IL PROFESSIONISTA
(Playing For Pizza, 2007)
Questo libro è dedicato a Stephen Rubin,
mio editore di lunga data e grande estimatore
di tutto ciò che è italiano: opera, cucina, vino,
moda, lingua e cultura. Ma forse non del football.
1
Era un letto d'ospedale, questo almeno sembrava certo, anche se la certezza andava e veniva. Era stretto e duro e lungo i lati, a impedire la fuga,
c'erano luccicanti sponde metalliche, dritte come sentinelle. Le lenzuola
erano semplici e molto bianche. Sterilizzate. La stanza era buia, ma la luce
del sole cercava di infiltrarsi dai bordi delle tende che oscuravano la finestra.
Chiuse di nuovo gli occhi; perfino quell'azione era dolorosa. Poi li riaprì
e per un lungo, silenzioso minuto riuscì a tenere le palpebre separate e a
mettere a fuoco il suo piccolo mondo nebbioso. Era supino, immobilizzato
dalle lenzuola ben rincalzate. A sinistra notò un tubicino che scendeva fino
alla mano, per poi scomparire da qualche parte dietro di lui. Sentì una voce
distante, fuori nel corridoio. Poi fece l'errore di cercare di muoversi, solo
un piccolo aggiustamento della testa, ma non funzionò. Lampi roventi di
dolore si scaricarono nel cranio e nel collo. Gemette a voce alta.
«Rick. Sei sveglio?»
La voce era familiare e venne seguita immediatamente da una faccia.
Arnie gli stava respirando addosso.
«Arnie?» domandò con voce debole e gracchiante, poi deglutì.
«Sono io, Rick. Grazie al cielo ti sei svegliato.»
Arnie l'agente, sempre presente nei momenti importanti.
«Dove sono?»
«In ospedale.»
«L'avevo capito. Ma perché?»
«Quando ti sei svegliato?» Arnie trovò un interruttore e di fianco al letto
si accese una luce.
«Non lo so. Qualche minuto fa.»
«Come ti senti?»
«Come se qualcuno mi avesse schiacciato il cranio.»
«Be', ci sei andato vicino. Ma tra un po' starai benissimo, fidati di me.»
Fidati di me, fidati. Quante volte aveva sentito Arnie chiedergli di fidarsi? La verità era che non si era mai fidato completamente di lui e non c'era
alcuna ragione plausibile perché cominciasse adesso. Cosa ne sapeva Arnie di traumi cranici o comunque della ferita mortale che qualcuno gli aveva inferto?
Rick chiuse di nuovo gli occhi e prese un respiro profondo. «Cos'è successo?» domandò sottovoce.
Arnie esitò e si passò una mano sulla testa calva. Diede un'occhiata all'orologio da polso. Le quattro di pomeriggio, quindi il suo cliente era rimasto privo di conoscenza per quasi ventiquattro ore. Non abbastanza, pensò
tristemente.
«Qual è l'ultima cosa che ricordi?» domandò, appoggiando cauto i gomiti sulla sponda del letto e chinandosi in avanti.
Dopo un attimo, Rick riuscì a dire: «Ricordo Bannister che mi veniva
addosso».
Arnie fece schioccare le labbra. «No, Rick. Quella è stata la tua seconda
commozione cerebrale. Due anni fa a Dallas, quando giocavi con i Cowboys.» Rick emise un gemito a quel ricordo, che non era piacevole neppure
per Arnie dato che il suo cliente, acquattato sulla linea laterale, stava guardando una certa cheerleader quando il gioco d'improvviso si era spostato
sul suo lato e Rick era stato spiaccicato, senza più il casco, da una tonnellata di corpi umani in volo. I Dallas Cowboys l'avevano tagliato due settimane dopo e si erano trovati un altro quarterback seconda riserva.
«L'anno scorso eri a Seattle, Rick. Adesso sei a Cleveland: i Browns, ricordi?»
Rick ricordò e gemette un po' più forte. «Che giorno è oggi?» domandò,
adesso con gli occhi aperti.
«Lunedì. Ieri c'è stata la partita. Ricordi qualcosa?» Se sei fortunato, no,
avrebbe voluto aggiungere l'agente. «Vado a chiamare un'infermiera. Stavano aspettando che ti svegliassi.»
«Non ancora, Arnie. Raccontami. Cos'è successo?»
«Hai lanciato e poi ti hanno placcato in due, tipo sandwich. Purcell ha
blizzato dal lato debole e in pratica ti ha staccato la testa. Non l'hai neppure visto arrivare.»
«Perché stavo giocando?»
Be', quella era un'eccellente domanda, una domanda che al momento in-furiava in ogni trasmissione sportiva a Cleveland e in tutto il Midwest.
Perché LUI stava giocando? Perché LUI era in squadra? Da dove diavolo
era saltato fuori?
«Ne parliamo più tardi» rispose Arnie. Rick era troppo debole per protestare. Con grande riluttanza, il cervello ammaccato si stava come stirando,
scrollandosi di dosso il coma e cercando di svegliarsi. I Browns. Il Browns
Stadium in una gelida domenica pomeriggio, davanti a un pubblico record.
I playoff. No, ancora di più: la partita per il titolo AFC.
Il terreno di gioco era ghiacciato, duro come cemento armato e altrettanto freddo.
Nella stanza era entrata un'infermiera, alla quale Arnie annunciò: «Credo
che ne sia uscito».
«Bene» disse l'infermiera, senza molto entusiasmo. «Vado a chiamare il
medico.» Con entusiasmo anche minore.
Rick la guardò uscire senza muovere la testa. Arnie si stava facendo
schioccare le nocche e sembrava pronto a schizzare via. «Rick, devo proprio tornare in ufficio.»
«Certo, Arnie. Grazie.»
«Nessun problema. Senti, non c'è un modo facile per dirtelo, così te lo
dico e basta. Questa mattina mi ha telefonato Wacker dei Browns e... be', ti
hanno tagliato.» Il taglio a fine stagione ormai era quasi un rituale annuale.
«Mi dispiace» aggiunse Arnie, ma solo perché doveva dirlo.
«Chiama le altre squadre» disse Rick, e non era certo la prima volta.
«Non ce n'è bisogno. Mi stanno già chiamando.»
«Benissimo.»
«Non proprio. Mi stanno chiamando per dirmi di non chiamare. Ho paura che questo possa essere il capolinea, ragazzo.»
Non c'era il minimo dubbio che fosse il capolinea, ma Arnie proprio non
riusciva a trovare il coraggio di essere sincero. Forse l'indomani. Otto
squadre in sei anni. Solo i Toronto Argonauts avevano osato confermare
Rick per una seconda stagione. Tutte le squadre hanno bisogno di una riserva della riserva del quarterback titolare, e Rick era perfetto per quel ruolo. I problemi cominciavano quando si avventurava in campo.
«Devo proprio scappare» ribadì Arnie, dando un'altra occhiata all'orologio. «Senti, fai un favore a te stesso e non accendere la televisione. È davvero brutale, specie ESPN.» Diede qualche colpetto sul ginocchio di Rick
e uscì a razzo dalla stanza. Davanti alla porta c'erano due robuste guardie
private che, sedute su sedie pieghevoli, cercavano di restare sveglie.
Arnie si fermò alla postazione delle infermiere e parlò con il medico, il
quale poi percorse il corridoio, passò davanti alle guardie ed entrò nella
camera di Rick. Il suo approccio con il paziente mancava di qualsiasi calore: veloce controllo dei dati vitali, poche parole. Esami neurologici a seguire. «Solo un'altra, banalissima commozione cerebrale, questa è la terza,
giusto?»
«Credo di sì» rispose Rick.
«Mai pensato di cercarsi un altro lavoro?» gli chiese il medico.
«No.»
Forse dovresti, pensò il dottore, e non solo per via del cervello ammaccato. Tre intercetti in undici minuti dovrebbero essere un chiaro segnale
del fatto che il football non è la tua vocazione. Due infermiere si materializzarono silenziosamente e diedero una mano con gli esami e la documentazione. Nessuna delle due disse una parola al paziente, nonostante si trattasse di un atleta professionista, celibe, dotato di notevole bellezza e di un
fisico d'acciaio. Ma a quelle due non poteva importare di meno, proprio nel
momento in cui Rick aveva bisogno di loro.
Non appena fu di nuovo solo, con estrema cautela cominciò a cercare il
telecomando. Di fronte a lui, alto nell'angolo, c'era un grande televisore.
Rick voleva sintonizzarsi subito su ESPN e farla finita. Ogni movimento
gli provocava dolore, e non solo alla testa e al collo. Qualcosa di molto simile a una ferita da coltello gli tormentava la parte più bassa della schiena.
Il gomito sinistro, non quello del braccio con cui lanciava, pulsava di dolore.
Placcato? Si sentiva come se fosse stato spianato da una betoniera.
Rientrò un'infermiera con un vassoio su cui c'erano delle pillole.
«Dov'è il telecomando?» le chiese Rick.
«Ah... Il televisore è rotto.»
«Arnie ha staccato la spina, vero?»
«Quale spina?»
«Quella del televisore.»
«Chi è Arnie?» domandò l'infermiera, armeggiando con un ago piuttosto
grosso.
«E quello cos'è?» le chiese Rick, dimenticandosi per un secondo di Arnie.
«Vicodin. L'aiuterà a dormire.»
«Sono stanco di dormire.»
«Ordine del dottore. Lei ha bisogno di riposo, di molto riposo.» Iniettò il
Vicodin nella flebo e rimase a osservare per un momento il liquido chiaro.
«Lei è tifosa dei Browns?» le domandò Rick.
«Lo è mio marito.»
«Suo marito era alla partita ieri?»
«Sì.»
«È andata così male?»
«È meglio che lei non lo sappia.»
Quando si svegliò, c'era di nuovo Arnie; era seduto accanto al letto e
leggeva il "Cleveland Post". Rick riuscì a fatica a decifrare il titolo in fondo alla prima pagina: TIFOSI ASSALTANO L'OSPEDALE.
«Cosa?» fece Rick con tutta la forza possibile.
L'agente piegò immediatamente il giornale e scattò in piedi. «Ti senti
bene, ragazzo?»
«Splendidamente, Arnie. Che giorno è?»
«Martedì. Martedì mattina presto. Come stai, figliolo?»
«Dammi quel giornale.»
«Cosa vuoi sapere?»
«Voglio sapere perché. Cosa sta succedendo?»
«Cosa vuoi sapere?»
«Tutto.»
«Hai visto la televisione?»
«No. Tu hai staccato la spina. Parlami, Arnie.»
L'agente fece schioccare le nocche, poi si avvicinò lentamente alla finestra e scostò appena le tende. Sbirciò fuori come aspettandosi di vedere
guai all'esterno. «Ieri dei teppisti sono venuti qui a fare casino. I poliziotti
hanno gestito bene la situazione e ne hanno arrestato una decina. Era solo
un branco di delinquenti. Tifosi dei Browns.»
«Quanti?»
«Il giornale dice una ventina. Ubriachi.»
«E perché erano venuti qui, Arnie? Siamo soli, tu e io: agente e giocatore. La porta è chiusa. Ti prego di riempire gli spazi vuoti.»
«Avevano scoperto dov'eri. In questi giorni c'è un mucchio di gente che
vorrebbe saltarti addosso. Hai ricevuto un centinaio di minacce di morte. I
tifosi sono infuriati. Minacciano addirittura anche me.» Arnie si appoggiò
alla parete, con un lampo di autocompiacimento in viso perché adesso la
sua vita era degna di essere minacciata. «Non ricordi ancora niente?» domandò.
«No.»
«I Browns sono in vantaggio diciassette a zero contro i Broncos a undici
minuti dalla fine. Lo zero non rende neanche vagamente l'idea delle dimensioni del massacro dei Broncos, che dopo tre quarti hanno totalizzato
ottantuno iarde in attacco e tre, dico tre, primi tentativi. Ti dice niente?»
«No.»
«Il quarterback è Ben Marroon perché Nagle si è stirato nel primo quarto.»
«Questo adesso me lo ricordo.»
«A undici minuti dalla fine, Marroon viene asfaltato con un colpo in ritardo ed è portato fuori dal campo in barella. Nessuno si preoccupa perché
la difesa dei Browns è in grado di fermare il generale Patton e tutti i suoi
carri armati. Entri in campo tu, terzo e undici, e fai subito un bellissimo
passaggio a Sweeney il quale, come ben sai, gioca con i Broncos e quaranta iarde dopo è in end zone. Ricordi qualcosa?»
Rick chiuse lentamente gli occhi e rispose: «No».
«Non sforzarti troppo. Entrambe le squadre calciano e poi i Broncos
perdono palla. A sei minuti dalla fine, sul terzo e otto, tu cambi gioco sulla
linea e lanci un hook a Bryce, ma la palla è troppo alta e se la prende qualcuno in maglia bianca. Non ricordo come si chiama, ma di sicuro è uno
che sa correre e infatti corre fino in fondo. Diciassette a quattordici. Nello
stadio comincia a crescere la tensione, ci sono più di ottantamila spettatori.
Solo qualche minuto prima stavano già facendo festa: primo Super Bowl
nella storia dei Browns eccetera. I Broncos calciano, i Browns corrono per
tre volte perché Cooley non vuole chiamare un gioco di lancio e così i
Browns fanno il punt. O almeno ci provano. C'è un fumble sullo snap e i
Broncos recuperano la palla sulla linea delle trentaquattro iarde dei
Browns, il che non è un problema perché in tre giochi la difesa dei
Browns, che a questo punto è veramente incazzata, li fa arretrare per quindici iarde, fuori dalla portata del field goal. I Broncos fanno il punt. Tu entri sulle tue sei e per i successivi quattro minuti riesci a far correre la palla
in mezzo alla linea difensiva. Il drive è fermo a metà campo, terzo e dieci,
e mancano quaranta secondi alla fine. I Browns hanno paura di passare e
ancora più paura di fare il punt. Non so che schema ti urli Cooley, ma tu
cambi di nuovo gioco e spari un missile sulla linea laterale destra per
Bryce, che è smarcatissimo. Centro perfetto.»
Rick cercò di mettersi a sedere e per un attimo dimenticò le sue ferite.
«Continuo a non ricordare.»
«Centro perfetto, ma troppo, troppo forte. Il pallone colpisce Bryce sul
petto, rimbalza, schizza via e viene afferrato al volo da Goodson, che parte
al galoppo verso la terra promessa. I Browns perdono ventuno a diciassette. Tu sei a terra, praticamente segato a metà. Ti mettono su una barella e,
mentre ti portano fuori dal campo, metà degli spettatori ti insulta e l'altra
metà impazzisce di gioia. Un bel casino, mai sentito niente del genere. Due
o tre ubriachi saltano giù dalle gradinate e corrono verso la barella, decisi a
ucciderti, ma interviene la sicurezza. Segue una simpatica rissa, anche questa in tutti i talk show.»
Rick era afflosciato nel letto, con gli occhi chiusi e il respiro affannato.
Il mal di testa era tornato, così come le fitte dolorose al collo e lungo la
spina dorsale. Dov'erano i calmanti?
«Mi dispiace, ragazzo» disse Arnie. La stanza era più gradevole nella
penombra, così chiuse le tende e riprese posizione sulla sedia, afferrando
di nuovo il quotidiano. Il suo cliente sembrava morto.
I medici erano pronti a dimetterlo, ma Arnie aveva sostenuto con forza
che Rick aveva bisogno di qualche altro giorno di riposo e protezione. Erano i Browns che stavano pagando le guardie di sicurezza e non ne erano
molto felici. La squadra pagava anche le cure mediche e non sarebbe passato molto tempo prima che cominciasse a lamentarsi.
E anche Arnie non ne poteva più. La carriera di Rick, se si poteva definirla tale, era finita. Arnie si prendeva il cinque per cento e il cinque per
cento dello stipendio di Rick Dockery non bastava neppure a coprire le
spese. «Rick, sei sveglio?»
«Sì.» Gli occhi erano ancora chiusi.
«Ascoltami, okay?»
«Sto ascoltando.»
«La parte più difficile del mio lavoro è dire a un giocatore che è arrivato
il momento di smettere. Hai giocato per tutta la tua vita, il football è tutto
quello che sai, tutto quello che sogni. Nessuno è mai veramente pronto a
lasciare. Però, Rick, vecchio amico mio, è arrivato il momento di chiudere.
Non ci sono altre opzioni.»
«Io ho ventotto anni» disse Rick, aprendo gli occhi. Occhi molto tristi.
«Cosa mi suggeriresti di fare?»
«Molti giocatori diventano allenatori. O si occupano di compravendite
immobiliari. Tu sei in gamba, hai una laurea.»
«Io ho una laurea in educazione fisica, Arnie. Questo significa che potrei
solo insegnare la pallavolo a ragazzini di quinta elementare per quaranta-mila dollari l'anno. Non sono ancora pronto per una cosa del genere.»
L'agente si alzò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro, come
immerso in profondi pensieri. «Perché non vai a casa, ti riposi un po' e ci
rifletti sopra?»
«Casa? Dov'è casa? Ho abitato in così tanti posti.»
«Casa è l'Iowa, Rick. Là ti vogliono ancora bene.» E ti vogliono tantissimo bene anche a Denver, pensò Arnie, ma lo tenne saggiamente per sé.
L'idea di farsi vedere per le strade di Davenport, Iowa, terrorizzò Rick,
che gemette sottovoce. Probabilmente l'intera città si sentiva umiliata dalla
performance di quel suo figlio. Rick pensò ai suoi poveri genitori e chiuse
di nuovo gli occhi.
