quello in cui i familiari hanno meno voglia di parlare. Non sono ancora riuscito a trovare una soluzione che soddisfi sia me che i poveretti che devo interrogare. Il signor Bell non aveva il look tipico di Bel Air. Con la sua folta barba bionda, jeans, sandali e una camicia scozzese sbiadita, sarebbe potuto sembrare quasi un boscaiolo, o forse un ex membro dei Nirvana o dei Pearl Jam, se non fosse stato per lo stile ultramoderno della villa. Sapevo, per averlo letto nel dossier, che l'aveva fatta costruire insieme con la moglie solo pochi anni prima. Con modi e voce scoraggiati, tipici di chi sta attraversando le prime fasi di un grave lutto, Michael Bell mi invitò cortesemente ad accomodarmi.

«Gradisce qualcosa, agente Cross? Posso offrirle un tè freddo?» mi disse. «No, grazie» risposi. In piedi, leggermente in disparte, c'era una donna di mezza età che immaginai essere Lupe San Remo, la governante che aveva scoperto il cadavere nella piscina. «Nada, Lupe, gracias» le disse il signor Bell.

«Quisiéramos cenar a las siete, por favor.» Seguii il padrone di casa oltre una sorta di ampio corridoio  dove, rannicchiate sulla stessa grande poltrona, c'erano tre bambine bionde: Cassie, Anna e Zoey.

Secondo quanto avevo letto nel dossier, avevano rispettivamente cinque, sette e otto anni. Su un megaschermo al plasma riconobbi una scena, in pausa, di Nemo. Avevo interrotto la visione del film e anche questo mi dispiaceva. Mi chiesi se «Mary Smith» provava davvero pena per i figli delle sue vittime e, se sì, per quale motivo. Quale poteva mai essere il movente di una persona così malata?

Perché aveva ucciso la madre di quei tre frugoletti? «Bambine, ho da fare per un po'. Potete continuare a guardare il film senza di me» disse il padre. Premette un tasto su un telecomando e, appena il film ripartì, alzò il volume. Riconobbi la voce di Ellen De Generes nella colonna sonora, perché avevo visto Nemo con Jannie almeno una decina di volte. Mia figlia aveva un debole per Dorry. «Venga, qui possiamo parlare tranquilli» mi disse poi, indicandomi un salotto con un altissimo soffitto a volta. Una delle pareti era costituita da un'enorme vetrata da cui si godeva una vista mozzafiato della costa e si vedeva anche la piscina in cui era stata trovata Marti Lowenstein. Michael Bell si sedette con le spalle alla vetrata su un divano di velluto color panna. «Questo panorama mi piaceva moltissimo» disse sottovoce. «Anche a Marti.» «Preferisce che parliamo altrove?» proposi immediatamente. «No, grazie» rispose. «Va bene anche qui. Sto cercando di continuare a condurre una vita il più possibile normale.

Per le bambine. E per la mia sanità mentale. Non c'è problema. Ha delle domande da farmi?» «So che è già stato interrogato dai colleghi del Dipartimento di polizia di Los Angeles e so che è stato scagionato, quindi cercherò di essere il più breve possibile.» «La ringrazio, ma ci metta pure tutto il tempo necessario. Voglio aiutarvi a trovare il colpevole, se posso. Ho bisogno di sentire che sto facendo qualcosa di utile, che sto aiutando» replicò. Mi sedetti sul divano di fronte al suo. In mezzo a noi c'era un grande blocco di marmo lucido che fungeva da tavolo. «Mi dispiace, ma devo cominciare dalle cose più ovvie. Sua moglie aveva nemici, che lei sappia? Le è venuto in mente chi potrebbe essere stato?» Michael Bell si accarezzò la barba, poi si strofinò gli occhi. «Mi creda, ci ho pensato molto ed è anche per questo che la situazione è così paradossale: Marti era una delle persone più benvolute qui a Bel Air.

Le volevano tutti bene. Chieda in giro e vedrà.» Si interruppe e fece una smorfia, sul punto di piangere.

Le volevano tutti bene. Aveva usato il passato. Chinò la testa e si asciugò gli occhi con il pugno chiuso.

«Mi scusi. Mi illudo di esserci rassegnato, ormai, ma non è vero.» «Ci vuole tempo» osservai. Avrei voluto dirgli di più, confidargli che sapevo come si sentiva, sapevo che cosa voleva dire non solo perdere la moglie, ma perderla in quel modo. Anch'io c'ero passato, anni prima, quando avevo perso Maria. Sapevo che quando si fa un'esperienza come quella non c'è nulla e nessuno che ti possa consolare, meno che mai un estraneo, un poliziotto. Se gli avessi detto qualcosa di personale in quel momento, lo avrei fatto più per me stesso che per lui, però, quindi non gli parlai né di Maria né di come era stata assassinata. «Papà?» Zoey, la maggiore delle tre figlie, si era affacciata sotto l'arco che separava il salotto dal corridoio. Pareva piccolissima, spaventata e molto sola. «Sì, amore?» disse Michael Bell. «Va tutto bene. Vieni un momento qui.» Aprì le braccia e la bambina gli si avvicinò facendo il giro lungo, intorno al divano, per evitare di passarmi vicino. Gli buttò le braccia al collo e scoppiò in singhiozzi. Anche lui si mise a piangere e io mi chiesi se la bambina avesse già visto piangere il suo papà. «Su, su» disse poi Bell accarezzandole la testa. «Sta tranquilla, Zoey. Ti voglio bene. Sei una brava bambina.» «Anch'io ti voglio bene, papà» mormorò la piccola. «Ne riparliamo in un altro momento» gli dissi sottovoce. «Un'altra volta. Ho la sua deposizione nel dossier. Non intendevo chiederle molto altro, comunque.» Michael Bell mi lanciò un'occhiata piena di gratitudine, con una guancia appoggiata alla testa della figlia, che nel frattempo gli si era seduta in braccio e gli stava vicina vicina. Si vedeva che erano molto legati. Non potei fare a meno di pensare a Jannie. «La prego, se posso essere d'aiuto in qualche modo me lo faccia sapere» disse Bell. «Qualsiasi cosa, davvero.» «Se potessi fare un breve giro della casa, mi sarebbe molto utile» dissi. «Ma certo.» Mi alzai e feci per andare, ma non potei fare a meno di voltarmi e aggiungere: «Sta facendo la cosa più giusta, sa. Le bambine supereranno il trauma, vedrà, ma occorre che lei stia loro vicino». «Sicuramente. Non ho più nessuno, a parte loro. Grazie. Lei è molto gentile.» Non dissi altro, ma ero pronto a scommettere che aveva capito che il mio non era un consiglio da poliziotto, ma da padre, da marito. Di colpo mi venne voglia di uscire da quella casa il prima possibile. Non volevo restarci un solo minuto più del necessario.  In quanto detective, avrei dovuto fermarmi ore e ore in casa Lowenstein-Bell per prendere nota di tutti i particolari. Date le circostanze, decisi di restare quindici o venti minuti al massimo. Cominciai dalla piscina. Mi piazzai sul bordo, dal lato più profondo, e osservai le strisce blu che delimitavano le corsie. Era stato calcolato che Mary Smith aveva sparato a Marti Lowenstein-Bell da quella posizione. Un solo colpo, che l'aveva raggiunta alla testa. Poi aveva avvicinato a sé il corpo con la rete per la pulizia della piscina. Continuando a rimanere in quel punto, aveva infierito con il coltello senza neppure tirare fuori dall'acqua la vittima. I tagli al viso erano stati inferti a casaccio, velocemente e con rabbia. Come se volesse cancellarle i connotati, annientarla. Facevano pensare al modo in cui a volte si cancellano i volti delle persone nelle foto, cercando di eliminarle simbolicamente.

