Quattordici

Mentre scendiamo le scale ho tempo di riflettere ancora sulla mia provvidenziale mancanza di determinatezza, sull’autogol dell’autostrangolatore. Ci sono imprese destinate a fallire sin dal loro concepimento, non per la codardia dell’esecutore ma per la loro stessa natura. Franz Reichelt, il Sarto Volante, si lanciò fatalmente dalla Tour Eiffel nel 1912; indossava un’ampia tuta-paracadute, ed era certo che la sua invenzione avrebbe salvato in futuro la vita di molti aviatori. Esitò per quaranta secondi prima del salto. Quando infine si sbilanciò in avanti e mise un piede nel vuoto, la corrente ascensionale gli attorcigliò il tessuto intorno al corpo e Reichelt precipitò come un sasso. I fatti, la matematica, erano contro di lui. Ai piedi della torre il suo corpo scavò una fossa profonda una quindicina di centimetri nel terreno di Parigi indurito dal gelo.

Il che, nel momento in cui Trudy affronta lentamente il dietrofront del primo pianerottolo, mi conduce, per associazione con la morte, al tema della vendetta. Il concetto comincia a chiarirsi, e la cosa mi procura sollievo. Vendetta: l’impulso è istintivo, potente… perdonabile. Nessuno che sia stato oltraggiato, ingannato, mutilato può resistere alla tentazione di covare vendetta. Nello specifico, decisamente in forma estrema, cioè l’assassinio di un amato, le fantasie sono incandescenti. Siamo esseri sociali, un tempo ci tenevamo reciprocamente a bada con la violenza o la minaccia di farvi ricorso, come cani in branco. Nasciamo dotati di questa deliziosa prospettiva. A che serve l’immaginazione se non a mettere in scena, assaporare e replicare le possibilità sanguinarie? La vendetta può essere consumata cento volte in una sola notte insonne. Provare quell’impulso, sognare quell’intenzione è umano, normale, qualcosa di cui dovremmo perdonare noi stessi.

Tuttavia la mano alzata, l’effettivo atto violento sono maledetti. È la matematica a dirlo. Non ci sarà inversione allo status quo ante, nessun rimedio, nessun dolce sollievo o nessun sollievo che duri, comunque. Solo un secondo delitto. Prima di imbarcarti per un viaggio della vendetta, scava due fosse, diceva Confucio. La vendetta scuce una civiltà punto per punto. Ci restituisce a una paura ininterrotta, viscerale. Basti pensare ai poveri albanesi succubi cronici del Kanun, il culto idiota delle faide sanguinarie.

Perciò, già mentre tocchiamo terra sul pianerottolo davanti alla preziosa biblioteca di mio padre, mi sono assolto dalla necessità non del pensiero, ma dell’azione di vendicare la sua morte in questa mia vita o nella prossima postnatale. E mi assolvo anche dalla codardia. L’eliminazione di Claude non mi restituirà mio padre. Espando i quaranta secondi di esitazione di Reichelt nel tempo di tutta un’esistenza. No all’agire d’impulso. Se il cordone ombelicale avesse funzionato, quella e non Claude sarebbe stata la causa di morte registrata dal patologo. Una sfortunata casualità, avrebbe annotato, del resto non insolita. Mia madre e mio zio ci avrebbero immeritatamente guadagnato un certo sollievo.

Se il tragitto sulle scale consente tanto spazio per la riflessione è perché Trudy le affronta con il passo di un lori tardigrado particolarmente lento. Eccezionalmente, si tiene stretta al corrimano. Scende un gradino per volta, ogni tanto si ferma, pensa, sospira. Io so come stanno le cose. La visitatrice ritarderà le imprescindibili faccende da sbrigare. La polizia potrebbe essere di ritorno. Trudy non è in vena di dare battaglia per motivi di gelosia. È questione di priorità. Il suo ruolo usurpato in occasione del riconoscimento del corpo: questo le brucia. Elodie è giusto un’amante dell’ultima ora. O forse penultima. Può darsi che la sua presenza preceda il trasloco a Shoreditch. Altra ferita aperta da medicare. Ma perché presentarsi qui? Non certo per dare o ricevere conforto. Magari è al corrente o in possesso di qualche elemento incriminante. Potrebbe mandare tutto a puttane per lei e per Claude. E se invece si trattasse di un ricatto? O di accordi per i dettagli del funerale? Macché, niente di tutto questo. No, no! Quant’è laborioso dover procedere per esclusioni. Che fatica, insieme a tutto il resto (una sbronza da smaltire, un omicidio, attività sessuale estenuante, gravidanza avanzata), che fatica per mia madre vedersi costretta a esercitare la volontà per estendere il suo odio incondizionato anche all’ospite.