Arnie guardò l'orologio e poi, per un qualche motivo, notò che nella
stanza non c'erano né fiori, né biglietti di auguri. Le infermiere gli avevano
detto che non si erano visti amici, parenti, compagni di squadra, nessuno
che fosse anche remotamente collegato ai Cleveland Browns. «Devo scappare, ragazzo. Farò un salto domani.»
Uscendo, gettò con aria indifferente il giornale sul letto. Non appena la
porta si chiuse alle spalle del suo agente, Rick afferrò il quotidiano e poco
dopo desiderò non averlo fatto. La polizia stimava che fossero state circa
cinquanta persone a inscenare la chiassosa dimostrazione davanti all'ospedale. La situazione era poi ulteriormente degenerata quando la troupe di un
notiziario televisivo aveva cominciato a riprendere la scena. Era stata rotta
una finestra e alcuni dei tifosi più ubriachi avevano fatto irruzione nell'accettazione del pronto soccorso, presumibilmente alla ricerca di Rick Dockery. Otto erano stati arrestati. Una grande foto - prima pagina in basso -
aveva fissato l'immagine dei dimostranti prima degli arresti. Si leggevano
chiaramente due cartelli: STACCATE LA SPINA! e LEGALIZZATE
L'EUTANASIA.
C'era anche di peggio. Sul "Post" scriveva un famigerato giornalista
sportivo di nome Charley Cray, un perfido scribacchino specializzato in
giornalismo d'attacco. Intelligente quel tanto da essere credibile, Cray era
molto letto perché si deliziava nel descrivere i passi falsi e le eccentricità
di atleti professionisti che guadagnavano milioni di dollari e che tuttavia
non erano perfetti. Era un esperto di tutto e non si lasciava mai sfuggire la
possibilità di una frecciata facile. La sua rubrica del martedì - prima pagina
dello sport - cominciava con il titolo: POTREBBE ESSERE DOCKERY
IL PIÙ GRANDE CANE DI TUTTI I TEMPI?
Conoscendo Cray, non c'era il minimo dubbio che Rick Dockery lo fos-se.
L'articolo, ben documentato e scritto con cattiveria, era centrato sulle opinioni di Cray in merito ai più grandi casini, errori e papere nella storia
dello sport: la palla che Bill Buckner si era fatto passare tra le gambe nelle
World Series del 1986, la ricezione sbagliata di Jackie Smith che era costata il touchdown nel Super Bowl 13 e così via.
Ma, come Cray gridava ai suoi lettori, quelli erano stati solo singoli episodi.
Mr Dockery, invece, era riuscito a fare tre - dico tre! - passaggi orribili
in soli undici minuti.
Di conseguenza Rick Dockery era indiscutibilmente il Più Grande Cane
nella storia dello sport professionistico. Il verdetto era incontestabile e
Cray sfidava chiunque a sostenere il contrario.
Rick scagliò il giornale contro il muro e chiamò l'infermiera per avere
un'altra pastiglia. Al buio, solo e con la porta chiusa, aspettò che il farmaco
facesse la sua magia, che lo mettesse al tappeto e poi, sperava, che se lo
portasse via per sempre.
Scivolò più in basso nel letto, si coprì la testa con il lenzuolo e cominciò
a piangere.
2
Stava nevicando e Arnie era stanco di Cleveland. Era in aeroporto in attesa del volo per Las Vegas, la sua città natale, e controvoglia telefonò a
uno dei vicepresidenti meno importanti degli Arizona Cardinals.
In quel momento, oltre a Rick Dockery, Arnie rappresentava sette giocatori nell'NFL e quattro in Canada. Era, se si fosse riusciti a farglielo ammettere, un agente di livello medio che, naturalmente, aveva ambizioni
maggiori. Fare telefonate per Dockery non avrebbe aumentato la sua credibilità. Rick era presumibilmente il giocatore più chiacchierato del paese
in quel disgraziato momento, ma non si trattava del tipo di chiacchiere di
cui Arnie aveva bisogno. Il vicepresidente fu educato, ma secco e diede
l'impressione di non vedere l'ora di riattaccare.
Arnie andò al bar, prese qualcosa da bere e riuscì a sedersi a un tavolino
lontano da qualsiasi televisore, dato che l'unica storia di cui si parlava a
Cleveland era quella dei tre intercetti subiti da un quarterback che nessuno
sapeva neppure essere in squadra. I Browns erano arrivati a fine stagione
con un attacco balbettante, ma con una difesa inespugnabile, una difesa
che aveva infranto ogni record per le poche iarde e i pochi punti concessi
agli avversari. Avevano perso solo una volta e, a ogni vittoria, una città affamata di Super Bowl era diventata sempre più entusiasta dei suoi vecchi,
adorabili perdenti. D'improvviso, in un'unica, veloce stagione, i Browns
erano diventati i killer del campionato.
Se la domenica precedente avessero vinto, gli avversari nel Super Bowl
sarebbero stati i Minnesota Vikings, squadra che i Browns avevano già
battuto in novembre.
L'intera città sentiva già il dolce sapore del titolo.
Tutto era svanito in undici orripilanti minuti.
Arnie ordinò un secondo drink. Al tavolo vicino, due rappresentanti si
stavano ubriacando e si gustavano felici il collasso dei Browns. Erano di
Detroit.
La notizia del giorno era il licenziamento del general manager dei
Browns, Clyde Wacker, il quale fino alla domenica era stato esaltato come
un genio, ma adesso era il perfetto capro espiatorio. Qualcuno doveva essere fatto fuori, e non soltanto Rick Dockery. Una volta assodato che era
stato Wacker a ingaggiare Dockery in ottobre, il proprietario della squadra
l'aveva licenziato. L'esecuzione era stata pubblica: grande conferenza
stampa, un mucchio di aggrottamenti di fronte, promesse di dirigere la
squadra con pugno più fermo eccetera. I Browns sarebbero tornati!
Arnie aveva conosciuto Rick durante il suo ultimo anno all'Università
dell'Iowa, al termine di una stagione che era iniziata con molte promesse,
ma che stava svanendo nella serie di partite escluse dai playoff. Rick aveva
cominciato le sue ultime due stagioni da quarterback titolare e sembrava
molto adatto per un attacco impostato sul gioco aereo, molto raro nella Big
Ten. A volte era brillante: sapeva leggere le difese, cambiare gioco con
freddezza e lanciare con incredibile velocità. Aveva un braccio stupefacente, indubbiamente il migliore nell'imminente draft. Sapeva lanciare con
forza, in profondità e con un rilascio veloce come il fulmine. Ma era troppo discontinuo perché ci si potesse fidare di lui e quando i Buffalo l'avevano scelto all'ultimo giro, quello avrebbe dovuto essere un chiaro segnale
che Rick avrebbe fatto meglio a procurarsi una laurea o una licenza da agente di cambio.
Invece era andato a Toronto per due stagioni disgraziate e poi aveva cominciato a rimbalzare da una squadra dell'NFL all'altra. Grazie a un braccio splendido, Rick era abbastanza in gamba da entrare nel roster. Tutte le
squadre hanno bisogno di un quarterback seconda riserva. Durante i provi-ni, e ce n'erano stati molti, Rick aveva spesso incantato gli allenatori con il
suo braccio. Una volta, a Kansas City, Arnie l'aveva visto scagliare la palla
a ottanta iarde e poi, qualche minuto dopo, sparare un proiettile a centocinquanta chilometri all'ora.
Ma Arnie ormai sapeva per certo ciò che adesso sospettava la maggior
parte degli allenatori. Per essere un giocatore di football, Rick temeva
troppo il contatto. Non il contatto casuale, non il placcaggio veloce e innocuo che può subire un quarterback abituato a uscire dalla tasca. Rick, con
buoni motivi, aveva paura della linea di difesa e dei blitz dei linebacker.
In ogni partita c'è sempre un momento in cui il quarterback si ritrova con
un ricevitore smarcato, una frazione di secondo per lanciare la palla, e con
un mastodontico uomo della linea di difesa che supera la tasca senza che
nessuno lo blocchi. A quel punto il quarterback deve scegliere. Può stringere i denti, sacrificare il proprio corpo, mettere la squadra prima di tutto,
lanciare il maledetto pallone, fare il grande gioco e lasciarsi schiacciare.
Oppure può proteggere la palla, correre via e pregare di riuscire a sopravvivere fino al prossimo gioco. Rick, ogni volta che Arnie l'aveva visto giocare, non aveva mai messo la squadra al primo posto, neppure una volta.
Al primo accenno di assalto, Rick indietreggiava e correva freneticamente
verso la linea laterale.
E, con la sua propensione alle commozioni cerebrali, Arnie non poteva
fargliene una colpa.
Telefonò al nipote del proprietario dei Rams, il quale gli rispose con un
gelido: «Spero che non sia per Dockery».
«Be', sì» balbettò Arnie.
«La risposta è: diavolo, no.»
A partire da domenica, Arnie aveva parlato con quasi la metà delle
squadre dell'NFL. La risposta dei Rams era abbastanza tipica. Rick non
aveva idea di come la sua piccola, triste carriera fosse completamente finita.
Arnie guardò un monitor sulla parete e vide che il suo volo era in ritardo. Solo un'altra telefonata, giurò. Un ultimo tentativo per trovare un lavoro a Rick Dockery e poi sarebbe passato a occuparsi degli altri suoi giocatori.
I clienti venivano da Portland e, nonostante il cognome fosse Webb e la
donna fosse pallida come una svedese, entrambi sostenevano di avere sangue italiano e di essere ansiosissimi di visitare il vecchio paese d'origine,
dove tutto era cominciato. In due conoscevano al massimo sei parole di
italiano, e le pronunciavano male. Sam sospettava che avessero comprato
una guida all'aeroporto e avessero imparato a memoria qualche vocabolo
base in volo sopra l'Atlantico. Durante il loro precedente viaggio in Italia, i
Webb avevano avuto un autista-guida indigeno che parlava un inglese
"tremendo", per cui questa volta avevano insistito per avere un americano,
un bravo yankee in grado di organizzare pranzi e cene e trovare biglietti di
vario genere. Dopo due giorni, Sam era pronto a rispedirli a Portland tutti e
due.
Sam non era né un autista, né una guida. Era però autenticamente americano e, dato che il suo impiego principale rendeva poco, occasionalmente
si prestava a quel secondo lavoro con compatrioti di passaggio che avevano bisogno di qualcuno che li tenesse per mano.
Seduto in auto, stava aspettando che i suoi clienti finissero di godersi
una lunghissima cena da Lazzaro, una vecchia trattoria del centro. Faceva
freddo e cadeva una neve leggera. Sam sorseggiò un po' di caffè forte e la
sua mente tornò alla squadra, come faceva sempre. La suoneria del cellulare lo fece sobbalzare. La telefonata proveniva dagli Stati Uniti.
«Sam Russo, per favore» disse una voce chiara.
«Sono io.»
«Coach Russo?»
«Sì, sono io.»
L'uomo si identificò come Arnie Qualcosa, disse di essere un agente di
un qualche tipo e dichiarò di essere stato manager della squadra di football
della Bucknell nel 1988, pochi anni dopo che ci aveva giocato Sam. Dato
che tutti e due avevano frequentato la Bucknell, trovarono rapidamente un
terreno comune e, dopo qualche minuto di "Ti ricordi il tal dei tali?", erano
già amici. Per Sam era piacevole chiacchierare con qualcuno della sua
vecchia università, anche se si trattava di un totale estraneo.
E gli capitava raramente di ricevere telefonate da agenti.
Arnie finalmente arrivò al punto.
«Certo che ho visto i playoff» gli rispose Sam.
«Be', io rappresento Rick Dockery e, insomma, i Browns l'hanno lasciato libero» disse l'agente.
Non mi sorprende, pensò Sam, ma continuò ad ascoltare. «Rick si sta
guardando intorno, sta valutando le sue opzioni. Mi è arrivata voce che vi
serve un quarterback.»
A Sam per poco non cadde il telefonino. Un vero quarterback dell'NFL a
Parma? «Non è una voce. Il mio quarterback se n'è andato la settimana
scorsa per allenare da qualche parte nello Stato di New York... Ci piacerebbe moltissimo avere Dockery. È okay? Fisicamente, intendo.»
«Certo. Un po' ammaccato, ma pronto a giocare.»
«E vuole giocare in Italia?»
«Forse. Sai, non ne abbiamo ancora discusso, è ancora in ospedale, ma
stiamo valutando tutte le possibilità. Francamente Rick ha bisogno di un
cambiamento radicale.»
«Ma tu sai com'è il football qui?» domandò Sam nervosamente. «È un
buon football, ma è ad anni luce dall'NFL e dalla Big Ten. Insomma, questi ragazzi non sono professionisti nel vero senso della parola.»
«Qual è il livello?»
«Non saprei. Difficile a dirsi. Hai mai sentito parlare di una scuola che si
chiama Washington and Lee, giù in Virginia? Buona scuola, buon football,
terza divisione?»
«Certo.»
«L'anno scorso sono venuti qui durante le vacanze di primavera e abbiamo giocato qualche amichevole. Più o meno eravamo allo stesso livello.»
«Terza divisione, eh?» fece Arnie, perdendo un po' d'entusiasmo.
Ma era anche vero che Rick aveva bisogno di un gioco più morbido.
Un'altra commozione cerebrale e avrebbe potuto veramente subire quel
danno al cervello su cui scherzavano così spesso. A dire il vero ad Arnie
non importava poi molto. Giusto altre due o tre telefonate, e Rick Dockery
sarebbe diventato storia.
«Senti, Arnie» cominciò Sam in tono serio. Era il momento della verità.
«Qui in Italia il football è uno sport dilettantistico, o forse appena qualcosa
di più. Ogni squadra di serie A ha diritto a tre giocatori americani, i quali
di solito prendono un po' di soldi e magari hanno l'affitto pagato. Tipicamente i quarterback sono americani e ricevono un modesto stipendio. Gli
altri componenti del roster sono un branco di italiani grandi e grossi che
giocano solo perché amano il football. Se sono fortunati e il proprietario
della squadra è di buon umore, può darsi che dopo la partita abbiano pizza
e birra gratis. Giochiamo un campionato di otto partite più i playoff e poi
c'è la possibilità di giocarsi il Super Bowl italiano. Il nostro campo è vecchio, però è bello, ben curato, ospita circa tremila spettatori e, per una partita davvero importante, certe volte riusciamo anche a riempirlo. Abbiamo
sponsor, belle divise, ma nessun contratto Tv e niente soldi veri di cui val-ga la pena parlare. Siamo piantati nel bel mezzo del mondo del calcio, perciò il football più che altro ha un seguito di cultori.»
«Tu come sei finito lì?»
«Io amo l'Italia. I miei nonni emigrarono negli Stati Uniti da questa regione e si stabilirono a Baltimora, dove sono nato e cresciuto. Ma ho un
mucchio di cugini qui nei dintorni. E poi mia moglie è italiana eccetera. È
un posto splendido dove vivere. Non si può guadagnare molto facendo l'allenatore di football, però ci divertiamo.»
«Quindi i coach vengono pagati?»
«Sì, si potrebbe dire così.»
«Qualche altro profugo dall'NFL?»
«Ogni tanto ne passa uno, una qualche anima persa che sogna ancora il
giro del Super Bowl. Ma di solito i nostri americani sono modesti giocatori
di college cui piace giocare e che hanno il senso dell'avventura.»
«Quanto puoi pagare il mio uomo?»
«Fammi parlare con il proprietario.»
«Okay, io intanto parlo con il mio cliente.»
Dopo un altro aneddoto sulla Bucknell, chiusero la comunicazione e
Sam tornò al suo caffè. Un quarterback dell'NFL in Italia? Era difficile da
immaginare, anche se esisteva un precedente. Due anni prima i Warriors di
Bologna avevano giocato il Super Bowl con un quarterback quarantenne
che un tempo aveva giocato brevemente per Oakland. Se n'era andato dopo
due stagioni per trasferirsi in Canada.
Sam abbassò il riscaldamento dell'auto e ripassò mentalmente gli ultimi
minuti della partita Browns-Broncos. Per quello che ricordava, in vita sua
non aveva mai visto un giocatore costruire in modo così preciso una sconfitta e perdere una partita che era già chiaramente vinta. Lui stesso aveva
quasi applaudito, quando Dockery era stato trasportato in barella fuori dal
campo.
E tuttavia l'idea di poterlo allenare a Parma era intrigante.
3
Anche se fare i bagagli e andarsene era ormai una specie di rituale, la
partenza da Cleveland fu un po' più stressante del solito. Qualcuno aveva
scoperto che viveva in un appartamento in affitto al settimo piano di un
condominio con molto vetro vicino al lago e, quando entrò nel complesso
residenziale a bordo del suo Tahoe nero, Rick vide due tipi trasandati ar-mati di macchine fotografiche appostati accanto alla guardiola della sicurezza. Parcheggiò nel garage sotterraneo e si affrettò a entrare in ascensore.
Aprì la porta dell'appartamento e senti squillare il telefono in cucina. La
piacevole voce maschile sulla segreteria telefonica risultò essere nientemeno che quella di Charley Cray.
Tre ore più tardi il SUV era carico di indumenti, bastoni da golf e impianto stereo. Tredici viaggi - Rick li aveva contati - su e giù con l'ascensore e adesso collo e spalle lo stavano uccidendo. La testa gli pulsava dolorosamente, gli analgesici erano serviti a poco. Non avrebbe dovuto guidare
dopo avere assunto quei farmaci, però stava guidando.
Rick se ne stava andando, stava scappando dall'appartamento ammobiliato in affitto. Stava fuggendo da Cleveland, dai Browns e dai loro tremendi tifosi, stava andando a nascondersi da qualche parte. Non sapeva
ancora bene dove.
