«Lo capisco benissimo, invece, dal modo in cui voi me lo descrive-te.»

«In ogni modo, era proprio così come ve lo descrivo. Diventai un uomo, grande quasi come mio padre ma più educato. Mio padre ci insegnò ad essere puliti, ad andare al gabinetto una volta al giorno, a non provare mai vergogna per qualsiasi cosa al mondo. Mia madre mi insegnò anche il rispetto per l’Inghilterra, ma questa è una cosa secondaria. All’età di vent’anni, possedevo già una barca di mia proprietà e guadagnavo abbastanza bene. Ma ero un ribelle. Lasciai la mia casa e andai a vivere in due stanzette sulla riva del fiume. Volevo poter godere delle mie donne senza che mia madre lo venisse a sapere. Ma un giorno mi capitò un grosso guaio. Mi ero procurato una donna della Bessarabia, un tipetto isterico che avevo conquistato durante una lotta con una tribù di zingari, sulle colline dietro Istanbul. Gli zingari mi inseguirono ma io riuscii a caricare la mia donna sulla barca, dopo averla tramortita. Quando raggiungemmo Trebisonda, la 17Da dark, in inglese «scuro». ( N.d.t.)

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donna cercò più volte di uccidermi e così fui costretto a denudarla completamente e a incatenarla sotto il tavolo dove consumavo i miei pasti. Durante i pasti, avevo preso l’abitudine di gettarle dei bocconi, come a un cane.

Doveva imparare chi era il padrone. Ma prima di riuscire a ottenere un risultato, mia madre capitò improvvisamente in casa mia. Venne da me senza avvisarmi, cosa che non aveva mai fatto prima di allora, per dirmi che mio padre voleva vedermi immediatamente. Naturalmente scoprì la ragazza. Per la prima volta in vita sua, mia madre si arrabbiò con me.

Arrabbiarsi? Era una furia. Io ero un individuo senza cuore che non avrei concluso mai nulla di buono nella vita, e lei si vergognava di chiamarmi figlio. La ragazza doveva essere immediatamente riportata alla sua tribù.

Mia madre la liberò dalla sua prigione e la rivestì alla bell’e meglio, ma, in conclusione, quando venne il momento di partire, la ragazza si rifiutò di lasciarmi.» Darko Kerim scoppiò in una risata fragorosa. «Una interessante lezione di psicologia femminile, caro amico. In ogni modo, la storia della ragazza non c’entra. Mentre mia madre stava cercando inutilmente di convincere la ragazza, senza altro risultato che una sequela di vituperi gitani, io ero andato da mio padre — il quale non ebbe mai sentore dell’accaduto

— e lo trovai a colloquio con un inglese alto e pacifico, con una pezza nera su un occhio. I due stavano parlando dei russi. L’inglese voleva avere delle informazioni sulle loro mosse lungo la frontiera e su ciò che stava accadendo a Batum, una zona che si trovava a circa ottanta chilometri da Trebisonda e dove i russi hanno una grande base navale e un considerevole deposito di petrolio. L’inglese avrebbe pagato bene per delle buone informazioni. Io conoscevo la lingua francese e russa e inoltre avevo dei buoni occhi, delle orecchie eccellenti e un’ottima barca. Mio padre aveva stabilito che io dovessi lavorare per l’inglese. E quell’inglese, un caro amico, era il maggiore Dansey, il mio predecessore al comando di questa base. Il resto,»

Kerim fece un largo gesto col bocchino, «ve lo potete immaginare.»

«Ma che ne è stato del vostro addestramento per diventare un lottatore professionista?»

«Ah,» disse Kerim con fare sornione, «quella era una attività secondaria. Le nostre carovane erano forse le sole alle quali i russi permettevano di varcare il confine. I russi non possono vivere senza circhi ambulanti. Era assai semplice. Io facevo l’uomo che rompe le catene e che solleva i pesi con una corda tenuta tra i denti. Inoltre organizzavo dei campionati di lotta contro i lottatori locali dei villaggi. Alcuni di quei georgiani sono degli 111

 

autentici giganti; ma sono quasi sempre dei giganti stupidi e quindi io riuscivo a vincere quasi sempre. Dopo il combattimento, si andava a bere assieme e si finiva per chiacchierare e per fare dei pettegolezzi. Allora, io assumevo un’espressione stupida, fingendo di non capire. Di quando in quando me ne uscivo con una domanda ingenua e loro ci cascavano, ridevano della mia ignoranza e mi rispondevano.»

Arrivò la seconda portata, accompagnata da una bottiglia di Kavakli-dere, una specie di borgogna gagliardo e ricco come tutti i vini balcanici. Il kebab era buono e aveva il sapore del grasso della pancetta affumicata e delle cipolle. Kerim mangiò invece una bistecca alla tartara (carne cruda tritata e condita con pepe, aglio e rosso d’uovo). La volle fare assaggiare anche a Bond. Era deliziosa e Bond glielo disse.

«Dovreste mangiarla ogni giorno,» disse Kerim con convinzione.

«Va bene per coloro che desiderano fare molto all’amore. Ci sono anche degli esercizi che voi dovreste fare per il medesimo scopo. Sono cose assai importanti, per gli uomini. O, per lo meno, lo sono per me. Io sono come mio padre: ho bisogno di moltissime donne. Ma, al contrario delle abitudini di mio padre, io bevo e fumo troppo, e questi vizi non vanno d’accordo col gioco dell’amore. E non vanno neppure d’accordo con il lavoro che faccio. Troppa tensione, troppi pensieri. Tutto ciò fa andare il sangue alla testa, invece di farlo affluire là dove servirebbe per fare all’amore. Ma io sono avido di vita. Ho troppe attività e non mi riposo quasi mai. Un giorno o l’altro, il cuore ne risentirà, e la mano di ferro lo farà fermare, così come è successo per mio padre. Ma io non ho paura della mano di ferro. Per lo meno, sarà una morte onorevole. Forse, sulla mia pietra tombale sarà scritto: “Quest’uomo è morto per aver vissuto troppo.”»

Bond si mise a ridere. «Cercate di non andarvene troppo presto, Darko,» disse. «A M. dispiacerebbe molto. Vi apprezza oltre ogni dire.»

«Davvero?» Kerim scrutò l’espressione di Bond per indovinare se egli stava dicendo la verità. Poi rise assai soddisfatto. «Se è proprio così, non permetterò che la mano mi vinca, almeno per il momento.» Diede un’occhiata all’orologio. «Vieni, James. Prenderemo il caffè in ufficio. Non abbiamo molto tempo da perdere. Ogni giorno, alle due e mezzo, i russi si riuniscono per il concilio di guerra. Oggi noi due faremo loro l’onore di assistere alle deliberazioni.»

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16 Il tunnel dei topi

Quando tornarono nel fresco ufficio di Kerim, e mentre aspettavano l’inevitabile caffè, il turco tolse da un ripostiglio un paio di tute azzurre e degli stivali di gomma. Kerim si spogliò, rimanendo in mutandine, indossò una delle tute e calzò gli stivaloni; poi disse a Bond di imitarlo.

Con il caffè, il solito impiegato portò due potenti lampade a pila che posò sulla scrivania.

Quando l’impiegato ebbe lasciato la stanza, Kerim disse: «Quello è uno dei miei figli, il maggiore. L’autista e il custode sono degli zii. Gli impiegati che hai visto nel magazzino sono tutti miei figli. La voce del sangue è la migliore delle garanzie. E il mio commercio di spezie è un buon paravento per la nostra attività. Mi ha aiutato M. a crearlo. Ha parlato con certi suoi amici a Londra. Ora io sono il primo mercante di spezie della Turchia. Sono riuscito a restituire a M. tutto il danaro che mi aveva pre-stato. L’ho fatto parecchio tempo fa. I miei figli partecipano agli utili del lavoro e fanno una bella vita. Quando c’è del lavoro segreto da svolgere e io ho bisogno di aiuto, scelgo il ragazzo che mi pare più indicato. Ognuno di loro è specializzato in un lavoro particolare. Sono dei ragazzi abili e coraggiosi. Ce n’è qualcuno che ha già ucciso, per me… e per M. Ho insegnato loro che M. è appena un poco inferiore a Dio.» Kerim fece un gesto di disapprovazione. «Ma ciò che ti sto dicendo è soltanto per assicurarti che ti trovi in buone mani.»

«Non avevo mai pensato il contrario.»

«Ah!» disse Kerim, senza aggiungere altri commenti. Poi prese le lampade e ne porse una a Bond. «E ora, forza, al lavoro.»

Kerim si avvicinò alla grande libreria e passò una mano dietro al mobile. Sì sentì uno scricchiolio e la libreria scivolò agevolmente lungo la parete di sinistra lasciando scoperta una porticina praticata nel muro.

Kerim premette in un punto della porta e questa si spalancò, rivelando una galleria buia e dei gradini di pietra che scendevano nel sottosuolo. Un odore umido, mescolato a un lieve puzzo di animale selvatico si sprigionò dall’apertura e invase l’ufficio.

«Va’ avanti per primo,» disse Kerim. «Scendi fino in fondo e aspet-tami. Io devo richiudere la porta,»

Bond accese la torcia, passò attraverso l’apertura e cominciò a scendere cautamente. La luce della torcia mostrava un recente lavoro di mura-113

 

tura e, cinque o sei metri più sotto, un luccichio di acqua. Quando Bond arrivò in fondo, scoprì che il luccichio di acqua era provocato da un rigagnolo che scorreva in un canale praticato nel suolo di una antica galleria dalle pareti di pietra, che saliva ripidamente verso destra. Alla sinistra, il tunnel continuava a scendere e doveva sbucare, secondo i calcoli di Bond, sotto il Corno d’Oro.

Oltre i confini del raggio di luce, c’era un rapido e continuo sussurro, e l’oscurità era punteggiata da una miriade di scintille rosse in continuo movimento. Bond capì di essere circondato da migliaia di enormi topi che lo fissavano, attratti dall’odore della carne umana. Bond si figurava le migliaia di baffi che si stavano agitando sui denti aguzzi. Per un attimo pensò a quale sarebbe stato il suo destino se la lampada si fosse improvvisamente spenta. Kerim lo raggiunse quasi subito. «È una lunga arrampi-cata. Un quarto d’ora. Tu ami gli animali, vero?» la risata di Kerim echeggiò lungamente sotto le volte del tunnel. I topi si azzuffarono, agitandosi.

«Sfortunatamente, non c’è altra scelta. Topi e ancora topi. Squadroni, divisioni… un intero esercito provvisto dì forza aerea. Dobbiamo spingerli davanti a noi. Verso la fine diventerà un affare serio. Cominciamo. Per lo meno, l’aria è respirabile. Da una parte e dall’altra del rigagnolo, il terreno è asciutto. Ma in inverno, l’acqua sale e dobbiamo adoperare delle tute da sommozzatore. Punta la torcia davanti ai piedi. Se un pipistrello ti cade in testa, caccialo via; non ti farà nulla. Non succederà spesso, del resto.

Quegli animali sono forniti di un ottimo radar.»

Cominciarono a salire lungo la ripida galleria. Il puzzo dei topi e dello sterco dei pipistrelli era acutissimo. Bond pensò che prima di riuscire a toglierselo di dosso sarebbero passati diversi giorni I pipistrelli pendevano dal soffitto, come grappoli di uva appassita; quando, di tanto in tanto, Kerim e Bond li sfioravano col capo, essi spiega-vano le ali e fuggivano squittendo nel buio. A mano a mano che i due uomini avanzavano la massa dei topi che pullulava attorno al rigagnolo centrale si infittiva e tumultuava sempre di più. Ogni tanto, Kerim alzava la torcia e la proiettava in avanti: il terreno era ricoperto da una massa di schiene grigie punteggiate da denti luccicanti e da baffi ispidi. Quando Kerim allungava il fascio di luce, i topi sembravano impazzire dal terrore; quelli più vicini scavalcavano gli altri per correre via e rifugiarsi nel buio, o rotolavano dal mucchio e finivano nel rigagnolo. Finalmente, dopo un quarto d’ora di marcia faticosa, i due uomini raggiunsero un vano scavato 114

 

recentemente, per quanto si poteva vedere dai mattoni, in una delle pareti.

Nel vano c’erano due sedili, disposti uno di fronte all’altro, e, in mezzo a loro, un oggetto ricoperto di tela cerata che pendeva dal soffitto.

Bond e Kerim entrarono nel vano. Ancora un centinaio di metri, pensò Bond, e l’isterismo collettivo avrebbe colto le migliaia di topi che si ammassavano più avanti nel tunnel. L’orda si sarebbe rivoltata, avrebbe fronteggiato le luci e si sarebbe slanciata pazzamente contro i due intrusi dall’odore minaccioso.

«Attenzione,» disse Kerim.

Ci fu un attimo di silenzio. Più avanti, nel tunnel, lo squittìo era improvvisamente cessato, come al comando di una voce misteriosa. Poi, fulmineamente, il tunnel fu invaso da una enorme ondata di corpi grigi che si urtavano e si pigiavano, emettendo un acuto e continuo stridio, mentre precipitavano giù per la discesa.

Per qualche minuto, la fiumana grigia, liscia e lucente, corse tumul-tuando sotto il vano dove si trovavano i due uomini; poi, a poco a poco, si ridusse a pochi topi feriti e zoppicanti che cercavano di raggiungere i compagni.

Lo stridio dell’orda svani a poco a poco nelle tenebre in direzione del fiume, e poi il silenzio fu interrotto soltanto dallo squittio di qualche pipistrello.

Kerim emise un grugnito che escludeva ogni commento. «Un giorno o l’altro questi topi cominceranno a morire. E allora avremo un’altra pesti-lenza a Istanbul. Certe volte mi sento colpevole a non rivelare alle autorità l’esistenza del tunnel: potrebbero disinfestarlo. Ma, fintanto che i russi si riuniscono qui sopra, non posso proprio farlo.» Sollevò il viso verso il soffitto e consultò l’orologio. «Mancano ancora cinque minuti. Ora staranno sedendosi e tirando fuori le loro carte Ci saranno tre uomini permanenti della MGB — o forse uno di loro appartiene al Servizio Informazioni militari, la GRU. Oltre a questi, ce ne saranno probabilmente altri tre. Due sono arrivati una quindicina di giorni fa — uno dalla Persia e l’altro dalla Grecia — e il terzo è giunto a Istanbul lunedì. Non so assolutamente chi siano né il perché della loro presenza qui. Certe volte, anche quella ragazza, Tatiana, entra a portare un messaggio e esce di nuovo. Speriamo di poterla vedere anche oggi. Ne sarai colpito, te lo assicuro.» Kerim alzò le mani e slacciò il riparo di tela cerata, sfilandolo poi verso il basso. Da sotto la tela cerata apparve la lucida calotta di un periscopio sottomarino 115

 

completamente infilato nella sua guaina. L’umidità scintillava sullo spesso strato di grasso di cui era ricoperto lo strumento. Bond ridacchiò. «Dove diavolo te lo sei procurato, Darko?»

