CAPITOLO 6

PREDE E PREDATORI

Il salotto padronale di Tavistock Manor era un tripudio di tartan e cuscini, di porte profilate in oro, vasi cinesi e splendidi tavolini pieni di cianfrusaglie evidentemente disposte ad arte per simulare vasti ed eclettici interessi.

Hawke ci invitò ad accomodarci su un enorme divano Chesterfield, sotto gli onnipresenti quadri di caccia e antichi trofei.

Era un uomo imponente, con la fronte ampia e il mento squadrato. Una folta chioma di capelli rossicci si alzava in onde ribelli sulla sua testa. Dava un’impressione di placida solidità, se non fosse stato per gli occhi grigi vivaci e guizzanti.

Alle sue spalle, in equilibrio sulla soglia della sala, c’era un uomo impettito e dal viso aguzzo, il fisico atletico e nervoso di chi è abituato a non perdere d’occhio mai un istante la persona a cui sta facendo da guardia del corpo.

«Benvenuti nel mio salotto così tipicamente inglese…» ci accolse il miliardario.

«Davvero incantevole, signor Hawke» esordì Irene, accomodandosi. «L’essenza dell’Inghilterra, direi.»

«Fa piacere sentirselo dire, signora Adler» replicò lui. «E ora quindi mi scuserete se romperò questa perfezione britannica facendoci servire del whiskey del Tennessee.» Sorrise e aggiunse: «Sono quel che sono, o, per la precisione, come sussurra il personale di servizio quando pensano che io non li senta, “quell’eccentrico milionario americano”…».

Venne servito il liquore, tranne che a me e a Gutsby, che ricevemmo una frizzante cola vittoriana.

«Mi sento finalmente in buona compagnia, signori» brindò lui. «Anzi, in straordinaria compagnia. Il celebre Sherlock Holmes, Monsieur Lupin, la signorina Ludmila…»

«Mila» gli concessi.

«E il giovane Billy Gutsby. Che potrebbe essere un nome americano, dico bene?» terminò.

«Vedo che ha fatto delle ricerche su di noi» disse mia madre.

Hawke scosse vigorosamente la testa. «Ho solo chiesto informazioni al nostro comune amico dei servizi segreti inglesi per capire meglio chi sarebbero stati i miei ospiti di riguardo raccomandati da Whitehall. E devo confessarvi una cosa.»

«Dite, signor Hawke» lo incalzò Sherlock.

«Trovo tutto questo eccessivo» affermò lui.

«Potreste sbarazzarvi dei vasi» disse Arsène.

Il signor Hawke impiegò una frazione di secondo a cogliere la battuta, poi sorrise. «E poi dicono l’humour britannico, eh? No, signori, trovo davvero eccessive queste preoccupazioni sul mio conto. Anche perché, ci fosse qualcosa di verosimile, come vedete non siamo esattamente degli sprovveduti. Non è vero, Dillard?»

L’uomo dal viso aguzzo ci guardò, ma non rispose.

«Dillard è il capo delle mie guardie del corpo» spiegò Hawke. «E anche se non ha lasciato avvicinare nemmeno una zanzara senza averla controllata, purtroppo il signor Mycroft Holmes è stato inflessibile, oserei dire ottuso come un caprone.»

«È una delle sue più piacevoli caratteristiche» convenne Sherlock.

Hawke rise. «Esatto: ha minacciato di revocarmi il visto d’ingresso, se non mi fossi affidato al suo programma di tutela. Il programma che vi contempla e vi ha portato qui. E tutto perché? Perché non aveva alcuna intenzione di vedermi, testuali parole, “con una pallottola in corpo sulle prime pagine dei giornali”. Vi confesso che non sono mai stato battuto così velocemente in una contrattazione, e quindi eccoci qui.»

«E questa è un’altra delle caratteristiche di mio fratello» rispose Sherlock con un mezzo sorriso.

«Deve essere per via di queste idee socialiste» disse Hawke. «Sapete, a quanto pare non basta la mia capacità di valutare il rischio della mia pelle. È meglio se ci pensa il vostro Stato.»

Sherlock congiunse le dita, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e lo guardò con i suoi occhi penetranti. «Se volete la mia opinione, signor Hawke, mio fratello difficilmente s’interessa della pelle di qualcuno, inclusa la propria, a meno che in questa pelle non risieda la possibilità di un ingente beneficio per la nostra Corona. Mycroft è così, ragiona per grandi numeri.»

Hawke buttò fuori una risata sorpresa. «Ma anche io!» esclamò. «Dovremmo andare d’accordo, quindi.»

Indicò le grandi porte del salotto. «La mia sicurezza privata è all’altezza della situazione. E non è la prima volta che ricevo minacce del genere. Siamo tutti nello stesso mondo, e chi ha a cuore i numeri e gli affari non può certo farli senza pestare i piedi a qualcuno. E ve lo dico per giocare a carte scoperte: i miei uomini hanno sventato un rapimento in Florida.»