Saggiamente, aveva firmato un contratto d'affitto per soli sei mesi. Dal
college in poi aveva vissuto una vita di affitti brevi in appartamenti ammobiliati. Aveva imparato a non accumulare troppe cose.
Lottò con il traffico del centro città e riuscì a dare un'ultima occhiata
nello specchietto retrovisore allo skyline di Cleveland. Meglio così. Era felicissimo di andarsene. Giurò che non sarebbe tornato mai più, a meno che,
naturalmente, non avesse dovuto giocare contro i Browns, poi gli venne in
mente che si era ripromesso di non pensare al futuro. Comunque non per
un'altra settimana.
Mentre sfrecciava nei sobborghi, ammise che Cleveland doveva essere
indubbiamente più felice di lui della sua partenza.
Stava puntando verso ovest nella direzione dell'Iowa senza alcun entusiasmo, non era per niente eccitato all'idea di tornare a casa. Aveva telefonato ai genitori dall'ospedale. Sua madre gli aveva domandato come andava la testa e l'aveva supplicato di smettere di giocare. Suo padre gli aveva
chiesto a cosa accidenti stava pensando, quando aveva fatto quell'ultimo
passaggio.
«Com'è la situazione a Davenport?» gli aveva domandato finalmente
Rick. Sia lui che il padre sapevano a cosa si stava riferendo. La curiosità
non riguardava l'economia locale.
«Non troppo bene» era stata la risposta.
Un bollettino meteo richiamò l'attenzione di Rick: forti nevicate nell'Ovest, tormenta nell'Iowa. Sollevato, Rick voltò a sinistra e puntò verso sud.
Un'ora dopo squillò il cellulare. Era Arnie da Las Vegas; sembrava mol-to allegro.
«Dove sei, ragazzo?»
«Lontano da Cleveland.»
«Grazie a Dio. Stai andando a casa?»
«No, sto andando a sud. Magari vado in Florida a giocare un po' a golf.»
«Splendida idea. Come va la testa?»
«Bene.»
«Qualche altro danno cerebrale?» chiese Arnie, fingendo una risata. Era
una battuta che Rick aveva sentito almeno cento volte.
«Sì, danni gravi.»
«Senti, ragazzo, ho qualcosa per le mani: un posto in squadra, titolare
garantito. Cheerleader stupende. Ti interessa?»
Rick ripeté il tutto mentalmente e lentamente, sicuro di avere frainteso i
dettagli. Il Vicodin gli stava saturando alcune aree del cervello ancora debole. «Okay» rispose finalmente.
«Ho appena parlato con l'head coach dei Panthers, i quali ti offrono subito un contratto, seduta stante, niente domande. I soldi non sono molti, ma è
comunque un lavoro. Sarai ancora il quarterback, il quarterback titolare! È
un affare già fatto. È tutto tuo, baby.»
«I Panthers?»
«Certo. I Parma Panthers.»
Ci fu una lunga pausa mentre Rick lottava con la geografia. Ovviamente
si trattava di una qualche squadra di una lega minore, una lega indipendente sperduta in mezzo al nulla e così lontana dall'NFL da essere uno scherzo. Di certo non poteva trattarsi di arena football, il football al coperto.
Arnie doveva sapere che non era il caso.
Però non riusciva a localizzare Parma. «Arnie, hai detto Carolina Panthers?»
«Ascoltami, Rick: Parma Panthers.»
C'era una Parma nei sobborghi di Cleveland. Era tutto molto sconcertante.
«Okay, Arnie. Scusa il mio danno cerebrale, ma perché non mi dici
dov'è esattamente Parma?»
«È nell'Italia settentrionale, a un'ora circa da Milano.»
«E dov'è Milano?»
«Nell'Italia settentrionale. Ti comprerò un atlante. Comunque...»
«Laggiù football significa calcio, Arnie. Hai sbagliato sport.»
«Stammi a sentire. In Europa ci sono leghe ben consolidate. È una cosa
grossa in Germania, in Austria e in Italia. Potrebbe essere divertente. Dov'è
il tuo spirito d'avventura?»
Rick sentiva pulsare la testa. Aveva bisogno di un'altra pastiglia. Ma era
già praticamente strafatto ed essere fermato per guida sotto l'effetto di sostanze stupefacenti era l'ultima cosa di cui aveva bisogno: probabilmente
l'agente della stradale avrebbe dato un'occhiata alla patente e poi avrebbe
tirato subito fuori le manette, o forse addirittura il manganello. «Non credo
sia il caso» disse ad Arnie.
«Invece dovresti andare, Rick. Prenditi un anno di pausa, vai a giocare in
Europa e lascia che il polverone si posi. Devo proprio dirtelo, ragazzo: a
me non importa fare telefonate in giro, ma il momento è schifoso, proprio
schifoso.»
«Non voglio ascoltarti. Senti, riparliamone più tardi. La testa mi sta uccidendo.»
«Certo, ragazzo. Dormici pure sopra, però dobbiamo muoverci in fretta.
La squadra di Parma sta cercando un quarterback. Tra un po' comincia la
loro stagione e sono disperati. Cioè, non disperati al punto da prendere
chiunque, ma...»
«Ho capito, Arnie. Ci sentiamo più tardi.»
«Hai mai sentito parlare del parmigiano?»
«Certo.»
«È là che lo fanno. A Parma. Capito?»
«Se mi viene voglia di formaggio, vado da Green Bay» ribatté Rick,
pensando di essere spiritoso nonostante gli analgesici.
«Ho telefonato ai Packers, ma non mi hanno richiamato.»
«Non voglio sentire.»
Nei dintorni di Mansfield, entrò in un ristorante per camionisti, si sistemò in un séparé e ordinò patatine fritte e una Coca. Le parole sul menu gli
sembrarono leggermente sfuocate, ma mandò giù comunque un'altra pastiglia a causa del dolore alla schiena. In ospedale, una volta riattivato il televisore, aveva commesso l'errore di guardare finalmente gli highlight della
partita su ESPN. Aveva incassato la testa nelle spalle e si era addirittura ritratto alla vista del suo corpo che veniva colpito in modo così devastante e
poi crollava a terra come un mucchietto di stracci.
Due camionisti seduti a un tavolo vicino cominciarono a lanciargli occhiate. Oh, stupendo. Perché non ho pensato a un berretto e a un paio di
occhiali da sole?
I due sussurravano, indicandolo, e non passò molto tempo prima che anche altri cominciassero a guardarlo, alcuni addirittura con disprezzo. Rick
avrebbe voluto andarsene, ma il Vicodin gli disse di no: era meglio restarsene tranquillo per un po'. Ordinò un'altra porzione di patatine e provò a
telefonare ai suoi genitori. Ma o erano usciti, o avevano deciso di ignorarlo. Chiamò un vecchio compagno di college che abitava a Boca per essere
sicuro di avere un posto dove stare per qualche giorno.
I camionisti stavano ridendo per qualcosa. Rick cercò di ignorarli e cominciò a scribacchiare numeri sopra un tovagliolino bianco di carta.
I Browns gli dovevano cinquantamila dollari per i play-off. (Sicuramente la squadra l'avrebbe pagato.) In banca, a Davenport, aveva circa quarantamila dollari. A causa della carriera nomade, non aveva mai acquistato
immobili. Il SUV era in leasing: settecento dollari al mese. Non c'erano altre voci in attivo. Rick studiò i numeri e calcolò che nella migliore delle
ipotesi poteva contare su circa ottantamila dollari.
Lasciare il football con tre commozioni cerebrali e ottantamila dollari
non era poi così male come sembrava. Il running back medio dell'NFL durava tre anni e si ritirava con ogni tipo di lesioni alle gambe e circa cinquecentomila dollari.
I problemi finanziari di Rick erano il risultato di investimenti disastrosi.
Con un compagno di squadra dell'Iowa aveva cercato di monopolizzare il
mercato degli autolavaggi a Des Moines. Erano seguite cause in tribunale e
il nome di Rick figurava ancora nei prestiti bancari. Possedeva un terzo di
un ristorante messicano a Fort Worth e gli altri due comproprietari, ex amici, al momento ululavano chiedendo altri capitali. L'ultima volta che
Rick aveva mangiato burritos nel suo ristorante era stato male.
Con l'aiuto di Arnie era riuscito a evitare la bancarotta - i titoli dei giornali sarebbero stati brutali - ma i debiti si erano accumulati.
Un camionista piuttosto grosso con una stupefacente pancia da bevitore
di birra si avvicinò al tavolo, si fermò e guardò Rick ghignando. Era il tipico camionista: grosse basette, berretto con visiera, stuzzicadenti tra le labbra. «Tu sei Dockery, vero?»
Per una frazione di secondo Rick pensò di negarlo, poi decise semplicemente di ignorare il camionista.
«Fai schifo, lo sai?» riprese il camionista a voce alta, a beneficio del
pubblico. «Facevi schifo all'Iowa e fai schifo anche adesso.» Ci fu una
grande risata in sottofondo.
Un pugno nella pancia e il camionista si sarebbe ritrovato a contorcersi
sul pavimento, ma il solo fatto di averlo pensato rattristò Rick. I titoli dei
giornali - ma perché si preoccupava tanto dei titoli? - sarebbero stati splendidi. "Dockery si azzuffa con i camionisti." E chiunque avesse letto l'articolo naturalmente avrebbe fatto il tifo per i camionisti. Charley Cray avrebbe avuto una giornata campale.
Rick sorrise al suo tovagliolino e si morse la lingua.
«Perché non ti trasferisci a Denver? Scommetto che là ti adorano.» Altre
risate.
Rick aggiunse qualche numero insensato ai suoi conti, fingendo di non
sentire. Finalmente il camionista si allontanò, con un'andatura piuttosto
tronfia adesso. Non capitava tutti i giorni l'occasione di umiliare un quarterback dell'NFL.
Prese la I-71 sud in direzione di Columbus, la città dei Buckeyes. Lì non
molti anni prima, davanti a centomila tifosi, in uno splendido pomeriggio
d'autunno aveva fatto quattro passaggi da touchdown e aperto la difesa
come un chirurgo. Miglior giocatore della settimana. Altri onori sarebbero
sicuramente seguiti. Il futuro allora era così brillante da accecarlo.
Tre ore dopo si fermò a fare benzina e vide, poco lontano, un motel nuovo. Aveva guidato abbastanza. Si lasciò cadere sul letto con l'idea di dormire per giorni, ma squillò il cellulare.
«Dove sei?» domandò Arnie.
«Non lo so. London.»
«Cosa? Dove?»
«London, Kentucky.»
«Parliamo di Parma» disse Arnie, pratico e deciso. C'era qualcosa in
pentola.
«Mi sembrava che fossimo d'accordo di parlarne più tardi.» Rick si
strinse tra le dita l'attaccatura del naso e allungò lentamente le gambe.
«Adesso è più tardi. Vogliono una decisione.»
«Okay. Dammi i dettagli.»
«Ti danno tremila euro al mese per sei mesi, più l'appartamento e la
macchina.»
«Cos'è un euro?»
«È la moneta che usano in Europa. Ci sei? Vale circa un terzo più del
dollaro al giorno d'oggi.»
«Quindi quanto sarebbe? Qual è l'offerta?»
«Circa quattromila dollari al mese.»
Le cifre si impressero rapidamente perché erano bassissime. «Il quarterback prende ventiquattromila dollari? Allora quanto danno a un lineman?»
«Chi se ne frega. Tu non sei un lineman.»
«Semplice curiosità. Come mai sei così nervoso?»
«Perché sto investendo troppo tempo su questa storia. Ho anche altre
trattative da chiudere. Lo sai anche tu com'è frenetica l'attività a fine stagione.»
«Mi stai scaricando, Arnie?»
«Naturalmente no. È solo che penso davvero che dovresti andartene
all'estero per un po', ricaricare le batterie, permettere al povero, vecchio
cervello di riprendersi. E lasciarmi un po' di tempo per valutare i danni qui
a casa.»
I danni. Rick cercò di mettersi a sedere, ma niente nel corpo collaborò.
Ogni osso e muscolo dalla cintura in su era danneggiato. Se Collins non
avesse sbagliato il blocco, Rick non sarebbe stato fatto a pezzi. I lineman,
gli uomini della linea difensiva... O si amano o si odiano. «Quanto prendono i lineman?»
«Niente. I lineman sono italiani e giocano solo perché amano il football.»
In Italia gli agenti devono morire di fame, pensò Rick. Prese un respiro
profondo e cercò di ricordare l'ultimo giocatore di sua conoscenza che giocasse solo per amore del football. «Ventiquattromila» mormorò.
«Che sono ventiquattromila più di quelli che stai guadagnando al momento» gli ricordò Arnie piuttosto crudelmente.
«Grazie, Arnie. So di poter sempre contare su di te.»
«Stammi a sentire, ragazzo: prenditi un anno di pausa. Vai a vedere l'Europa. Dammi un po' di tempo.»
«Com'è il football laggiù?»
«Chi se ne frega. Tu sarai la star. Tutti i quarterback sono americani, ma
sono tipi da college che non sono mai neanche andati vicino al draft. I Panthers sono eccitati alla sola idea che tu stia prendendo in considerazione
l'offerta.»
Qualcuno era eccitato al pensiero di averlo. Che idea piacevole. Ma cosa
avrebbe detto alla sua famiglia e ai suoi amici?
Quali amici? Nel corso dell'ultima settimana se ne erano fatti vivi esattamente due.
Dopo una pausa, Arnie si schiarì la voce e disse: «C'è anche un'altra cosa».
A giudicare dal suo tono, non poteva essere buona. «Ti ascolto.»
«A che ora te ne sei andato oggi dall'ospedale?»
«Non ricordo. Più o meno verso le nove.»
«Allora devi averlo incrociato nel corridoio.»
«Chi?»
«Un investigatore. La tua amica cheerleader è tornata, Rick. È molto incinta e si è trovata degli avvocati, degli esseri viscidi che vogliono fare un
po' di chiasso e vedere la loro foto sul giornale. Mi stanno telefonando con
ogni tipo di richiesta.»
«Quale cheerleader?» domandò Rick, mentre nuove ondate di dolore gli
artigliavano spalle e collo.
«Tiffany Qualcosa.»
«Assolutamente no, Arnie. È andata a letto con metà dei Browns. Perché
ce l'ha proprio con me?»
«Sei andato a letto con lei?»
«Naturalmente, ma era il mio turno. Se vuole un milione di dollari, perché prendersela con me?»
Un'eccellente domanda da parte del giocatore meno pagato della squadra. Arnie aveva sottolineato la stessa cosa discutendo con gli avvocati di
Tiffany.
«È possibile che sia tu il padre?»
«Assolutamente no. Sono stato attento. Bisogna esserlo.»
«Be', Tiffany non può divulgare la notizia finché non ti notifica la citazione, e se non ti trova non te la può notificare.»
Rick lo sapeva. Gli erano già state notificate citazioni in passato. «Me ne
starò nascosto in Florida per un po'. Non riusciranno a trovarmi laggiù.»
«Non ci scommettere. Quegli avvocati sono parecchio aggressivi. E cercano pubblicità. Ci sono molti modi per rintracciare una persona.» Una
pausa, poi l'esca: «Però, amico, non ti possono notificare niente in Italia».
«Non sono mai stato in Italia.»
«Allora è il momento di andarci.»
«Lascia che ci dorma sopra.»
«Certo.»
Rick si appisolò rapidamente, dormì sodo per dieci minuti, ma poi un incubo lo svegliò di colpo. Le carte di credito si lasciano dietro una pista.
Distributori, motel, tavole calde... Ogni esercizio commerciale è collegato
a una vasta rete di informazioni elettroniche che vengono trasmesse intorno al mondo in una frazione di secondo. Di sicuro da qualche parte c'era
un genio del computer in grado di entrare nel sistema e, dietro lauto compenso, individuare la pista e mandare all'inseguimento i segugi con una
copia della citazione per paternità di Tiffany. Altri titoli sui giornali. Altri
guai legali.
Rick afferrò il borsone ancora chiuso e lasciò il motel. Guidò per un'ora
stordito dai farmaci e trovò un albergaccio a buon mercato con camere a
ore o a notte, pagamento in contanti. Si gettò sul letto polveroso e si addormentò subito, russando rumorosamente e sognando torri pendenti e rovine romane.
4
Seduto su una dura poltroncina di plastica della stazione, coach Russo
leggeva la "Gazzetta di Parma" e aspettava paziente. Odiava dover ammettere di essere un po' nervoso. Aveva parlato solo una volta al telefono con
il suo nuovo quarterback, che in quel momento si trovava in un campo da
golf da qualche parte in Florida, e la conversazione aveva lasciato a desiderare. Dockery era sembrato riluttante all'idea di giocare a Parma, anche
se la prospettiva di passare qualche mese all'estero lo attraeva. Dockery
sembrava riluttante a giocare da qualsiasi parte. Il tema del "Più Grande
Cane di Tutti i Tempi" si era diffuso ovunque e Rick era ancora il soggetto
di molte battute. Era un giocatore di football e aveva bisogno di giocare, e
tuttavia non era sicuro di voler più vedere un altro pallone.
Dockery aveva detto di non sapere una parola di italiano, ma di avere
studiato spagnolo al liceo. Stupendo, aveva pensato Russo, nessun problema.
Sam non aveva mai allenato un quarterback professionista. L'ultimo che
aveva avuto in squadra aveva giocato un po' alla University of Delaware.
Come si sarebbe inserito Dockery? I ragazzi erano eccitati all'idea di avere
un talento del genere tra loro, ma lo avrebbero accettato? L'atteggiamento
del nuovo quarterback avrebbe avvelenato lo spogliatoio? E Rick si sarebbe dimostrato alienabile?