«Marina Turca, residuato di guerra.» Il tono di Kerim non invitava a fare altre domande. «La Sezione Q di Londra sta cercando di scoprire un sistema per permettermi anche di udire, e non solo di vedere, quello che i russi combinano lassù. Non sarà facile. La lente sulla cima del periscopio non è più grande di un accendisigari; quando alzo l’apparecchio, la lente entra in una specie di tana da topi che abbiamo fatto scavare nello zoccolo della stanza, e da quel punto, all’altezza del loro pavimento, possiamo sorvegliare i russi. Abbiamo fatto un bel lavoro. Tanto preciso che una volta sono venuto qui a dare un’occhiata e davanti alla lente ho visto un bel pezzo di formaggio e una grossa trappola per topi.» Kerim tece una breve risata. «Ma vicino alla lente non abbiamo potuto lasciare molto spazio per poter collocare un microfono, in modo da sentire le voci dei nostri amici. E

poi, non abbiamo alcuna speranza di riuscire a entrare di nuovo in quella stanza per fare altre modifiche all’architettura. Sai come sono riuscito a far istallare questo arnese? È una bella storia. Siccome il tram che sale sulla collina metteva in pericolo le fondamenta delle case, con le continue vibrazioni, ho indotto i miei amici del Ministero dei Lavori Pubblici a effettuare dei sondaggi in varie case. Ne furono ispezionate una mezza dozzina, compresa quella dove abitavano i russi, e i vari inquilini, nel frattempo, vennero fatti sloggiare. È uno scherzo che mi è costato un centinaio di sterline, ma due giorni sono stati sufficienti perché io e la mia famiglia portassimo a termine tutti i lavori. Quando gli edifici sono stati dichiarati abitabili e i russi sono tornati, scommetto che hanno perlustrato l’intera casa in cerca di bombe o microfoni, o aggeggi del genere. I russi sono sospettosi come demoni. Comunque, non possiamo ripetere due volte lo stesso scherzo. Finché la Sezione Q non troverà una soluzione molto astuta, mi dovrò accontentare di guardarli soltanto. Uno di questi giorni ne verrà fuori qualche cosa di utile. Li vedremo mentre interrogano qualche persona che ci interessa, o qualcosa del genere.»

Di fianco al tubo del periscopio, sul soffitto del vano, c’era una grossa sfera di metallo. Bond chiese di che cosa si trattava.

«E una bomba: una grossa bomba. Se mi succedesse qualcosa, o se la Russia entrasse in guerra, la bomba potrà essere fatta esplodere dal mio ufficio, mediante un contatto radio. È triste,» ma Kerim non sembrava 116

 

affatto triste, «ma temo che oltre ai russi periranno molte altre persone innocenti. Quando il sangue ribolle, l’uomo diventa impulsivo.»

Kerim ripulì l’oculare del periscopio, tra le due maniglie alla base dell’apparecchio; poi consultò di nuovo l’ora, si curvò e tirò lentamente il tubo in su, fino all’altezza del proprio mento. Il turco abbassò il capo e guardò nell’oculare, mise a fuoco le lenti e poi fece un gesto a Bond. «Ci sono tutti.»

Bond si avvicinò al periscopio e afferrò le maniglie.

«Guardali bene,» disse Kerim. «Io li conosco già, ma è meglio che anche tu li conosca e non dimentichi le loro facce. Seduto a capo tavola, c’è il loro Capo residente; alla sua sinistra ci sono i suoi due aiutanti. Di fronte agli aiutanti ci sono i tre nuovi arrivati. L’ultimo, alla destra del Capo, sembra un tipo abbastanza importante. Dimmi se fanno qualcosa d’altro, oltre che parlare.»

Il primo impulso di Bond fu quello di dire a Kerim di non fare tanto baccano. Era come se si fosse trovato nella stanza, assieme ai russi, come se fosse seduto in un angolo a fungere da segretario-stenografo. Le grosse lenti, ideate per scoprire gli aeroplani e le navi di superficie, gli diedero una curiosa visione: una foresta di gambe all’altezza dell’occhio di un topo e i vari particolari delle teste appartenenti alle gambe stesse. Il Capo e i suoi due assistenti erano nitidamente inquadrati; le solite facce serie e granitiche dei russi. Bond impresse nella memoria le loro fisionomie. Il Capo aveva un viso severo professorale: occhiali spessi, mascelle quadre, fronte ampia, capelli radi spazzolati all’indietro. Alla sua sinistra, c’era un individuo dal viso legnoso e solcato da due rughe profonde ai lati del naso, capelli biondi a spazzola, e privo di un pezzo dell’orecchia sinistra. Il terzo uomo del personale stabile era un armeno dal viso scaltro e dagli occhi a mandorla astuti e lucidi. Stava parlando. Il suo viso aveva assunto un’espressione di falsa modestia. Aveva la bocca luccicante di denti d’oro.

Bond non riusciva a scorgere altrettanto bene gli altri tre astanti.

Vedeva soltanto le loro schiene e il profilo di uno dei tre uomini, probabilmente il più giovane di tutti. Anche quell’uomo aveva la pelle scura. Indubbiamente, anche lui proveniva da una delle repubbliche sovietiche meridionali. La mascella era mal rasata, l’occhio sporgente era privo di espressione, sotto le sopracciglia folte e nere, il naso grosso e poroso, la bocca larga e cascante sopra un principio di doppio mento. I capelli neri e ispidi erano stati tagliati cortissimi così che gran parte della nuca sembrava 117

 

coperta da un’ombreggiatura azzurrina. Era un taglio militare, fatto a macchina.

I soli particolari che si potevano notare nell’individuo che gli sedeva accanto, erano un grosso foruncolo sulla nuca tozza e senza peli, un vestito azzurro cupo, e un paio di scarpe gialle ben lucidate. L’uomo non si mosse durante tutto il tempo, e apparentemente non prese mai la parola.

In quel mentre, l’individuo più anziano, alla destra del Capo si appoggiò indietro e cominciò a parlare. Aveva un profilo forte e deciso, dalle ossa grosse, il mento sporgente e un paio di baffoni castani tagliati alla Stalin. Bond poteva distinguere un occhio freddo e grigio sotto la massa cespugliosa di un sopracciglio e un pezzo di fronte bassa sormontata da una massa di capelli ispidi e brizzolati. Era l’unico, tra i presenti, che stesse fumando; tirava delle rapide boccate da una piccola pipa di legno nella quale era infilata mezza sigaretta. Di tanto in tanto, l’uomo scuoteva la pipa da un lato gettando la cenere sul pavimento. Dal suo profilo si poteva distinguere un’autorità maggiore di quella dei visi degli altri convenuti, e Bond immaginò che egli doveva essere un capo inviato da Mosca.

Gli occhi dì Bond cominciavano a stancarsi. Egli fece ruotare lentamente il periscopio e cercò di esaminare la stanza nei limiti permessi dagli orli irregolari della tana del topo. Non notò nulla di interessante: due sche-dari, un attaccapanni, accanto alla porta, sulla quale egli contò sei cappelli grigi più o meno identici, e una mensola con una pesante caraffa d’acqua e alcuni bicchieri. Bond si staccò dall’oculare e si fregò gli occhi.

«Se potessimo sentire quello che dicono,» disse Kerim, scuotendo tristemente la testa. «Varrebbe tant’oro…»

«Risolverebbe un mucchio di problemi,» acconsentì Bond.

E poi: «Dimmi un po’, Darko, come avete fatto a scoprire questo tunnel? Per che scopo era stato costruito?»

«È una galleria sconosciuta proveniente dalla Sala delle Colonne. La Sala delle Colonne ora è una curiosità per i turisti. Si trova sopra di noi, alla sommità di Istanbul, vicino a Santa Sofia. È stata costruita un migliaio di anni fa come riserva d’acqua in caso di assedio. È un enorme salone sotterraneo, grande un centinaio di metri per cinquanta. Poteva contenere parecchi milioni di litri di acqua. È stato riscoperto circa quattrocento anni fa da un certo Gyllius. Gyllius diceva che in inverno il serbatoio era riempito da una grande tubazione rumorosa. Allora ho pensato che forse ci doveva essere un’altra grande tubazione per vuotare rapidamente il ser-118

 

batoio in caso di emergenza. Sono andato nella Sala delle Colonne, ho corrotto il guardiano e per tutta una notte io e uno dei miei ragazzi abbiamo gironzolato in mezzo alle colonne in un canotto di gomma. Abbiamo esplorato il muro, centimetro per centimetro, con un martello e con uno scandaglio acustico. Finalmente, nel posto più adatto, abbiamo scoperto che oltre la parete c’era il vuoto. Ho dato un po’ di denaro al ministro dei lavori pubblici e il posto è stato chiuso per una settimana… per lavori di restauro. La mia squadra si è data subito da fare.» Kerim si abbassò di nuovo per dare una rapida occhiata nell’oculare, e continuò: «Abbiamo aperto la parete sopra il livello dell’acqua e ci siamo trovati sulla sommità di un’arcata. L’arcata era l’inizio di un tunnel. Siamo entrati e l’abbiamo percorso tutto. Era abbastanza eccitante; non sapevamo dove ci avrebbe condotti. Ma, a rigor di logica, il tunnel andava giù direttamente lungo la collina, passava sotto la via dei Libri, dove stanno i russi, e sbucava nel Corno d’Oro, vicino al ponte di Galata. L’uscita si trovava a pochi metri di distanza dal mio magazzino. E così, abbiamo murato il tunnel dalla parte della Sala delle Colonne e abbiamo scavato dalla mia parte. È stato due anni fa. C’è voluto un anno e un lavoro massacrante, per giungere direttamente sotto i russi.» Kerim si mise a ridere. «Penso che un giorno o l’altro, i russi decideranno di cambiare ufficio. Ma per quel giorno io spero che alla Base T ci sarà un altro Capo.»

Kerim si abbassò per guardare nell’oculare. Bond lo vide irrigidirsi.

Kerim disse in fretta: «La porta si sta aprendo. Presto. Vieni qui. Eccola.»

17 Tempo di uccidere

Qualche ora dopo, alle sette, James Bond era di nuovo nel suo albergo. Aveva fatto un bagno caldo e una doccia fredda, e pensava di essere riuscito a togliersi dalla pelle il puzzo del tunnel. Era seduto — nudo ad eccezione di un paio di mutandine — davanti a una delle vetrate della sua camera, e sorseggiava una vodka e soda, mentre contemplava un dram-matico tramonto sulle acque del Corno d’Oro. Ma i suoi occhi erano distratti e non vedevano il drappo d’oro e di sangue appeso dietro il profilo dei minareti, al di sotto dei quali egli aveva avuto la prima visione di Tatiana Romanova.

Bond stava pensando alla bellissima fanciulla, dalle movenze da ballerina, che aveva attraversato la squallida stanza con un foglio di carta 119

 

in mano. Si era fermata accanto al suo capo e gli aveva consegnato il documento. Gli sguardi dei sei uomini si erano posati su di lei. La ragazza era arrossita e aveva abbassato gli occhi. Che cosa poteva significare quell’espressione sulle facce degli uomini? Non era la solita espressione con la quale gli uomini guardano una ragazza. Sembrava una espressione di curiosità. Era logico, del resto. Gli uomini volevano sapere il contenuto del documento e si domandavano perché erano stati disturbati. Ma c’era qualcosa d’altro, in quell’espressione. C’era malizia e disprezzo… era lo sguardo di uomini che considerano una prostituta.

Era stata una scena strana ed enigmatica. Quei sei facevano parte di un’organizzazione paramilitare altamente disciplinata. Erano ufficiali di carriera, sospettosi l’uno dell’altro. E la ragazza non era altro che una semplice pedina del personale, occupata a svolgere le sue normali funzioni.

Perché mai quegli uomini l’avevano squadrata con quel fare inquisitore e pieno di disprezzo, come se la ragazza fosse stata una spia sorpresa in fallo e destinata a essere giustiziata? La sospettavano, forse? Si era forse tradita? Ma la cosa pareva improbabile, dal modo in cui si era svolta la scena successiva. Il Capo residente aveva letto il documento e lo sguardo degli altri uomini si era spostato dalla ragazza verso di lui. Il Capo aveva detto qualcosa, commentando probabilmente il documento, e i suoi compagni avevano continuato a fissarlo, come se la cosa non li riguardasse.

Poi, il capo si era rivolto alla ragazza, e gli occhi degli astanti avevano seguito i suoi. Il Capo aveva pronunciato una frase, con un’espressione amichevole ma inquisitrice. La ragazza aveva scosso il capo e aveva risposto brevemente. Gli altri uomini sembravano ora molto interessati. Il Capo aveva pronunciato ancora una parola ed era rimasto in attesa. La ragazza era arrossita violentemente e aveva annuito, sostenendo ubbidientemente lo sguardo del suo interlocutore. Gli uomini si erano messi a sorridere apertamente, forse astutamente, in segno di approvazione. Nessuna parvenza di sospetto. Nessuna parvenza di condanna. La scena era terminata con poche parole di commento da parte del Capo, al quale la ragazza, aveva risposto con tutta probabilità l’equivalente di «sissignore» . Poi, la ragazza se ne era andata. Appena uscita, il Capo aveva detto ancora qualcosa e i suoi compagni si erano messi a ridere di cuore; l’espressione equivoca era tornata ancora sui loro volti, come se le parole del Capo avessero avuto un contenuto osceno. Poi, tutti erano tornati al loro lavoro.

Da allora, durante la via del ritorno, nel tunnel, e più tardi, nell’uf-120

 

ficio di Kerim, mentre i due uomini commentavano ciò che Bond aveva osservato, Bond si era torturato il cervello alla ricerca di una soluzione del rebus che lo faceva impazzire. Anche ora, osservando distrattamente il tramonto del sole, il suo cervello continuava a lavorare.

Bond vuotò il bicchiere e accese un’altra sigaretta. Decise di mettere da parte il problema e di pensare piuttosto alla ragazza.

Tatiana Romanova. Una Romanov. Quella ragazza sembrava proprio una principessa russa, o almeno, aveva l’aspetto voluto dalla tradizione. Il corpo slanciato che si muoveva così graziosamente, il portamento delizioso, la pesante massa dei capelli che ricadeva sulle spalle, il profilo aristocratico e armonioso, il viso affascinante che ricordava quello della Garbo, con la sua serenità statuaria, il contrasto tra l’innocenza dei grandi occhi azzurro cupo e la voluttà della bocca larga. E il suo rossore, e il modo con cui aveva abbassato le lunghe ciglia sugli occhi vergognosi. Era stato il pudore di una vergine, forse? Bond non accettò l’ipotesi. Il modo di osten-tare i seni rigogliosi indicava la certezza di essere amata; il movimento ritmico e provocante del bacino significava l’affermazione di un corpo che sa per che cosa è stato fatto.

Da ciò che aveva visto, Bond poteva davvero credere che quello fosse il tipo di ragazza che si innamora di una fotografia trovata in un dossier di informazioni? Come poteva dirlo? La ragazza doveva avere una natura profondamente romantica. Aveva la bocca e gli occhi sognanti. Alla sua età, ventiquattro anni, il meccanismo sovietico non doveva ancora essere riuscito a inaridirla. Il sangue dei Romanov poteva benissimo averla indotta a desiderare uomini diversi dal tipo comune dell’ufficiale russo moderno: severo, freddo, meccanico, fondamentalmente isterico, a causa dell’educazione di Partito, infernalmente monotono.

Poteva essere vero. I suoi modi non dimostravano affatto la falsità dei sui propositi. Bond desiderava ardentemente che fosse così.

Il telefono suonò. Era Kerim. «Nulla di nuovo?»

«No.»