Eppure non vacilla. Le trecce tese nascondono i suoi pensieri a tutti tranne che a me, mentre le mutandine (di cotone, niente seta, direi) e l’abito corto fantasia, debitamente ampio ma non voluminoso, hanno da poco raggiunto il loro posto. Rosee braccia e gambe nude, unghie dei piedi smaltate di violetto, e la sua indiscutibile, piena bellezza sono esibite a scopo intimidatorio. Il suo fisico è quello di un vascello di marina, equipaggiato completamente, seppure a malincuore, con tanto di sportelli dei cannoni aperti. Una donna-da-guerra, della quale io sono la fiera polena di poppa. Trudy discende ondeggiando con passo discontinuo. Saprà andare incontro a qualunque cosa l’aspetti.

Quando raggiungiamo l’ingresso è già tutto cominciato. E male. La porta è stata aperta e richiusa. Elodie è in casa, tra le braccia di Claude.

– Su, su. Vieni qui, dài, – le mormora lui mentre lei frigna frasi smozzicate.

– Non dovrei, lo so. È sbagliato. È che io. Oh, mi dispiace. Chissà cosa deve essere. Per te. Non posso. Tuo fratello. Non ce la faccio.

Mia madre è ferma ai piedi della scala, irrigidita dall’incredulità, non solo per la visitatrice. Dunque, l’afflizione è poetica.

Elodie non si è ancora accorta di noi. Probabilmente è rivolta verso la porta, la notizia che intende comunicare arriva a singhiozzi, sincopata. – Domani sera. Cinquanta poeti. Da tutto il. Oh, lo amavamo cosí tanto. A Bethnal, un reading. Alla Green Library. Forse fuori. Candele. Una poesia a testa. Ci terremmo tantissimo che ci fossi.

Si interrompe per soffiarsi il naso. Cosí facendo, si allontana da Claude e intercetta Trudy.

– Cinquanta poeti, – ripete lui indifeso. Quale idea potrebbe risultargli piú ripugnante? – Sono un casino.

I singhiozzi di Elodie sono pressoché sotto controllo, ma l’emozione delle sue stesse parole torna a scatenarli. – Oh. Ciao, Trudy. Mi dispiace, mi dispiace. Se tu e. Poteste dire due. Ma se no, non importa, comprendiamo. Se tu. Se non ci riuscissi. Quanto è difficile.

La perdiamo, risucchiata dentro la sua angoscia che sale di registro fino a sembrare il tubare di un colombo. Elodie cerca di scusarsi e finalmente distinguiamo: – In confronto con quello che voi. Oh, mi dispiace! Non tocca a me.

Infatti, anche Trudy la pensa cosí. Le ha usurpato il ruolo un’altra volta. Derubata del lutto, superata nel pianto, resta impassibile, in fondo alla scala. Qui nell’ingresso, dove è probabile aleggi ancora l’avanzo del tanfo, ci troviamo sospesi in un limbo comune. Ascoltiamo Elodie e i secondi passano. E adesso? La risposta arriva da Claude.

– Scendiamo. C’è del Pouilly-Fumé in frigo.

– Non per me. Sono venuta solo a…

– Di qua.

Mentre Claude fa strada, superano mia madre e di sicuro i due si scambiano uno sguardo: o meglio, l’occhiata fulminante di Trudy deve incrociare la blanda alzata di spalle di lui. Le donne non si abbracciano e neppure si sfiorano né parlano quando sono a pochi centimetri l’una dall’altra. Trudy li lascia andare avanti prima di seguirli in cucina dove i due accusatori, il glicole e il frullato di Judd Street, si nascondono nel caos di tracce processuali.

– Se ti va, – dice mia madre mettendo il piede sul palchetto appiccicoso. – Sono sicura che Claude ti può preparare un sandwich.