E in effetti Mary Smith aveva distrutto anche alcune foto di famiglia nello studio al primo piano della villa. Alzai lo sguardo nella direzione in cui, in base alle piantine della casa allegate al dossier, immaginavo si trovasse lo studio. Il percorso più logico per raggiungerlo da dove mi trovavo passava per il salotto e per lo scalone di pietra che saliva al piano di sopra dall'ingresso della villa. L'assassino era stato nella villa il giorno prima dell'omicidio. Come si era svolta esattamente quella visita? A che ora era avvenuta? E perché? Come stava cambiando Mary Smith? Quando rientrai in casa, Michael Bell era seduto davanti al televisore con le tre bambine. Guardavano il film con occhi vacui e non diedero segno di avermi notato. Non volli interromperli. Non so perché, ripensai a quando avevo abbracciato Jannie e Damon dopo quel che era successo a Seattle con il piccolo Alex. Il corridoio del primo piano era costituito da una passerella sospesa in legno e vetro al centro della villa. La attraversai, seguendo il percorso che immaginavo avesse fatto Mary Smith, e dalla passerella scesi in un'ala separata dove non ebbi difficoltà a trovare lo studio di Marti. Era l'unica stanza con la porta chiusa.

Entrai e vidi che alle pareti c'erano vari spazi vuoti dove dovevano essere state appese le foto di famiglia, ma tutto il resto era intatto. L'assassino sta diventando più audace, corre più rischi, ma continua ad avere l'ossessione delle famiglie. La sua è una vera e propria fissazione. Mi misi a osservare una poltrona di cuoio con lo schienale alto davanti a uno schermo da ventun pollici. Era la postazione di lavoro della vittima e, probabilmente, il computer da cui Mary Smith aveva mandato il messaggio e-mail ad Arnold Griner al Los Angeles Times. Dallo studio si vedevano la terrazza e la piscina sottostanti. Forse, mentre scriveva, Mary Smith aveva contemplato il cadavere di Marti che galleggiava a faccia in giù. Le ispirava repulsione? Rabbia? O una perversa soddisfazione? Ebbi un lampo, un'intuizione. Le foto distrutte. L'e-mail lasciata a metà nell'internet cafe. Gli accenni della professoressa Papadakis all'«evitamento». Più una cosa che mi era venuta in mente quella mattina. A

Mary Smith non piaceva quel che vedeva sulla scena dei suoi delitti. O sbagliavo? Più la catena di omicidi si allungava, più l'assassina pareva agire spinta da qualcosa del suo passato che la turbava.

Doveva essere un fattore molto potente, intenso. Una parte della sua personalità che lei avrebbe preferito ignorare stava invece emergendo sempre di più. E lei reagiva con un'involuzione. Era un'ipotesi che non lasciava presagire nulla di buono: probabilmente l'assassina stava perdendo il controllo. Poi mi corressi: sicuramente stava perdendo il controllo. Quella sera in albergo mi sdraiai supino a riflettere su mille idee diverse che mi giravano per la testa e che non mi portarono da nessuna parte. Non avevo ancora scoperto nulla su Mary Smith, sulla sua patologia, sulle sue contraddizioni e sul suo possibile movente. A Jamilla preferivo non pensare: il problema era lungi dall'essere risolto. Per non parlare della mia famiglia a Washington: stavo rischiando di rovinare tutto? Ma il pensiero che più mi rattristava era la faccenda di Christine e Alex Junior. Mi rendevo conto che ultimamente non mi ero preso abbastanza cura di nessuno di questi aspetti della mia vita e che la cosa cominciava a pesarmi.

Avevo aiutato molte persone ad affrontare momenti di depressione, ma a me non era mai successo, e autoanalizzarsi non è facile. Come promesso, Monnie Donnelley mi aveva procurato parecchio materiale su James Truscott. Non c'era nulla di losco sul suo conto: era ambizioso, a volte spietato, forse, ma era un normalissimo e rispettato membro dell'albo dei giornalisti. A quanto pareva non aveva assolutamente nulla a che fare con gli omicidi di Mary Smith. Guardai l'orologio, imprecai fra me e me e feci il numero di casa nella speranza di riuscire a beccare Jannie e Damon prima che andassero a dormire. «Pronto, casa Cross. Sono Jannie Cross.» Non potei fare a meno di sorridere. «Parlo con il negozio di baci e coccole? Avrei un'ordinazione da fare, se non le dispiace.» «Ciao, papà! Lo sapevo che avresti chiamato.» «Sono così prevedibile? Va be', lasciamo perdere. State per andare a dormire, spero. Di' a Damon di rispondere all'altro apparecchio.» «Ci sono già. Lo sapevo che eri tu, papà.

Perché sì, sei prevedibile, ma questo è un bene, secondo me.» Chiacchierai un po' con i miei figli.

Damon cercò di farsi dare il permesso di comprare un CD sconsigliato ai minori, ma non mollai. Della misteriosa fidanzatina continuò a non fare parola. Jannie mi disse che si stava preparando per il festival della scienza alla sua scuola e che le sarebbe piaciuto proporre un esperimento con il poligrafo, sottoponendo i suoi compagni alla macchina della verità. «Si può fare» le risposi. «Ma solo dopo che avrete fatto il test tu e Damon.» Poi Jannie mi raccontò una cosa che mi preoccupò moltissimo. «E venuto di nuovo quel giornalista. Nana lo ha mandato via. Gliene ha dette di tutti i colori.» Finito di parlare con i ragazzi, mi feci passare Nana. Poi ordinai la cena in camera e, per ultima, chiamai Jamilla a San Francisco. Stavo facendo le mie telefonate in ordine di stress crescente, lasciando per ultime le più difficili. Ma l'ordine era dovuto anche ai fusi orari. «Questa Mary Smith è diventata una faccenda di importanza nazionale» mi disse Jamilla. «Gira voce che il Dipartimento di polizia di Los Angeles brancoli nel buio.» «Parliamo di qualcosa che non sia lavoro, ti dispiace?» replicai. «Veramente stavo per uscire, Alex. Ho appuntamento con un amico... solo un amico» aggiunse, un po' troppo in fretta.

«Non preoccuparti.» Ma il sotto testo era faresti meglio a preoccuparti. «Certo, vai pure» le dissi. «Ci sentiamo domani?» propose lei. «Mi dispiace, ma adesso proprio non ho tempo. A domani, Alex.» Promisi di richiamare e riattaccai. Solo un amico. Be', due chiamate le avevo fatte. Me ne restava ancora una, la più difficile di tutte. Ripresi il telefono e composi un numero che sapevo ormai a memoria. «Pronto?» «Sono Alex.» Christine tacque - di nuovo, una reazione indecifrabile - e solo dopo un po' disse: «Ciao».

«Potrei parlare con Alex?» «Certo. Aspetta un attimo, lo vado a prendere. Ha appena finito di mangiare.

E nella stanza dei giocattoli.» Sentii un fruscio, poi la voce di Christine che diceva, sommessa: «E papà». Quella parola mi fece uno strano effetto. Mi sentii rincuorato e pieno di rimpianti nello stesso tempo. «Ciao, papà.» Tutte le emozioni contraddittorie che provavo si intensificarono nel sentire la sua vocina, ma più che altro fui assalito da una gran nostalgia. Mi pareva di vedere il suo faccino eccitato e sorridente. «Ciao, tesoro. Come va?» Come tutti i bambini di tre anni, il piccolo Alex non era ancora molto disinvolto al telefono e la conversazione, purtroppo, durò pochissimo. Dopo una pausa particolarmente lunga, sentii di nuovo Christine in sottofondo. «Di' ciao a papà.» «Ciao.» «A presto» risposi. «Ti voglio bene, Alex.» «Anch'io, papà.» Poi mio figlio buttò giù il telefono e, con un clic, mi ritrovai solo in una camera d'albergo. Solo con il caso di Mary Smith e una gran nostalgia delle persone cui volevo più bene al mondo. Sì, pensavo a loro, ma che senso aveva?

Mary Smith era seduta su una panchina a guardare la piccola è '*'"" adorata Ashley che si arrampicava nel parco giochi. Era una buona cosa: si sarebbe stancata per l'ora di andare a prendere Brendan e Adam, a casa di alcuni amichetti, e forse Mary sarebbe riuscita a rilassarsi un po'. Guardò l'agenda nuova che teneva in grembo, ammirandone le pagine spesse e la bella copertina di stoffa.

Agende e diari erano oggetti a cui Mary teneva molto: cercava di scrivere tutti i giorni. Un domani i suoi figli da quelle pagine avrebbero forse capito chi era veramente la loro mamma al di là delle sue funzioni di cuoca, domestica e autista di casa. Ma era un po' di tempo che anche i diari le si rivoltavano contro. Senza pensare, sulla prima pagina aveva scritto: pomodori, carote, cereali, succo di frutta e pannolini. Accidenti, si era sbagliata! Strappò con cura la pagina. Forse era una sciocchezza, ma per lei quel quaderno era un luogo sacro, e le liste della spesa non dovevano starci. Si accorse improvvisamente che Ashley era sparita. Oh, mio Dio! Dov'era finita? Fino a un attimo prima era lì, e adesso non c'era più. Sicura che fosse passato solo un attimo? Si irrigidì: forse era passato più tempo.