«In questo caso, verrò a prenderti alle otto.»

«Sarò pronto.»

Bond depose il ricevitore e cominciò lentamente a vestirsi.

Kerim era stato irremovibile, riguardo all’impiego della serata. Bond avrebbe voluto rimanere in albergo in attesa del primo contatto: un biglietto, una chiamata telefonica, un segno qualsiasi. Ma Kerim non aveva volu-121

 

to. La ragazza aveva detto che lei stessa avrebbe scelto il posto e il momento migliore, e Kerim pensava che se Bond fosse rimasto ad aspettarla come uno schiavo delle sue comodità, avrebbe fatto uno sbaglio. «Saresti un cattivo psicologo, amico mio,» Kerim aveva insistito. «A nessuna ragazza piace che un uomo accorra, quando lei fa un fischio. Se ti metti troppo a sua disposizione, lei finirà per disprezzarti. Dalla tua fotografia e dalla lettura del tuo dossier, quella ragazza si aspetta senza dubbio un comportamento conseguente… persino brutale. Lei desidera idolatrarti, implorare un bacio, da te,» Kerim aveva schiacciato l’occhio, «da quella tua bocca crudele. Si è innamorata di una fotografia, non dimenticarlo.

Cerca quindi di non deluderla. Recita bene la tua parte.»

Bond aveva scrollato le spalle. «D’accordo, Darko. Penso che tu abbia ragione. Allora, cosa mi consigli?»

«Comportati normalmente. Ora andrai a casa, farai un bagno e berrai qualcosa. La vodka locale può andar bene, se la allungherai con un po’ di acqua di soda. Verrò a prenderti alle otto. Andremo a mangiare da uno zingaro amico mio. Un certo Vavra. È il capo di una tribù. In ogni modo, debbo vederlo questa notte. Vavra è una delle mie migliori fonti di informazione, e ora sta cercando di scoprire chi ha tentato di farmi la pelle nel mio ufficio. Le sue ragazze balleranno per te. Ma non ti consiglio di trattenerti troppo intimamente con loro. Devi tenere la spada affilata. C’è un detto: “Una volta Re, sempre Re. Ma una volta Cavaliere è abbastanza!”»

Bond sorrideva tra sé, ricordandosi il detto di Kerim, quando il telefono suonò di nuovo. Bond alzò il ricevitore. Era soltanto il custode.

La macchina era arrivata. Mentre Bond scendeva incontro a Kerim, dovette ammettere che era rimasto deluso.

Mentre stavano avviandosi verso le colline lontane, attraverso i quar-tieri più poveri, sopra il Corno d’Oro, l’autista disse qualcosa al suo padrone.

Kerim rispose con un monosillabo. «Ha detto che c’è una Lambretta sulla nostra scia. Un “senza volto”. Non importa. Quando voglio, posso muovermi senza che loro se ne accorgano. Molte volte hanno seguito questa macchina per dei chilometri: e al mio posto c’era soltanto un manichino.

Una macchina vistosa ha i suoi vantaggi. Sanno che quello zingaro è un mio amico ma io credo che loro non capiscano il perché. Non è male far sapere loro che abbiamo intenzione di passare una notte di distensione. È

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sabato sera, ho con me un amico inglese, e qualsiasi altra occupazione sarebbe sospetta e insolita.»

Bond guardò dal finestrino posteriore della macchina e considerò le strade affollate. Uno scooter si affacciò per un attimo da dietro un tram fermo, ma fu subito nascosto da un taxi. Bond tornò a guardare davanti a sé. Rifletté rapidamente sulla larghezza di mezzi con la quale i russi man-tenevano le loro basi, con tutto il danaro e l’equipaggiamento possibile e immaginabile, mentre il Servizio Segreto inglese opponeva loro una schiera striminzita di uomini avventurosi e mal pagati, come questo, con la sua Rolls di seconda mano e i suoi ragazzetti come aiutanti. Ciò nonostante, Kerim aveva in mano il controllo della Turchia. Forse, dopo tutto, l’uomo giusto valeva più dell’apparato giusto.

Alle otto e mezzo si fermarono a metà strada di una larga collina nelle vicinanze di Istanbul, davanti a un caffè all’aperto dall’apparenza sudicia con alcuni tavoli vuoti. Dietro, c’era un alto muro di pietre al di sopra del quale spuntavano le cime di alcuni alberi. I due uomini Scesero e la macchina ripartì. Attesero un poco per vedere se riuscivano a individuare l’uo-mo della Lambretta, ma questi, dopo essersi fermato per un momento, ripartì sulla scia della Rolls. Riuscirono soltanto a scorgere un uomo piccolo e tozzo col viso nascosto da un paio di occhialoni.

Kerim avanzò tra i tavoli del caffè. Al suo avvicinarsi, un uomo seduto alla cassa si alzò di scatto, tenendo una mano sotto il banco; ma, dopo aver riconosciuto Kerim, si rilassò e gli rivolse un sorriso nervoso.

Qualcosa cadde a terra, producendo un suono metallico. L’uomo uscì da dietro il banco e guidò i due amici attraverso il retro fino a una porta praticata nell’alto muro. Picchiò una volta sola poi spinse il battente e fece cenno ai due uomini di seguirlo.

Al di là del muro c’era un grande frutteto con tavole di legno disposte sotto gli alberi. Al centro c’era una specie di pista da ballo recintata da una cordonatura di pietre, e attorno al frutteto c’era una grande tavolata dove una ventina di persone di tutte le età era seduta a mangiare; ma, non appena entrarono i nuovi arrivati, i commensali deposero i coltelli e rimasero in silenziosa attesa, guardando verso la porta. La luna, a tre quarti, faceva risaltare tutte le cose e gettava delle chiazze d’ombra scurissima sotto gli alberi. Kerim e Bond continuarono ad avanzare. L’uomo a capo-tavola disse qualcosa agli altri commensali, poi si alzò e venne incontro agli ospiti. Il resto della compagnia ricominciò a mangiare e i bambini 123

 

tornarono ai loro giochi. L’uomo rivolse a Kerim un saluto non privo di riserbo, poi iniziò un lungo discorso che Kerim ascoltò attentamente facendo di quando in quando una domanda.

Lo zingaro aveva un aspetto imponente e teatrale, e vestiva l’abito macedone: camicia bianca dalle ampie maniche, calzoni a borsa e alti stivali di cuoio ricamato. I suoi capelli erano un ammasso di riccioli neri. Un paio di folti baffi, dalle punte rivolte all’ingiù, nascondevano quasi interamente le labbra rosse e carnose. Gli occhi, fieri e crudeli, luccicavano ai lati di un grosso naso roso dalla sifilide. La luce della luna faceva luccicare le dure linee della mascella e degli zigomi sporgenti. La mano destra dello zingaro, che aveva un anello d’oro infilato al pollice, era appoggiata sull’impugnatura di una daga dalla guaina di pelle ornata di filigrana d’argento. Lo zingaro terminò di parlare. Kerim disse un paio di parole che avevano il suono di elogi nei riguardi di Bond, e lo presentò. Lo zingaro avanzò di qualche passo ed esaminò Bond attentamente, poi si inchinò di colpo. Bond lo imitò. Lo zingaro disse qualche parola, sorridendo sardoni-camente. Kerim rise e si rivolse a Bond. «Dice che se un giorno ti man-casse il lavoro, dovresti venire a lavorare per lui. Potresti addomesticare le sue donne e uccidere i suoi nemici. È un gran complimento, per un gajo… per uno straniero. Dovresti rispondergli qualcosa.»

«Digli che sono sicuro che non ha bisogno di aiuto per risolvere queste faccende.»

Kerim tradusse. Lo zingaro scoprì educatamente la chiostra dei denti.

Poi pronunciò ancora qualche parola e tornò alla tavolata, battendo rapidamente le mani. Due donne si alzarono e vennero verso di lui. Vavra impartì ordini secchi e le donne presero dal tavolo un grande recipiente di terra-cotta e sparirono tra gli alberi.

Kerim afferrò il braccio di Bond e lo trasse in disparte.

«Siamo arrivati a sproposito,» disse. «Il ristorante è chiuso. Sono successi dei guai in famiglia e Vavra ha deciso di risolverli drasticamente, in privato. Ma io sono considerato un vecchio amico e così siamo stati invitati a partecipare alla loro cena. Comunque, ho mandato a prendere del raki. Poi potremo assistere al giudizio, a condizione di non interferire.

Spero che riuscirai a capirmi, amico mio.» Kerim strinse più forte il braccio di Bond. «Qualsiasi cosa vedrai, non dovrai muoverti né fare dei commenti. La decisione è stata presa e giustizia deve essere fatta. È il loro tipo di giustizia, naturalmente. È una faccenda d’amore e di gelosia. Due 124

 

ragazze della tribù si sono innamorate di uno dei figli di Vavra. C’è puzza di sangue, in giro. Le due ragazze si sono minacciate di morte, pur di riuscire a conquistarlo. Se il ragazzo facesse una scelta, l’esclusa ucciderebbe lui e la ragazza eletta. È un vicolo cieco. La tribù ha deciso: il figlio di Vavra è stato allontanato provvisoriamente e le due ragazze questa sera lotteranno a morte per conquistarselo. Il ragazzo ha detto che si prenderà la vincitrice. Le due donne sono chiuse a chiave in due carrozzoni separati.

Non sarà uno spettacolo adatto per chi ha lo stomaco delicato, ma comunque è uno spettacolo rimarchevole. Il fatto che ci abbiano invitati rappresenta un grande privilegio. Lo capisci? Noi siamo dei gajos. Riuscirai a dimenticare di essere una persona civile? Riuscirai a trattenerti? Bada che ti ucciderebbero, e ucciderebbero probabilmente anche me, se ti venisse in mente di interferire nelle loro faccende.»

«Darko,» disse Bond. «Io ho un amico francese. Si chiama Mathis ed è il capo del Deuxième Bureau. Mathis, una volta mi ha detto: ” J’aime les sensations fortes. ” Io sono come lui. Non ti screditerò. Se ci fosse una lotta tra un uomo e una donna sarebbe un’altra faccenda. Ma un duello tra due donne… Ma dimmi qualcosa dell’attentato nel tuo ufficio. Vavra è riuscito a scoprire qualche cosa?»

«È stato il capo dei “senza volto”. Ha eseguito personalmente il lavoretto. Sono scesi in barca lungo il Corno d’Oro e poi il capo ha scalato il muro. È stato un miracolo che non mi abbia fatto la pelle. L’operazione è stata ben condotta. L’uomo è un gangster: un bulgaro, rifugiato politico, di nome Krilencu. Dovrò sbrigarmela io, con lui. Solo Dio sa perché improvvisamente vogliono farmi la pelle, ma io non posso lasciare impuniti questi scherzetti. Forse, questa notte stessa, dovrò prendere una decisione. So dove abita il tipo. Per ogni evenienza, ho detto al mio autista di tornare a prendermi portando gli strumenti necessari.»

Una giovane ragazza molto bella, vestita di un abito nero di foggia antica, con al collo un pesante monile fatto di monetine d’oro e con le braccia cariche di braccialetti dello stesso metallo, si alzò dal tavolo, si inchinò profondamente davanti a Kerim e gli disse qualcosa.

«Siamo invitati a sederci a tavola,» disse Kerim. «Spero che tu sia capace di mangiare con le mani. Questa notte, tutti indossano i loro vestiti migliori. Varrebbe la pena di sposare questa ragazza. Vedi tutto l’oro che ha addosso? È la sua dote.»

I due si avvicinarono al tavolo. Due posti erano stati preparati per 125

 

loro, alla destra e alla sinistra di Vavra. Kerim rivolse un educato complimento alla tavolata. Tutti gli risposero con un breve inchino. Poi la cena riprese. Davanti a Bond e a Kerim era stato collocato un grande piatto pieno di un intingolo dal forte odore di aglio, una bottiglia di raki, una brocca d’acqua e un bicchiere dozzinale. Altre bottiglie di raki, ancora intatte, erano sparse lungo il tavolo. Quando Kerim prese il bicchiere e si versò del raki, tutti i presenti lo imitarono. Bond fece lo stesso. Kerim pronunciò un breve e energico discorso, alla conclusione del quale tutti alzarono il bicchiere e bevvero. L’atmosfera si fece più cordiale. Una vecchia che sedeva accanto a Bond gli porse un filone di pane e disse qualcosa. Bond sorrise e disse: « Thank you. » Poi ruppe un pezzo del pane e passò il filone a Kerim che stava intingendo l’indice e il pollice nell’intingolo. Kerim afferrò il filone di pane con una mano e con l’altra intro-dusse un grosso pezzo di carne in bocca e cominciò a masticare.

Bond stava per imitarlo quando Kerim gli sussurrò in fretta: «Con la destra, James. La mano sinistra viene usata soltanto per un dato scopo, tra gli zingari.»

Bond fermò la mano sinistra a mezz’aria e poi la tese in avanti per afferrare una bottiglia di raki. Se ne versò un altro mezzo bicchiere e poi cominciò a mangiare usando la mano destra. L’intingolo era delizioso ma ancora bollente. Bond trasaliva ogni volta che vi intingeva le dita. Tutti lo stavano osservando e, di quando in quando, la vecchia metteva le dita nel piatto di Bond e sceglieva per lui i bocconi migliori.

Quando ebbero finito, una ragazza porse ai due uomini una bacinella d’acqua contenente dei petali di rosa e un asciugamano pulito. Bond si pulì le mani e il mento unto di grasso e poi, rivolgendosi al suo ospite, fece un piccolo discorso di ringraziamento che Kerim si incaricò di tradurre. I convitati espressero il loro compiacimento con un mormorio sommesso. Il capo degli zingari si inchinò in direzione di Bond e disse, secondo quanto tradusse Kerim, che egli odiava tutti i gajos ad eccezione di Bond che considerava suo amico. Poi batté rumorosamente le mani e tutti si alzarono dal tavolo e cominciarono ad alzare le panche e a sistemarle attorno alla pista da ballo.

Kerim girò attorno al tavolo e si avvicinò a Bond. «Come ti senti?

Gli altri sono andati a prendere le due ragazze.»

Bond annuì. Stava godendosi la serata. La scena era bellissima ed eccitarne: i luce della luna che risplendeva sui gruppi di persone disposti in 126

 

circolo attorno alla pista, il luccichio dei monili e dei gioielli, quando qualcuno si agitava, la chiazza lucente della pista e, tutto attorno, gli alberi immobili come sentinelle nascoste nelle zone d’ombra.

Kerim condusse Bond a una panca dove era seduto il capo degli zingari. I due uomini si sedettero alla sua destra.

Un gatto nero, dagli occhi verdi, scivolò lentamente attraverso la pista da ballo e si unì a un gruppo di bambini che sedevano tranquillamente vicino alla cordonatura di pietre, come se fossero in attesa di qualcuno che dovesse entrare nel recinto per spiegare loro una lezione.

Al di là dell’alto muro risuonò il nitrito di un cavallo. Due degli zingari alzarono il capo in direzione del nitrito come se cercassero di interpretare la ragione del lamento dell’animale. Dalla strada giunse lo scampanio di una bicicletta, in procinto di affrontare la discesa della collina.

Il pesante silenzio fu interrotto dal rumore di un catenaccio che veniva tirato. La porta del muro si spalancò di colpo e due ragazze che urla-vano e lottavano come due gatte selvatiche si slanciarono sul prato e irruppero nella pista.