Sobbalzai, pensando a quanto fosse avventato quest’uomo per parlare con tanta serenità di un fatto del genere. Ma notai che Sherlock non sembrava sorpreso e che era più interessato alla reazione della guardia del corpo. Il viso aguzzo di Dillard si era stretto in un’espressione ancora più rigida e contrita. Forse, pensai, Hawke l’aveva scampata per un pelo, e la questione era stata meno facile di quanto la raccontasse lui.

Il milionario, intanto, sembrava avere già archiviato il suo discorso. Buttò giù l’ultimo sorso di whiskey e disse: «Scusate la franchezza, ma già che stiamo parlando fuori dai denti vorrei dirvi che alla fine dei conti il signor Mycroft non poteva farmi un piacere più grande che affidarmi a una leggenda come voi, Holmes. E alla vostra nuova squadra di Irregolari».

“Uuuh” pensai. Questa ultima notazione non sembrava per niente casuale. E denotava una volta di più quanto in realtà Hawke si fosse documentato sul nostro conto: gli Irregolari erano stati un gruppetto di ragazzi di strada di cui Sherlock si era servito per alcune indagini, ai tempi in cui viveva ancora in Baker Street con il dottor Watson. Non esattamente un particolare di primissimo piano.

«Voi, Sherlock Holmes, siete qualcosa di unico. La vostra fama è arrivata anche oltreoceano, avvolta in quel non so che di leggendario che viaggia sempre in compagnia dei grandi personaggi, e rende difficile per tutti coloro che non hanno l’opportunità di conoscerli di persona quale sia il confine fra realtà e mito. Ditemi, siete davvero infallibile come dicono?»

Sherlock cancellò la domanda che aveva pronta per lui sulla punta della lingua. Mi sarei aspettata una delle sue risposte taglienti, un’occhiata abrasiva, e invece lui sembrò distrarsi, guardare fuori, verso il giardino, attraverso le grandi finestre. Per poi dire, a mezza voce: «Nessuno è infallibile».

«Quindi ci sono stati casi che non siete riuscito a risolvere?»

«No: ho risolto tutti i miei casi» rispose subito Sherlock, riprendendosi da quell’insolita perdita di concentrazione. «Ma un conto è trovare la soluzione di un rompicapo, un altro è mettere in salvo tutte le vite umane che ci sono in gioco.»

Fu un’osservazione velata di tristezza, che me lo fece apparire improvvisamente vecchio e stanco, con quello sguardo lontano e la lunga schiena ossuta e un po’ curva. Ma fu solo un istante, perché poi la solita fiamma tornò a brillare nei suoi occhi. Disse: «E voi, quanti piedi?».

«Come?» gli fece eco il miliardario.

«Secondo voi, signor Hawke, quanti piedi avete pestato per i vostri affari?»

Hawke soppesò le sue parole, fissò il sorriso del formidabile investigatore, scrollò le spalle, si alzò e gli tese la mano. «Credo che io e i vostri potremo andare molto d’accordo.»

«È possibile» rispose Sherlock. «Ma né la signora Adler, né Monsieur Lupin o i ragazzi sono in qualsiasi modo da considerarsi miei. Per fortuna di entrambi, agiscono tutti indipendentemente dal sottoscritto.»

«Ancora meglio, allora» concluse Hawke, scoccandoci un’occhiata divertita.

La nostra visita era terminata. Un maggiordomo ci accompagnò alla porta e un altro domestico, raggiante per l’occasione, ci restituì l’Isotta Fraschini.

La locanda era stracolma e la signora Pemble si dimostrò perfettamente all’altezza della sua fama. Il suo rinomato shepherd’s pie, il pasticcio con carne di agnello e verdure stufate, meritava il nome che si era fatta.

«Benvenuti alla cena così tipicamente inglese…» disse Arsène, imitando in modo impeccabile l’accento americano di Hawke.

«Che impressione vi ha fatto?» chiese Irene, a bassa voce per non farsi sentire dagli altri avventori, dato che i tavoli erano molto vicini.

Nessuno sembrò sbilanciarsi e quindi lo fece lei. «A me è sembrato meno eccentrico di quanto mi aspettassi.»

«Io non me lo aspettavo eccentrico» disse Sherlock.

«E tu, Arsène?» chiesi io.

«Ho sempre una forma di ammirazione professionale per gli uomini che sanno costruirsi una fortuna» commentò. «Anche solo per fantasticare in che modo potrebbero perderla.»

«Arsène… puoi tornare serio per un istante?» disse mia madre.

Lupin si pulì con il tovagliolo. «È sempre la stessa cosa. Quelli come lui non riescono nemmeno a immaginarsi di poter essere vulnerabili.»

«Molto vero» considerò Sherlock. «Ritengono le minacce testimonianze inevitabili del loro successo professionale.»

«Magari perché lo sono quasi sempre?» dissi io.