Forse era da ben più di un attimo che non controllava la bambina. «Ashley? Tesoro?» Passò in rassegna il parco giochi, affollato di bambini. C'erano diverse testoline bionde sulle altalene e fra i giochi, ma sua figlia non era fra loro. Il parco giochi era cintato da una rete metallica. Dove può essersi cacciata?

Si alzò e andò verso l'ingresso. «Mi scusi, per caso ha visto una bambina bionda, con i jeans e una maglietta rossa?» Nessuno l'aveva vista. Oh, mio Dio!'No, no! Poi la vide ed ebbe un tuffo al cuore.

Ashley era nascosta dietro un albero all'angolo del parco giochi. Ridacchiò, vergognandosi di essersi fatta prendere dal panico tanto in fretta. Mio Dio, come sono fatta male! Si avvicinò alla figlia. «Cosa fai qui, tesoro?» «Gioco a nascondino» rispose la piccola. «Gioco, mamma.» «E con chi?» Mary cercò di non alzare la voce e di calmarsi, perché la gente stava cominciando a voltarsi a guardare dalla loro parte. «Con te.» La bambina le rivolse un sorriso così dolce che Mary si sentì sciogliere. Si chinò e sussurrò nell'orecchio di sua figlia: «Ashley, non puoi scappare via così. Capisci? Se tu non vedi me, neanch'io posso vedere te. Okay?» «Okay.» «Bene. Adesso vai ad arrampicarti sulle funi. Cosa ne dici?» Mary si andò a sedere su un'altra panchina, più lontana dagli sguardi di disapprovazione degli altri genitori. Una giovane donna che leggeva il L.A. Times si voltò e le sorrise. «Lei non è di qui, vero?» disse Mary, lanciandole una rapida occhiata. La donna rispose lievemente sulle difensive: «Perché dice questo?» «Prima di tutto perché è più cordiale della gente del posto» rispose Mary, sorridendo. «E poi perché quelli di fuori si riconoscono fra loro. Io vengo dal Vermont, capisce.» La donna parve sollevata. «Io da Baltimora» replicò, portandosi una mano sul petto. «Mi avevano detto che i californiani erano cordiali, che si fermano per strada per lasciarti attraversare. A Baltimora non succede.» «Be', questo è vero.» «Non succedono neanche queste cose, però» aggiunse indicandole la prima pagina del Times. CONTINUANO LE INDAGINI SUGLI OMICIDI DI HOLLYWOOD «Ne ha sentito parlare?» chiese. «Immagino di sì.» «In giro non si parla d'altro.» «Mi ha intristito molto. So che dovrei impaurirmi, invece che deprimermi, ma... Mi dispiace così tanto per le famiglie...» Mary annuì solennemente. «Lo so, anche a me dispiace. È una cosa terribile, vero? Quei poveri bambini... Mi viene da piangere, se ci penso.» Secondo le statistiche che stavo leggendo, circa l'ottantanove per cento dei serial killer donna uccideva con il veleno, con iniezioni letali o per soffocamento. Meno del dieci per cento usava armi da fuoco e nessuna coltelli o pugnali. Che Mary Smith fosse l'eccezione che confermava la regola? Non ci credevo. Ma ero l'unico. Controllai i ritagli di giornali, le foto e gli articoli che avevo sparso sulla scrivania come tessere di un puzzle. Aileen Wuornos era una di quelle che usavano la pistola. Nel 1989 e nel 1990 aveva sparato ad almeno sette uomini, in Florida. Quando era stata catturata, i media l'avevano definita la prima serial killer donna d'America. Probabilmente era la più famosa, ma di certo non era la prima. Molte di quelle nel rapporto che stavo leggendo erano vedove nere, ovvero uxoricide, e il movente spesso era la vendetta. Robbie Sue Terrell, infermiera, aveva ucciso dodici pazienti iniettando loro una dose letale di insulina. Dorothea Montalvo Puente aveva avvelenato nove degli anziani che aveva accolto in casa propria per incassarne la pensione. Una delle segretarie della sede di Los Angeles, Maureen, fece capolino dalla porta. «Vuole qualcosa dall'In-n-Out Burger?» Alzai gli occhi e mi accorsi che si era fatto buio. Nello stesso tempo mi resi conto di avere una fame da lupo. «Un tramezzino al pollo, se li hanno. E un'aranciata. Grazie!» Maureen rise. «Hamburger o cheeseburger?» Siccome stavo chiedendo troppo sia ai miei cari che alla mia salute, cercavo almeno di evitare di mangiare schifezze. Erano giorni che non facevo ginnastica e l'ultima cosa di cui avevo bisogno era ammalarmi. Dissi a Maureen che sarei andato a mangiare qualcosa più tardi, e la ringraziai dell'offerta. Un minuto dopo mi ritrovai davanti alla scrivania l'agente Page. «Come sta andando?» mi domandò. «Ancora niente?» Allargai le braccia a indicare le informazioni che avevo raccolto. «Non mi quadra che sia una donna.» «Succede nel cinquanta per cento dei casi, quando si ha a che fare con una serial killer» disse Page. Il giovane agente saliva sempre di più nella mia considerazione. «Cosa mi dici dei nostri amici del Dipartimento di polizia di Los Angeles? Abbiamo novità su quel fronte?» «Certamente» rispose. «Dalla balistica sono arrivati i risultati su quell'arma. Senti questa: è una vecchia Walther PPK. Sempre la stessa arma, in tutti i delitti.

Ci sarà una breve riunione domani, se vuoi partecipare. Altrimenti vado io.» Era una notizia sorprendente, molto strana: un'arma di tanto tempo fa? «Di che anno è? L'hanno stabilito?» «Ha almeno vent'anni. E questo rende la cosa ancor più misteriosa, ti pare? Sarà difficile rintracciarla.» «Pensi sia per questo che l'assassino l'ha usata? Perché è difficile da rintracciare?» Stavo riflettendo ad alta voce. Page mi enumerò una serie di possibilità. «Non è una professionista, giusto? Probabilmente ha quella pistola da un sacco di tempo. Forse uccide da più di quanto pensassimo. Oppure l'ha trovata chissà dove. Magari era di suo padre.» Karl stava buttando lì ipotesi a caso, ma erano tutte molto plausibili. «Quanti anni hai?» gli chiesi, improvvisamente incuriosito. Page mi lanciò un'occhiata in tralice. «Non si chiede l'età...» «Rilassati, non siamo a un colloquio di lavoro» replicai. «Te lo chiedo perché sei molto più sveglio di tanti che ho visto uscire da Quantico, negli ultimi tempi.» «Ho ventisei anni» rispose, con un gran sorriso. «Sei in gamba, Page. Dovresti solo cambiare look.» Page rimase impassibile. «Perché?» Poi, facendosi il verso da solo, disse: «Amico, ho capito che ti sei fatto una certa idea su di me. Ora che mi scade la borsa di studio per meriti sportivi, smetterò di fare surf e mi dedicherò solo a questo lavoro». Risi, più di me stesso che di lui. «Non ti ci vedo in surf, Page.» «Manchi di immaginazione, allora.» Verso le cinque del giorno dopo la sala riunioni del Dipartimento di polizia di Los Angeles era piena da scoppiare. Schiacciato contro il muro, aspettavo che l'ispettore Jeaxine Galletta desse inizio alle danze. Entrò a passo svelto, insieme con Fred Van Allsburg, il capo della polizia Alan Shrewsbury e un terzo uomo che non conoscevo. Era decisamente la più bella della brigata, e l'unica sotto i cinquant'anni. «Chi è quello con il completo azzurro?» chiesi a un ufficiale vicino a me. «Michael Corbin.» «Chi?» «Il vicesindaco. Un burocrate, inutile come le mammelle a un toro.» Ero contento di essere fra il pubblico anziché fra i relatori, ma ero anche un tantino preoccupato. La politica non poteva non interferire, nei casi di quella portata, ma il mio timore era che a Los Angeles le interferenze fossero eccessive. Jeanne Galletta mi fece un piccolo cenno di saluto prima di cominciare. «Okay, iniziamo.» Tutti si zittirono subito. Il vicesindaco strinse la mano a Van Allsburg e quindi uscì da una porta laterale. Eh? Cosa? Alla faccia dell'apparizione lampo! «Prima di tutto, i dettagli tecnici» esordì Jeanne. Elencò rapidamente gli elementi ricorrenti: la Walther PPK, gli adesivi con le A e le B, il fatto che le vittime erano tutte madri di famiglia, su cui insistevano tanto i media. C'era addirittura un quotidiano locale che aveva messo in risalto le analogie con La fabbrica delle mogli. Jeanne ci ricordò che i testi delle e-mail inviate al Los Angeles Times erano top secret.