18 Les sensations fortes

Il capo degli zingari urlò qualcosa. Le ragazze si separarono loro malgrado e rimasero ritte davanti a lui. Lo zingaro riprese a parlare, con un tono violento di denuncia.

Kerim portò la mano alla bocca per soffocare le parole che voleva dire a Bond. «Vavra sta dicendo alle ragazze che la sua è una grande tribù di zingari e che esse hanno portato la discordia tra i suoi componenti. Dice che tra la sua gente non c’è posto per l’odio, e che l’odio deve essere riservato agli uomini che vivono nel mondo fuori della tribù. La discordia che le ragazze hanno creato deve essere purgata, in modo che la tribù possa tornare a vivere in pace. Dovranno lottare. Se la perdente non rimarrà uccisa, sarà bandita per sempre. Il che equivale alla morte. Questa gente, allontanata dalla tribù, intristisce e finisce per soccombere. Gli zingari non possono vivere nel nostro mondo. È un po’ come costringere gli animali selvatici a vivere in una gabbia.»

Mentre Kerim parlava, Bond considerò le due belle belve, contratte e imbronciate, al centro della pista.

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Avevano entrambe la pelle scura, come tutti gli zingari, e i capelli neri e arruffati sciolti sulle spalle; entrambe vestite in modo che a Bond venne fatto di paragonare all’abbigliamento dei negri di certe bidonvilles; una specie di tunica bruna abbondantemente rappezzata con ritagli di stoffa dai più disparati colori. Una delle ragazze era più robusta dell’altra, e quindi più forte, ma dava l’impressione di essere la più fuori di sé e di avere i riflessi più lenti, il che significava minore agilità. Le sue fattezze erano leonine, e i suoi occhi, coperti da pesanti ciglia, lanciavano uno sguardo denso di odio, mentre rimaneva irrigidita ad ascoltare con impazienza le parole del capo. ‘Però ha delle buone probabilità di vincere,’ si disse Bond: ‘è più alta e più forte dell’altra.’

Se la prima ragazza, poteva essere paragonata a una leonessa, l’altra era una pantera: flessuosa e agile, con lo sguardo acuto e furbo che non fissava l’oratore ma scivolava di fianco, misurando la distanza. Le dita delle sue mani erano curve come artigli. I muscoli delle sue belle gambe erano sodi come quelli di un uomo. Aveva piccoli seni, che contrastavano con quelli pesanti dell’altra ragazza, e che riuscivano a malapena a gonfiare gli stracci della tunica. ‘Sembra una puttanella molto pericolosa,’ pensò Bond. ‘Attaccherà per prima, senza dubbio. E l’altra non riuscirà a dominarla.’

Immediatamente, gli fu provato il contrario. Non appena Vavra ebbe pronunciato l’ultima parola, la ragazza alta, che secondo l’informazione sussurrata da Kerim, si chiamava Zora, colpì la sua rivale con un potente calcio laterale sferrato senza neppure guardare, poi le saltò addosso e la colpì di nuovo con un pugno alla tempia che spedì la pantera a terra, a gambe levate.

«Ahi, Vida,» si lamentò una donna nella folla. Ma non aveva ragione di preoccuparsi tanto. Anche Bond poteva accorgersi che Vida fingeva di essere tramortita, mentre giaceva al suolo, apparentemente senza fiato, e poteva scorgere lo scintillio dei suoi occhi sotto il braccio ripiegato, mentre il piede di Zora si alzava inesorabilmente sopra il suo petto.

Le mani di Vida scattarono in avanti e afferrarono la caviglia di Zora. Al tempo stesso, i suoi denti affondarono nel polpaccio della sua competitrice in amore, con la ferocia di un serpente. Zora emise un urlo di dolore e cercò di liberare il piede. Ma era troppo tardi. L’altra ragazza si era già rialzata su un ginocchio e poi si era rimessa in piedi, senza mai abbandonare la presa delle sue mani. A questo punto, Vida diede un 128

 

violento colpo in su e Zora perse l’equilibrio, cadendo pesantemente a terra.

Il tonfo prodotto dalla caduta della robusta ragazza fece tremare il suolo. Per un attimo, Zora rimase immobile. Con una risata selvaggia, Vida si lanciò su di lei, strappando e graffiando con gli artigli delle sue dita.

Santo cielo, che megera, pensò Bond. Alle sue spalle, Kerim respirava con un sibilo attraverso i denti.

Zora si riparò con le braccia e con le ginocchia piegate e finalmente riuscì a respingere Vida. Poi si rialzò in piedi barcollando e digrignando i denti, con la tunica ridotta a brandelli che pendeva dal suo splendido corpo, e si mosse di nuovo all’attacco, protendendo le braccia in avanti.

Vida riuscì a saltare di fianco e la mano di Zora si chiuse sulla scollatura della sua tunica e gliela lacerò dall’alto al basso. Vida si rigirò immediatamente, portandosi vicinissima, sotto le braccia protese, e le sue ginocchia saettarono verso la rivale.

Quella lotta a corpo a corpo fu uno sbaglio. Le robuste braccia di Zora si serrarono intorno alla ragazza più piccola, intrappolando le mani, in modo che non potessero raggiungere gli occhi della rivale. Zora cominciò lentamente a stringere; le gambe e le ginocchia di Vida si agitarono forsennatamente a vuoto.

Bond pensò che la ragazza più grossa aveva ormai la partita vinta.

Tutto ciò che le restava da fare era cadere sulla sua avversaria. Vida avrebbe picchiato la testa sui sassi e allora Zora avrebbe potuto fare di lei ciò che le fosse piaciuto. Ma, inaspettatamente, la ragazza più robusta si mise a urlare. Bond vide che la faccia di Vida era penetrata profondamente tra i seni dell’altra. I suoi denti stavano mordendo avidamente. Le braccia di Zora abbandonarono la presa e le sue mani afferrarono i capelli di Vida, cercando di strapparla indietro. Ma ora le mani di Vida erano libere e stavano cercando il corpo della ragazza, più grande.

Le due ragazze si separarono bruscamente e indietreggiarono, come due gatte furiose: i loro corpi lucidi di sudore splendevano attraverso i larghi squarci delle tuniche, e un rigagnolo di sangue scendeva tra le mammelle scoperte di Zora.

Si girarono attorno guardinghe, ambedue liete di essere scampate, e, continuando a spiarsi, si strapparono di dosso gli ultimi stracci che le ricoprivano e li gettarono agli spettatori. Bond trattenne il fiato, alla vista dei due corpi nudi e lucidi, e sentì accanto a sé il corpo di Kerim che si 129

 

irrigidiva. Il cerchio degli zingari sembrava essersi stretto maggiormente attorno alle due lottatoci. La luna faceva brillare decine di occhi spalancati, e il soffio degli aliti caldi e ansimanti degli uomini era chiaramente per-cepibile.

Le due ragazze continuarono a muoversi lentamente, con le labbra sollevate sui denti e il respiro affannoso. La luce della luna risplendeva sui seni palpitanti, sui ventri lucidi, sui fianchi stretti come quelli di un ragazzo. Le piante sudate dei loro piedi lasciavano delle orme scure sulle pietre bianche della pista.

Fu ancora la ragazza più robusta, Zora, a prendere l’iniziativa, proiet-tandosi improvvisamente in avanti con le braccia allargate come una lotta-trice. Ma Vida non si lasciò cogliere di sorpresa e sfrecciò il piede destro in un furioso coup de savate che, colpendo il corpo di Zora, produsse un rumore secco simile a un colpo di pistola. Zora emise un urlo di dolore e si curvò su se stessa. Immediatamente, Vida colpì col piede sinistro il ventre dell’avversaria e le si gettò addosso.

Mentre Zora cadeva sulle ginocchia, l’assemblea si lasciò sfuggire un mormorio sommesso. La ragazza alzò le mani per proteggere il viso, ma era ormai troppo tardi. Vida le era già sopra. L’agile ragazza afferrò i polsi della sua rivale, la piegò a terra e avvicinò la bocca spalancata alla gola palpitante di Zora.

BOOM!

L’esplosione ruppe la tensione come una noce. Una vampata illuminò l’oscurità che si addensava attorno alla pista da ballo e una scheggia di pietra sibilò vicino alle orecchie di Bond. Di colpo, il frutteto si popolò di uomini che correvano; il capo degli zingari si era lanciato attraverso la pista, curvo in avanti, brandendo il suo pugnale. Kerim lo seguiva con la pistola spianata. Quando passò vicino alle due ragazze, che ora stavano ritte in piedi, tremanti e con gli occhi sbarrati, lo zingaro urlò loro una parola, e queste corsero via e sparirono velocemente in mezzo agli alberi dove già erano scomparse le altre donne e i bambini.

Stringendo la Beretta con mano incerta, Bond si mosse lentamente nella scia di Kerim, verso la larga breccia che l’esplosione aveva praticato nel muro, e si chiese cosa diavolo stesse accadendo.

Lo spiazzo erboso tra la breccia e la pista era coperto da una massa confusa che si agitava e correva. Solo quando si fu avvicinato al luogo della lotta, Bond riuscì a distinguere i due gruppi di contendenti: i bulgari, 130

 

dalla corporatura bassa e tarchiata, e gli zingari, dalle vesti larghe e vistose. A quanto sembrava, i «senza volto» dovevano essere in numero maggiore: almeno due contro uno. Mentre Bond osservava la scena, un giovane zingaro uscì dal groviglio stringendosi il petto tra le mani e tossendo convulsamente, e brancolò verso di lui. Due piccoli uomini dalla pelle scura si gettarono al suo inseguimento stringendo nel pugno due lunghi pugnali.

Istintivamente, Bond fece un balzo da un lato, per evitare di colpire la massa indistinta che continuava a lottare alle spalle dei due bulgari, e mirò all’altezza delle cosce degli inseguitori. La Beretta abbaiò due volte e i due uomini stramazzarono silenziosamente nell’erba.

Due proiettili consumati. Ne rimanevano altri sei. Bond si avvicinò alla lotta.

Un coltello sibilò oltre il suo capo e cadde sulla pista.

Il coltello era diretto a Kerim, che sbucò dall’ombra inseguito da due bulgari. Uno degli uomini si fermò e alzò il suo coltello per lanciarlo, ma Bond lo precedette e, senza nemmeno mirare, gli sparò addosso. L’altro, vedendo il suo compagno cadere, fece dietrofront e corse a rifugiarsi tra gli alberi. Kerim cadde su un ginocchio davanti a Bond, armeggiando con la pistola.

«Coprimi,» urlò. «Si è inceppata al primo colpo. Sono quei bastardi dei bulgari. Sa il cielo cosa vogliono fare.»

Una mano strinse Bond alla bocca e lo rovesciò indietro. Uno stivale lo colpì alla nuca. Bond si rotolò sull’erba e si aspettò di sentire il dolore lancinante di un coltello. Ma gli uomini — erano in tre — stavano dando la caccia a Kerim. Quando Bond si rialzò su un ginocchio, vide che essi stavano buttandosi sul turco il quale agitò la sua pistola inservibile e poi scomparve sotto di loro.

Proprio mentre Bond balzava in avanti e abbassava il calcio della pistola su un cranio calvo e rotondo, qualcosa sfolgorò davanti ai suoi occhi e l’impugnatura della daga di Vavra spuntò fuori dalla schiena di uno degli uomini curvi. Kerim si alzò subito e il terzo uomo fece a tempo a fuggire. Poi, un’ombra inpiedi sulla breccia urlò più volte una parola e i bulgari smisero improvvisamente di lottare, corsero in direzione di colui che aveva gridato e scomparvero al di là del muro.

«Spara, James, spara!» urlò Kerim. «Quello è Krilencu», e si lanciò all’inseguimento. Bond sparò un colpo. Ma l’uomo era già scomparso 131

 

dietro il muro, e trenta metri è una distanza eccessiva, soprattutto di notte, per il proiettile di una automatica. Mentre Bond abbassava l’arma, l’aria si riempì del frastuono di un intero squadrone di Lambrette che si metteva in moto. Bond rimase immobile ad ascoltare il ronzio dei motori che spari-vano giù dalla collina.

Poi. il silenzio fu interrotto soltanto dai gemiti dei feriti. Bond osservò istupidito Kerim e Vavra che erano rientrati dalla breccia del muro e che procedevano in mezzo ai corpi dei caduti, girandone di quando in quando qualcuno col piede. Gli altri zingari rientrarono alla spicciolata e le donne più vecchie uscirono dall’ombra per prendersi cura dei loro uomini.

Bond si riscosse. Che significato aveva tutto ciò? Dieci o dodici uomini erano stati uccisi. Per quale ragione? Chi avevano cercato di colpire?

Non lui, Bond. Quando lo avevano atterrato e avrebbero potuto ucciderlo, i bulgari lo avevano risparmiato e si erano lanciati contro Kerim. Questo era il secondo attentato alla vita di Kerim. C’era forse un rapporto con la faccenda della Romanova? Come era possibile?

Bond si irrigidì. La sua pistola sparò due volte. Il coltello non riuscì neanche a graffiare la schiena di Kerim. L’uomo che aveva finto di essere morto ora ruotò lentamente su se stesso e stramazzò nell’erba a faccia in giù. Bond corse incontro a Kerim. Era arrivato appena a tempo. La luna aveva fatto brillare la lama ed egli aveva potuto mirare con precisione.

Kerim osservò il corpo che si contorceva al suolo e poi si voltò verso Bond.

Bond era furioso. «Maledetto pazzo,» disse rabbiosamente. «Non po-tresti stare un po’ più attento? Avresti bisogno di una bambinaia.» La maggior parte della rabbia di Bond derivava dalla convinzione che Kerim aveva rischiato la vita per causa sua.

Darko Kerim ghignò piano piano. «Non serve più, James. Ormai mi hai salvato la vita troppe volte. Avremmo potuto essere amici, tu ed io. Ma ora la distanza che c’è tra noi è troppo grande. Perdonami, perché so già che non potrò mai ripagarti.» Tese la mano in avanti.

Bond la spinse via. «Non essere stupido, Darko,» disse rudemente.

«La mia pistola funzionava, ecco tutto. La tua si era inceppata. Sarà meglio che tu ne prenda una migliore. Ma per l’amor del cielo, spiegami che cosa diavolo significa tutto questo. Si è sparso troppo sangue, questa notte. Ne sono nauseato. Voglio bere. Vieni a finire quel raki.» Afferrò il grosso uo-mo per il braccio.

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Mentre si avvicinavano al tavolo, ancora coperto dai resti della cena, un urlo terribile e lacerante si alzò dalle profondità del frutteto. Bond portò la mano alla pistola, ma Kerim scosse il capo. «Sapremo molto presto che cosa cercavano i “senza volto”,» disse malinconicamente. «I miei amici stanno cercando di scoprirlo. Ma io credo di saperlo già. E penso che non mi perdoneranno mai di essere venuto da loro questa notte. Hanno perduto cinque uomini.»

«Avrebbe potuto morire anche una donna,» disse Bond senza simpatia. «Per lo meno, hai salvato la sua vita. Non essere stupido, Darko. Gli zingari conoscevano il rischio fin da quando hanno cominciato a spiare i bulgari per conto tuo. È stata una scaramuccia tra bande rivali.» Bond aggiunse un po’ d’acqua ai due bicchieri di raki.