L’offerta innocente nasconde parecchie insidie: è fuori luogo nell’attuale situazione; Claude non ha mai preparato un sandwich in vita sua; in casa non c’è pane; né qualsiasi cosa da infilare tra le due fette che non sia la sabbia salata al fondo della confezione di noccioline. D’altronde chi uscirebbe illeso da un sandwich preparato in questa cucina? Significativamente, Trudy non si offre di pensarci lei; significativamente, scrittura Elodie e Claude insieme, distinguendoli da se stessa. È un atto d’accusa, un rifiuto, una ritirata fredda ravvolta in un gesto ospitale. Pur disapprovando, sono colpito. Certe raffinatezze non si imparano dai podcast.

L’ostilità di Trudy ha un effetto benefico sulla sintassi di Elodie. – Non sarei in grado di mandare giú niente di solido, grazie.

– Magari di liquido sí, – dice Claude.

– Magari.

Segue la nota successione sonora: la porta del frigo, il tintinnio distratto del cavatappi sul vetro, il risucchio forte del tappo, i bicchieri di ieri sera sciacquati sotto il rubinetto. Pouilly. Appena di là dal fiume rispetto a Sancerre. Perché no? Sono quasi le sette e mezza. Gli acini piccoli appannati da una gentile patina grigia dovrebbero fare al caso nostro in quest’altra serata torrida e afosa di Londra. Io però voglio qualcosa di piú. Mi sembra che Trudy e il sottoscritto non mangiamo niente da una settimana. Stimolato dall’ordinazione telefonica di Claude, non so cosa darei per un vecchio piatto ormai un po’ trascurato: harengs pommes à l’huile. Morbida aringa affumicata, patate novelle ben sode, olio d’oliva di prima spremitura, cipolla, un trito di prezzemolo; che nostalgia di un antipasto cosí. E che elegante risalto saprebbe conferirgli un Pouilly-Fumé. Ma come faccio a convincere mia madre? Non sarebbe piú difficile tagliare la gola a mio zio. Il paese ameno della mia terza scelta non è mai sembrato piú lontano.

Ora siamo tutti al tavolo. Claude mesce, si levano i calici in un sobrio tributo ai morti.

Elodie sussurra dentro il silenzio in tono sgomento: – Certo che il suicidio… Sembra talmente… poco da lui.

– Insomma… – fa Trudy lasciando la voce in sospeso. È la sua chance: – Da quanto tempo lo conosci?

– Due anni. Quando insegnava…

– Ecco perché non sai delle depressioni.

La voce pacata di mia madre mi preme sul cuore. Che consolazione per lei, credere a una storia coerente di malattia mentale e di suicidio.

– Mio fratello non era precisamente il tipo che vede tutto rosa.

Comincio a capire che Claude non è un bugiardo di prim’ordine.

– Non lo sapevo, – dice sottovoce Elodie. – Era sempre cosí generoso. Specie con noi, voglio dire, della nuova generazione…

– C’era un’altra faccia, – taglia corto Trudy. – Mi fa piacere che i suoi allievi non l’abbiano mai conosciuta.

– Già da piccolo, – interviene Claude. – Una volta ha preso un martello e…

– Non è il momento per quella storia –. Trudy è riuscita a renderla piú interessante, stroncandola in questo modo.

– Hai ragione, – fa Claude. – Gli volevamo un gran bene comunque.

Sento la mano di mia madre salirle al viso per coprirlo o asciugarsi una lacrima. – Ma non voleva saperne di farsi curare. Non ha mai accettato la sua malattia.

C’è, nella voce di Elodie, una protesta, o una recriminazione che a mia madre e a mio zio non piacerà. – Non ha senso. Era diretto a Luton per pagare lo stampatore. In contanti. Era cosí felice di saldare un debito. E stasera doveva fare il suo reading. Per la King’s College Poetry Society. Tre di noi gli avrebbero fatto da gruppo spalla, come si dice.

– Ci teneva alle sue poesie, – dice Claude.

Il tono di Elodie sale insieme al livello di angoscia. – Perché mai accostare e…? Cosí, senza motivo. Quando aveva appena finito il suo libro. Ed era tra i candidati al premio Auden.