L'Eurostar proveniente da Milano entrò in stazione, puntuale come sempre. Le porte si aprirono e i passeggeri cominciarono a riversarsi sul primo
binario. Era metà marzo e la maggior parte della gente indossava pesanti
capi scuri, ancora infagottata per l'inverno in attesa di un clima più mite. E
poi ecco Dockery, fresco dalla Florida meridionale con una ridicola abbronzatura e un abbigliamento adatto a un cocktail estivo al Country Club:
giacca sportiva di lino color crema, camicia giallo limone a motivi tropicali, calzoni sportivi bianchi che finivano all'altezza delle caviglie abbronzate
senza calzini, sottili mocassini di coccodrillo, più beige che marroni. Dockery stava lottando con due identiche, mostruose valigie a rotelle, ma
l'impresa era resa quasi impossibile dall'ingombrante sacca dei bastoni da
golf a tracolla sulla schiena.
Il quarterback era arrivato.
Sam osservò la scena e capì istantaneamente che Dockery non era mai
salito su un treno in vita sua. Gli si avvicinò e gli disse: «Rick. Io sono
Sam Russo».
Un mezzo sorriso, mentre Dockery sollevava le valigie e si risistemava i
bastoni sulla schiena. «Salve, coach.»
«Benvenuto a Parma. Lascia che ti dia una mano.» Sam afferrò una delle
valigie. Cominciarono ad attraversare la stazione.
«Grazie. Fa parecchio freddo qui.»
«Di certo più che in Florida. Com'è andato il volo?»
«Benissimo.»
«Giochi parecchio a golf, vero?»
«Certo. Quand'è che comincerà a fare più caldo?»
«Tra circa un mese.»
«Ci sono molti campi da golf nei dintorni?»
«Mai visto uno.»
Usciti dalla stazione, si fermarono accanto alla piccola Honda di Russo.
«È questa?» domandò Rick, mentre si guardava intorno e notava che anche tutte le altre auto erano molto piccole.
«Metti la sacca sul sedile posteriore» disse il coach. Aprì il portabagagli
e riuscì a sistemare una valigia nello spazio ristretto. L'altra non ci stava e
così finì sul sedile posteriore, sopra i bastoni da golf. «Per fortuna non ho
portato nient'altro» borbottò Rick, salendo in auto. Con il suo metro e ottantanove, si ritrovò con le ginocchia contro il cruscotto. Il sedile si rifiutava di scivolare indietro per via dei bastoni da golf.
«Qui hanno tutti macchine piuttosto piccole» osservò.
«Già. La benzina costa un dollaro e settanta al litro.»
«E quanto costa un gallone?»
«Qui non hanno i galloni. Hanno i litri.» Sam inserì la marcia e si allontanò dalla stazione.
«Okay, allora quanto costa un gallone?» insistette Rick.
«Be', un litro è più o meno un quarto di gallone.»
Rick rifletté sulla risposta mentre guardava dal finestrino gli edifici allineati lungo strada Garibaldi. «Okay. Quanti quarti ci sono in un gallone?»
«Che college hai frequentato?»
«E tu?»
«Bucknell.»
«Mai sentito nominare. Giocano a football?»
«Certo, però è roba piccola. Niente a che vedere con la Big Ten. In un
gallone ci sono quattro quarti, perciò un gallone qui in Italia costa quasi
sette dollari.»
«Questi edifici sono davvero molto vecchi» osservò Rick.
«Non chiamano l'Europa il vecchio continente per niente. In cosa ti sei
laureato al college?»
«Educazione fisica. Cheerleader.»
«Hai studiato molta storia?»
«Odiavo la storia. Perché?»
«Parma è stata fondata duemila anni fa e ha una storia molto interessante.»
«Parma» ripeté Rick, che sospirò e riuscì ad abbassarsi sul sedile di un
paio di centimetri, come se la sola menzione della città significasse sconfitta. Si frugò nella tasca della giacca e prese il cellulare, che però non aprì.
«Cosa diavolo ci faccio io a Parma, Italia?» domandò, anche se era più una
dichiarazione che una domanda.
Sam pensò che fosse meglio non rispondere e decise di trasformarsi in
guida. «Questo è il centro della città, la parte più antica. È la prima volta
che vieni in Italia?»
«Sì. Quello cos'è?»
«Si chiama Palazzo della Pilotta. Cominciato quattrocento anni fa, mai
terminato e poi spianato dalle bombe degli Alleati nel 1944.»
«Noi abbiamo bombardato Parma?»
«Noi abbiamo bombardato tutto, perfino Roma, però abbiamo lasciato in
pace il Vaticano. Gli italiani, come forse ricorderai, avevano un capo che si
chiamava Mussolini, il quale aveva stretto un patto con Hitler. Non proprio
una buona mossa, anche se bisogna dire che gli italiani non si erano mai
scaldati troppo all'idea della guerra. Se la cavano molto meglio con la cucina, il vino, le auto sportive, la moda e il sesso.»
«Forse questo posto mi piacerà.»
«Puoi scommetterci. E amano l'opera. Quello laggiù, a destra, è il Teatro
Regio. Sei mai stato all'opera?»
«Oh, sicuro. Ci crescono a pane e opera nell'Iowa. Ho passato la maggior parte della mia infanzia all'opera. Mi stai prendendo in giro? Perché
mai dovrei andare all'opera?»
«Quello è il duomo» annunciò Sam.
«Il cosa?»
«Il duomo, la cattedrale. Pensa al dome, come il Superdome, il Carrier
Dome.»
Rick non rispose e rimase in silenzio per un momento, come se il ricordo
dei domes, degli stadi e dei relativi sport lo mettesse a disagio. Adesso erano nel vero centro di Parma, con un mucchio di pedoni e le auto che procedevano paraurti contro paraurti.
«La maggior parte delle città italiane si sviluppa intorno a una piazza
centrale» riprese Sam. «Questa è piazza Garibaldi, con moltissimi negozi,
caffè e pedoni. Gli italiani passano parecchio tempo seduti nei bar all'aperto, sorseggiando caffè e leggendo il giornale. Non è una brutta abitudine.»
«Io non bevo caffè.»
«È ora che cominci.»
«Cosa pensano gli italiani degli americani?»
«Gli piacciamo, immagino. Non che si soffermino molto sull'argomento.
Se ci riflettono sopra, probabilmente disapprovano il nostro governo, ma
parlando in generale non potrebbe importargliene di meno. Comunque adorano la nostra cultura.»
«Anche il football?»
«In una certa misura. Laggiù c'è un bellissimo barettino. Vuoi bere qualcosa?»
«No, è troppo presto.»
«Niente di alcolico. Un bar in Italia è come un piccolo pub o un caffè, un
posto per socializzare.»
«Un'altra volta.»
«Comunque il centro della città è dove si svolge tutto. Il tuo appartamento è appena a qualche via di distanza.»
«Non vedo l'ora. Ti dispiace se faccio una telefonata?»
«Prego» rispose Sam in italiano.
«Come?»
«Prego. Vuol dire fai pure.»
Rick digitò il numero, mentre Sam manovrava nel traffico del tardo pomeriggio. Quando guardò fuori dal finestrino, Sam premette un pulsante e
in sottofondo, a basso volume, si sentì qualcosa di operistico. Chiunque
Rick stesse cercando di chiamare, era irraggiungibile. Il quarterback non
lasciò messaggi in segreteria, richiuse il telefonino e se lo rimise in tasca.
Probabilmente il suo agente, pensò Sam. O forse la fidanzata.
«Hai una ragazza?» domandò.
«Nessuna in particolare. Un mucchio di tifose, ma sono stupide come
capre. E tu?»
«Sposato da undici anni, niente figli.»
Attraversarono il ponte Verdi. «Questo è il torrente Parma. Divide in
due la città.»
«Bello.»
«Davanti a noi c'è il Parco Ducale, il parco più grande della città. È molto bello. Gli italiani sono grandiosi con i parchi, la paesaggistica e cose del
genere.»
«Sì, è bello.»
«Mi fa piacere che approvi. È un posto splendido per fare una passeggiata, portarci una ragazza, leggere un libro, distendersi al sole.»
«Non ho mai passato molto tempo nei parchi.»
Sai che sorpresa.
Invertirono la marcia, riattraversarono il fiume e poco dopo sfrecciavano
lungo stradine strette a senso unico. «Praticamente hai già visto la maggior
parte del centro di Parma» disse Sam.
«Bello.»
A qualche isolato a sud del parco si immisero in una strada tortuosa, via
Linati. «Ecco» annunciò Russo, indicando una lunga fila di edifici a quattro piani, ognuno dei quali di colore diverso. «Il secondo palazzo, quello
color similoro. Il tuo appartamento è al terzo piano. Questo è un bel quartiere. Il signor Bruncardo, il proprietario della squadra, è proprietario anche di qualche palazzo. È per questo che ti ritrovi ad abitare in centro, questa è la zona più costosa.»
«Davvero gli altri giocano gratis?» chiese Rick, che aveva riflettuto su
un accenno in una precedente conversazione.
«Gli americani vengono pagati: tu e gli altri due, solo tre americani
quest'anno. Nessuno prende quanto te. E sì: gli italiani giocano per sport. E
per la pizza dopo la partita.» Una pausa e poi aggiunse: «Quei ragazzi ti
piaceranno». Era il primo tentativo di Sam di suscitare spirito di squadra.
Se il quarterback non era felice, allora ci sarebbero stati parecchi problemi.
In qualche modo riuscì a incastrare la Honda in uno spazio che sembrava
essere la metà dell'auto e poi aiutò Rick a trasportare nell'appartamento
bagaglio e bastoni da golf. Non c'era ascensore, ma la scala era più ampia
del solito. L'appartamento, arredato, consisteva in tre locali: camera da letto, soggiorno, una piccola cucina. Dato che il suo nuovo quarterback veniva dall'NFL, il signor Bruncardo aveva tirato fuori i soldi per imbiancatura, tappeti, tende e nuovo arredamento del soggiorno. C'erano addirittura
alcuni coloratissimi quadri moderni appesi alle pareti.
«Non male» commentò Rick, e Russo si sentì sollevato. Conosceva la
realtà del mercato immobiliare urbano in Italia: gli appartamenti erano per
lo più piccoli, vecchi e costosi. Se il quarterback fosse rimasto deluso, lo
sarebbe stato anche il signor Bruncardo. Le cose si sarebbero complicate.
«Sul mercato quest'appartamento costerebbe duemila euro al mese» disse Sam, cercando di fare colpo.
Rick posò con cura i bastoni da golf sul divano. «Carino» ribadì. Non
riusciva a ricordare il numero di appartamenti nei quali era passato nel corso degli ultimi sei anni. I continui, spesso affrettati traslochi avevano annullato qualsiasi capacità di valutazione di metri quadrati, arredamento e
sistemazione.
«Perché adesso non ti cambi? Io ti aspetto giù» disse Sam.
Rick abbassò lo sguardo sui suoi pantaloni bianchi e le caviglie abbronzate e fu sul punto di dire: "Oh, sto bene così", ma poi colse il suggerimento e rispose: «Certo, dammi cinque minuti».
«C'è un caffè due isolati più giù, sulla destra. Ti aspetto a un tavolo fuori.»
«Certo, coach.»
Russo ordinò un caffè e aprì il giornale. Il tempo era freddo e umido e il
sole si era già tuffato dietro i palazzi. Gli americani attraversavano sempre
un breve periodo di shock culturale. La lingua, le auto, le strade strette, le
abitazioni più piccole, il confinamento delle città. Era troppo da assimilare,
specie per ragazzi provenienti dalla classe media o bassa che non avevano
mai viaggiato molto. Nei suoi cinque anni come coach dei Panthers, Sam
aveva conosciuto un solo giocatore americano che fosse già stato in Italia
prima di entrare nella squadra.
Di solito due dei tesori nazionali dell'Italia riuscivano a rianimarli: la cucina e le donne. Coach Russo non si immischiava con la seconda parte, ma
conosceva bene il potere della cucina italiana. Mr Dockery stava per affrontare una cena di quattro ore e non aveva idea di ciò che lo stava aspettando.
Rick arrivò dieci minuti dopo, con il cellulare in mano, naturalmente, e
un aspetto molto migliore. Blazer blu scuro, jeans sbiaditi, calzini scuri e
scarpe.
«Caffè?» gli chiese Sam.
«Una Coca, grazie.»
Russo ordinò al cameriere.
«E così parli italiano, eh?» fece Rick, mettendosi il telefonino in tasca.
«Vivo qui da cinque anni. E mia moglie è italiana, te l'ho detto.»
«Gli altri yankee imparano la lingua?»
«Qualche parola, specialmente le voci sul menu.»
«Sono curioso: come si suppone che chiami i play nell'huddle?»
«Lo facciamo in inglese. Certe volte gli italiani capiscono e certe volte
no.»
«Esattamente come al college» disse Rick, e risero tutti e due. Rick bevve un sorso di Coca e poi aggiunse: «Be', io non ho intenzione di preoccuparmi della lingua. Troppo complicato. Quando giocavo in Canada c'erano
moltissimi francesi, ma questo non ci rallentava. Tutti parlavano anche inglese».
«Qui non tutti parlano inglese, questo te l'assicuro.»
«Sì, ma tutti parlano American Express, e bigliettoni verdi.»
«Forse. Ma non è una brutta idea studiare la lingua. La vita sarebbe più
facile e i tuoi compagni di squadra si affezionerebbero a te.»
«Affezionare? Hai detto affezionare? Io non mi sono più affezionato a
un compagno di squadra dai tempi del college.»
«Qui è esattamente come al college: una grande confraternita di ragazzi
ai quali piace mettersi in tenuta da gioco, azzuffarsi per un paio d'ore e poi
andare a bere una birra insieme. Se ti accetteranno, e sono sicuro che lo faranno, allora saranno disposti anche a uccidere per te.»
«Sanno della... uh, della mia ultima partita?»
«Non gliel'ho chiesto, ma sono sicuro che alcuni ne sono al corrente.
Adorano il football e guardano un mucchio di partite in Tv. Ma non preoccuparti: sono felicissimi che tu sia qui. Quei ragazzi non hanno mai vinto il
Super Bowl e sono convinti che questo sia l'anno buono.»
Passarono tre signorine che richiamarono la loro attenzione. Quando furono fuori vista, Rick fissò la strada e sembrò perdersi in un altro mondo.
A Sam il nuovo quarterback era simpatico e gli dispiaceva per lui. Dockery era stato sepolto da una valanga di ridicolo mai vista prima nel football professionistico e adesso si ritrovava lì, a Parma, solo e confuso.
Parma era il posto che gli spettava, almeno per il momento.
«Ti va di andare a vedere il campo?» gli chiese.
«Certo, coach.»
Mentre si avviavano a piedi, Russo indicò un'altra strada. «Laggiù c'è un
negozio di abbigliamento maschile, hanno cose bellissime. Dovresti andare
a dare un'occhiata.»
«Ho portato parecchia roba con me.»
«Come dicevo, dovresti andare a dare un'occhiata. Gli italiani sono molto eleganti e ti osserveranno con attenzione, donne e uomini. Non si è mai
troppo ben vestiti qui.»
«Lingua, abiti... nient'altro, coach?»
«Sì, un piccolo consiglio. Cerca di divertirti qui a Parma. È una città antica e meravigliosa e tu ti tratterrai solo per poco tempo.»
«Certo, coach.»
5
Lo stadio Lanfranchi si trova nella parte nordoccidentale di Parma, ancora in città, ma lontano dai palazzi antichi e dalle stradine strette del centro.
In realtà è un campo da rugby dove giocano due squadre professioniste e
che i Panthers affittano per il football. Ha gradinate coperte su due lati, una
tribuna stampa e un terreno di gioco di erba vera molto ben tenuto, nonostante il traffico pesante di tre squadre.
Il calcio si gioca al Tardini, uno stadio molto più grande che dista circa
un chilometro e mezzo e si trova nella zona sudest della città. Ed è lì che le
folle si riuniscono per celebrare l'attuale ragione di vita dell'Italia. Non che
ci sia molto da celebrare, dato che il modesto Parma riesce a malapena a
tenersi aggrappato alla prestigiosa serie A. Tuttavia il Parma continua a richiamare i suoi fedeli: circa trentamila tifosi abituati da sempre a soffrire si
presentano allo stadio partita dopo partita, anno dopo anno, con una devozione quasi religiosa.
Si tratta in pratica di ventinovemila spettatori in più di quelli che in genere assistono alle partite dei Panthers al Lanfranchi. Lo stadio ha tremila
posti, ma è raro che venda tutti i biglietti. In realtà non c'è niente da vendere. L'ingresso è libero.
Mentre le ombre si allungavano, Rick Dockery vagava lentamente a metà campo, le mani nelle tasche dei jeans, il passo svagato di un uomo in un
altro mondo. Ogni tanto si fermava e premeva con forza il piede per controllare il terreno. Non era più entrato in un campo da quell'ultimo giorno a
Cleveland.
Seduto nella quinta fila di gradinata dietro la panchina di casa, Sam osservava il suo quarterback e si chiedeva su cosa stesse meditando.
Rick stava pensando a un suo ritiro estivo di non molti anni prima, una
breve, ma brutale ordalia in una squadra professionista, non ricordava esattamente quale. Quell'estate il ritiro si era tenuto in un piccolo college con
un campo simile a quello che stava esaminando adesso. Un minuscolo
college di terza divisione, con gli inevitabili dormitori, spogliatoi e mensa
spartani, il tipo di posto che molte squadre dell'NFL sceglievano in modo
da rendere il ritiro estivo più duro e austero possibile.