I due uomini vuotarono i bicchieri d’un fiato. Vavra si avvicinò a loro pulendo la sua daga in una manciata d’erba. Si sedette e accettò il bicchiere di raki che Kerim gli porgeva. Sembrava abbastanza soddisfatto.

Bond ebbe l’impressione che la battaglia fosse stata troppo breve, per lui.

Lo zingaro disse qualcosa maliziosamente.

Kerim ridacchiò. «Dice che il suo giudizio era esatto. Hai ucciso bene. Ora vuole regalarti quelle due ragazze.»

«Digli che anche una sola sarebbe troppo, per me. E digli anche che mi piacciono moltissimo. Sarei contento se volesse farmi il favore di di-chiarare il duello alla pari. Questa notte ci sono già stati troppi morti, tra gli uomini della sua tribù. Vavra avrà bisogno di quelle due ragazze per dare dei figli alla sua gente.»

Kerim tradusse. Lo zingaro guardò Bond pensierosamente. Poi pronunciò qualche parola in tono amaro.

«Dice che non avresti dovuto chiedergli un favore così difficile. Dice che hai il cuore troppo tenero, per essere un buon lottatore. Ma ti assicura che farà quello che tu gli hai chiesto.»

Lo zingaro ignorò il sorriso di ringraziamento di Bond e cominciò a parlare rapidamente con Kerim. Il nome di Krilencu venne ripetuto più volte. A sua volta, Kerim prese la parola. Il tono della sua voce era sommesso e pieno di contrizione. Il turco non permise allo zingaro di interrom-perlo con le sue ripetute proteste. Ci fu un ultimo riferimento a Krilencu, poi Kerim si rivolse a Bond.

«Amico mio,» disse seccamente. «È una strana faccenda. Pare che i bulgari avessero avuto l’ordine di uccidere Vavra e il maggior numero pos-133

 

sibile dei suoi uomini. È semplice. Sapevano che gli zingari hanno lavorato per conto mio. È un sistema un po’ drastico, forse, ma i russi hanno un con-cetto molto vago del valore di una vita umana. Amano la carneficina. Vavra era il bersaglio principale. Io ero il secondo. Posso ancora capire che abbiano dichiarato guerra a me. Ma sembra che i bulgari fossero stati inca-ricati di risparmiarti. Ti hanno descritto dettagliatamente, in modo da evitare qualsiasi sbaglio. Ciò è molto strano. Forse volevano evitare delle com-plicazioni diplomatiche. Chi lo può dire? L’attacco è stato ben organizzato.

Hanno raggiunto la cima della collina salendo da un’altra strada e poi sono scesi fino al campo a motore spento, in modo da non farsi sentire. Ci troviamo in un luogo solitario e non c’è un poliziotto nel raggio di parecchi chilometri. Io mi sento colpevole per aver mandato questa gente allo sbara-glio troppo alla leggera.» Kerim sembrava sconsolato e infelice. Poi parve decidersi e disse: «È già mezzanotte. La Rolls dovrebbe essere arrivata. Ci resta ancora un lavoretto da sbrigare, prima di andare a dormire. È ora di andarcene. Questa gente avrà parecchio da fare, prima dell’alba: parecchi cadaveri da gettare nel Bosforo, il muro da riparare… Prima del sorgere del sole, di tutto ciò non deve rimanere più alcuna traccia. Il nostro amico ti augura buona fortuna. Dice che dovrai tornare e che Vida e Zora ti appartengono finché non avranno i seni cascanti. Si rifiuta di considerarmi responsabile per quello che è successo. Dice che devo continuare a mandargli dei bulgari. Questa notte ne sono stati uccisi dieci, ma lui ne vorrebbe ancora. E ora gli daremo una stretta di mano e ce ne andremo via. Ci chiede soltanto questo. Siamo dei buoni amici, ma siamo anche dei gajos.

Vavra non vuole che le sue donne piangano davanti a noi sopra i loro morti.»

Kerim porse la sua mano enorme. Vavra la afferrò e fissò Kerim negli occhi. Per un attimo, il suo sguardo parve velarsi. Poi lo zingaro lasciò la mano di Kerim e prese quella di Bond. La mano di Vavra era asciutta e ruvida, pesante come la zampa di un grosso animale. Ancora una volta, il suo sguardo si velò. Il capo degli zingari disse ancora qualcosa in fretta poi si voltò rapidamente e si diresse verso gli alberi. Nessuno sollevò il capo dal proprio lavoro, quando Bond e Kerim passarono oltre la breccia del muro. La Rolls splendeva alla luce della luna, qualche metro più in là, davanti all’entrata del caffè. Accanto all’autista era seduto un giovanotto.

Kerim lo salutò con un gesto della mano. «È il mio decimo figlio. Si chiama Boris. Avrò bisogno del suo aiuto.» Il giovane si voltò e disse: 134

 

«Buonasera, signore.» Bond riconobbe in lui uno degli impiegati del magazzino. Rassomigliava al capo degli impiegati e aveva occhi azzurri.

La macchina si mosse. Kerim parlò in inglese con l’autista. «È una piccola strada dopo la Piazza dell’Ippodromo. Quando saremo arrivati, pro-cederemo senza fare rumore. Ti dirò quando ti dovrai fermare. Hai preso le uniformi e l’equipaggiamento?»

«Sì, Kerim Bey.»

«Benissimo. Fa’ presto. Dovremmo essere già tutti a letto, a quest’ora.»

Kerim si rilassò sul sedile e accese una sigaretta. Bond considerò le strade semibuie e pensò che la scarsa illuminazione stradale è un indice sicuro delle città povere.

Passò un certo tempo, prima che Kerim si decidesse a parlare. Ma poi disse: «Lo zingaro ha detto che le ali della morte sono sopra le nostre teste. Ha detto che io devo fare attenzione a un figlio delle nevi e tu a un uomo che è posseduto dalla luna.» Rise sguaiatamente. «Questo è il loro responso. Ma Vavra ha aggiunto che Krilencu non fa parte degli uomini che noi dobbiamo temere. Questo è bene.»

«Perché?»

« Perché non potrò dormire finché non avrò ucciso quell’uomo. Io non so se quello che è successo questa notte ha qualche rapporto con te e con la tua missione. Non me ne curo. So soltanto che mi è stata dichiarata guerra e che se non uccido Krilencu, al terzo tentativo sarà lui a uccidere me. E così, noi ora stiamo andando a Samarra, per non mancare all’appuntamento con lui.»

19 La bocca di Marilyn Monroe

La macchina filò velocemente lungo le strade deserte, oltrepassando le moschee ombrose, sopra le quali i minareti svettavano verso i tre quarti di luna, le rovine dell’acquedotto, il viale Ataturk e il Grand Bazaar dai cancelli chiusi. Giunta alla Colonna di Costantino, la macchina svoltò a destra, percorse delle viuzze contorte e fetide, e finalmente sbucò in una grande piazza dove tre colonne di pietra puntavano verso il cielo stellato come una batteria di razzi spaziali.

«Adagio,» disse Kerim sottovoce. L’auto scivolò sotto i tigli che orlavano la piazza.

135

 

«Stop.»

La macchina si fermò al riparo di un albero. Kerim tese la mano verso la maniglia della portiera. «Non ci metteremo molto, James. Siediti al posto dell’autista: se dovesse venire la polizia non dovrai fare altro che dire: ” Ben Bey Kerim’ìn ortagiyim.” Non te lo dimenticherai? Vuol dire:

“Sono il compagno di Kerim Bey.” Ti lasceranno in pace.» Bond sbuffò.

«Tante grazie. Ma io ti farò la sorpresa di accompagnarti. Senza di me po-tresti cacciarti in qualche pasticcio. In ogni modo, che io sia dannato se rimango qui a cercare di ingannare la polizia. La mia pronuncia non è certo quella di un turco e io riuscirei soltanto a insospettire gli agenti. Cominceranno a farmi delle altre domande e allora sarà finita. Non discutere, Darko.»

«Be’, non dare la colpa a me se non troverai lo spettacolo di tuo gradimento.» Kerim sembrava imbarazzato. «Dovrò uccidere un uomo a sangue freddo. Nel mio paese, noi lasciamo in pace i cani che dormono, ma appena si svegliano e mordono, li uccidiamo. Non diamo loro la possibilità di continuare a fare del male. D’accordo?»

«Perfettamente d’accordo,» disse Bond. «Mi resta ancora una cartuccia, se tu dovessi fallire.»

«E allora muoviamoci,» disse Kerim. «Abbiamo ancora parecchia strada da fare. Gli altri due prenderanno un’altra via.»

L’autista porse a Kerim un lungo bastone da passeggio e un astuccio di pelle. Kerim se li gettò su una spalla e si avviò lungo un viale in fondo al quale occhieggiava una luce gialla: il faro del Palazzo del Serraglio. I passi rimbombavano nella strada deserta e riecheggiavano contro le saraci-nesche abbassate dei negozi. Non c’era in giro anima viva, neppure un gatto, e Bond fu lieto di non trovarsi solo a percorrere quel lungo viale in direzione del lugubre occhio giallo. Fin dai primi istanti, Istanbul gli aveva dato l’impressione di essere una città dove di notte lo spavento sbucava fuori persino dai sassi. Gli sembrava una città talmente intrisa di sangue e di violenza, nel corso dei secoli, che gli spiriti dei suoi morti dovevano venire a dominarla, quando la luce del sole svaniva. Il suo istinto gli diceva, come aveva detto anche ad altri viaggiatori, che Istanbul era una città dalla quale si doveva essere contenti di uscire vivi.

I due uomini giunsero in una sudicia viuzza laterale che si sprofon-dava giù per la collina, alla loro destra. Kerim la imboccò e cominciò a scendere, procedendo cautamente sull’acciottolato. «Sta’ attento a dove 136

 

metti i piedi,» disse sottovoce. «Immondizia è una parola raffinata, per indicare quello che la mia cara gente butta in strada.»

La luna scintillava chiaramente lungo l’umido fiume di ciottoli. Bond chiuse la bocca e respirò soltanto col naso. Posò i piedi l’uno dopo l’altro, cautamente, tenendo le ginocchia piegate come se stesse scendendo una china lastricata di ghiaccio. Pensò al letto che lo attendeva al Kristal Palas, e ai soffici sedili della macchina sotto il delicato profumo del tiglio, e si chiese quanti altri odori nauseabondi avrebbe dovuto sopportare prima di giungere al termine della missione.

Giunti alla fine della viuzza, i due uomini si fermarono. Kerim si voltò indietro, rivolse a Bond un largo sorriso, e poi indicò un grande edificio che torreggiava nell’oscurità. «La moschea di Ahmet. Famosi affreschi bizantini. Mi spiace di non avere il tempo di farti vedere le bellezze del mio paese.» Senza attendere risposta, Kerim piegò a destra e infilò un viale polveroso costeggiato da bottegucce che si allineavano fitte e scendevano verso il lontano riverbero del Mar di Marmara. Cammi-narono in silenzio per una decina di minuti. Poi, Kerim rallentò e con un gesto della mano ordinò a Bond di ripararsi nell’ombra.

«Sarà tutto molto semplice,» disse a bassa voce. «Krilencu vive laggiù, vicino alla ferrovia.» Fece un gesto vago, indicando un gruppo di luci verdi e rosse al termine del viale. «Si nasconde in una capanna dietro un cartellone pubblicitario. La capanna ha una porta che da sull’esterno e una botola sul retro che si apre direttamente nel cartellone. Lui crede che nessuno lo sappia. I miei due uomini andranno alla porta esterna e Krilencu si servirà della botola per scappare. Quando sarà uscito, io lo ucciderò.

D’accordo?»

«Se lo dici tu…»

Ripresero a percorrere il viale, rasentando i muri. Dopo dieci minuti, giunsero in vista di una palizzata alta cinque o sei metri che era stata alzata di fronte al crocicchio a forma di T al termine della strada. La luna splendeva dietro la palizzata; la facciata dell’impalcatura era immersa nell’oscurità. Ora Kerim procedeva ancora più cautamente. La zona d’ombra terminava a un centinaio di metri dalla palizzata; più avanti, la luce della luna illuminava vividamente il crocicchio. Kerim si fermò all’altezza dell’ultimo portone in ombra e trasse Bond vicino a sé. «Ora dobbiamo aspettare,»

sussurrò. Bond sentì che Kerim si agitava dietro di lui. L’astuccio di pelle produsse un piccolo rumore sordo, nell’aprirsi, e, subito dopo, Kerim 137

 

consegnò al compagno un sottile e pesante tubo d’acciaio lungo circa sessanta centimetri, munito di un rigonfiamento alle due estremità. «Telescopio. Modello tedesco,» sussurrò Kerim. «Lenti infrarosse. Per vedere al buio. Da’ un’occhiata a quel grande cartello pubblicitario laggiù. Alla faccia. Proprio sotto il naso. Riuscirai a scorgere i contorni della botola. In linea diretta sotto la cabina di segnalazione.»

Bond appoggiò l’avambraccio allo stipite del portone, alzò il tubo all’occhio destro, e lo puntò sulla superficie della palizzata tuttora nascosta nell’ombra. Lentamente, il nero si fece grigio. Bond riuscì dapprima a distinguere il contorno di un enorme viso femminile e qualche lettera cubi-tale, poi lesse l’intera dicitura: «NIAGARA. MARILYN MONROE VE

JOSEPH COTTEN» e, più sotto, l’annuncio di un cartone animato: BON-ZO FUTBOLOU. Bond fece scivolare le lenti lungo la vasta massa dei capelli della Monroe e più in giù, oltre il dirupo della fronte e un metro di naso, fino alle narici cavernose. Si distingueva il debole contorno di una botola quadrata di circa un metro di lato. C’era un bel salto da fare, per arrivare a terra. Bond udì alle sue spalle una serie di scatti metallici. Kerim protese in avanti il bastone da passeggio. Come Bond aveva imma-ginato, il bastone non era altro che un fucile, una carabina con l’impugnatura di metallo che fungeva an- 1 che da otturatore. Il tozzo cilindro del silenziatore aveva sostituito il puntale di gomma.

«Cassa del nuovo Winchester 88,» mormorò orgogliosamente Kerim.

«Messa assieme da me e da un uomo di Ankara. Spara proiettili da 308.

Dammi il cannocchiale. Devo inquadrare la botola prima che i miei uomini arrivino alla porta esterna. Ti spiace se mi appoggio alla tua spalla?»

«Fa’ pure.» Bond passò a Kerim il telescopio. Kerim lo agganciò alla parte superiore della canna e fece scivolare il fucile sulla spalla di Bond.

«Eccola,» sussurrò Kerim. «Proprio dove ha detto Vavra. È un gran brav’uomo.» Abbasso il fucile, proprio mentre due poliziotti sbucavano dall’angolo destro del crocicchio. Bond si irrigidì.

«Tutto in ordine,» mormorò Kerim. «Sono il mio ragazzo e l’autista.»

Mise due dita in bocca e fece un rapidissimo fischio che durò la frazione di un secondo. Uno dei due agenti si portò la mano alla nuca; poi, i due poliziotti si girarono e sparirono facendo risuonare sul selciato i tacchi degli stivali.

«Ancora qualche minuto,» sussurrò Kerim. «Devono girare attorno al manifesto pubblicitario.» Bond sentì il peso della canna della carabina 138

 

sulla spalla destra.