Partirono le prime domande. L'LAPD aveva accertato un collegamento fra gli omicidi di Mary Smith e gli altri assassinii commessi nella zona? Lo sospettava? Come si faceva a sapere che si trattava di un unico assassino? Con sicurezza non si sa, ma tutto induce a pensare che il killer sia uno solo. Come si fa a sapere che è una donna? Sotto uno degli adesivi sul sedile del cinema di Westwood è stato trovato un capello di donna e si presume che sia dell'assassina. «Potrebbe essere il momento giusto per chiedere all'agente Cross di delinearci il profilo elaborato dall'FBI. Il dottor Cross è venuto qui da Washington, dove ha catturato serial killer del calibro di Gary Soneji e Kyle Craig.» Un centinaio di occhi si voltarono verso di me. Ero andato a quella riunione da semplice spettatore, ma adesso mi chiamavano sul palco: non aveva senso perdere l'occasione, o far perdere altro tempo ai presenti. «Be', vorrei cominciare con il dire che non sono certo che Mary Smith sia una donna» esordii. Mi aspettavo che quella rivelazione attirasse l'attenzione anche di chi era seduto nelle ultime file. Funzionò: la stanza fu percorsa da un brivido. Tutti erano attentissimi. «Non sto dicendo che è certamente un uomo, solo che non lo escludo. E credo non dobbiate escludere nessuna ipotesi neanche voi.» Alzai lievemente la voce. «Ciò detto, parlerò dell'assassino al femminile. E molto probabilmente bianca, sui trentacinque, quarant'anni. Ha un'automobile, di un modello che non attira l'attenzione nei quartieri alti in cui sono stati commessi gli omicidi. Molto probabilmente è colta e svolge un lavoro non altamente specializzato, forse al di sotto delle sue qualifiche.» Continuai a parlare del caso per un po', quindi cercai di districarmi fra le domande. Alla fine, Jeanne Galletta diede la parola agli esperti di balistica perché parlassero dell'arma da fuoco. Quando anche loro ebbero terminato, concluse la riunione.

«Un'ultima cosa» disse. «Kileen, prego, ancora un momento. Grazie, Gerry. Quando potrete alzarvi, ve lo dirò.» Attese che tornasse il silenzio. «Non ho bisogno di ricordare che i media stanno scrivendo di tutto e di più su questo caso. Vorrei che ognuno di voi si comportasse come se ci fosse una telecamera a riprenderlo costantemente. Probabilmente è così, peraltro. Non prendiamo scorciatoie, di nessun tipo.

Ve lo raccomando con la massima serietà. Non possiamo permetterci la minima deroga.» Notai che guardava Van Allsburg, mentre parlava. Evidentemente nel loro incontro a porte chiuse con il vicesindaco avevano parlato proprio di questo. Mi venne in mente che quell'anno si sarebbero tenute le elezioni: il sindaco aveva bisogno che trovassimo il colpevole, in fretta e bene. Purtroppo, dubitavo che ciò fosse possibile. «Okay, concludiamo qui» disse Jeanne Galletta. Tutti si alzarono e incominciarono a parlare. Jeanne incrociò il mio sguardo e mi fece cenno di seguirla nella vicina sala conferenze.

Dovetti farmi largo tra la folla per raggiungerla. Mi domandavo che cosa volesse dirmi. «Come va?» le chiesi, non appena ebbe chiuso la porta. «Cosa ti è preso?» sbottò lei. Sbattei gli occhi. «In che senso, scusa?» Ormai ci davamo del tu. «Mi hai contraddetto, hai sostenuto che Mary Smith è un uomo, hai creato una gran confusione. Occorre che restiamo tutti concentrati, capisci? La prossima volta che intendi tirar fuori all'improvviso vecchi argomenti, avvertimi prima.» «Vecchi argomenti?

All'improvviso? Ne abbiamo parlato. Ti avevo detto come la pensavo.» «Sì, ma abbiamo deciso di non seguire quella pista.» «Niente affatto. Se mai, l'hai deciso tu, da sola. Jeanne, capisco che sei sotto pressione, però...» «Sì, infatti, sono sotto pressione. Siamo a Los Angeles, non a Washington. Tu non ti rendi conto.» «Sì che mi rendo conto. In futuro, se vuoi che intervenga a una riunione, a scanso di sorprese, parlamene prima. E ricordati quello che hai detto tu stessa all'assemblea: ho preso Gary Soneji e Kyle Craig.» Non volevo perdere le staffe, volevo cercare di essere costruttivo, ma non avevo nessuna intenzione di lasciarmi mettere i piedi in testa. Jeanne strinse i denti e guardò il pavimento per una manciata di secondi. «Okay. Scusa.» «Per la cronaca, non devi per forza mettermi a parte dei tuoi progetti. Il caso è tuo. Però, dato che è così complesso, la possibilità di tenere sotto controllo la situazione è alquanto scarsa.» «Lo so, lo so.» Sospirò. Non di sollievo, ma poi sorrise. «Sai come mi farò perdonare? Ti offro un sushi. Ti piace? Devi pur mangiare, no? E ti prometto che non parleremo di lavoro.» «Grazie» risposi. «Ma non ho ancora finito. Purtroppo devo tornare in ufficio. Jeanne, sono convinto che l'assassino non sia una donna, anche se non so chi sia Senti, grazie. Sarà per un'altra volta.

Okay?» «Okay» disse Jeanne. E se ne andò a passo svelto, con lo stesso piglio di quando era arrivata.

 Mi concentrai per ore, in uno stato di grazia in cui riuscii a essere molto produttivo. Peccato che non sempre ci riesca, quando mi siedo alla scrivania. Feci alcune ricerche nel database VICAP, per tentare di trovare dei collegamenti fra gli omicidi di Mary Smith e altri reati commessi a Los Angeles.

Non volevo trascurare nemmeno il più piccolo particolare. Finalmente qualcosa attirò la mia attenzione: un triplice omicidio risalente a sei mesi prima. Era stato commesso a New York, non a Los Angeles, ma l'assassino aveva colpito in un cinema di East 57th Street, il Sutton, e c'erano alcune analogie che mi parvero piuttosto interessanti. Tanto per cominciare, il colpevole non era stato identificato. Il Dipartimento di polizia di New York non aveva la minima idea di chi potesse essere stato a uccidere quelle tre persone. Proprio come a Los Angeles. Poi non sembrava esserci alcun movente, e anche questo era un aspetto importante. Mi stava venendo il dubbio che il serial killer avesse cominciato a colpire molto prima di quanto immaginassimo. E che fosse di New York. Stampai i verbali degli ispettori newyorkesi che avevano indagato sul caso e li lessi con attenzione. Le vittime erano uno spettatore e due dipendenti del Sutton, l'omicidio era avvenuto di pomeriggio. La teoria degli inquirenti era che i dipendenti del cinema avessero sorpreso l'assassino subito dopo che costui aveva ucciso Jacob Raiser, studente di cinematografia alla New York University, ventenne, di Brooklyn. Ma fu qualcos'altro a farmi rizzare le antenne: dai proiettili estratti dai cadaveri emergeva che l'arma del delitto era una Walther PPK. Anche il killer di Los Angeles aveva usato una PPK, benché apparentemente di un modello più vecchio. E non era tutto: le vittime di New York erano state ritrovate nella toilette degli uomini.  Ricevetti una bella notizia: stavo accumulando abbastanza punti da poter passare tutta la vita in albergo senza più tirare fuori un soldo. Il problema era che non avevo più nessuna voglia di stare in albergo. E quella zona di Los Angeles offriva ben poche distrazioni. Ero sul letto che rivedevo i miei appunti, con mezzo tramezzino al pollo e una bibita ormai tiepida vicino, quando squillò il telefono. Risposi. Era Nana Marna. «Stavo giusto pensando che avrei voglia di due braciole di maiale come le fai tu» le dissi. «Perché cerchi sempre di blandirmi, Alex?» ribatté lei.