E stava pensando al liceo. Alla Davenport South aveva giocato ogni partita davanti a un pubblico più numeroso di quello di Parma, sia in casa che
in trasferta. Al terzo anno di liceo, aveva perso le finali dello Stato davanti
a undicimila spettatori, pochi forse secondo gli standard texani, ma comunque una folla enorme per il football del liceo nell'Iowa.
Al momento, però, la Davenport South era lontanissima, così come erano lontanissime molte cose che un tempo erano sembrate importanti. Rick
si fermò nell'end zone e studiò i pali delle porte, che gli sembrarono strani.
Erano alti, verniciati in azzurro e giallo, conficcati nel terreno e rivestiti da
un'imbottitura di protezione verde che reclamizzava la Heineken. Rugby.
Rick salì qualche scalino e si sedette accanto al suo coach, che gli chiese: «Allora, cosa ne pensi?»
«Bel campo, ma manca qualche iarda.»
«Dieci, per l'esattezza. Le porte distano centodieci iarde, ma ce ne servono venti per le due end zone. Perciò giochiamo su quello che resta, vale
a dire novanta iarde. Quasi tutti i campi su cui giochiamo sono stati pensati
per il rugby, perciò dobbiamo arrangiarci.»
Rick sorrise.
«Non è proprio come lo stadio dei Browns a Cleveland» aggiunse Sam.
«Grazie a Dio. Non mi è mai piaciuta Cleveland, non mi è mai piaciuta
la città, la squadra e non mi sono mai piaciuti neppure i tifosi. E odiavo
anche lo stadio: vicino al lago Erie, venti tremendi, terreno duro come cemento.»
«Qual è stata la tua fermata migliore?»
Rick emise un grugnito, rise e rispose: «Fermata. Ottima definizione. Mi
sono fermato qua e là, ma non ho mai trovato un posto mio. Dallas, forse.
Preferisco i climi caldi».
Il sole se n'era quasi andato e l'aria cominciava a farsi più fredda. Rick
infilò le mani nelle tasche dei jeans e domandò: «Parlami del football in Italia. Com'è la storia?».
«Le prime squadre sono nate una ventina d'anni fa e il football si è diffuso subito in maniera pazzesca, soprattutto qui nel Nord. Il Super Bowl del
1990 ha richiamato ventimila spettatori, l'anno scorso invece moltissimi di
meno Poi per una qualche ragione c'è stato un declino, ma adesso il football è di nuovo in crescita. Ci sono nove squadre in serie A, circa venticinque in serie B e un campionato di flag football per i ragazzini.»
Un'altra pausa mentre Rick si risistemava le mani nelle tasche. I due mesi passati in Florida gli avevano dato un'abbronzatura intensa, ma una pelle
sottile. L'abbronzatura stava già sbiadendo. «Quanti tifosi vengono a vedere i Panthers?»
«Dipende. Non vendiamo biglietti, quindi nessuno tiene il conto. Forse
un migliaio. Quando arriva Bergamo, facciamo il tutto esaurito.»
«Bergamo?»
«I Lions di Bergamo, gli eterni campioni.»
Rick sembrò divertito. «Lions e Panthers... tutte le squadre hanno nomi
da NFL?»
«No. Abbiamo anche i Warriors di Bologna, i Gladiatori di Roma, i Briganti di Napoli, i Giants di Bolzano, i Rhinos di Milano, i Lazio Marines e
i Dolphins di Ancona.»
Rick ridacchiò sentendo i nomi. Era un flashback del trofeo Pop Warner
per bambini a Davenport, con le squadre della sua lega che avevano nomi
come Scrappers, Rogues, Bulldog e Dukes.
«Cosa c'è da ridere?» gli chiese Sam.
«Niente. Mi sto solo chiedendo dove mi trovo.»
«È normale. Ma lo shock si esaurisce in fretta. Una volta che avrai indossato casco e paraspalle e che avrai cominciato a colpire, ti sentirai a casa.»
Io non colpisco, avrebbe voluto dire Rick, ma lo tenne per sé. «Quindi la
squadra da battere è Bergamo?»
«Oh, sì. Hanno vinto otto Super Bowl di fila e non perdono da sessantuno partite.»
«Il Super Bowl italiano. Non posso credere di essermelo perso.»
«Se l'è perso anche un mucchio di altra gente. Nelle pagine sportive noi
veniamo per ultimi, dopo il nuoto e il motocross. Però il Super Bowl viene
trasmesso in televisione. Da una delle emittenti meno importanti.»
Dato che era ancora terrorizzato all'idea che i suoi amici venissero a sa-pere che giocava in un campionato dilettantistico in Italia, la prospettiva di
non avere né stampa, né televisione a Rick sembrò molto gradevole. A
Parma non cercava gloria, ma solo un modesto assegno in attesa con Arnie
di un miracolo in patria. Non voleva che nessuno sapesse dove si trovava.
«Quando ci alleniamo?»
«Ci troviamo sul campo ogni lunedì, mercoledì e venerdì, alle otto di sera. I ragazzi hanno tutti lavori veri.»
«Che genere di lavori?»
«Di ogni tipo. Pilota di linea, ingegnere, diversi camionisti, agente immobiliare, impresari edili. Uno è proprietario di un negozio di formaggi,
un altro gestisce un bar, poi c'è un dentista e due o tre che lavorano in palestra. Due muratori e un paio di meccanici.»
Rick rifletté per un po'. I pensieri erano lenti, lo shock andava sfumando.
«Che tipo di attacco?»
«Cerchiamo di stare sul semplice. Formazione Power I, ricevitori in movimento e molti cambi di direzione. L'anno scorso il nostro quarterback
non sapeva lanciare e questo limitava parecchio l'attacco.»
«Il quarterback non sapeva lanciare?»
«Be', lo faceva, ma non molto bene.»
«Abbiamo un runner?»
«Oh, sì: Slidell Turner. Un ragazzino nero molto tosto da Colorado State, ultima scelta dei Colts tre anni fa, poi l'hanno tagliato: troppo piccolo.»
«Quanto piccolo?»
«Un metro e settantatré per ottanta chili. Troppo piccolo per l'NFL, ma
perfetto per i Panthers. Qui hanno dei problemi a fermarlo.»
«Ma cosa diavolo ci fa qui a Parma, un ragazzino nero che viene da Colorado State?»
«Gioca a football e aspetta la telefonata dagli Stati Uniti. Esattamente
come te.»
«Ho un buon recevitore?»
«Sì, Fabrizio, un italiano. Ottime mani, ottimi piedi, ego enorme. È convinto di essere il più grande giocatore italiano di football di tutti i tempi.
Difficile da gestire, ma non è un cattivo ragazzo.»
«È in grado di prendere i miei lanci?»
«Ne dubito. Ci vorrà molto allenamento. Ti prego soltanto di non uccidermelo il primo giorno.»
Rick si alzò in piedi di scatto e disse: «Ho freddo, muoviamoci».
«Vuoi vedere lo spogliatoio?»
«Certo, perché no?»
C'era un edificio appena oltre l'end zone settentrionale. Mentre Sam e
Rick si avviavano in quella direzione, un treno passò ruggendo a un tiro di
schioppo dallo stadio. L'interno del lungo edificio piatto era decorato da
decine di manifesti pubblicitari degli sponsor. Le squadre di rugby occupavano la maggior parte dello spazio, ma i Panthers disponevano di una
stanzetta stipata di armadietti e attrezzature varie.
«Cosa te ne pare?» chiese Sam.
«È uno spogliatoio» rispose Rick. Cercò di non fare paragoni, ma per un
attimo non poté fare a meno di pensare ai sontuosi locali negli stadi più
nuovi dell'NFL. Moquette, armadietti di legno abbastanza grandi da ospitare un'utilitaria, poltrone in pelle reclinabili fabbricate su misura per i lineman, box doccia individuali, ognuno dei quali più ampio dell'intero spogliatoio dei Panthers. Oh, be'. Rick si disse che per cinque mesi poteva
sopportare qualsiasi cosa.
«Quello è il tuo» gli disse Sam, indicando un armadietto. Rick si avvicinò alla vecchia gabbia metallica, vuota a eccezione di un casco bianco dei
Panthers appeso a un gancio. Aveva richiesto il numero 8, che infatti si
stagliava sul retro del casco. Misura sette e mezzo. A destra c'era l'armadietto di Slidell Turner. Il nome su quello a sinistra era Trey Colby.
«Chi è?» domandò Rick.
«Colby è il nostro free safety. Ha giocato con gli Ole Miss. Divide l'appartamento con Slidell. Sono gli unici due neri in squadra. Quest'anno abbiamo solo tre americani. L'hanno scorso erano cinque, ma hanno cambiato di nuovo le regole.»
Sopra un tavolo al centro della stanza c'erano due pile ordinate di magliette e pantaloni. Rick esaminò i capi con attenzione. «Roba buona» dichiarò.
«Mi fa piacere che approvi.»
«Prima hai parlato di cenare. Non so bene se sia una cena ciò di cui il
mio stomaco ha bisogno, ma un po' di cibo sarà il benvenuto.»
«Ho il posto giusto per te. È una vecchia trattoria di proprietà di due fratelli. Carlo si occupa della cucina e fa da mangiare, Nino si occupa dei
clienti e si assicura che tutti vengano ben nutriti. Nino è anche il tuo centro. Non restare sorpreso, quando lo vedrai. Probabilmente il tuo centro del
liceo era più grosso di lui, ma Nino sul campo è uno tosto e la sua idea di
divertimento è picchiare sodo un po' di gente per due ore una volta la settimana. È anche l'interprete dell'attacco. Tu chiami lo schema in inglese,
Nino fa una veloce traduzione in italiano e poi sciogliete l'huddle. E, mentre vai verso la linea, preghi che Nino abbia tradotto correttamente. Quasi
tutti gli italiani capiscono i fondamentali in inglese e tendono a seguire subito il primo impulso. Spesso non aspettano la traduzione di Nino. In certe
partite tutta la squadra schizza via in direzioni diverse e tu non hai idea di
cosa stia succedendo.»
«E in quel caso cosa faccio?»
«Corri anche tu come un matto.»
«Dovrebbe essere divertente.»
«Può esserlo. Ma questi ragazzi prendono il football molto seriamente,
specie nel calore della battaglia. Adorano combattere, sia prima del fischio
che dopo. Dicono parolacce, si insultano, lottano e poi si abbracciano e
vanno a bere tutti insieme. Può darsi che un giocatore di nome Paolo venga
a cena con noi questa sera. Parla benissimo inglese. E forse verranno anche
altri due o tre. Sono tutti ansiosi di conoscerti. Nino penserà ai piatti e al
vino, perciò non preoccuparti del menu. Sarà tutto delizioso, fidati.»
6
Arrivarono in auto nei pressi dell'università e parcheggiarono in una delle innumerevoli viuzze strette. Ormai era buio e branchi di studenti sciamavano nelle strade chiacchierando a voce alta. Rick era taciturno e così fu
Sam a farsi carico della conversazione. «Una trattoria, per definizione, è
un locale senza pretese a gestione familiare, con grandi piatti della cucina
locale, ottimi vini e porzioni abbondanti, il tutto non troppo caro. Mi stai
ascoltando?»
«Sì» rispose Rick. Stavano camminando a passo veloce sul marciapiede.
«Hai intenzione di nutrirmi o di uccidermi con le chiacchiere?»
«Sto solo cercando di introdurti alla cultura italiana.»
«È sufficiente che mi trovi una pizza.»
«Dov'ero rimasto?»
«Alla trattoria.»
«Sì, che è diversa da un ristorante, di solito più elegante e costoso. Poi
c'è l'osteria, che tradizionalmente era la sala da pranzo di una locanda, ma
che al giorno d'oggi può significare qualunque cosa. E il bar, di cui abbiamo già parlato. E l'enoteca, che di solito vende e serve vino con spuntini e
piatti più piccoli. Mi pare che sia più o meno tutto.»
«Quindi nessuno ha mai fame in Italia.»
«Vuoi scherzare?»
Sopra la porta d'ingresso c'era una piccola scritta: Café Montana. Dalla
strada, attraverso la vetrata, si vedeva una lunga sala piena di tavoli vuoti,
tutti apparecchiati con tovaglie bianche stirate e inamidate, piatti e tovaglioli azzurri, grandi bicchieri da vino.
«È un po' presto» disse Russo. «La gente comincia ad arrivare verso le
otto. Nino comunque ci sta aspettando.»
«Montana?» domandò Rick.
«Sì, in omaggio a Joe Montana, il quarterback.»
«No!»
«Dico sul serio. Questi ragazzi amano il football. Anni fa giocava anche
Carlo, ma si è rovinato un ginocchio e così adesso si occupa della cucina.
La leggenda dice che detiene ogni record possibile per quanto riguarda i
falli personali.»
Entrarono nel locale e, qualunque cosa Carlo stesse preparando in cucina, li aggredì con forza. L'aroma di aglio, ragù e carne di maiale che friggeva aleggiava nell'aria come fumo. Rick era più che pronto a mangiare.
Nel caminetto quasi in fondo alla sala ardeva il fuoco.
Da una porta laterale entrò Nino, che cominciò a salutare Sam. Un possente abbraccio e un virile, rumoroso bacio da qualche parte nei pressi della guancia destra, stessa cosa per la guancia sinistra. Poi Nino afferrò la
mano destra di Rick con entrambe le sue e disse: «Rick, mio quarterback,
benvenuto a Parma». Rick ricambiò la stretta di mano, pronto però a scattare indietro nel caso fossero ripresi i baci. Non accadde.
L'accento di Nino era marcato, ma le parole erano chiare. Rick suonava
più come Reek.
«Il piacere è mio.»
«Io sono il centro» annunciò orgoglioso Nino. «Ma tu stai attento con le
mani: mia moglie è molto gelosa!» Al che Nino e Sam si piegarono in due
dal ridere. Rick si unì goffamente alla risata.
Nino era alto meno di un metro e ottanta, grosso e in forma, probabilmente intorno ai cento chili. Mentre rideva alla sua stessa battuta, Rick lo
studiò rapidamente e si rese conto che quella poteva essere una stagione
davvero molto lunga. Un centro alto uno e settantotto?
E non era neppure tanto giovane. I capelli scuri e ondulati cominciavano
a mostrare le prime sfumature di grigio sulle tempie. Doveva essere sui
trentacinque anni. Però il mento era forte e in lui c'era una decisa vena selvaggia, di sicuro era un uomo che amava battersi.
"La pelle dovrò salvarmela da solo" pensò tra sé e sé.
Dalla cucina spuntò Carlo, in grembiule bianco inamidato e berretto da
cuoco. Quello sì che era un centro. Un metro e ottantotto, almeno centodieci chili, spalle ampie. Ma una leggerissima zoppia. Salutò Rick con calore e un rapido abbraccio, niente baci. Parlava inglese molto peggio di
Nino e, dopo poche frasi, lasciò perdere e passò all'italiano, lasciando Rick
ad annaspare alla cieca.
Sam fu veloce a intervenire: «Carlo ti dà il benvenuto a Parma e nel suo
ristorante. Non sono mai stati così felici: un vero eroe del Super Bowl americano che gioca con i Panthers. E spera che verrai a mangiare e a bere
spesso nel suo piccolo locale».
«Grazie» disse Rick a Carlo, che gli teneva ancora strette le mani tra le
sue. Carlo riprese a parlare e Sam tradusse: «Dice che il proprietario della
squadra è suo amico e viene spesso a mangiare qui. E che tutta Parma è entusiasta di avere il grande Rick Dockery in maglia nera e argento». Pausa.
Rick disse di nuovo grazie, sorrise con il maggior calore possibile e ripeté mentalmente a se stesso le parole "Super Bowl". Finalmente Carlo lo lasciò andare e cominciò a urlare in direzione della cucina.
Mentre Nino li accompagnava al tavolo, Rick sussurrò a Sam: «Super
Bowl. Da dove salta fuori?».
«Non lo so. Forse ho tradotto male.»
«Splendido. Avevi detto che parli bene italiano.»
«Quasi sempre.»
«Tutta Parma? Il grande Rick Dockery? Ma cos'hai raccontato a questa
gente?»
«Gli italiani esagerano sempre.»
Il tavolo era vicino al caminetto. Nino e Carlo scostarono le sedie per fare accomodare i due ospiti e, prima ancora che Rick potesse sedersi, tre
giovani camerieri in perfetta tenuta bianca calarono su di loro. Il primo con
un grande piatto da portata. Il secondo con un magnum di vino frizzante. Il
terzo con un cestino di pane e due bottiglie: olio d'oliva e aceto. Nino fece
schioccare le dita e indicò qualcosa, mentre Carlo abbaiò a uno dei camerieri, che rispose a tono altrettanto rapidamente. Poi tutti si diressero verso
la cucina, continuando a discutere a ogni passo.
Rick studiò il grande piatto da portata. Al centro c'era un grosso pezzo di
formaggio duro, color paglia, circondato da perfetti anelli di quelli che
sembravano essere affettati. Salumi dall'aspetto appetitoso, diversi da qualsiasi cosa Rick avesse mai visto. Mentre Sam e Nino chiacchieravano in
italiano, un cameriere stappò rapidamente la bottiglia di vino, riempì tre
bicchieri e poi scattò sull'attenti, con il tovagliolo bianco inamidato sul
braccio.
Nino passò i bicchieri e poi sollevò il proprio. «Un brindisi al grande
Rick Dockery e alla vittoria dei Panthers nel Super Bowl.» Sam e Rick
bevvero un sorso, Nino vuotò metà bicchiere. «Questo è un malvasia secco
di una cantina locale» annunciò. «Tutto stasera è originario dell'Emilia.