Il silenzio della notte fu rotto da un forte rumore metallico proveniente dalla cabina di segnalazione dietro il manifesto. Una delle alette dell’avvisatore si abbassò. Una piccolissima luce verde si accese in mezzo alle lampade rosse. Dal Promontorio del Serraglio venne un basso brontolìo che a poco a poco si trasformò nell’ansare di una locomotiva e nello sferragliare di una lunga serie di vagoni merci malamente accoppiati. Un pallido chiarore giallo apparve lungo l’argine a sinistra. La locomotiva avanzò faticosamente lungo i binari che sovrastano il cartellone pubblicitario.

Il convoglio iniziò il suo viaggio di quasi duecento chilometri verso la frontiera greca. Il frastuono si affievolì a poco a poco e poi svanì completamente. Bond sentì il fucile premere con più forza sulla sua spalla; cercò di distinguere qualcosa sul bersaglio buio. La botola si doveva essere aperta perché gli sembrò di notare un quadrato nero nel centro del manifesto.

Bond portò cautamente la mano a visiera davanti agli occhi, per riparare lo sguardo dalla luce della luna. Dietro il suo orecchio destro, la voce di Kerim sibilò: «Sta arrivando.»

Fuori dalla bocca dell’enorme cartellone, nel centro delle grandi labbra scarlatte, socchiuse estaticamente, apparve la forma scura di un uomo; la figura rimase appesa alle labbra e diede a Bond l’impressione di un verme che stesse uscendo dalla bocca di un cadavere.

L’uomo si lasciò cadere a terra. Una nave che procedeva verso il Bosforo ululò sinistramente nella notte. Bond aveva la fronte imperlata di sudore. L’uomo cominciò a dirigersi agilmente verso di loro; la canna del fucile si sollevò. Quando quell’uomo raggiungerà il limite dell’ombra, comincerà a correre, pensò Bond. Tu, maledetto pazzo, abbassa la mira.

Ora. L’uomo si curvò per prendere lo slancio e superare il pezzo di strada illuminato dalla luna. Stava per uscire dall’ombra. Aveva piegato la gamba destra in avanti e aveva girato la spalla per iniziare la corsa.

L’udito di Bond fu colpito da un rumore simile al tonfo di un ascia che affonda nel tronco di un albero. L’uomo si tuffò in avanti a braccia aperte. La sua fronte, o il suo mento, produsse un rumore secco, battendo sul selciato.

Un bossolo vuoto tintinnò ai piedi di Bond ed egli sentì il clik della cartuccia seguente che entrava in canna.

139

 

Le dita dell’uomo artigliarono debolmente la polvere della strada. Le sue scarpe colpirono il suolo. Poi non si mosse più.

Kerim grugnì. La carabina si sollevò dalla spalla di Bond, ed egli rimase in ascolto dei suoni metallici che produceva Kerim smontando il fucile e riponendo il telescopio nell’astuccio.

Bond diede un’ultima occhiata all’uomo steso nella polvere, e provò un attimo di risentimento verso la vita che lo aveva reso testimone di queste scene. Non aveva alcun risentimento verso Kerim. Egli era stato per due volte il bersaglio dell’uomo che ora era morto. In un certo senso, era stato un lungo duello, durante il quale l’uomo aveva avuto la possibilità di sparare due volte, contro un solo colpo di Kerim. Ma Kerim era il rivale più astuto, più freddo, più fortunato, e aveva vinto la partita. In ogni modo, Bond non aveva mai ucciso a sangue freddo e non gli era piaciuto presenziare e favorire un atto simile.

Senza parlare, Kerim gli afferrò il braccio. Abbandonarono il cadavere al suo destino e ripercorsero lentamente il cammino dal quale erano venuti.

Kerim parve intuire i pensieri di Bond. «La vita è piena di morte, amico mio,» disse filosoficamente. «E spesso un individuo è costretto a essere lo strumento della morte. Io non mi rammarico di aver ucciso quell’uomo. E neppure mi spiacerebbe di uccidere uno qualsiasi dei russi che abbiamo visto oggi. Quella è gente dura. Con loro, ciò che non otterresti con la forza, non riusciresti a ottenere neppure con la pietà. Sono tutti uguali, i russi. Vorrei che il tuo Governo lo capisse e usasse dei modi forti, con loro. Basterebbe soltanto una piccola lezione di buone maniere, di tanto in tanto, come quella che ho impartito loro questa notte.»

«In politica, non si ha molto spesso la possibilità di agire così rapidamente e precisamente come hai fatto tu questa notte, Darko. E non dimenticare che tu hai insegnato le buone maniere a un uomo che è soltanto uno dei tanti satelliti dei russi, un individuo che essi possono rimpiazzare quando vogliono. Bada bene,» disse Bond, «io sono d’accordo con te, riguardo ai russi. Essi non riescono a capire la carota, ecco tutto. Solo il bastone ha qualche effetto. Fondamentalmente, sono dei masochisti. A loro piace essere fustigati. Per questo motivo erano felici sotto il regime di Stalin. Stalin sapeva manovrare la frusta magnificamente. Ma io non so come reagiranno di fronte alle carote di Kruscev e C. In quanto all’Inghilterra, il guaio è che oggi le carote sono di moda per tutti. In casa e all’estero. Noi non mo-140

 

striamo più i denti… mostriamo soltanto le gengive.»

Kerim rise sarcasticamente ma non fece alcun commento. I due uomini stavano affrontando la viuzza ripida e fetida ed era meglio risparmiare il fiato. Si fermarono al culmine della salita, e poi proseguirono lentamente verso gli alberi della Piarza dell’Ippodromo.

«Mi perdoni per il fatto di questa sera?» Era strano sentire ura vena-tura di ansia nella voce solitamente autoritaria di quel gigante.

«Perdonarti? Perdonarti che cosa? Non essere ridicolo.» La voce di Bond era affettuosa. «Tu hai un lavoro da svolgere e lo esegui. Sono rimasto molto impressionato. Sei organizzato magnificamente, qui. Sono io che dovrei scusarmi. Mi sembra di aver portato un sacco di guai, con la mia venuta. Tu ti sei dato da fare e io non ho fatto altro che venirti dietro.

Circa la mia missione, non sono ancora riuscito a cavare un ragno dal bu-co. M. comincerà ad essere un po’ impaziente. Spero di trovare un messaggio, all’albergo.»

Ma quando Kerim condusse Bond all’albergo e chiese al portiere se ci fosse un messaggio per il suo amico, questi rispose negativamente.

Kerim si rivolse a Bond e gli batté sulla spalla. «Non preoccuparti, amico mio,» disse allegramente. «Il mattino ha l’oro in bocca. Ti manderò a prendere e, se non è successo nulla, penserò a qualche altra piccola avventura, tanto per farti passare il tempo. Metti in ordine la tua pistola e dormici sopra. Entrambi ci siamo meritati un buon riposo.»

Bond salì nella sua stanza e chiuse la porta a chiave dietro di sé. La luce della luna filtrava attraverso la tende socchiuse. Bond attraversò la stanza e accese le luci rosa sul tavolo della toilette. Poi si spogliò completamente e andò in bagno dove rimase sotto la doccia per qualche minuto.

Pensò che il sabato giorno 14 era stato molto più ricco di eventi del venerdì giorno 13. Si pulì i denti, fece un gargarismo con una lozione molto forte per liberarsi del sapore della giornata, spense le luci del bagno e tornò nella stanza da letto.

Bond scostò la tenda e spalancò le grandi vetrate. Rimase immobile a contemplare la grande ansa del fiume sotto la luce splendente della luna.

La brezza notturna era una carezza deliziosa sul suo corpo nudo. Guardò l’ora: erano le due.

Bond sbadigliò e rabbrividì; poi lasciò ricadere la tenda e si curvò per spegnere le luci del tavolo della toilette. Improvvisamente si irrigidì e il suo cuore perse un battito.

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Nell’ombra della stanza era risuonato un risolino nervoso e soffocato.

Una voce femminile disse: «Povero Mister Bond. Dovete essere stanco.

Venite a letto.»

20 Nero su rosa

Bond si rigirò. Guardò in direzione del letto, ma i suoi occhi erano ancora abbacinati dalla luce. Andò a tentoni verso il comodino e accese la lampadina. Sul letto c’era un corpo flessuoso coperto soltanto dal lenzuolo; le punte delle dita facevano capolino sull’orlo del drappo che era tirato su a nascondere un viso. Più sotto, i seni eretti puntavano contro il tessuto e sembravano due colline sotto la neve.

Bond sogghignò e diede una tiratina ai capelli che erano sparsi sul guanciale. Da sotto il lenzuolo si alzò un gridolino di protesta. Bond si sedette sull’orlo del letto. Dopo un attimo di silenzio, una mano abbassò cautamente un angolo del lenzuolo e un grande occhio azzurro squadrò severamente James.

«Mi sembrate piuttosto indecente.» La voce era soffocata dal lenzuolo.

«Che cosa dovrei dire di voi? Come avete fatto a capitare qui?»

«Sono scesa a piedi dal terzo piano. Anch’io abito qui.» La voce era profonda e provocante. L’accento era quasi perfetto.

«Be’, io sto per andarmene a letto.»

Il lenzuolo si abbassò rapidamente fino al mento della ragazza che si sollevò sui cuscini. La sconosciuta era rossa in volto. «Oh, no. Non fatelo.»

«Ma è il mio letto. E in ogni modo, siete stata Voi a dirmi di entrarci.» Il viso era incredibilmente bello. Bond lo fissò sfacciatamente. Il rossore si fece più intenso.

«Era soltanto un modo di dire; tanto per farvi accorgere della mia presenza.»

«Bene. Sono felicissimo di fare la vostra conoscenza. Io mi chiamo James Bond.»

«E io, Tatiana Romanova.» La ragazza strascicò il secondo a di Tatiana e il primo di Romanova. «I miei amici mi chiamano Tania.»

Ci fu una pausa, durante la quale i due si squadrarono reci-procamente: la ragazza con una certa curiosità e anche con una strana 142

 

espressione di sollievo, Bond con uno sfacciato cinismo.

Fu la ragazza a rompere il silenzio. «Sei proprio come nelle fotografie,» arrossì nuovamente. «Ma devi metterti qualcosa addosso. Mi vergogno.»

«Anch’io mi vergogno quanto te. La chiamano sessualità. Se io ve-nissi a letto con te, non avrebbe molta importanza. Comunque, tu che cosa hai addosso?»

La ragazza abbassò il lenzuolo di qualche centimetro per mostrare un nastro di velluto nero che le cingeva la gola.

«Questo.»

Bond la fissò negli occhi vivaci, che ora erano sgranati quasi a chiedere se il nastro non fosse adatto alla situazione. Sentì che stava perdendo il controllo del suo corpo.

«Accidenti, Tania. Dove hai messo la tua roba? Non vorrai farmi credere che sei scesa dal terzo piano soltanto con un nastro attorno al collo!»

«Oh, no! Non sarebbe stato kulturny. La mia roba è sotto il letto.»

«Be’, se tu credi di uscire da questa stanza senza…»

Bond non terminò la frase. Si alzò e indossò la giacca di seta blu, che usava come tutto pigiama.

«Ciò che mi stai suggerendo non è kulturny. »

«Davvero?» chiese Bond, sarcastico. Tornò verso il letto e si accomodò su una sedia. «Ebbene, ti dirò io qualcosa di kulturny. » Le sorrise e poi continuò: «Sei una delle più belle donne del mondo.»

La ragazza arrossì ancora, e lo fissò seriamente. «Stai proprio dicendo la verità? Io sono sicura di avere la bocca troppo grande. Sono bella come le ragazze occidentali? Una volta mi hanno detto che somiglio a Greta Garbo. È vero?»

«Sei ancora più bella,» disse Bond. «Hai un viso più aperto. E la tua bocca non è poi così grande. Io la trovo perfetta.»

«Che cosa vuol dire “viso aperto”?»

Bond voleva dire che Tania non sembrava una spia russa, che sembrava ingenua, niente affatto fredda o calcolatrice. Voleva dire che Tania irradiava calore umano e gaiezza. Lo si poteva vedere dal luccichio degli occhi. Bond cercò una frase non compromettente. «I tuoi occhi sono allegri e scherzosi,» disse, non trovando altro di meglio.

Tatiana rimase seria. «È strano. In Russia non c’è molta allegria.

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Nessuno parla di queste cose. Nessuno me l’ha mai detto prima d’ora.»

Allegria? Negli ultimi due mesi, soprattutto? Come poteva sembrare allegra, pensò Tania. Ma pure, c’era una certa allegria nel suo cuore. Forse la sua natura era quella di essere una donna perduta? Oppure era un sentimento che aveva qualche rapporto con quell’uomo che non aveva mai visto prima di allora? Un certo sollievo, dopo l’angoscia di dover pensare alla sua missione? Era certo molto più facile di quanto lei aveva pensato.

Quell’uomo rendeva tutto più facile, certo. Era un divertimento con un pizzico di pericolo. James era terribilmente bello. E sembrava molto pulito.

Sarebbe riuscito a perdonarla, quando fossero arrivati a Londra e James avrebbe saputo tutto? Quando Tania gli avesse rivelato che era stata mandata da lui per sedurlo? Che sapeva quando ciò sarebbe avvenuto, e persino il numero della sua camera? Certamente, a James non sarebbe importato nulla. Era solo un modo per riuscire a farsi portare in Inghilterra e per compilare quei famosi rapporti. Allegria nei suoi occhi? Perché no, in definitiva? Era possibile. Provava una magnifica sensazione di libertà, nel trovarsi sola con quell’uomo e nel sapere che non sarebbe stata punita per ciò che avrebbe fatto. Era veramente una sensazione eccitante.

«Sei molto bello,» disse Tania. Cercò un paragone adatto. «Sei bello come un divo del cinema americano.»

Tania trasalì alla reazione di James. «Per l’amor di Dio! È il peggiore insulto che tu possa fare a un uomo.»

Tania si affrettò a rimediare allo sbaglio. Era strano che quel complimento non gli fosse piaciuto. In Occidente era dunque un’offesa essere paragonati a un divo del cinema? «Ho mentito,» disse. «Volevo farti un complimento. In realtà tu sei simile al mio eroe preferito. L’ho trovato in un libro di uno scrittore russo che si chiama Lermontov. Un giorno ti racconterò la sua storia.»

Un giorno? Bond pensò che era ora di dedicarsi agli affari. «Ora stammi a sentire, Tania.» Bond cercò di distogliere lo sguardo dallo splendido viso appoggiato al cuscino, e spostò gli occhi sulla punta del mento della ragazza. «Smettiamola di scherzare e parliamo seriamente. Che cos’è tutta questa faccenda? Sei veramente disposta a seguirmi in Inghilterra?»

La ragazza alzò lo sguardo fino a incontrare quello di Bond. Era fatale.

Aveva di nuovo spalancato gli occhi con quella maledetta ingenuità.

«Naturalmente!»

«Oh!» Bond fu sconcertato dalla franchezza della risposta. La guardò 144

 

sospettosamente. «Ne sei proprio sicura?»

«Sì.» Quegli occhi non potevano mentire. La ragazza aveva smesso di flirtare. «Non hai paura?»

Bond vide un’ombra che le appannò per un attimo gli occhi. Ma non era quel che lui pensava. Tania si era ricordata di avere una parte da recitare. Avrebbe dovuto sembrare spaventata per quello che stava per fare.