– La depressione è una brutta bestia –. Claude mi sorprende con questa intuizione. – Tutte le cose belle della vita spariscono dal tuo…

Si inserisce mia madre. La voce è severa. Ne ha avuto abbastanza. – Senti, lo so che sei piú giovane di me. Ma possibile che non capisci? L’azienda era piena di debiti. Lui era pieno di debiti. Scontento del suo lavoro. Figlio indesiderato in arrivo. Moglie che scopa con suo fratello. Disturbo dermatologico cronico. Piú depressione. Cosí è chiaro? Non pensi che la situazione sia già abbastanza tragica senza che ti ci metta anche tu con le tue menate, i reading di poesia, i premi e i chiarimenti a me su che cosa ha senso e che cosa non ne ha? Sei riuscita a infilarti nel suo letto. Ritieniti fortunata.

Trudy viene a sua volta interrotta. Da uno strillo e dal tonfo di una sedia che si rovescia all’indietro sul pavimento.

A questo punto mi accorgo che mio padre è indietreggiato. Come una particella in fisica, anche John si sottrae a una definizione nell’allontanarsi da noi: il poeta-mentore-editore di polso e successo, serenamente intento a riprendere possesso di casa sua, e di suo padre prima di lui, oppure lo sventurato succube cornuto, il buffone ingenuo soffocato da debiti, tristezza e mancanza di talento? Piú sentiamo parlare di uno, e meno crediamo nell’altro.

Il primo suono emesso da Elodie sta a metà fra una parola e un singhiozzo. – Mai!

Silenzio, e mi rendo conto che Claude prima e poi anche mia madre si allungano ad afferrare il bicchiere.

– Non avevo idea di che cosa avrebbe detto, ieri sera. Era tutto falso! Ti rivoleva. Cercava solo di ingelosirti. Non ti avrebbe mai e poi mai buttata fuori di casa.

La voce si abbassa mentre Elodie si china a raddrizzare la sedia. – È per questo che sono qui. Per dirtelo, e sarà meglio che tu lo capisca. Niente! Non c’è stato mai niente tra noi. John Cairncross era il mio editore e amico e mentore. Mi ha aiutata a diventare scrittrice. È chiaro?

Personalmente nutro i piú atroci sospetti, ma loro le credono. Il fatto che non fosse l’amante di mio padre dovrebbe essere una liberazione, ma penso comporti altre possibilità. Quelle di una donna scomoda, la testimone di tutte le buone ragioni che mio padre aveva per vivere. Che disdetta.

– Siediti, – mormora Trudy. – Ti credo. Niente piú urli, per favore.

Claude rabbocca i bicchieri. Il Pouilly-Fumé mi sembra un po’ troppo sottile, pungente. Troppo giovane forse, poco adatto all’occasione. Non fosse per la canicola estiva, un Pomerol muscoloso farebbe piú al caso nostro, date le forti emozioni in gioco. Ah, se solo ci fosse una cantina, se potessi scendere nella polverosa penombra e servirmi di una bottiglia dalla rastrelliera. Un attimo di silenzio, un’occhiata all’etichetta, un saggio cenno del capo tra me e me, mentre la porto di sopra. La vita adulta, un’oasi lontana. Neppure un miraggio.

Immagino le braccia nude di mia madre conserte sul tavolo, i suoi occhi immobili, tersi. Nessuno saprebbe indovinare il suo tormento. John amava soltanto lei. Era sincero il suo richiamo a Dubrovnik, mentre la dichiarazione di odio, il sogno di strangolarla, l’amore per Elodie… tutte pietose bugie. Trudy però non deve crollare, deve mostrarsi granitica. Programma se stessa in modalità o stato d’animo adatto a un’indagine seria, apparentemente non ostile.

– Hai identificato il corpo.

Anche Elodie adesso è piú calma. – Hanno cercato di contattarti. Non rispondevi. Dal suo telefono, hanno visto le chiamate a me. Tutte sul reading di questa sera, nient’altro. Ho chiesto al mio fidanzato di accompagnarmi, ero terrorizzata.

– Lui com’era?

– Vuol dire John, – spiega Claude.

– Mi ha stupita. Sembrava sereno. A parte… – Inspira con forza. – A parte la bocca. Lunghissima, cioè larga, andava quasi da orecchio a orecchio, come un sorriso folle. Chiusa, però. Per fortuna, ho pensato.

Intorno a me, attraverso le pareti e le camere cremisi che si aprono in lontananza, sento mia madre tremare. Un altro dettaglio fisico di questo genere basterà a devastarla.