«Guarda che con me non attacca. Stai per dirmi che non torni a casa neppure il prossimo fine settimana?» «Non...» «Alex...» «Torno, stai tranquilla. Credimi, se ti dico che vorrei tanto scrollarmi di dosso questa rogna. Ma, almeno per un po', mi toccherà fare la spola fra Washington e Los Angeles.» «Alex, vorrei che riflettessi bene: è davvero così importante che tu stia in California? Mi sembra che il tuo nuovo lavoro sia peggio di quello di prima.» Se dopo la causa per l'affidamento Nana era stata un po' più tenera nei miei confronti, evidentemente adesso aveva deciso di non trattarmi più con i guanti di velluto. Ma aveva ragione. «Come stanno i ragazzi? Posso parlargli?» E dammi un po' di tregua, dolce cara nonnina. «Stanno bene, stanno bene. A proposito, anch'io male non sto.» «Perché? Hai avuto qualche problema?» «Mi girava un po' la testa, tutto lì. Ho visto Kayla Coles oggi e mi ha detto che è tutto a posto. Posso andare avanti altri diecimila anni.» «Conoscendoti, se sei andata dal dottore vuol dire che avevi ben di più di un semplice capogiro. Sei svenuta?» «Macché» ribatté lei, come se avessi detto la cosa più assurda del mondo. «E la vecchiaia, Alex. Te l'ho già detto. Anche se non li dimostro, gli anni ci sono.» Quando le chiesi di darmi il numero di Kayla Coles, però, Nana rifiutò recisamente.

Dovetti farmi passare Damon e aspettare che Nana se ne andasse per chiedere a mio figlio di salire a guardare il numero della dottoressa nel mio rolodex. «A te come sembra che si senta?» gli chiesi. «Mi raccomando, stalle vicino.» «A me pare che stia bene, papà. Non ci ha voluto dire cosa le è successo.

Però è andata a fare la spesa e stasera ha preparato la cena. Non so dirti se abbia qualcosa oppure no.

Sai com'è Nana. Adesso sta passando l'aspirapolvere.» «Vuol fare la scena. Vallo a passare tu, per piacere. Dalle una mano.» «Non sono capace di usare l'aspirapolvere.» «Mi sembra il momento giusto per imparare.» Finii di parlare con i ragazzi e telefonai a Kayla Coles, ma trovai la segreteria. Provai allora a chiamare Sampson, per chiedergli di passare un attimo da casa mia a controllare come stava veramente Nana. «Sicuro» mi rispose. «Va bene se vado domattina a farmi preparare la colazione?» «Mi sembra la soluzione migliore. Così non si insospettisce.» «Non ne sarei così sicuro.» «Hai ragione.

Anche se, quando si tratta di mangiare, sei piuttosto credibile.» «Come va, Alex?» mi domandò a quel punto. «Mi sembri al cinquanta per cento di te stesso.» «No, esageri: diciamo che sono al settantacinque. E che qui e è un sacco da fare. E un caso difficile, John. Troppa pubblicità. Continuo a imbattermi in quel Truscott, a proposito. Anche se ora dovrebbe essere tornato sulla East Coast.» «Vuoi rinforzi? Ho qualche giorno di ferie. Potrei venire a trovarti a Los Angeles.» «Sì, così faccio arrabbiare anche tua moglie. Grazie lo stesso, amico. Facciamo che se ho bisogno ti chiamo.» Lavoro molto bene con Sampson. La cosa che mi mancava di più, da quando avevo lasciato il Dipartimento di polizia, era lavorare con lui. Ma non mi ero rassegnato. Avevo un'ideuzza e intendevo esporgliela alla prima occasione.  Passai il giorno successivo negli uffici dell'FBI, lavorando dalle sette del mattino alle sette di sera. Ma mi pareva di vedere la luce alla fine di quel lungo e spaventoso tunnel. Jamilla stava per raggiungermi a Los Angeles ed era tutto il giorno che pregustavo il momento in cui l'avrei rivista.

Aveva insistito perché non andassi a prenderla all'aeroporto e ci eravamo dati appuntamento al ristorante Bliss, su La denega Boulevard. Quando arrivai, la vidi al bar, in piedi, con una valigia accanto. Indossava un paio di jeans, una maglia nera e un paio di stivaletti neri a punta. Mi avvicinai e la baciai sul collo: impossibile resistere alla tentazione. «Ciao» le dissi. «Che buon profumo! E come sei bella...» Era la verità. Si voltò per guardarmi in faccia. «Ciao. Ce l'hai fatta, dunque.» «Avevi dei dubbi?» «Be', a dire il vero...» replicò. «Ti ricordi cos'è successo l'ultima volta che sono venuta a Los Angeles?» Avevamo fame entrambi e così ci andammo a sedere e ordinammo subito gli antipasti: vongole e insalata di pomodori, da dividerci. Jamilla è di buon appetito e la cosa mi fa piacere. «Novità nelle indagini?» mi chiese, una volta spazzolati i piatti. «È vero che l'assassina scrive e-mail sin dal suo primo delitto?» Sbarrai gli occhi, sorpreso. Il Times era stato deliberatamente vago riguardo alla data della prima e-mail. «Come mai dici questo? Dove l'hai saputo?» «Le voci girano, Alex. È una di quelle cose di importanza secondaria che magari è meglio che l'opinione pubblica non sappia, ma fra gli addetti ai lavori si sanno. La notizia è arrivata fino a noi, a San Francisco.» «Cos'altro hai saputo?

Sempre di importanza secondaria...» «Mi è stato riferito, per esempio, che Jeanne Galletta è una tipa straordinaria. Dal punto di vista professionale, intendo.» «Non è proprio come Jamilla Hughes, ma è in gamba, sì.» Jamilla alzò le spalle. La trovavo bellissima. Ed ero veramente felice di essere lì con lei, in quel bel ristorante, con il cellulare spento. Scegliemmo un Pinot nero dell'Oregon, che a lei piaceva molto. Appena ci venne versato, alzai il bicchiere. «Ultimamente è stata dura, Jam. Ti sono grato di essermi stata vicina. E di esserlo adesso.» Jamilla bevve un sorso di vino e poi posò la mano sulla mia.

«Devo dirti una cosa, Alex. E importante. Ti prego, ascoltami sino in fondo, okay?» La guardai negli occhi, confuso e un po' sgomento. Mi si stava chiudendo lo stomaco dalla preoccupazione. «Certo» risposi. «Ti faccio una domanda» iniziò lei, distogliendo lo sguardo. «' Secondo te, fino a che punto il nostro è un rapporto esclusivo?» Ahia, ci siamo. «Be', io non sono più stato con nessuna, da quando ci sei tu» risposi. «Ma questo vale per me. Immagino per te sia diverso.» Jamilla sospirò e annuì.

Apprezzavo il fatto che fosse così sincera e diretta. Anche se a volte era un po' doloroso... «Hai conosciuto qualcuno?» le chiesi, un po' contratto. Se fosse successo all'inizio della nostra relazione, non mi avrebbe colto così impreparato. Ma adesso... Forse mi ero rilassato troppo, mi ero fidato eccessivamente. Lo facevo spesso. Jamilla fece una smorfia, riflettendo su come replicare. «Sì.» «Come?» le chiesi. Ma poi mi fermai. «No, scusa. Non devi per forza rispondermi.» Lei voleva, però.

«Lavora in procura. L'ho conosciuto per lavoro. E siamo usciti due volte. Si chiama Johnny.» Mi trattenni dal porre altre domande, anche se avrei voluto. Non ne avevo il diritto, in fondo. Me l'ero andata a cercare, anzi. Ma perché? Perché non mi volevo mai impegnare? Per via di quello che era successo a Maria? O per Christine? O era perché i miei genitori si erano separati a meno di trent'anni e non si erano mai più rivisti?