«Una volta, in Sudafrica, mi raccontarono una storiella…» disse Arsène.

«E quando mai ci sei stato, in Sudafrica?» gli domandò Irene.

«Volete davvero saperlo o posso andare avanti con la storiella?»

«Storiella» dissi io.

«Si dice che, quando vedi un cespuglio che si scuote, è meglio scappare, perché può esserci dietro un leone. Ma un tipo molto intelligente si accorse che il leone dietro quel cespuglio poteva esserci una volta ogni diecimila. E così, alla prima occasione che vide scuotersi un cespuglio, anziché scappare si mise a ridere. E indovinate un po’?»

«Era quella volta» disse Irene.

Arsène spalancò le mani.

«Se c’è un leone qui intorno, però, non abbiamo molto tempo per trovarlo» disse Irene. «E ci sono troppi cespugli.»

«E troppe tane di conigli» aggiunse Arsène.

Billy avvampò. «Scusate ancora per la figuraccia che vi ho fatto fare.»

«Piantala, Billy, abbiamo fatto tutti una figuraccia» disse Arsène, dandogli una pacca sulla spalla. «Scambiare dei carpentieri per malviventi è del tutto normale, con i prezzi che sono in grado di chiederti. Non sei d’accordo, Sherlock?»

Lui non disse niente. Contemplava le briciole della sua torta, silenzioso.

«Stai ragionando su qualche oscuro particolare sfuggito a noi mortali o stai per addormentarti?»

«Sto pensando a Dillard» rispose Sherlock laconico.

«L’ex galeotto?» domandò Arsène.

«Come fai a dirlo?» gli domandai.

Lui annusò l’aria. «Puro sentimento.»

«Avete visto la faccia che ha fatto quando Hawke ha parlato dello sventato rapimento?» disse invece Sherlock.

«Sì» rispose Irene. «Sembrava imbarazzato.»

«Imbarazzato, trovi?» disse Sherlock. «A me è sembrato seccato.»

«Forse ha sbagliato qualcosa» ipotizzò Irene «e salvato Hawke per il rotto della cuffia, cosa che però lui non smette di fargli notare.»

«Può essere» ammise Holmes. «In ogni caso…» Posò il tovagliolo sulla tavola. «È stato un bene incontrare anche i carpentieri. Almeno sappiamo che c’è una fidanzata in ballo.»

«Di cui però lui non ci ha parlato» notai.

«Movente sentimentale?» domandò Irene.

«Troppo presto per dirlo» rispose Sherlock. «Però sono d’accordo con Arsène: il tuo fuoriprogramma, Billy, è stato utile, quindi nessun rimpianto per una buca da conigli. Billy? Ehi, Billy!»

Gutsby stava fissando gli avventori seduti a un altro tavolo, e, quando si accorse che lo stavamo guardando tutti, avvampò una seconda volta.

«Che succede, ragazzo?» gli domandò Sherlock.

Lui si ricompose velocemente e bofonchiò una mezza frase: «Niente, avevo avuto l’impressione che… Ma non importa. Mi sono sbagliato».

I miei compagni di tavolo fecero correre i loro sguardi per la sala, senza che nessuno poi commentasse in alcun modo. Ci ritirammo nelle nostre stanze senza nemmeno aver assaggiato la torta di mele e, pochi minuti dopo, ero distesa a letto, con gli occhi sbarrati a fissare le travi del soffitto. Come sempre in questi casi non riuscivo a dormire, e la tensione mi mordeva la pelle come uno sciame di moscerini. Ero sicura che, se mai avessi chiuso gli occhi, sarei piombata in uno dei miei bizzarri sogni. E infatti, quando finalmente mi addormentai, mi trovai su una zattera in mezzo al mare. Solo che non era il mare, ma un laghetto simile a quello dove eravamo stati nel pomeriggio. Sulla riva c’erano alcune persone che mi facevano dei cenni, ma non riuscivo a capire cosa volessero. Mi sporsi dalla zattera per cercare di sentirli e caddi in acqua, densa e nera, con alghe cattive che mi imprigionavano le braccia. Riemersi boccheggiando dalle coperte, con la sensazione di vuoto che questo genere di sogno mi lasciava sempre, e in quello stesso momento sentii uno scricchiolio del pavimento.

Poi dei passi.

Cautamente mi alzai e andai a guardare in corridoio. Non c’era nessuno. Stavo per tornare a letto, maledicendo la mia suggestionabilità, quando notai che, dalla porta di Gutsby, filtrava uno spiraglio di luce.

Era socchiusa.

Senza nemmeno mettermi qualcosa sopra la camicia da notte, attraversai il corridoio e mi affacciai a sbirciare dentro. Anche il mio amico faceva fatica ad addormentarsi.

«Billy?» sussurrai. «Ti vanno un po’ delle nostre chiacchiere notturne?»

Ma non ottenni risposta.

«Billy?»

Aprii lentamente la porta.

Billy era sparito.