Terrorizzata. Le era sembrata così facile, quella parte, ma ora si rivelava assai difficile. Come era strano! Decise di arrivare a un compromesso.

«Sì, ho paura; ma ora non più così tanta. So che tu mi proteggerai.

L’ho sempre pensato.»

«Be’, lo farò certamente.» Bond pensò ai parenti della ragazza che erano rimasti in Russia, ma cancellò rapidamente quel pensiero dalla sua mente. Che cosa stava facendo? Voleva cercare di dissuaderla di venire in Inghilterra? Impedì alla sua mente di pensare alle conseguenze che avrebbe dovuto affrontare Tania. «Non devi preoccuparti di nulla. Io mi prenderò cura di te.» E ora doveva decidersi a formulare la domanda che sino ad allora aveva cercato di evitare. Si sentì ridicolmente imbarazzato. Quella ragazza non era affatto il tipo che si era aspettato di incontrare. Avrebbe rovinato tutto, ponendole la domanda. Comunque, doveva decidersi.

«E l’apparecchio?»

Sì. Fu proprio come se Bond l’avesse colpita sul viso. Gli occhi della ragazza si riempirono di dolore e trattennero a stento le lacrime.

Tatiana si tirò il lenzuolo sulla bocca e parlò con voce soffocata. Il suo sguardo si era fatto gelido.

«Tu desideri soltanto l’apparecchio, non è vero?»

«Ascoltami.» Bond cercò di assumere un tono indifferente. «Quell’apparecchio non ha alcun rapporto con noi. Ma i miei superiori di Londra lo vogliono.» Si ricordò improvvisamente della prudenza, e aggiunse ironicamente: «Non è poi tanto importante. I miei superiori sanno tutto di quell’apparecchio e lo considerano una magnifica invenzione russa. Ne vogliono avere uno da copiare, ecco tutto. Così come voi copiate le macchine fotografiche straniere e altre cose simili.» Dio mio, come era poco convin-cente il suo discorso!

«Tu stai mentendo,» una grossa lacrima rotolò lungo la guancia di Tatiana e cadde sul cuscino. La ragazza nascose gli occhi dietro il lenzuolo.

Bond tese la mano in avanti e cercò di afferrarle il braccio, ma la 145

 

ragazza lo respinse rabbiosamente.

«Al diavolo quell’apparecchio infernale,» disse Bond con impazienza. «Ma, santo cielo, devi pur sapere che io ho una missione da compiere, Tania. Dammi semplicemente una risposta, e poi ce ne dimenticheremo.

Abbiamo molte altre cose da discutere. Dobbiamo preparare il viaggio e così via. Naturalmente i miei superiori vogliono quell’apparecchio, altrimenti non mi avrebbero mandato qui!»

Tatiana si asciugò gli occhi col lenzuolo. Bruscamente, si scoprì fino alle spalle. Si era di nuovo dimenticata del suo lavoro. Era stato soltanto perché… Oh, non importava. Aveva sperato che Bond dicesse che era venuto per lei, e non anche per l’apparecchio. Ma sarebbe stato troppo. James aveva ragione. Aveva una missione da compiere. E lei pure.

Tatiana lo fissò tranquillamente. «Non aver paura. Porterò l’apparecchio con me. Ma ora non parliamone più. Stammi a sentire.» Si raddrizzò sui cuscini. «Dobbiamo partire questa notte.» Si stava ricordando la lezione. «È l’unica possibilità che mi rimane. Questa sera io comincio il servizio notturno alle sei in punto. In ufficio non ci sarà nessuno e io potrò prendere lo Spektor.»

Bond socchiuse gli occhi. In un baleno gli vennero alla mente tutti i problemi che dovevano essere risolti. Dove nascondere l’apparecchio. Co-me trasportarlo sul primo aereo in partenza dopo che la sua scomparsa fosse stata notata. Sarebbe stata una faccenda rischiosa. I russi non avrebbero risparmiato nulla pur di ritornare in possesso dell’apparecchio e della ragazza. Posti di blocco sulla via per l’aeroporto. Bombe sull’aeroplano.

Qualsiasi cosa.

«È magnifico, Tania.» La voce di Bond non rivelava il suo orgasmo.

«Ti terremo nascosta e prenderemo il primo aereo in partenza domani mattina.»

«Non essere stupido.» Tatiana era stata avvisata che a questo punto avrebbe dovuto affrontare qualche difficoltà. «Viaggeremo in treno. Sull’Orient Express. Parte alle nove di questa sera. Credi che non ci abbia pensato? Non voglio rimanere un minuto di più a Istanbul. All’alba avremo già passato la frontiera. Devi procurarti i biglietti e un passaporto. Io viaggerò con te come tua moglie.» Lo guardò serenamente. «Sarò così felice! In uno di quei scompartimenti separati di cui ho letto nei libri. Dovrebbero essere molto comodi. Come una piccola casa sulle ruote. Di giorno parleremo e leggeremo, e di notte tu starai fuori nel corridoio a fare la guardia alla 146

 

nostra casa.»

«Il tuo programma non mi attrae molto, ma avremo tempo di discu-terlo,» disse Bond. «Comunque, la tua proposta mi sembra pazzesca.

Facendo come tu dici, le probabilità di farci prendere aumenterebbero. Per arrivare a Londra con quel treno, ci vogliono cinque giorni e quattro notti.

Dobbiamo cercare un’altra soluzione.»

«No,» disse debolmente la ragazza. «Ti seguirò soltanto se viaggere-mo su quel treno. Se tu sei furbo, come faranno a scoprirti?»

Oh, cielo, pensò Tatiana. Perché hanno tanto insistito sul viaggio in treno? Erano stati così categorici! Le avevano detto che era un luogo ideale per fare all’amore. Avrebbe avuto quattro giorni di tempo per riuscire a farlo innamorare di lei. E perciò, quando fossero arrivati a Londra, tutto sarebbe stato più facile. James l’avrebbe protetta. Se invece fossero volati direttamente a Londra, all’arrivo l’avrebbero spedita direttamente in prigione. I quattro giorni erano essenziali. Inoltre, l’avevano avvisata che sul treno ci sarebbero stati degli uomini per impedirle di scappare. Doveva stare attenta e ubbidire agli ordini. Oh cielo. Oh cielo. Inoltre, ora desiderava ardentemente di restare con lui per quattro giorni nella casetta sulle ruote.

Che strano! Una parte della sua missione consisteva nel convincere Bond a viaggiare in treno. Ora era questo il suo desiderio appassionato.

Tatiana osservò il viso pensieroso di Bond. Avrebbe voluto allungare una mano verso di lui e rassicurarlo che tutto sarebbe andato bene; che l’intera faccenda non era altro che una innocua konspiratsia per farla arrivare fino a Londra; che nessun danno poteva colpirli perché non era quello lo scopo del complotto.

«Be’, io continuo a pensare che si tratti di un piano pazzesco,» disse Bond, che si chiedeva quale sarebbe stata la reazione di M. «Ma suppongo che potremmo farcela. Sono già in possesso del passaporto. Manca soltanto il visto per la Jugoslavia,» la fissò duramente. «E non pensare di convin-cermi a passare dalla Bulgaria, o comincerò a credere che tu mi voglia rapire.»

«Proprio così.» Tatiana fece una risatina. «Desidero proprio rapirti.»

«Adesso smettila, Tania, e stammi a sentire. Mi procurerò i biglietti e mi farò accompagnare fino a Londra da uno dei nostri agenti, nel caso che io avessi bisogno di aiuto. È un’ottima persona. Piacerà anche a te. Il tuo nome è Caroline Somerset. Non dimenticartelo. Come farai ad arrivare fino al treno?»

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« Karolin Siomerset, » la ragazza rigirò il nome nella sua mente. «È

un bel nome. E tu sei Mister Siomerset.» Ella rise felice. «Che divertente!

Non preoccuparti per me. Arriverò al treno proprio prima che parta. Alla stazione di Sirkeci. So dove si trova. Non c’è altro. E tu non ti devi preoccupare più. Va bene?»

«Supponiamo che tu commetta un errore. Supponiamo che loro ti colgano sul fatto?» Bond si meravigliò improvvisamente della tranquillità della ragazza. Come poteva essere così sicura? Venne colto da una sensazione di disagio.

«Prima di vederti ero spaventata. Ora non lo sono più.» Tatiana cercò di convincersi che questa era la pura verità. In fondo in fondo lo era davvero. «Non commetterò nessun errore. E loro non mi coglieranno, come tu dici. Lascerò le mie cose in albergo e prenderò soltanto la borsa.

Non posso assolutamente lasciar qui la mia pelliccia. Mi piace troppo. Ma oggi è domenica e nessuno ci farà caso. Questa sera, alle otto e mezzo, uscirò dall’ufficio e prenderò un taxi fino alla stazione. E ora smettila di essere preoccupato.» Impulsivamente, Tania allungò una mano verso di lui. «Dimmi che sei felice.»

Bond si sedette sull’orlo del letto, prese la mano della ragazza e la guardò negli occhi. Buon Dio, pensò, speriamo che vada tutto bene. Speriamo che questo piano pazzesco riesca. È possibile che questa ragazza, finga? Dirà la verità? Gli occhi non gli rivelarono altro che la ragazza era felice, che voleva amarlo, e che lei stessa era meravigliata di ciò che le stava succedendo. L’altra mano di Tatiana gli cinse il collo e lo attirò verso di lei. Dapprima, la bocca della ragazza tremò sotto quella di Bond, poi, a mano a mano che la passione la possedeva, si concesse in un bacio senza fine.

Bond si stese sul letto. Mentre la sua bocca continuava a baciarla, la sua mano corse al seno sinistro della donna e lo afferrò, sentendo sotto le dita il capezzolo gonfio di desiderio. La mano scese lentamente lungo il morbido ventre piatto. Tatiana gemette dolcemente e staccò la bocca da quella di Bond. Sui suoi occhi chiusi, le lunghe ciglia fremevano come ali di libellula.

Bond sollevò la mano, afferrò il lenzuolo e lo strappò via. Tatiana era completamente nuda ad eccezione del nastro di velluto attorno al collo e di un paio di calze di seta nera. Le braccia della donna si sollevarono per cercare il corpo di Bond.

148

 

Sopra di loro, e a loro insaputa, al di là del falso specchio dalla cor-nice dorata appeso contro la parete; due fotografi della SMERSH sorvegliavano la scena. Erano seduti in uno stretto vano, così come, prima di loro, erano stati seduti tanti amici del proprietario per assistere alle notti della luna di miele, nella camera che il Kristal Palas riservava a tale scopo.

Le lenti degli obiettivi fissavano freddamente gli appassionati ara-beschi che i corpi dei due amanti intrecciavano e disfacevano per intrec-ciarne di nuovi, e il preciso meccanismo delle cineprese frusciava dolcemente senza mai arrestarsi, mentre il respiro dei due uomini si faceva affannoso e il sudore dell’eccitazione colava dalle loro facce gonfie dentro i colletti spiegazzati.

21 Orient Express

Per tre volte alla settimana, l’Orient Express romba superbamente lungo ventitremila chilometri di lucenti rotaie da Istanbul a Parigi.

La lunga locomotiva tedesca ansava sommessamente, sotto le luci ad arco, respirando a fatica, col rantolo di un drago malato d’asma. Ogni profondo respiro sembrava essere quello definitivo. Ma poi ne seguiva un altro. Dei piccoli sbuffi di vapore uscivano da sotto le carrozze e svani-vano rapidamente nella calda atmosfera di agosto. L’Orient Express era il solo treno sotto pressione, nella scalcinata stazione di Istanbul. Solo il binario numero tre viveva la tragica poesia della partenza. Le grosse lettere di bronzo sulla fiancata del vagone color azzurro scuro indicavano: COMPAGNIE INTERNATIONALE DES WAGON-LITS ET DES

GRANDS EXPRESS EUROPÉENS. Sotto le lettere, su una lastra di metallo agganciata a dei supporti metallici, era scritto ORIENT EXPRESS, in nero su fondo bianco, e più sotto, su tre righe: ISTANBUL THESSALONIKI BEOGRAD

VENEZIA MILAN

LAUSANNE PARIS

James Bond stava guardando distrattamente una delle insegne più romantiche del mondo. Controllò l’ora, per la decima volta. Le 8,51. Il suo sguardo tornò a fissare l’insegna. Tutte le città erano indicate nella lingua del proprio paese, ad eccezione di MILAN. Perché non MILANO? Bond 149

 

tolse di tasca il fazzoletto e si asciugò il volto. Dove diavolo si era cacciata quella ragazza? L’avevano forse presa? Oppure aveva avuto dei ripensa-menti? Era stato forse troppo violento con lei la notte prima, o, più precisamente, quella mattina stessa, nel grande letto dell’albergo?

8,55. Il monotono ansare della locomotiva si era arrestato. Un soffio di vapore uscì sibilando dalla valvola di sicurezza. A un centinaio di metri di distanza. Bond vide il capostazione che, dopo aver stretto la mano al macchinista e al fuochista, si incamminava lentamente verso la coda del treno chiudendo gli sportelli che erano rimasti aperti nelle carezze di terza classe. I passeggeri, per la maggior parte contadini che tornavano in Grecia dopo aver passato la fine settimana in Turchia coi loro parenti, si sporgevano dai finestrini e chiacchieravano con la folla sorridente che era rimasta sul marciapiede.

Oltre la folla, oltre il marciapiede, oltre le lampade ad arco, là dove l’azzurro della notte e le stelle facevano capolino alla fine della tettoia della stazione, Bond vide accendersi un segnale verde.

Il capostazione continuava ad avvicinarsi. L’inserviente dei vagoni-letto si accostò a Bond. « En voiture, s’il vous plaît. » Due turchi dall’apparenza opulenta baciarono le loro amanti — erano troppo belle per essere le loro mogli —, si arrampicarono sulla piattaforma di ferro e sparirono nell’interno della vettura. Sulla piattaforma non c’erano altri viaggiatori del wagon-lit. L’inserviente, dopo aver rivolto un’occhiata impaziente al passeggero inglese, salì a sua volta nella carrozza.

Il capostazione passò davanti a Bond. Altre due vetture, quelle della prima e della seconda classe, e, all’altezza del bagagliaio, il funzionario avrebbe sollevato la bandierina verde. Bond spinse lo sguardo verso l’interno della stazione ma non vide chi cercava. La lancetta del grande orologio illuminato della stazione scattò in avanti e segnò le nove.

Un finestrino sì abbassò rumorosamente sopra il capo di Bond. La prima cosa che egli pensò fu che il velo nero era troppo rado. L’intenzione di celare la bocca voluttuosa e gli occhi azzurri pieni di eccitazione era ingenua.

«Presto.»

Il treno cominciava a muoversi. Bond afferrò il corrimano e superò i gradini con un balzo. L’inserviente della vettura teneva aperto lo sportello.

Bond entrò tranquillamente nella carrozza. «Madame era in ritardo,» disse l’inserviente. È venuta attraverso il corridoio. Deve essere salita nell’ultima 150

 

carrozza.»

Bond si diresse verso lo scompartimento centrale. Sulla bianca losan-ga di metallo c’erano le cifre 7 e 8 dipinte in nero. La porta era socchiusa.