Jamilla appoggiò i gomiti sul tavolo e parlò sottovoce. «Scusa. Vedo che sei rimasto male, mi dispiace. Possiamo finire di mangiare e intanto parlarne. Oppure, se te ne vuoi andare subito... Come preferisci tu, Alex.» Siccome non risposi subito, mi domandò: «Sei arrabbiato con me?» «No» risposi, un tantino precipitoso. «Non me l'aspettavo, però. Sono deluso, dispiaciuto, non lo so neanch'io. Voglio solo capire: mi stai dicendo che vuoi stare anche con altri uomini o hai intenzione di troncare con me stasera?» Jamilla bevve un altro sorso di vino. «Volevo sapere che cosa ne pensavi.» «Davvero, Jam?

Vuoi che ti dica quello che penso veramente? Penso di non poter andare avanti come prima. Non so neppure bene perché. Io sono un tipo... fedele. Lo sai.» «Non ci siamo mai fatti promesse» mi ricordò.

«Ma preferisco non ricorrere a sotterfugi.» «Lo so. Ti apprezzo per questo. Sul serio. Senti, scusa, è meglio che me ne vada.» Le diedi un bacio su una guancia e me ne andai. Neanch'io volevo sotterfugi: né con Jamilla né con me stesso.  Mi lasciai tutto alle spalle e andai a Seattle per il weekend. Lungo la strada dall'aeroporto al quartiere di Wallingford, dove abitavano Christine e Alex, cercai di prepararmi all'incontro. D'altronde, che cos'altro potevo fare? Non avevo comprato regali: non intendevo corrompere nessuno, a differenza di quanto faceva lei quando Alex stava con me a Washington. Ma non avevo saputo resistere quando Christine aveva detto che me lo lasciava vedere.

Volevo passare un po' di tempo con mio figlio, ne avevo bisogno. La casa era in Sunnyside Avenue North e ormai conoscevo la strada. Trovai Christine e Alex seduti sui gradini della veranda. Non appena mi vide, il mio piccolo tornado mi corse incontro per gettarmi le braccia al collo. Ogni volta avevo paura di trovarmi di fronte un bambino diverso da quello che conoscevo. Ma il timore scomparve non appena lo presi in braccio. «Mamma, quanto pesi! Sei cresciuto tantissimo, Ali.» «Ho un libretto nuovo» mi comunicò, con un gran sorriso. «Un pop-up di un bruco che mangia tutto quello che trova. Anche te!» «Vuoi portarlo? Così oggi lo leggiamo.» Lo posai per terra e vidi che Christine mi guardava con le braccia conserte. Alla fine alzò un sopracciglio e sorrise. «Vuoi un caffè?» mi chiese. «Ti va?» Le rivolsi un'occhiata interrogativa. «Dai, mi fa piacere se parliamo un po'» insistette.

«Non ti mordo mica.» Lo disse in tono leggero, probabilmente anche per Alex. «Dai, papà» disse il piccolo, prendendomi per mano. «Ti accompagno io.» Entrai in casa, dubitando che fosse una buona idea. Non c'ero mai entrato. Era una casa bella, vissuta, con librerie a muro piene di volumi e quadri alle pareti. Era molto più informale e ospitale della casa che aveva prima fuori Washington. Mi colpì il modo in cui lei e Alex si muovevano in quello spazio nuovo per me. Mi sentivo estraneo. La cucina era aperta, luminosa e profumava di rosmarino. Sul davanzale c'era una piccola collezione di piante aromatiche. Christine mise davanti ad Alex una tazza di latte e cacao e posò i nostri due caffè sul tavolo.

«La droga più diffusa a Seattle» disse. «Io personalmente ne bevo troppi. Almeno il pomeriggio dovrei cercare di farmelo decaffeinato. Magari anche al mattino...» Rise. «E molto buono. Il caffè, intendo.

Bella casa, complimenti.» Ci scambiammo alcune battute banalissime con un po' di imbarazzo. Mi trattenni dal parlare delle previsioni del tempo. Eravamo a disagio tutti e due. Alex scese dalla sua sedia e andò di là a prendere il libretto. Poi si venne a sedere in braccio a me. «Me lo leggi? Sta attento, perché vengono su le pagine e il bruco ti mangia!» Grato della distrazione, mi concentrai sul vero motivo della mia visita lì. Aprii il libretto e cominciai. « 'Alla luce della luna sulla foglia c'era un uovo piccolo piccolo.'» Alex mi posò la testa sul petto e provai un grande moto di tenerezza. Christine mi guardava leggere, sorridendo, con la tazza in mano. Avrebbe potuto essere sempre così... Due minuti dopo, Alex disse che doveva andare in bagno e mi chiese di accompagnarlo. «Vieni tu, papà?» Christine mi si avvicinò e mi sussurrò nell'orecchio: «Fa fatica a farla dentro il water e si vergogna».

«Capito» dissi. «Hai dei Cheerios?» Per fortuna Christine ne aveva una scatola. La portai nel bagno.

Gettai una manciata di cereali nella tazza. «Ti insegno un gioco» dissi. «Devi cercare di dirigere il getto di pipì nel buco.» Ci provò con grande impegno. E almeno la tazza la centrò. Spiegai il trucco a Christine e lei sorrise. «Cheerios? Roba da maschietti, presumo.» Il resto della mia giornata a Seattle fu molto meno stressante e più divertente. Portai Alex all'acquario e fu facile e gratificante dedicarmi completamente a lui. Alex guardava i pesci tropicali con gli occhietti sgranati e si impiastricciò tutto mangiando crocchette di pollo e ketchup a pranzo. Per me la cosa importante era stare con lui, fosse anche in una stazione dei pullman. Mi piaceva osservarlo, notare quanto velocemente cresceva. Ogni volta, era sempre meglio. Il mio piccolo Ali. Non pensai a nulla fino alla sera, quando tornammo a casa. Christine e io chiacchierammo due minuti sulla veranda. Non volevo entrare di nuovo in casa, ma neanche andare via. E Christine aveva gli occhi rossi, a meno che non me lo stessi immaginando. Da quando la conoscevo, era soggetta a bruschi cambiamenti di umore.

Ultimamente, però, mi pareva peggiorata. «Stai bene?» le chiesi. «Sì, sì, Alex. Come al solito. Credimi, non vuoi sapere cosa mi succede.» «Be', se ti riferisci al tuo nuovo compagno, hai ragione. Altrimenti no, mi fa piacere ascoltarti.» Rise. «Il mio nuovo compagno? Ma no, è solo che in questi ultimi giorni mi sento stanchissima. Lavoro troppo, come sempre.» Sapevo che dirigeva una scuola privata, ma a parte questo non avevo idea di come vivesse. E tanto meno del perché avesse pianto prima del mio ritorno a casa con il piccolo Alex. «E poi l'ultima volta avevamo stabilito che toccava a me farti domande. Come stai? So che è dura e mi dispiace per tutto quello che è successo.» Le spiegai brevissimamente del caso Mary Smith, dei capogiri di Nana e di Jannie e Damon. Evitai di parlare di Jamilla, e Christine non mi chiese niente. «Ho letto di quel terribile caso sui giornali» rispose. «Sii prudente, mi raccomando. Mi stupisce che esistano donne serial killer.» «Sono sempre prudente» replicai. Ero ironico: se la nostra relazione era andata a rotoli, era proprio per colpa del mio lavoro. «È tutto così strano, non ti pare?» disse di colpo. «E stata più dura di quanto tu immaginassi venire qui, oggi?» Le dissi che per vedere Alex ne valeva la pena, ma che sì, mi era difficile vedere lei. «A volte è stato più facile, ti pare?» mi chiese. «Sì. Quando non eravamo ancora genitori.» Mi guardò con il suo sguardo intelligente. «È così triste, Alex, che tu la metta giù così.» Alzai le spalle, perché non avevo niente da dire. Mi posò una mano sul braccio, leggermente intimidita. «Scusami se manco di tatto, Alex.

Non so che cosa provi tu, ma credo di capire la tua posizione.» Aspettò un attimo prima di aggiungere: «È che a volte mi chiedo come saremmo stati, come genitori. Se fossimo rimasti insieme, intendo».

Adesso basta. «Christine, o manchi davvero di tatto, oppure stai cercando di dirmi qualcosa.» Sospirò.