L'olio d'oliva, l'aceto balsamico, il cibo, il vino... tutto di qui» dichiarò con
orgoglio, dandosi un impressionante pugno sul petto. «La miglior cucina
del mondo.»
Russo si avvicinò a Rick. «Qui siamo nella provincia di Parma, che fa
parte dell'Emilia-Romagna, una delle regioni italiane.»
Rick annuì e bevve un altro sorso. Durante il volo aveva sfogliato una
guida turistica perciò sapeva dove si trovava, più o meno. In Italia c'erano
venti regioni e, in base al suo rapido esame, quasi tutte sostenevano di vantare la migliore cucina e i migliori vini del paese.
Nino bevve un altro sorso e poi si piegò in avanti, unendo la punta di tutte le dita, un professore sul punto di tenere una conferenza già data molte
volte. Con un gesto casuale in direzione del formaggio, cominciò: «Naturalmente sapete che questo è il miglior formaggio al mondo. Il Parmigiano
Reggiano. Quello che voi chiamate parmesan. È il re dei formaggi e viene
prodotto proprio qui: il vero, autentico parmigiano si fa solo nella nostra
piccola città. Questo lo produce mio zio, che vive a quattro chilometri da
dove siete seduti adesso. Il migliore».
Si baciò la punta delle dita e poi staccò con grazia qualche scheggia, che
lasciò sul piatto mentre riprendeva la lezione. «Quello» e indicò il primo
anello di affettato «è il prosciutto, famoso in tutto il mondo. Voi lo chiamate Parma ham. Si fa solo qui, con maiali particolari nutriti a orzo, avena
e il latte residuo della produzione del parmigiano. Il nostro prosciutto non
viene mai cotto» dichiarò in tono grave, agitando un dito in segno di disapprovazione. «Ma viene trattato con sale, aria fresca e molto amore. Diciotto mesi ed è pronto.»
Prese una fettina di pane marrone, su cui versò un poco d'olio d'oliva e
poi posò una fetta di prosciutto e una scheggia di parmigiano. Quando ritenne il tutto perfetto, lo porse a Rick e disse: «Un assaggino». Rick mise
in bocca tutto in un unico boccone, poi chiuse gli occhi e assaporò il momento.
Per uno cui piaceva il McDonald's, i sapori risultarono stupefacenti. Ri-vestirono ogni papilla gustativa e lo spinsero a masticare più lentamente
possibile. Sam stava prendendo una fetta per sé e Nino versava altro vino.
«Buono?» domandò a Rick.
«Oh, sì.»
Nino porse un altro sandwich al suo quarterback e riprese la conferenza:
«E poi abbiamo il culatello, che è fatto con la zampa del maiale, da cui
viene tolto l'osso e di cui si tengono solo le parti migliori, che vengono
trattate con sale, vino bianco, aglio, un mucchio di aromi e poi lavorate a
mano per ore e ore, prima di essere insaccate in una vescica di maiale e
messe a stagionare per quattordici mesi. L'aria dell'estate lo asciuga e l'inverno umido lo mantiene tenero». Mentre parlava, le mani erano in costante movimento: indicando, bevendo, staccando altre scaglie di formaggio,
miscelando con attenzione l'aceto balsamico nella ciotola dell'olio d'oliva.
«Per il culatello usiamo i maiali migliori, piccoli maialini neri con qualche
chiazza rossa, selezionati con cura e nutriti solo con mangimi naturali. Mai
rinchiusi: quei maiali se ne vanno in giro liberamente e mangiano ghiande
e noci.» Nino parlava di quelle creature con una tale deferenza che era difficile credere che stessero per mangiarne una.
Rick non vedeva l'ora di assaggiare il culatello, qualcosa con cui non era
mai entrato in contatto prima. Finalmente, in una pausa nella sua esposizione, Nino gli porse un'altra fetta di pane con una spessa rondella di culatello e, sopra, una scheggia di parmigiano.
«È buono?» domandò, mentre Rick masticava e tendeva la mano per averne ancora.
I bicchieri di vino vennero riempiti di nuovo.
«L'olio d'oliva viene prodotto poco lontano» stava dicendo Nino. «E l'aceto balsamico viene da Modena, cinquanta chilometri più a est. Era la città di Pavarotti, sai. Il miglior aceto balsamico viene da Modena, però a
Parma si mangia meglio.»
L'ultimo anello sul bordo del piatto era salame Felino, fatto praticamente
sul posto, stagionato per dodici mesi, indubbiamente il miglior salame d'Italia. Dopo averlo servito a Sam e a Rick, Nino improvvisamente sfrecciò
verso la porta d'ingresso, da cui stavano entrando altre persone.
Finalmente solo, Rick afferrò un coltello e cominciò a staccare enormi
pezzi di parmigiano. Si riempì il piatto di affettati, formaggio e pane e
mangiò come un disperato.
«Faresti meglio a lasciare un po' di posto» gli consigliò Sam. «Questo è
solo l'antipasto, il preriscaldamento.»
«Alla faccia del preriscaldamento.»
«Sei in forma?»
«Più o meno. Sono centodue chili, circa cinque di troppo. Li perderò.»
«Di sicuro non stasera.»
Due ragazzi grandi e grossi, Paolo e Giorgio, si unirono a loro. Nino li
presentò al nuovo quarterback, insultandoli scherzosamente in italiano. Esauriti abbracci e saluti, i due si misero a sedere e guardarono gli antipasti.
Sam spiegò che erano lineman, in grado di giocare su entrambi i lati, se
necessario. Rick si sentì incoraggiato perché tutti e due erano sui venticinque anni, alti più di un metro e ottanta, con toraci possenti e, all'apparenza,
in grado di sbattere a terra chiunque.
I bicchieri vennero riempiti, il formaggio spezzettato e il prosciutto aggredito.
«Quando sei arrivato?» domandò Paolo. C'era solo una traccia di accento nel suo inglese.
«Oggi pomeriggio» rispose Rick.
«Entusiasta?»
Rick riuscì a rispondere "molto" con una certa convinzione. Era entusiasta all'idea della prossima portata, entusiasta all'idea di incontrare le cheerleader italiane.
Sam spiegò che Paolo si era laureato alla Texas A&M e lavorava nell'azienda di famiglia, che produceva piccoli trattori e attrezzi per l'agricoltura.
«E così sei un Aggie» osservò Rick.
«Sì» confermò Paolo con orgoglio. «Amo il Texas, è là che ho scoperto
il football.»
Giorgio mangiava, ascoltava la conversazione e si limitava a sorridere.
Sam disse che stava studiando inglese, poi sussurrò a Rick che l'aspetto del
ragazzo traeva in inganno, dato che Giorgio non riusciva a bloccare nemmeno una porta. Stupendo.
Carlo tornò, impartendo ordini ai camerieri e risistemando la tavola. Nino si presentò con un'altra bottiglia che, sorpresa, arrivava proprio da dietro l'angolo. Era un lambrusco, un rosso frizzante, e Nino conosceva personalmente il produttore. Spiegò che in tutta l'Emilia-Romagna si produce
dell'ottimo lambrusco, ma quello era il migliore. E si abbinava perfettamente con i tortellini in brodo che suo fratello stava servendo in quel momento. Fece un passo indietro e Carlo attaccò una rapida spiegazione in italiano.
Sam Russo tradusse sottovoce: «Questi sono tortellini, un famoso piatto
regionale. Dentro le palline di pasta c'è un ripieno di carne di manzo, prosciutto e parmigiano; il ripieno varia da una città all'altra, ma naturalmente
la ricetta migliore è quella di Parma. La pasta è stata fatta a mano oggi
pomeriggio da Carlo in persona. La leggenda dice che l'uomo che creò i
tortellini li modellò ispirandosi all'ombelico di una bella donna. Qui abbiamo un mucchio di leggende che riguardano il cibo, il vino e il sesso. Il
brodo naturalmente è di carne, con qualche altro ingrediente». Il naso di
Rick era a pochi centimetri dal piatto e inalava i profumi intensi.
Carlo fece una specie di inchino e poi aggiunse qualcosa. Sam spiegò:
«Dice che queste sono porzioni piccole perché poi ci saranno altri primi».
Alla prima cucchiaiata di tortellini della sua vita, Rick per poco non
pianse. I tortellini che nuotavano nel brodo gli risvegliarono tutti i sensi e
gli provocarono un ruttino. «È la cosa migliore che io abbia mai assaggiato.» Carlo sorrise e si ritirò in cucina.
Rick mandò giù i primi tortellini con un po' di lambrusco, poi attaccò gli
altri che galleggiavano nel piatto fondo. Porzioni piccole? Paolo e Giorgio
si erano fatti silenziosi, concentratissimi sui loro piatti. Solo Sam dava
prova di un certo controllo.
Nino fece accomodare una giovane coppia a un tavolo vicino, poi si precipitò di nuovo da loro con un'altra bottiglia, un favoloso sangiovese rosso
e secco proveniente da un vigneto vicino a Bologna, che Nino andava a visitare una volta al mese per monitorare i progressi dell'uva. «Il prossimo
piatto è un po' più pesante» spiegò, «Perciò il vino deve essere un po' più
forte.» Stappò la bottiglia con un gesto elegante, annusò, alzò gli occhi al
cielo in segno di approvazione e poi cominciò a versare. «Questa è roba
buona» dichiarò, mentre riempiva cinque bicchieri e si serviva una dose un
po' più generosa delle altre. Un altro brindisi, in pratica una maledizione
diretta ai Lions di Bergamo, e poi tutti assaggiarono il vino.
Rick era sempre stato un uomo da birra. Quel tuffo nei vini italiani era
sconcertante, ma anche molto piacevole.
Un cameriere stava raccogliendo i piatti dei tortellini, mentre un altro li
sostituiva con quelli puliti. Carlo marciò verso il tavolo dalla cucina, seguito da due camerieri.
«Questo è il mio piatto preferito» cominciò in inglese, per poi passare
subito alla lingua più familiare. «È un rotolo di pasta ripieno» spiegò Sam,
mentre tutti guardavano ammirati la prelibatezza davanti a loro. «Il ripieno
è fatto con carne di vitello, maiale, fegatini di pollo, salsiccia, ricotta e spi-naci, la pasta è fresca.»
Tutti, tranne Rick, dissero "Grazie" mentre Carlo faceva un altro inchino
e scompariva. Il ristorante ormai era quasi pieno e stava diventando rumoroso. Continuando a mangiare senza perdere un colpo, Rick si sentì incuriosito dalla gente intorno a lui. Gli avventori sembravano essere del posto,
gente che si godeva una cena tipica nel ristorante del quartiere. Negli Stati
Uniti piatti come quelli avrebbero scatenato assalti di clienti entusiasti. Qui
tutti li davano per scontati.
«Vengono molti turisti a Parma?» domandò.
«Non molti» rispose Sam. «Gli americani vanno a Firenze, Venezia e
Roma. In estate ne arriva qualcuno in più, soprattutto europei.»
«Cosa c'è da vedere a Parma?» chiese Rick. La sua guida turistica era
stata piuttosto avara di informazioni sulla città.
«I Panthers!» esclamò Paolo, ridendo.
Rise anche Sam, che bevve un sorso di vino e rifletté per un momento.
«Questa è una bellissima, piccola città di centomila abitanti. Ottima cucina
e ottimi vini, splendida gente che lavora sodo e vive bene. Ma Parma non
richiama molta attenzione. Ed è un bene. Sei d'accordo, Paolo?»
«Sì. Non vogliamo che Parma cambi.»
Rick ne prese un altro boccone e cercò di isolare il sapore della carne di
vitello, ma era impossibile. I diversi tipi di carne, il formaggio e gli spinaci
si fondevano in un unico sapore delizioso. Rick di sicuro non aveva più
fame, ma neppure si sentiva pieno. Erano seduti già da un'ora e mezza, una
cena lunghissima in base ai suoi vecchi standard, ma solo un riscaldamento
a Parma. Imitando gli altri tre, cominciò a mangiare lentamente, molto lentamente. Gli italiani intorno a lui chiacchieravano più di quanto mangiassero e la trattoria era immersa in un basso ronzio. Cenare aveva certamente
a che fare con ottimo cibo, ma era anche un evento sociale.
Ogni pochi minuti Nino passava al tavolo con un veloce «Buono?» rivolto a Rick. Grande, meraviglioso, delizioso, incredibile.
Arrivarono i secondi. I piatti erano completamente coperti - sempre porzioni piccole - dalle cotolette alla parmigiana, un altro famoso piatto locale
e uno dei preferiti dello chef. «Cotolette nello stile di Parma» spiegò Russo. «Le cotolette vengono battute, immerse nell'uovo, fritte in padella e poi
passate al forno con un mix di parmigiano e brodo finché il formaggio non
si scioglie. Il manzo è stato allevato dallo zio della moglie di Carlo, che ha
consegnato la carne nel pomeriggio.» Mentre Carlo spiegava e Sam traduceva, Nino era indaffarato con il vino successivo, un rosso secco del par-migiano. Vennero portati bicchieri puliti ancora più grandi e Nino fece
ruotare il bicchiere, annusò e bevve un sorso. Un altro movimento orgasmico degli occhi e il vino venne dichiarato sensazionale. Veniva prodotto
da un caro amico ed era forse il vino preferito di Nino.
Sam sussurrò: «Parma è famosa per la sua cucina, ma non per i vini».
Rick bevve un sorso, sorrise alla sua cotoletta e giurò che, almeno per il
resto della cena, avrebbe mangiato più lentamente degli italiani. Sam lo
osservava attento, sicuro che lo shock culturale stesse svanendo in quell'inondazione di cibo e vino.
«Mangiate spesso così?» domandò Rick.
«Non tutti i giorni, ma non è nemmeno così insolito» rispose Russo.
«Questi sono tutti piatti tipici di Parma.»
Paolo e Giorgio stavano tagliando le loro cotolette e Rick attaccò lentamente la sua. Le cotolette durarono una mezz'ora, al termine della quale i
camerieri portarono via i piatti vuoti con gesti teatrali. Seguì una lunga
pausa, mentre Nino e i camerieri si occupavano degli altri tavoli.
Il dessert era d'obbligo, perché Carlo aveva preparato il suo dolce speciale, la torta nera, e perché Nino aveva messo da parte un vino molto particolare per l'occasione, un bianco secco frizzante della provincia. Stava
dicendo che la torta nera, creazione di Parma, era a base di cioccolato,
mandorle e caffè e, dato che era appena uscita dal forno, Carlo aveva aggiunto un tocco di gelato alla vaniglia. Nino aveva un minuto a disposizione, così prese una sedia e si unì ai compagni di squadra e all'allenatore per
quell'ultima portata, sempre che dopo gli ospiti non avessero gradito un po'
di formaggio e un digestivo.
Non gradivano. Il ristorante era ancora mezzo pieno, quando Sam e Rick
cominciarono a ringraziare e a cercare di salutare. Abbracci, pacche sulla
schiena, poderose strette di mano, promesse di tornare, altri benvenuto a
Parma, molti ringraziamenti per l'indimenticabile cena... il rituale durò
un'eternità.
Paolo e Giorgio decisero di trattenersi per farsi un altro po' di parmigiano e finire il vino.
«Non mi sento di guidare» disse Sam. «Andiamo a piedi. Casa tua non è
lontana e da lì posso prendere un taxi.»
«Sono ingrassato di cinque chili» disse Rick, gonfiando lo stomaco e seguendo il suo coach a un passo di distanza.
«Benvenuto a Parma.»
7
Il suono del campanello sembrava il lamento acuto e stridulo di un motorino smarmittato. Arrivava in lunghe raffiche e Rick, che non l'aveva mai
sentito, all'inizio non capì cosa fosse, né da dove provenisse. Era tutto molto nebbioso. Dopo la maratona al Montana lui e Sam, per ragioni che non
erano state chiare allora e non lo erano neppure adesso, avevano deciso di
entrare in un pub e farsi un paio di birre. Rick ricordava vagamente di essere entrato nel suo appartamento verso mezzanotte, ma da quel momento
in poi c'era il nulla.
Era disteso sul divano, troppo corto perché uno alto come lui potesse
dormirci comodamente, e mentre ascoltava il misterioso campanello cercò
di ricordare perché mai avesse scelto il soggiorno invece della camera da
letto. Non riusciva a rammentare una sola buona ragione.
«Va bene!» urlò in direzione della porta, quando qualcuno cominciò a
bussare. «Arrivo.»
Era scalzo, ma indossava ancora jeans e maglietta. Si studiò le dita dei
piedi abbronzate e prese atto del fatto che gli girava la testa. Un'altra
scampanellata gracchiante. «Arrivo!» gridò di nuovo. A passo incerto,
raggiunse la porta e la spalancò.
Venne salutato dall'educato "buon giorno" di un uomo basso e tozzo,
con un enorme paio di baffi grigi e un trench marrone sgualcito. Al suo
fianco c'era un giovane poliziotto, elegante nella sua divisa, che lo salutò
con un cenno del capo, ma non disse nulla.
«Buon giorno» disse Rick con tutto il rispetto che riuscì a produrre.
«Il signor Dockery?»
«Sì.»
«Sono della polizia» dichiarò l'uomo in inglese. Dalle profondità del
trench estrasse un documento, lo agitò sotto il naso di Rick e poi lo ricacciò nel suo nascondiglio, con un movimento così casuale da sottintendere
il messaggio "non fare domande". Avrebbe potuto trattarsi di una multa
per divieto di sosta o della ricevuta della lavanderia.
«Ispettore Romo, polizia di Parma» precisò l'uomo attraverso i baffi, che
quasi non si mossero.
Rick guardò Romo, poi l'agente in uniforme e poi di nuovo Romo.
«Okay» riuscì a dire.
«Abbiamo ricevuto una denuncia. Deve venire con noi.»