«Sono stata maldestra, come al solito. Non volevo anticiparti ancora niente, ma ormai... Okay, è così: voglio che Alex abbia due genitori. Voglio che impari a conoscerti e, che tu ci creda o no, voglio che tu impari a conoscere lui. Per il bene di tutti. Mio compreso.» Feci un passo indietro e Christine lasciò ricadere il braccio lungo il fianco. «Non so cosa dirti, Christine. Credo sia ovvio che voglio anch'io la stessa cosa. Sei tu che hai deciso di venire a stare qui a Seattle.» «Lo so», rispose. «Ma era proprio di questo che ti volevo parlare. Pensavo di trasferirmi in Virginia. Ho praticamente deciso.» Ero stupefatto. Vancouver era una delle città preferite del Drammaturgo, insieme a Londra, Berlino e Copenaghen. Vi arrivò con un volo dell'Alaska Air, appena in tempo per mettersi in coda con altri cinquecento «visitatori» coreani e cinesi. Vancouver era piena di coreani e cinesi. Era l'unico difetto di quella altrimenti splendida città canadese, a suo parere. Ma non era grave. Aveva impegni cinematografici che lo tennero occupato quasi tutto il giorno e lo misero di pessimo umore. Alle cinque del pomeriggio era in uno stato mentale pietoso e aveva bisogno di sfogare la sua rabbia. Sai di cosa avrei bisogno? Di dirlo a qualcuno. Di esternare quello che sta succedendo. Magari non tutto, ma almeno una parte. Almeno raccontare quanto era incredibile quella faccenda, quel periodo così diverso della sua vita, quella sua «voglia di trasgredire», come la chiamava. Quella storia. La produttrice con i capelli fulvi che conosceva era lì per le riprese di un telefilm. Forse avrebbe dovuto cercare di mettersi in contatto con lei. C'era stato un periodo in cui anche Tracey Willett aveva «voglia di trasgredire» a Hollywood, dai diciotto fino ai ventisette, ventotto anni. Poi aveva fatto un figlio e aveva messo la testa a posto. Ma avevano mantenuto i contatti e questo doveva voler dire qualcosa. E poi parlavano bene insieme, praticamente senza nessun tabù. La chiamò e, prevedibilmente, lei accettò l'invito a cena.

Un'ora dopo, però, gli telefonò per dire che le riprese sarebbero continuate fino a tardi. Non era colpa di Tracey, lo sapeva. Probabilmente era tutta colpa del regista. O di qualche scenografo arrogante e disorganizzato che si credeva chissà chi nonostante fosse uscito dalla scuola di cinematografia soltanto due o tre anni prima. Tracey lo raggiunse al Marriott alle undici passate. Lo abbracciò e gli diede un bacio. Nonostante avesse lavorato tutto il giorno, sembrava in forma. «Mi sei mancato, tesoro. Mi sei mancato un casino. Non ti sei più fatto sentire... A proposito, ti trovo benissimo. Sei magrissimo. Ti dona. Questo fisico in forma ti rende più affascinante.» Non sapendo se Tracey continuava a sniffare o se preferiva bere o altro, si era attrezzato per ogni evenienza. Infatti, fecero un po' di tutto. Capì che Tracey era in vena, perché gli aveva detto di essere assatanata, cotta marcia di uno degli stuntman, e per il modo in cui si sedette sul divano, con le gambe lievemente divaricate e lo sguardo sexy che lui ricordava benissimo. A un certo punto si sbottonò la camicetta e gli chiese: «Allora?» Lui l'accompagnò sul letto, lei gli fece di nuovo i complimenti per i chili che aveva perso. Sniffò un altro po' di coca e si sfilò la camicetta perché le ammirasse le tette. Lui sapeva come fare: con Tracey, bisognava dirle quanto era sexy e toccarla dappertutto per una ventina di minuti, poi darci dentro per una mezz'oretta a ritmo indiavolato, perché lei non riusciva mai ad avere un orgasmo, era vicinissima, ma non ancora, più forte, tesoro, più veloce, più forte, oh, sì, oh, sì. Quando le venne dentro, gli sembrò che le piacesse. Lo tenne stretto come se fossero ancora una coppia, anche se in fondo non lo erano mai stati veramente. Finita la parentesi sessuale, giunse il momento di arrivare al dunque. Erano sulla terrazza da cui si vedeva tutta la città e Tracey gli teneva la testa su una spalla. Molto romantico, molto bello, anche se un po' patetico. Un po' come uscire una sera con Meg Ryan, o con Daryl Hannah.

«Vorrei raccontarti un po' di quello che mi sta succedendo in questo periodo» le disse. Fino a quel momento, avevano parlato soltanto di lei. «Certo, mi fa piacere. Solo che non posso fare tardi, altrimenti la babysitter se ne va.» Gli tornò in mente che Tracey era sempre stata una grandissima egoista. «Qualcuno sa che sei venuta da me?» le chiese. «Macché. Allora, dimmi. Che cosa stai combinando? Dev essere una cosa grossa. Su, racconta.» «Be', sì, è una cosa grossa. E molto segreta.

Diversa da tutte le altre. Sul serio, diversissima. Sto scrivendo la storia io. La storia più storia di tutte.» «Che bello! E la scrivi tu?» «Sì. Hai presente gli omicidi di Los Angeles? Mary Smith?» Tracey sapeva qualcosa, ma non tutto. Era a Vancouver da quattro settimane. Le spiegò la faccenda. «Hai acquistato i diritti? Grande! E vorresti che lo producessi io?» Lui scosse la testa, incredulo. «E da chi avrei comprato i diritti, Tracey?» «Ah, già. Allora, cos'è che mi proponi?» «Posso parlartene? Veramente?» «Ma certo che puoi parlarmene. Raccontami la tua grande idea. Mi piacciono i thriller.» Ecco, ci siamo.

Vado o non vado? Glielo dico o no? «Ho pianificato io quegli omicidi, Tracey. Sono io Mary.» Non era poi così difficile. Sono io Mary. Che roba! Tracey gli lanciò un'occhiata strana, ma proprio strana, e di colpo lui si rese conto che aveva sbagliato a dirglielo. Non era Tracey a essere pazza, era lui. Aveva appena rovinato tutto. E perché? Per sfogarsi un po' con una vecchia amica? Per togliersi un peso? Per confessare? Lei lo guardava come fosse un mostro bicefalo. «Scusa, come hai detto?» Lui rise e fece marcia indietro meglio che poteva. «Scherzavo, Tracey. Abbiamo tirato e mi viene da scherzare. Senti, vuoi che ti accompagni a casa? Hai la babysitter e un figlio che ti aspettano, no? Sei una brava mamma, vero?» In macchina, una Volvo, non si parlarono quasi e lui capì di aver commesso un grosso errore. Gli venne il dubbio di aver sbagliato anche altre volte. Aveva fatto passi falsi che potevano portare alla sua cattura? A New York, per esempio. Quando aveva ammazzato quelle persone nel cinema... Dopo un po', si decise a dire: «Sono molto stressato, in questi ultimi tempi». Lei borbottò: «Sì, vedo». Dio santo, gli stava facendo venire la paranoia! Ma erano amici di vecchia data, in fondo.

«Quanti anni ha tuo figlio?» «Quattro e mezzo. E un bambino meraviglioso. Stefan.» Gli stava mettendo paura. Che cosa doveva fare adesso? Come si doveva comportare? Non era una scena alla Mary Smith, questa. Tracey non faceva parte della storia. Che disastro! A un certo punto accostò. E ora?

«Cosa c'è?» gli chiese. «Eh?» «Conviene che scendi qui, Tracey. Non sto scherzando. Scendi! Fatti il resto della strada a piedi!» «A piedi? Sei pazzo? Cosa stai dicendo?» «Scendi subito da questa macchina. Forza, prima che ti butti giù io.» Spaventata dal tono, Tracey si diede una mossa. Aprì la portiera e scese, imprecando come un camionista. Faceva freddo. Si teneva le braccia strette sul petto.

Poi scoppiò in lacrime. «Sei pazzo. Credevo fossimo amici, sai?» Si mise a correre nel viottolo buio a metà strada fra il Marriott e il suo albergo. Il Drammaturgo scese e iniziò a seguirla. «Tracey! Aspetta, Tracey!» La raggiunse senza problemi. «Senti, mi spiace di averti fatto paura. Davvero. Di', stai bene?» E le sparò nella gola. Non appena la vide accasciarsi a terra, le sparò di nuovo, questa volta alla testa.

Ma non fu una bella sensazione. Tutt'altro. Fu piuttosto brutto, e lo colse una sorta di panico. Perché la storia stava andando avanti per conto suo, si stava scrivendo da sola, incurante delle vittime che si lasciava dietro.Tornando a Los Angeles da Seattle, il giorno dopo, riflettei che purtroppo il caso Mary Smith faceva da sfondo alla mia vita ed era uno sfondo sciaguratamente appropriato. Mi sentivo incapace di portare avanti una relazione, per un motivo o per l'altro. Con Christine l'unico risultato che avevo ottenuto era che ci saremmo parlati presto. L'idea di poter avere il piccolo Alex -Ali - più vicino a casa mi rendeva felice, ma non volevo illudermi. Christine si era dimostrata troppo volubile in passato perché io potessi crederci sul serio. Non ero ancora uscito dal terminal che già ero stato risucchiato dal vortice delle indagini. Mi arrivò la voce di un giornalista televisivo nelle orecchie e mi fermai a guardare il notiziario. Non riuscivo a distogliere lo sguardo. «Alla conferenza stampa di questa mattina l'ispettore Jeanne Galletta, responsabile delle indagini sul killer delle star, ha negato l'esistenza di una cosiddetta 'lista nera'.» Ultimamente i media chiamavano Mary Smith anche «il killer delle star».

Quanto alla «lista nera», non sapevo di cosa si trattasse. «Il Dipartimento di polizia di Los Angeles esorta la cittadinanza a mantenere la calma e a continuare a svolgere le normali attività, ma fra la popolazione serpeggia il panico. In un quartiere, un gruppo di abitanti si è presentato alla stazione di polizia pretendendo di vedere la presunta lista nera dell'assassino, di cui la polizia ha negato l'esistenza.

A chiunque si voglia credere, una cosa è chiara: il killer di Hollywood ha seminato il panico a Los Angeles. Lorraine Solie, in diretta da Beverly Hills.» Lista nera? Ma di cosa diamine stavano parlando?

Possibile che la polizia avesse scoperto qualcosa e ce lo avesse tenuto nascosto? Be', non sarebbe stata né la prima né l'ultima volta. Riuscii a parlare con David Fujishiro, agente speciale assegnato al caso.

«E un'ipotesi molto, molto remota» mi rispose. «Pare ci sia una lista di ventun nomi che comincia con Patrice Bennett, Antonia Schifman e Marti Lowenstein-Bell. E che sia l'elenco delle vittime predestinate di Mary Smith.» «Così adesso tutti vogliono sapere se anche loro sono nell'elenco?» domandai. «Se sono anche loro fra le vittime predestinate?» «Esatto. Ma non solo: pare che chi è nella lista possa farsi cancellare mandando centomila dollari a una casella postale di Orange County, che fra l'altro risulterebbe inesistente. Abbiamo controllato, ma nessuno ci crede. Anzi, c'è chi minaccia di fare causa all'LAPD.» «Siamo sicuri che si tratti di una leggenda metropolitana, David?» «Per il momento, non ci sono riscontri. Ma come facciamo a escludere che ci sia qualcosa di vero? Siamo solo l'FBI, in fondo.» «Questo caso ci sta sfuggendo di mano» osservai. «Qualcuno ha parlato con Jeanne Galletta a questo proposito?» «Non lo so, ma... Cosa?» Lo persi per un attimo. «Aspettami in linea, Alex.» «David? Che cosa sta succedendo?» Sentivo voci in sottofondo, ma non riuscivo a capire che cosa dicessero. Poi Fujishiro tornò in linea e mi disse di aspettare ancora un attimo. «Pare ci siano sviluppi» mi annunciò. «Aspetta!» urlai, ma invano: era di nuovo andato via. Sentii altre voci, un brusio crescente. Che cosa stava succedendo? Alla fine sentii Fujishiro che diceva: «Sì, è ancora al telefono».

«Alex? Fred Van Allsburg ha bisogno di parlarti. Subito. Attendi in linea, per favore.» Non ero mai troppo felice di parlare con Van Allsburg, ma quel giorno lo trovai particolarmente teso e conciso.

«Che cosa è successo?» chiesi. «È quello che stiamo cercando di capire. Per il momento sappiamo solo che Arnold Griner del Times ha appena ricevuto un'altra e-mail. Potresti venire in redazione?» «E meglio che prima vada a controllare la scena del crimine.» «Non perdiamo tempo in discussioni, Alex.

Ti chiamerò non appena in possesso di maggiori informazioni. Nel frattempo tu...» Non riuscii a trattenermi. «Scusa un attimo» lo interruppi. «Mi senti?» Mentre Van Allsburg mi gridava che sì, mi sentiva benissimo, chiusi la comunicazione. Chiamai l'agente Page e gli dissi di mettermi in attesa finché non avessimo scoperto se Mary Smith aveva davvero colpito ancora. Suzie Cartoulis fece retromarcia nel vialetto di casa senza troppa attenzione: stava pensando al casotto da completare vicino alla piscina della villa di Pacific Palisades e al capocantiere che non le rispondeva al telefono e parlava soltanto con suo marito. Se non avesse smesso di comportarsi così, l'avrebbe mandato al diavolo, decise. Era quel che si meritava. Si accorse dell'auto ferma con il motore acceso dietro la siepe dei vicini solo all'ultimo momento. Inchiodò per evitare di finire contro quel cretino che si era fermato con il motore acceso proprio lì. Aveva il battito a mille. Non voleva cominciare la giornata con uno stupido incidente a pochi metri da casa. Diede una rapida occhiata allo specchietto retrovisore. «Scusi tanto.» Ma era convinta di non dover chiedere scusa a nessuno. Ripartì e si diresse verso Sunset Boulevard a bordo della sua Mercedes station wagon metallizzata. L'altra auto la seguì, ma Suzie non ci fece caso.

Adesso era concentrata sul figlio, un bambino di nove anni seduto dietro. «Tutto okay, Zach? Non volevo frenare così bruscamente.» «Okay, okay, okay.» «Bene. Volevo essere sicura. Metto un po' di musica? Ti va? Che cosa preferisci?» Non voleva assillarlo, ma a volte era difficile. Zachary era un bambino ipersensibile e, se non lo considerava abbastanza, si sentiva abbandonato. Forse se avesse avuto un fratellino o una sorellina... Ma era improbabile che succedesse, almeno per un po'. Ora che Suzie era diventata l'anchorwoman del notiziario delle dieci ed era entrata nell'elite dei volti veramente conosciuti, lei che veniva dal meteo di Tucson, non voleva che un'altra gravidanza le ostacolasse la carriera. Tanto più che anche a New York sembravano interessati ad averla. Squillò il telefono. Sul display apparve il numero del cellulare del marito. Suzie si mise l'auricolare. «Ciao, tesoro. Dove sei?» Aveva la fronte aggrottata ed era contenta che Gio non la potesse vedere. «A Miami. Stiamo finendo e da un momento all'altro devo andare a Palm Beach. Naturalmente è in arrivo un altro uragano e quindi vorrei sbrigarmi a concludere prima possibile. Abbiamo bisogno solo di un paio di firme, ma pare sia fatta.» «Bene» rispose lei, con finto entusiasmo. Avrebbe dovuto sapere di cosa stava parlando suo marito, ma non riusciva a fare mente locale. Forse era un ipermercato nel Sud della Florida, ma non ne era certa. Dov'era Vero Beach, esattamente? Sulla Treasure Coast? Ci erano abituati: lui le parlava del proprio lavoro come se a lei interessasse e lei si fingeva interessata. «Quindi dovrei rientrare stasera, invece che lunedì. Magari ci sta pure una partita di golf. Wiatt mi ha finalmente invitato al Riviera Country Club.» «Mm-mm.» «Come sta il piccolo?» «È qui. Aspetta.» Passò il telefono al bambino. «E papà. Sii gentile con lui.» Stava pensando a come organizzare la giornata: doveva mandare qualcuno alla conferenza stampa sugli omicidi, telefonare alla tata perché andasse a prendere Zach al tennis, chiamare Brian per vedere se riusciva a liberarsi e quindi il Ramada per prenotare una stanza. Meglio farsi un'ultima scopata prima dell'arrivo del maritino. Aveva voglia di un pomeriggio indimenticabile.