Rick fece una smorfia e cercò di dire qualcosa, ma d'improvviso avvertì
una densa ondata di nausea rumoreggiargli nell'intestino e pensò di dover
correre via. La nausea passò. Si sentiva le palme delle mani sudate e le ginocchia molli.
«Denuncia?» ripeté incredulo.
«Sì.» Romo annuì con gravità, come se nella sua mente avesse già deciso che Rick era colpevole di qualcosa di molto peggio dell'oggetto, quale
che fosse, della denuncia. «Venga con noi.»
«Dove?»
«Venga con noi. Immediatamente.»
Denuncia? La notte prima il pub era praticamente deserto e lui e Sam,
per quello che poteva ricordare, avevano parlato solo con il barista. Bevendo le loro birre, avevano discusso di football e nient'altro. Una conversazione piacevole, nessuna imprecazione, nessuna rissa con gli altri clienti.
La passeggiata attraverso il centro fino a casa era stata totalmente priva di
eventi. Forse la valanga di pasta e vino l'aveva fatto russare troppo rumorosamente, ma quello non poteva certo essere un reato. Oppure sì?
«Chi ha sporto denuncia?» domandò Rick.
«Glielo spiegherà il giudice. Dobbiamo andare. Per favore, si metta le
scarpe.»
«Mi state arrestando?»
«No. Forse più tardi. Andiamo, il giudice sta aspettando.» Per aumentare
l'effetto, Romo si voltò e mitragliò un po' di serissimo italiano al giovane
poliziotto, che riuscì ad aggrottare ancora di più la fronte e a scuotere la testa, come se la situazione non avesse potuto essere peggiore di così.
I due evidentemente non avevano alcuna intenzione di andarsene senza
il signor Dockery. Le scarpe più vicine erano i mocassini marroni, che
Rick recuperò in cucina. Mentre li calzava, e poi mentre cercava una giacca, si disse che doveva esserci un malinteso. Si lavò rapidamente i denti e
cercò di disperdere gli strati di aglio e di vino stantio. Un'occhiata allo
specchio fu più che sufficiente: di sicuro sembrava colpevole di qualcosa.
Occhi rossi e gonfi, barba di tre giorni, capelli in disordine. Si pettinò senza alcun effetto apparente, poi afferrò il portafoglio, un po' di banconote
americane, le chiavi di casa e il cellulare. Forse era il caso di telefonare a
Sam.
Romo e il suo assistente lo aspettavano pazienti nel corridoio, fumando
entrambi, nessuno dei due con le manette in mano. Tutti e due, inoltre, non
sembravano spinti da un grande desiderio di catturare i criminali. Romo
doveva aver visto troppi telefilm polizieschi e ogni suo movimento sem-brava annoiato e studiato. Indicò il corridoio con un cenno del capo, disse:
«La seguo», lasciò cadere la sigaretta nel portacenere a stelo e poi infilò le
mani nelle tasche del trench. Il poliziotto in uniforme si piazzò davanti
all'indiziato, mentre Romo proteggeva le spalle. Scesero le tre rampe di
scale e uscirono sul marciapiede. Erano quasi le nove di una splendente
mattina di primavera.
C'era un altro poliziotto in attesa accanto a una lucente FIAT berlina,
completa di luci sul tettuccio e la scritta "Polizia" sulle fiancate. L'agente,
che fumava una sigaretta, stava studiando il posteriore di due ragazze che
lo avevano appena superato. Lanciò a Rick un'occhiata di totale disprezzo
e diede un altro tiro.
«Andiamo a piedi» disse Romo. «Non è lontano e mi pare che lei abbia
bisogno di un po' d'aria fresca.»
È vero, pensò Rick. Aveva deciso di collaborare e di segnare qualche
punto a proprio favore con quei poliziotti, aiutandoli a scoprire la verità,
quale che fosse. Con un cenno del capo, Romo indicò la strada e si affiancò a Rick, seguendo il primo agente.
«Posso fare una telefonata?»
«Naturalmente» rispose Romo. «Un avvocato?»
«No.»
Al telefono di Sam rispose la segreteria telefonica. Rick pensò ad Arnie,
ma pensò anche che sarebbe servito a ben poco. Arnie, inoltre, stava diventando sempre più difficile da contattare al telefono.
Continuarono a camminare lungo strada Farini, passando davanti ai piccoli negozi con le porte spalancate e ai caffè all'aperto, dove la gente sedeva quasi immobile con un espresso e il quotidiano del giorno. La testa di
Rick andava schiarendosi e lo stomaco si era assestato. Uno di quei piccoli
caffè molto forti sarebbe stato benvenuto.
Romo si accese un'altra sigaretta, soffiò una nuvoletta di fumo e poi domandò: «Le piace Parma?».
«Non credo proprio.»
«No?»
«No. È il mio primo giorno qui e mi ritrovo in arresto per qualcosa che
non ho fatto. Difficile che mi piaccia questo posto.»
«Non c'è alcun arresto» disse Romo, ondeggiando pesante da un lato
all'altro, come se le ginocchia fossero state sul punto di cedergli. Ogni tre o
quattro passi, la sua spalla toccava il braccio destro di Rick.
«Allora come definisce questa cosa?»
«Il nostro sistema è diverso. Nessun arresto.»
Oh, be', allora questo spiega tutto. Rick si morse la lingua e non fece
commenti. Discutere non sarebbe servito a niente. Non aveva fatto niente
di male e presto quella semplice verità avrebbe risolto tutto. In fin dei conti
non si trovava in una dittatura del terzo mondo, dove ogni tanto arrestavano a caso un po' di gente e la torturavano per qualche mese. Era in Italia,
parte dell'Europa, il cuore della civiltà occidentale. L'opera, il Vaticano, il
Rinascimento, Da Vinci, Armani, la Lamborghini. C'era tutto sulla sua
guida turistica.
E Rick comunque ne aveva passate di peggio. Il suo unico precedente arresto risaliva ai tempi del college, alla primavera del suo primo anno,
quando si era ritrovato membro volenteroso di una banda di ubriachi decisi
a infiltrarsi nel party che una confraternita aveva organizzato fuori dal
campus. Il risultato erano state risse e ossa rotte. La polizia era intervenuta
in forze. Molti dei teppisti erano stati ridotti all'impotenza, ammanettati,
pestati dai poliziotti e infine scaraventati a bordo di un furgone della polizia, dove, per buona misura, erano anche stati manganellati un po'. In carcere, avevano dormito sul pavimento di cemento della cella riservata agli
ubriachi. Quattro degli arrestati erano nella squadra di football degli Hawkeye e le loro disavventure attraverso il sistema legale erano state riportate con grande sensazionalismo da molti giornali.
Oltre all'umiliazione, Rick aveva avuto una sospensione di trenta giorni,
una multa di quattrocento dollari, una tremenda sgridata da suo padre e la
promessa del suo coach che una sola altra infrazione, per quanto minima,
gli sarebbe costata la borsa di studio e l'avrebbe fatto finire o in galera o in
un college di terz'ordine.
Rick era riuscito a vivere i cinque anni seguenti senza neppure una multa
per eccesso di velocità.
Voltarono di colpo in un tranquillo vicolo acciottolato. Un agente, la cui
uniforme era diversa da quella del poliziotto, se ne stava in piedi con aria
benevola accanto a un portone aperto privo di qualsiasi indicazione. Vennero scambiati cenni del capo e qualche parola, poi Rick e i poliziotti varcarono il portone, salirono una scalinata di marmo sbiadito fino al primo
piano ed entrarono in un corridoio lungo il quale si aprivano quelli che erano evidentemente uffici statali. L'arredamento era squallido e sulle pareti, che avevano bisogno di essere imbiancate, si allineava una lunga, triste
fila di ritratti di funzionari pubblici da tempo dimenticati. Romo indicò una
panca di legno e ordinò: «Prego, si accomodi».
Rick ubbidì e riprovò a chiamare Sam. Gli rispose di nuovo la segreteria.
Romo scomparve in uno degli uffici. Sulla porta non compariva alcun
nome, niente che indicasse dove si trovava l'accusato o chi stesse per incontrare. Di sicuro lì dentro non c'era un tribunale: mancavano totalmente
l'attività febbrile e il chiasso prodotto da avvocati frenetici, familiari preoccupati e poliziotti che si scambiavano battute. Una stampante mitragliava in distanza. Si sentivano voci e telefoni che squillavano.
L'agente in uniforme si allontanò da Rick e cominciò a chiacchierare con
la ragazza seduta alla scrivania distante una decina di metri, in fondo al
corridoio. Il poliziotto si dimenticò rapidamente di Rick che, completamente solo e ignorato, avrebbe potuto sparire in tutta tranquillità. Ma perché prendersi il disturbo?
Passarono dieci minuti e l'agente in uniforme se ne andò senza dire una
parola. Anche Romo era scomparso.
Poi la porta si aprì e una donna dall'aria simpatica domandò sorridendo:
«Mr Dockery? Sì? Prego». Con un gesto, invitò Rick a entrare. In quella
che doveva essere un'anticamera c'erano due scrivanie e due segretarie, e
tutte e due sorridevano come se fossero state al corrente di qualcosa che
Rick non sapeva. Una in particolare era molto carina e Rick istintivamente
cercò di pensare a qualcosa da dirle. Ma se poi lei non parlava inglese?
«Solo un momento, per favore» disse la prima impiegata. Rick rimase in
piedi imbarazzato, mentre le due segretarie fingevano di ricominciare a lavorare. Romo evidentemente era uscito da una porta secondaria e senza
dubbio adesso era di nuovo in strada a tormentare qualcun altro.
Rick si voltò e notò una grande porta di legno scuro a due battenti, accanto alla quale c'era un'imponente targa di bronzo che annunciava la presenza di Giuseppe Lazzarino, giudice. Rick si avvicinò, indicò la parola
"Giudice" e, in inglese, domandò: «Cosa vuol dire?».
« Judge» gli rispose la prima impiegata.
D'improvviso la porta si spalancò e Rick si trovò faccia a faccia con il
giudice. «Reek Dockery!» gridò l'uomo, tendendogli la mano destra mentre con la sinistra gli afferrava una spalla, come se non si fossero visti da
anni e anni. E in effetti era così.
«Sono Giuseppe Lazzarino, fullback dei Panthers.» Strinse la mano di
Rick e la scosse con entusiasmo, facendo lampeggiare i grandi denti bianchi.
«Lieto di conoscerti» disse Rick, cercando di farsi indietro.
«Benvenuto a Parma, amico mio! Prego, entra.» Continuando a stringer-gli la mano, Lazzarino stava già tirando Rick verso l'interno. Una volta entrati, lasciò finalmente libero il suo ospite, chiuse la porta e ripeté: «Benvenuto!».
«Grazie» rispose Rick, sentendosi leggermente aggredito.
«Tu sei un giudice?»
«Chiamami Franco» ordinò Lazzarino, indicando il divano in pelle in un
angolo dell'ufficio. Era evidente che Franco era troppo giovane per essere
un giudice molto esperto e troppo vecchio per essere un fullback di una
qualche utilità. La grossa testa rotonda era completamente rasata e gli unici
peli erano quelli di un bizzarro pizzetto sul mento. Il giudice era sui trentacinque anni, come Nino, ma era alto più di un metro e ottanta, solido e in
forma. Lazzarino si lasciò cadere su una sedia, che avvicinò al divano su
cui si era accomodato Rick. «Sì, sono un giudice, ma, cosa più importante,
sono un fullback. Franco è il mio soprannome. Perché Franco è il mio eroe.»
A quel punto Rick si guardò intorno e capì. Franco era ovunque. Una gigantografia a grandezza naturale di Franco Harris che correva con la palla
durante una partita nel fango. Una foto di Franco e degli altri Steelers che
alzavano trionfanti il trofeo del Super Bowl. Una maglietta bianca con il
numero 32 incorniciata e apparentemente autografata dall'eroe in persona.
Un bambolotto Franco Harris con la testa sovradimensionata sull'immensa
scrivania del giudice. E, in posizione prominente al centro della Parete
Narcisista, due grandi foto a colori: una di Franco Harris in completa tenuta di gioco degli Steelers, senza casco, e l'altra di Franco il Giudice in uniforme dei Panthers, senza casco e con il numero 32, nel suo miglior tentativo d'imitazione dell'eroe.
«Io adoro Franco Harris, il più grande giocatore italiano di football della
storia» stava dicendo Franco, gli occhi quasi luccicanti, la voce un po' roca. «Guardalo!» Agitò le mani indicando l'intero ufficio, in pratica un altare a Franco Harris.
«Franco era italiano?» domandò lentamente Rick. Anche se non era mai
stato un fan degli Steelers ed era troppo giovane per ricordare i giorni di
gloria della dinastia di Pittsburgh, Rick era comunque un buon esperto di
football. Ed era certo che Franco Harris fosse stato un ragazzo di colore
che aveva giocato con Perm State e poi, negli anni Settanta, aveva portato
gli Steelers a un certo numero di finali del Super Bowl. Era stato un vero
leader in campo, una star del Super Bowl e in seguito era stato ammesso
nella Hall of Fame. Qualsiasi tifoso di football conosceva Franco Harris.
«Sua madre era italiana. Suo padre un soldato americano. A te piacciono
gli Steelers? Io li adoro.»
«Be', no, in effetti...»
«Perché non hai mai giocato con gli Steelers?»
«Non mi hanno ancora telefonato.»
Franco sedeva sul bordo della sedia, eccitato dalla presenza del suo nuovo quarterback. «Prendiamoci un caffè» dichiarò balzando in piedi e, prima che Rick potesse rispondere, aveva già aperto la porta e stava abbaiando istruzioni a una delle ragazze. Era molto elegante: abito nero e appuntiti
mocassini italiani, numero 48 come minimo.
«Vogliamo davvero il trofeo del Super Bowl qui a Parma» disse il giudice, afferrando qualcosa sulla scrivania. «Guarda.» Puntò il telecomando
verso il televisore a schermo piatto in un angolo e di colpo ci fu ancora
Franco: mentre superava la linea e i tackier gli rimbalzavano addosso,
mentre superava con un salto il mucchio di giocatori a terra e segnava un
touchdown, mentre stendeva un Brown di Cleveland (sì!) e strappava un
altro touchdown, mentre riceveva un handoff da Bradshaw e buttava giù
come birilli due massicci uomini della linea difensiva. Erano le più grandi
azioni di Franco, lunghe corse devastanti, divertenti da guardare. Il giudice, completamente ipnotizzato, sobbalzava sulla sedia e sferrava pugni
nell'aria a ogni grandiosa mossa.
Quante volte l'avrà già visto? si chiese Rick.
L'ultima azione era anche la più famosa: l'Immacolata Ricezione, l'intercetto casuale di Franco di un passaggio deviato e la conseguente, miracolosa galoppata fino all'end zone in una partita dei playoff del 1972 contro
Oakland. Quell'azione aveva suscitato più dibattiti, disamine, analisi e liti
di qualsiasi altra nella storia dell'NFL e il giudice ne conosceva a memoria
ogni inquadratura.
Entrò la segretaria con il caffè e Rick riuscì a produrre un pessimo "grazie" in italiano.
Poi di nuovo video. La seconda parte era interessante, ma anche un tantino deprimente. Il giudice aveva aggiunto i suoi più grandi successi personali: qualche faticosa corsa tra e intorno a lineman e linebacker addirittura più lenti di lui. Franco sorrise raggiante al suo quarterback mentre guardavano i Panthers in azione, la prima visione di Rick del suo futuro.
«Cosa ne pensi?» domandò il giudice.
«Bello» rispose Rick, una parola che sembrava soddisfare molte domande a Parma.
L'ultima azione del filmato era uno screen che Franco riceveva da un
emaciato quarterback. Franco si premette la palla sulla pancia, chino come
un fante in trincea, e cominciò a cercare il primo difensore da colpire. Una
coppia si fece avanti, Franco si liberò e partì di corsa. Due cornerback fecero un tentativo poco convinto di colpirlo alle gambe con il casco, tentando un placcaggio, ma rimbalzarono via come mosche. E infine il giudice
veleggiò lungo la linea laterale, nella sua migliore imitazione di Franco
Harris.
«Era al rallentatore?» chiese Rick, tentando una battuta.
Il giudice spalancò la bocca. Sembrava ferito.
«Stavo scherzando» aggiunse Rick in fretta. «Era una battuta.»
Franco riuscì a fingere una risata. Nel video superò la linea del goal e
sbatté con forza la palla a terra in segno di trionfo. Lo schermo diventò
bianco.
«Sono sette anni che gioco» disse Franco, riprendendo la sua posizione
sul bordo della sedia. «E non abbiamo mai battuto Bergamo. Ma quest'anno, con il nostro grande quarterback, vinceremo il Super Bowl. Giusto?»
«Naturalmente. Dove hai imparato a giocare?»
«Da degli amici.»
Bevvero entrambi un sorso di caffè, in una breve pausa imbarazzata.
«Ma tu che tipo di giudice sei?» chiese finalmente Rick.
Franco si passò una mano sul mento e rifletté a lungo, come se mai prima di quel momento avesse pensato a quello che faceva. «Mi occupo di
molte cose» rispose poi con un sorriso. Il telefono sulla scrivania squillò e
Franco, anche se non rispose, diede comunque un'occhiata all'orologio.
«Siamo felici di averti qui a Parma. Il mio amico Rick... il mio quarterback!»
«Grazie.»
«Ci vediamo stasera all'allenamento.»
«Certo.»
Il giudice era in piedi adesso, chiamato dagli altri suoi doveri. A quel
punto Rick non si aspettava più di essere multato o in qualche modo punito, tuttavia il problema della "denuncia" di Romo doveva essere risolto. O
no?
Evidentemente no. Franco scortò Rick fuori dall'ufficio con gli inevitabili abbracci e strette di mano e la promessa di aiutarlo in ogni modo possibile. Rick si ritrovò nel corridoio, poi lungo le scale e infine nel vicolo, tutto
solo, un uomo libero.
8
Sam aspettava in un caffè, sfogliando il libro degli schemi dei Panthers,
un grosso raccoglitore con un migliaio di X e O: un centinaio di giochi
d'attacco e una decina di schemi difensivi. Voluminoso, ma nemmeno lontanamente quanto quelli delle squadre dei college, e appena un misero quadernetto paragonato ai tomi in uso nell'NFL. In ogni caso fin troppo grosso, a parere degli italiani. Si sentiva spesso borbottare, nel tedio di una
lunga sessione di schemi alla lavagna, che non c'era da stupirsi se il calcio
era così popolare nel resto del mondo. Era facilissimo da imparare, da giocare e da capire.
E questi sono soltanto i fondamentali, era sempre tentato di dire Sam.
Rick arrivò puntuale alle undici e mezzo. Il locale era ancora deserto, solo due americani potevano darsi appuntamento a pranzo a un'ora così strana. Pranzo che però consisteva solo in due insalate e acqua.
Rick si era fatto doccia e barba e si sentiva molto meno criminale. Con
grande animazione, raccontò la storia dell'incontro con l'ispettore Romo,
del suo "non arresto" e del colloquio con il giudice Franco. Molto divertito, Russo gli assicurò che nessun altro americano aveva mai ricevuto un
benvenuto così speciale da parte di Franco. Anche Sam aveva visto il video. E sì, Franco dal vivo era lento come nel filmato, ma era un bloccatore
devastante e si fiondava di corsa anche attraverso un muro di pietra, o almeno ci provava con tutte le sue forze.
Sam spiegò che, in base alle sue limitate conoscenze, i giudici italiani
erano diversi dai colleghi americani. Franco aveva l'autorità di ordinare indagini e procedimenti legali e inoltre poteva anche presiedere processi.
Dopo un riassunto di trenta secondi dell'ordinamento giuridico locale, il
coach esaurì la sua competenza in materia e tornò al football.
Spiluccarono la lattuga e giocherellarono con i pomodori, ma nessuno
dei due aveva molto appetito. Dopo un'ora si allontanarono a piedi dal ristorante per occuparsi di un paio di questioni. La prima era l'apertura di un
conto corrente. Sam gli aveva scelto la banca soprattutto perché un certo
vicedirettore masticava abbastanza inglese da poter essere d'aiuto. Insistette perché Rick svolgesse le pratiche da solo e intervenne soltanto in caso di
impasse. Ci volle un'ora, al termine della quale Rick si sentì frustrato e abbastanza intimidito. Non ci sarebbe sempre stato Sam a disposizione per
tradurre.
Durante un rapido giro del quartiere di Rick e del centro di Parma, trovarono un negozietto con la frutta e la verdura esposte sul marciapiede. Russo spiegò che gli italiani preferiscono comprare cibi freschi tutti i giorni ed
evitano di fare incetta di cibo in scatola o comunque conservato. La macelleria era accanto al negozio di pesce. A ogni angolo di strada c'era un forno. «La logica dei grandi supermercati non funziona qui in Italia» dichiarò
Sam. «Le casalinghe pianificano la giornata intorno alla spesa quotidiana
di roba fresca.» Rick si limitava a seguire ubbidiente il suo coach, abbastanza interessato da ciò che vedeva, ma totalmente disinteressato all'idea
di cucinare. Perché prendersi quel disturbo? C'erano talmente tanti posti
dove andare a mangiare. Il negozio che vendeva vini e formaggi lo interessò poco, perlomeno finché non notò la ragazza molto attraente che stava
sistemando i vini rossi. Poi Sam gli indicò altri due negozi di abbigliamento maschile e accennò di nuovo, abbastanza intenzionalmente, all'idea di
scaricare i capi da Florida e di fare un salto di categoria passando alla moda locale. Trovarono anche una lavanderia, un bar che faceva un meraviglioso cappuccino, una libreria dove tutti i libri erano in italiano e una pizzeria con il menu in quattro lingue.
E poi arrivò il momento dell'auto. Da qualche parte nel piccolo impero
del signor Bruncardo si era resa disponibile una FIAT Punto molto usata,
ma pulita e lucidissima, che per i prossimi cinque mesi sarebbe appartenuta al quarterback. Rick ci girò intorno e l'esaminò attentamente senza dire
una parola, pur non riuscendo a fare a meno di pensare che nel SUV che
aveva guidato fino a tre giorni prima ci sarebbero state almeno quattro
Punto.
Si incapsulò al posto di guida e studiò il cruscotto. «Andrà benissimo»
disse finalmente a Sam, in piedi sul marciapiede.
Toccò la leva del cambio e si rese conto che non era rigida. Anzi, si
muoveva, troppo. Poi il piede sinistro si incastrò sotto qualcosa che non
era il pedale del freno. Una frizione?
«Cambio manuale, eh?»
«Qui tutte le macchine hanno il cambio manuale» l'informò Sam. «Non
è un problema, vero?»
«Naturalmente no.» Non riusciva a ricordare l'ultima volta che il suo
piede sinistro aveva premuto una frizione. Un compagno di liceo aveva
avuto una Mazda con il cambio manuale e Rick l'aveva provata un paio di
volte. Era successo circa dieci anni prima. Scese dall'auto, richiuse la portiera e fu quasi sul punto di chiedere: "C'è niente con il cambio automati-co?" ma non lo fece. Non poteva certo mostrarsi preoccupato per una banalità come una macchina con la frizione.
«O questa o uno scooter» gli disse Russo.
Datemi lo scooter, pensò Rick.
Sam lo lasciò lì, con la FIAT che aveva paura di guidare. Coach e quarterback si sarebbero visti tra un paio d'ore nello spogliatoio. Era necessario
impadronirsi del libro degli schemi al più presto possibile. Gli italiani magari potevano anche non imparare tutti gli schemi, ma il quarterback aveva
l'obbligo di farlo.
Rick fece il giro dell'isolato pensando a tutti i libri degli schemi che aveva dovuto subire nel corso della sua carriera nomade. Arnie gli telefonava
per un nuovo contratto. Terribilmente eccitato, Rick partiva per andare a
raggiungere la sua nuova squadra. Un rapido saluto in ufficio, un veloce
giro dello stadio, degli spogliatoi e di tutto il resto. E poi l'entusiasmo svaniva nel momento stesso in cui un qualche allenatore in seconda si presentava con il voluminoso libro degli schemi e glielo lasciava cadere in grembo. "Imparalo a memoria per domani." L'ordine era sempre quello.
Certo, coach. Mille schemi. Nessun problema.
Quanti libri? Quanti allenatori in seconda? Quante squadre? Quante fermate lungo una carriera frustrante che adesso lo aveva portato fino a una
piccola città del Norditalia? Sorseggiò una birra seduto in un caffè all'aperto senza riuscire a scuotersi di dosso la sensazione che quello non era il
posto dove sarebbe dovuto essere.
Entrò a curiosare nel negozio di vini, terrorizzato all'idea che un commesso gli chiedesse se desiderava qualcosa in particolare. La bella ragazza
dei vini rossi era scomparsa.
E poi tornò accanto alla FIAT, cinque marce, frizione e tutto il resto.
Non gli piaceva nemmeno il colore, un'intensa tonalità rame che non aveva
mai visto prima. La FIAT era incastrata in una fila di auto, tutte molto simili a lei, parcheggiate vicinissime l'una all'altra, meno di trenta centimetri
tra un paraurti e l'altro, in una strada a senso unico parecchio trafficata.
Qualsiasi tentativo di staccarsi dal marciapiede avrebbe richiesto manovre
avanti e indietro, avanti e indietro, da ripetere come minimo una decina di
volte per mettere in strada, millimetro dopo millimetro, le ruote anteriori.
Sarebbe stata essenziale una perfetta coordinazione di frizione, leva del
cambio e acceleratore.
Uscire da quel parcheggio sarebbe stato problematico anche con il cambio automatico. Perché quella gente parcheggiava così vicino? Rick aveva
la chiave dell'auto in tasca.
Magari più tardi. Andò a casa a piedi e schiacciò un sonnellino.
Si cambiò rapidamente e indossò la tenuta d'allenamento dei Panthers:
maglietta nera, pantaloncini argento e calzini bianchi. Ogni giocatore doveva comprarsi le proprie scarpe e Rick si era portato tre paia delle Nike
che i Browns avevano così generosamente dispensato il giorno della partita. Quasi tutti i giocatori dell'NFL avevano contratti pubblicitari per le
scarpe. A Rick non ne era mai stato offerto uno.
Era solo nello spogliatoio e stava sfogliando il libro degli schemi, quando arrivò Sly Turner, tutto sorrisi e maglietta arancione dei Denver Broncos. Si presentarono, si strinsero educatamente la mano e subito dopo Rick
domandò: «Hai messo quella maglietta per una qualche ragione?».
«Sì, io adoro i Broncos» rispose Sly, continuando a sorridere. «Sono
cresciuto vicino a Denver, ho frequentato la Colorado State.»
«Che bello. So di essere molto popolare a Denver.»
«Noi ti amiamo, amico.»
«Fa sempre piacere essere amati. Pensi che saremo amici, Sly?»
«Certo, basta che mi passi la palla una ventina di volte ogni partita.»
«Affare fatto.» Rick prese una scarpa dall'armadietto, la calzò lentamente nel piede destro e cominciò ad allacciare le stringhe. «Sei mai stato scelto?»
«Al settimo giro dai Colts, quattro anni fa. Ultimo giocatore scelto. Poi
un anno in Canada e due anni di arena football.» Sly si stava svestendo. Il
sorriso era scomparso. Sembrava molto più basso di un metro e settantatré,
ma era tutto solidi muscoli.
«E l'anno scorso qui, giusto?»
«Giusto. Non è poi così male. Anzi, è abbastanza divertente, se hai il
senso dell'umorismo. I ragazzi della squadra sono meravigliosi. Se non
fosse stato per loro, non sarei mai tornato.»
«Perché sei venuto qui?»
«Per la stessa ragione per cui ci sei venuto tu. Sono troppo giovane per
rinunciare al sogno. Inoltre ho una moglie e un bambino e ho bisogno di
soldi.»
«I soldi?»
«Triste, vero? Un giocatore professionista che guadagna diecimila dollari per sei mesi di lavoro. Ma, come dicevo, non sono ancora pronto a smettere.» Finalmente si tolse la maglietta arancione, che sostituì con quella
d'allenamento dei Panthers.
«Andiamo a scioglierci un po'» propose Rick. Uscirono dallo spogliatoio
ed entrarono in campo.
«Ho il braccio abbastanza rigido» si giustificò Rick dopo un debole lancio.
«Sei fortunato a non essere rimasto azzoppato» disse Sly.
«Grazie tante.»
«Che colpo. Ero a casa di mio fratello e strillavo al televisore. La partita
ormai era finita, ma poi Marroon esce per infortunio. Undici minuti alla fine, situazione senza speranza ed ecco...»
Rick trattenne la palla per un secondo. «Sly, sul serio, preferirei non ascoltare il replay. Okay?»
«Certo. Scusami.»
«La tua famiglia è qui?» chiese Rick, cambiando rapidamente argomento.
«No, a Denver. Mia moglie ha un buon lavoro, fa l'infermiera. Ha detto
che mi concede un altro anno di football e poi il sogno finisce. Tu hai moglie?»
«No, non ci sono nemmeno mai andato vicino.»
«Ti troverai bene qui.»
«Raccontami.» Rick arretrò di cinque iarde e cominciò a raddrizzare i
suoi passaggi.
«Be', è una cultura molto diversa. Le donne sono belle, ma molto più riservate. È una società sciovinista. Gli uomini non si sposano mai prima dei
trent'anni: vivono a casa con la madre che li serve di tutto punto e, quando
poi si sposano, si aspettano che la moglie faccia lo stesso. Le donne sono
riluttanti a sposarsi. Devono lavorare, quindi fanno meno figli. Il tasso di
natalità in Italia sta calando rapidamente.»
«Sly, non stavo esattamente pensando al matrimonio e al tasso di natalità. Vorrei sapere della vita notturna, hai presente?»
«Sì. Un mucchio di ragazze, e anche molto carine, ma la lingua è un
problema.»
«E cosa mi dici delle cheerleader?»
«Cioè?»
«Sono carine, simpatiche, disponibili?»
«Non saprei. Noi non ne abbiamo.»
Rick trattenne la palla, si immobilizzò e fissò il suo tailback. «Niente
cheerleader?»
«Nossignore.»
«Ma il mio agente...» Si interruppe prima di rendersi ridicolo. Quindi
Arnie gli aveva promesso qualcosa che non c'era. Sai che novità.
Sly stava ridendo, una fragorosa risata contagiosa che diceva: "Te l'hanno fatta, pagliaccio".
«Sei venuto in Italia per le cheerleader?» La voce era acuta e canzonatoria.
Rick sparò un proiettile che Sly afferrò facilmente con la punta delle dita, continuando a ridere. «Uguale al mio agente. Dice la verità più o meno
metà delle volte.»
Finalmente anche Rick rise di sé e arretrò di altre cinque iarde. «Com'è il
gioco qui?» domandò.
«Assolutamente meraviglioso, visto che nessuno riesce a fermarmi.
L'anno scorso ho fatto una media di duecento iarde a partita. Ti divertirai
molto, sempre se ti ricorderai di passare la palla ai tuoi compagni e non agli avversari.»
«Battutaccia a buon mercato.» Rick lanciò un altro missile, che di nuovo
Sly afferrò con facilità e che gli rimandò con un lancio morbido. La regola
non scritta era sempre valida: mai lanciare duro a un quarterback.
Dallo spogliatoio stava arrivando al piccolo trotto l'altra pantera nera,
Trey Colby, un ragazzino alto e troppo magro per il football. Aveva un
sorriso contagioso e dopo meno di un minuto chiese a Rick: «Sei okay,
amico?».
«Sto bene, grazie.»
«Cioè, voglio dire, l'ultima volta che ti ho visto eri sopra una barella e...»
«Sto bene, Trey. Vogliamo parlare di qualcos'altro?»
Sly si stava godendo il momento. «Rick preferisce non parlarne. Ci avevo già provato io.»
Si passarono la palla per un'ora, parlando dei giocatori che conoscevano
a casa.
9
Gli italiani erano d'umore festoso. Per il primo allenamento della stagione si presentarono in anticipo e molto chiassosamente. Litigarono su chi
dovesse avere quale armadietto, si lamentarono dei poster alle pareti, sgridarono il magazziniere per una valanga di colpe e giurarono ogni tipo di
vendetta contro Bergamo. Mentre si cambiavano e indossavano lentamente
la tenuta d'allenamento, continuarono a insultarsi e a prendersi reciprocamente in giro. Affollato e turbolento, più che uno spogliatoio sembrava la
sede di una confraternita universitaria.
Rick assorbiva tutto. I giocatori erano circa quaranta, da ragazzini che
sembravano appena adolescenti ad alcuni vecchi guerrieri prossimi alla
quarantina. C'erano diversi corpi solidi, anzi la maggior parte dei ragazzi
sembrava essere in forma eccellente. Sly gli aveva detto che fuori stagione
si sfidavano in palestra sollevando pesi. Ma i contrasti con il passato erano
stridenti e Rick, per quanto ci provasse, non poté evitare qualche confronto. Prima di tutto, a eccezione di Sly e Trey, tutte le facce erano bianche.
Ogni squadra NFL che Rick aveva "visitato" era stata nera almeno al settanta per cento. Perfino nell'Iowa, accidenti, perfino in Canada, le squadre
erano state cinquanta-cinquanta. E anche se nello spogliatoio parmense c'era qualche ragazzo ben messo, nessuno era sui centotrenta chili. I Browns
avevano otto giocatori di centoquaranta o più chili e solo due sotto i novanta. Alcuni Panthers arrivavano a malapena agli ottanta.
Trey gli aveva spiegato che erano tutti molto euforici per il loro nuovo
quarterback, ma cauti e riservati nell'avvicinarlo. Per facilitare le cose, il
giudice Franco prese posizione alla destra di Rick, mentre Nino si posizionò a sinistra. I due fecero lunghe, divaganti presentazioni a mano a mano
che i compagni, a turno, salutavano il nuovo arrivato. Ogni presentazione
richiedeva almeno due insulti, con Franco e Nino che spesso si alternavano
nell'attacco scherzoso al collega italiano. Rick venne abbracciato, stretto e
adulato fino a sentirsi quasi in imbarazzo. Rimase sorpreso nel sentire tanto inglese: tutti i Panthers stavano studiando la lingua a un qualche livello.
Sly e Trey erano vicini a Rick, ridevano di lui, ma salutavano anche i
vecchi compagni. Entrambi avevano già dichiarato che quello sarebbe stato il loro ultimo anno in Italia. Pochi americani tornavano per una terza
stagione.
Coach Russo richiamò i suoi uomini all'ordine e diede a tutti il benvenuto. Il suo italiano era lento e riflessivo. I giocatori sedevano scomposti sul
pavimento, sulle panche, le sedie e perfino dentro gli armadietti aperti.
Sebbene cercasse di non farlo, Rick non riuscì a evitare un flashback. Ripensò allo spogliatoio del liceo di Davenport. Era almeno quattro volte più
vasto di quello dove si trovava adesso.
«Tu capisci cosa sta dicendo Sam?» sussurrò a Sly.
«Sicuro» rispose Sly con un sorriso.
«E allora? Cosa dice?»