Bond entrò e chiuse la porta dietro di sé. La ragazza sì era tolta il velo e il cappello di paglia nero, e si era seduta nell’angolo accanto al finestrino.

Indossava un lungo mantello di zibellino lucente, sotto il quale si poteva intravvedere un vestito di seta cruda con la gonna pieghettata, una larga cintura di coccodrillo nero, un paio di calze di nylon color miele e un paio di scarpe pure di coccodrillo nero.

«Tu non hai fiducia, James.»

Bond si sedette accanto a lei. «Tania,» disse, «se ci fosse un po’ di spazio, io ti prenderei sulle ginocchia e ti sculaccerei. Mi hai quasi fatto venire un attacco al cuore. Cosa è successo?»

«Nulla,» disse Tania, candidamente. «Che cosa doveva succedere?

Ti ho detto che sarei arrivata, e infatti sono qui. Tu non hai fiducia. E siccome sono sicura che tu ti interessi più alla mia dote che a me, l’ho messa lì sopra.»

Bond diede un’occhiata distratta alla reticella dei bagagli. Di fianco alle sue valigie c’erano due piccole borse. Bond afferrò la mano di Tatiana.

«Grazie al cielo, sei salva.»

Qualcosa che lei lesse nei suoi occhi, forse il rimorso di dover ammettere a se stesso che era più interessato alla ragazza che all’apparecchio, la rassicurò. Tania trattenne la mano di James tra le sue e si accomodò tranquillamente nel suo angolo.

Il treno stridette leggermente, mentre superava il Promontorio del Serraglio. I fari della locomotiva illuminarono i tetti delle baracche squallide e desolate lungo la linea ferroviaria. Bond prese una sigaretta, con la mano libera, e l’accese. Pensò che tra poco avrebbero oltrepassato il retro del grande cartellone pubblicitario dove Krilencu aveva vissuto… fino a ventiquattro ore prima. Bond rivide la scena in ogni suo dettaglio. L’incro-cio stradale illuminato, i due uomini appostati nell’ombra, l’uomo che scivolava fuori dalla botola in mezzo alle labbra purpuree.

La ragazza lo guardò teneramente. A che cosa stava pensando James? Che cosa stava succedendo dietro quegli occhi freddi, grigioaz-zurri, che a volte diventavano dolci e molto spesso, come la sera precedente, prima che la sua passione divampasse, brillavano come diamanti?

Ora erano velati dai pensieri. Si stava forse preoccupando per lei? Per la 151

 

loro salvezza? Se solo avesse potuto dirgli che non c’era nulla da temere, che lui rappresentava il suo passaporto per l’Inghilterra, lui e la pesante borsa che il capo residente le aveva consegnato quella sera stessa in ufficio. Anche il Capo lo aveva detto. «Ecco il vostro passaporto per l’Inghilterra, caporale,» aveva detto allegramente. «Guardate.» Aveva aperto la cerniera della borsa. «Uno Spektor nuovo di zecca. Fate in modo di non aprire più la borsa e di non abbandonarla fintanto che non sarete arrivata a destinazione. In caso contrario, quell’inglese ve la porterà via e si sbarazzerà di voi. Loro non vogliono altro che questa macchina. Non permettete che ve la portino via o avrete fallito la vostra missione. Capito?»

Una cabina di segnalazione apparve confusamente nelle ombre del crepuscolo, fuori dal finestrino. Tatiana osservò Bond che si era alzato, aveva abbassato il finestrino e si era sporto in fuori col collo teso nell’oscurità. Il suo corpo era vicino al suo. Tatiana mosse il ginocchio in mo-do da toccarlo. Come era straordinaria l’appassionata tenerezza che l’aveva colmata da quando lo aveva visto la notte prima, nudo contro l’oscurità della notte, con le braccia alzate a trattenere le tende, col viso assorto e pallido sotto i capelli neri arruffati. E poi, la straordinaria fusione dei loro occhi e dei loro corpi. La fiamma che si era improvvisamente accesa tra di loro, tra i due agenti segreti, gettali l’uno nelle braccia dell’altra da organiz-zazioni nemiche di due mondi diversi, ognuno con una missione da compiere contro il paese dell’altro, antagonisti per professione e, ciò nonostante, amanti per ordine dei loro governi.

Tatiana allungò una mano e gli tirò leggermente l’orlo della giacca.

Bond sollevò il finestrino, si girò, e le rivolse un sorriso. Lesse qualcosa nei suoi occhi; si curvò, posò le mani sui seni nascosti dalla pelliccia e la baciò appassionatamente sulle labbra. Tatiana si rovesciò indietro, trasci-nando Bond.

Due colpi discreti furono battuti alla porta. Bond si sollevò, prese il fazzoletto e si ripulì in fretta il rossetto dalle labbra. «Dovrebbe essere il mio amico Kerim,» disse. «Devo parlargli. Dirò all’inserviente di preparare i letti. Non muoverti di qui. Non starò via a lungo. Rimarrò fuori dalla porta.» Si chinò in avanti e le carezzò la mano, guardando i suoi occhi spalancati e le labbra imbronciate socchiuse. «Avremo tutta la notte per noi. Ma prima devo essere sicuro che tu sia in salvo.» Bond aprì la porta e scivolò fuori.

La gigantesca figura di Kerim bloccava il corridoio. Il turco era 152

 

appoggiato al corrimano di ottone, fumava, e osservava di malumore il Mar di Marmara che scompariva, mentre il treno si staccava dalla costa e piegava verso l’entroterra dirigendosi verso nord. Bond si appoggiò al corrimano, vicino a lui. Kerim guardò il volto di Bond riflesso nel vetro del finestrino, e disse a bassa voce: «Cattive notizie. Ci sono tre dei loro, su questo treno.»

«Ah!» Un brivido d’angoscia percorse Bond.

«Sono i tre stranieri che abbiamo visto col periscopio. Naturalmente seguono te e la ragazza.» Kerim guardò bruscamente di lato. «Ciò vuol dire che la ragazza ha mentito. O non è così?»

La mente di Bond ragionava freddamente. E così, la ragazza aveva servito da esca. Eppure… No, accidenti. Era impossibile che la ragazza mentisse. La macchina dei cifrari? Forse, oltre a tutto non era nella borsa.

«Aspetta un momento,» disse. Si girò e bussò leggermente alla porta. Bond sentì che Tatiana spostava il chiavistello e toglieva la catena. Entrò e chiuse la porta. La ragazza sembrava sorpresa; aveva creduto che fosse l’inserviente, venuto per preparare i letti.

La ragazza sorrise, raggiante. «Hai finito?»

«Siediti, Tania. Devo parlarti.»

Ella si accorse della sua freddezza e il suo sorriso svanì; si sedette ubbidiente, tenendo le mani in grembo.

Bond rimase in piedi davanti a lei. L’espressione della ragazza non indicava né paura né colpa. No, soltanto sorpresa e una leggera freddezza, tanto per controbilanciare quella di Bond.

«Senti, Tatiana,» la voce di Bond era glaciale. «È successo qualcosa.

Devo guardare in quella borsa e accertarmi se c’è l’apparecchio.»

Tatiana disse con indifferenza: «Prendila pure.» Rimase a osservare, continuando a tenere le mani in grembo. E così, era arrivato il momento.

Proprio come aveva detto il Capo. Avrebbero preso la macchina e si sarebbero sbarazzati di lei; forse l’avrebbero fatta scendere dal treno. Oh, Dio!

Quell’uomo avrebbe agito così, nei suoi confronti.

Bond sollevò le braccia, prese la pesante borsa e la posò sul sedile, poi aprì violentemente la cerniera e guardò dentro. C’era una scatola di metallo con tre file di piccole leve; era simile a una macchina per scrivere.

Bond tenne la borsa aperta verso di lei. «È uno Spektor, questo?»

La ragazza diede un’occhiata distratta alla borsa. «Sì.» Bond richiuse la cerniera e rimise la borsa accanto alle altre, poi si sedette accanto alla 153

 

ragazza. «Sul treno ci sono tre uomini della MGB. Sappiamo che sono gli stessi che sono arrivati lunedì alla vostra base. Che cosa fanno qui, Tatiana?» La voce di Bond si era fatta dolce. Egli non la perdeva di vista, controllando intensamente la sua reazione.

Tatiana alzò gli occhi; erano pieni di lacrime. Erano forse le lacrime di una ragazza che era stata scoperta? Ma il suo viso era soltanto afflitto e sembrava terrorizzato per qualche cosa.

La ragazza allungò una mano e poi la ritrasse. «Non mi butterai giù dal treno, ora che hai l’apparecchio?»

«Naturalmente no,» disse Bond, con impazienza. «Non essere stupida. Ma noi dobbiamo sapere che cosa hanno intenzione di fare quegli uomini. Che cos’è tutta questa faccenda? Sapevi che quegli uomini avrebbero viaggiato con noi?» Bond cercò di leggere qualche indizio nella espressione della ragazza. Poté vedere soltanto un grande sollievo. E che altro?

Un calcolo? Un segreto? Sì, Tatiana nascondeva qualcosa. Ma che cosa?

Tatiana sembrò decidersi. Si passò bruscamente il dorso della mano sugli occhi, poi la tese in avanti e la posò sul ginocchio di Bond. Il segno delle lacrime luccicava sulla pelle. Tatiana voleva a tutti i costi che Bond la credesse.

«James,» disse. «Io non sapevo che quegli uomini ci avrebbero ac-compagnati. Mi è stato detto che sarebbero ripartiti oggi. Ma per la Germania. Pensavo che avrebbero preso l’aereo. È tutto quello che posso dirti.

Ora non devi chiedermi più nulla, fintanto che non saremo in Inghilterra, al sicuro da quella gente. Io ho mantenuto la mia promessa. Sono venuta con l’apparecchio. Abbi fiducia, James. Non aver paura per noi. Io sono sicura che quegli uomini non vogliono farci del male. Sono assolutamente sicura.

Abbi fiducia.» (Ma era proprio così sicura, si chiese Tatiana? E la Klebb, le aveva proprio detto la verità? Ma anche lei doveva avere fiducia; fiducia negli ordini che le erano stati impartiti. Quegli uomini dovevano essere gli agenti mandati per sorvegliare che lei non abbandonasse il treno. Non potevano significare alcun danno. Più tardi, quando fosse arrivata a Londra, James l’avrebbe nascosta, al sicuro dalla SMERSH, e lei gli avrebbe detto tutto quel che lui voleva sapere. Aveva deciso di farlo, nel suo intimo. Ma solo il Signore poteva sapere ciò che sarebbe successo di lei, se ora li avesse traditi. Sarebbero riusciti a raggiungerla, e avrebbero raggiunto anche lui. Lei lo sapeva. Non esistevano segreti, per quella gente. Ed essi non avrebbero avuto alcuna pietà. Tutto sarebbe andato 154

 

bene, fintanto che lei avesse recitato la sua parte. Tatiana guardò il viso di Bond, sperando di scorgervi un segno di fiducia.

Bond scrollò le spalle, e si alzò. «Non so che cosa pensare, Tatiana,»

disse. «Tu mi stai nascondendo qualcosa, e io credo che sia qualcosa di importante. Penso anche che devi credere che si sia al sicuro. Potrebbe anche essere. Potrebbe darsi che il fatto che quegli uomini viaggino con noi non sia altro che una coincidenza. Vado a parlare con Kerim e a decidere che cosa dobbiamo fare. Non preoccuparti. Ti proteggeremo. Ma per ora, dobbiamo stare molto attenti.»

Bond si guardò attorno. Tentò la porta che comunicava con lo scompartimento adiacente. Era chiusa. Decise di bloccarla, quando l’inserviente se ne fosse andato. Avrebbe fatto altrettanto con la porta che dava nel corridoio. Comunque, avrebbe dovuto vegliare. Tutto ciò, per aver voluto fare una luna di miele nella casetta sulle ruote. Bond sorrise amaramente e suonò per chiamare l’inserviente. Tatiana continuava a fissarlo, ansiosa. «Non preoccuparti, Tania,» disse ancora Bond. «Non preoccuparti di nulla. Va’ a dormire, non appena l’inserviente ha preparato i letti. Non aprire la porta, a meno che tu non sia sicura che sono io. Questa notte io rimarrò alzato e farò la guardia. Stabilirò un piano con Kerim. È un brav’uomo.»

Quando l’inserviente entrò, Bond ritornò nel corridoio. Kerim non si era mosso e continuava a fissare l’oscurità fuori dal finestrino.

Bond raccontò a Kerim della conversazione avuta con Tatiana. Non era facile spiegare a Kerim perché avesse tanta fiducia in quella ragazza.

Mentre parlava, e cercava di descrivere quel che aveva letto negli occhi della ragazza e quel che gli suggeriva il suo intuito, si accorse che la bocca del compagno, riflessa nel finestrino, si curvava con ironia.

Kerim sospirò rassegnato. «James,» disse, «ora sei tu che devi decidere. Questa è la tua missione. Ne abbiamo già discusso ampiamente oggi: il pericolo del treno, la possibilità di nascondere la macchina nella valigia diplomatica, la salvezza, o meno, di quella ragazza… Sembra chiaro che Tatiana si è messa completamente nelle tue mani. Ma nello stesso tempo tu ammetti che ti sei arreso a lei. Forse soltanto in parte. Comunque, hai deciso di avere fiducia in lei. Questa mattina, M. mi ha detto per telefono di lasciare a te ogni decisione. E così sia. Ma M. non sapeva che sul treno ci sarebbe stata anche la scorta di tre uomini della MGB. E neppure noi.

155

 

Non credi che, se l’avessimo saputo, il nostro programma sarebbe stato diverso?»

«Sì.»

«E allora, la sola cosa che ci resta da fare è quella di eliminare i tre uomini. Farli scendere dal treno. Lo sa il cielo per che motivo si trovano qui. Io non credo nelle coincidenze, né più né meno come non ci credi tu.

Ma una cosa è sicura, noi non divideremo questo treno con loro. Sei d’accordo?»

«Naturalmente.»

«E allora, lascia fare a me. Almeno per questa notte. Ci troviamo ancora in Turchia e io godo di speciali poteri, nel mio paese. E ho portato con me un mucchio di danaro. Non posso correre il rischio di ucciderli. Il treno avrebbe dei ritardi e tu e la ragazza potreste venire coinvolti nella faccenda. Comunque, riuscirò a fare qualcosa. Due degli uomini hanno dei posti nella carrozza letto. Il tipo più anziano, coi baffi e la pipetta, alloggia nella cabina accanto alla vostra, al numero 6.» Kerim fece un cenno all’indietro col capo. «Viaggia con un passaporto tedesco a nome di “Melchior Benz - rappresentante”. Quello con la carnagione scura, l’armeno, è al numero 12. Anche lui è in possesso di un passaporto tedesco, “Kurt Goldfarb

- ingegnere edile”. Hanno un biglietto fino a Parigi. Ho dato un’occhiata ai loro documenti. Ho una tessera della polizia. Il controllore non ha sollevato obiezioni; ha tutti i passaporti e i biglietti nella sua cabina. Il terzo uomo, quello col foruncolo sul collo, ha anche dei foruncoli in faccia. Un bruto dall’espressione stupida e volgare. Non ho visto il suo passaporto.

Viaggia in carrozza di prima classe, nello scompartimento vicino al mio.

Non dovrà consegnare il passaporto prima della frontiera, ma ha consegnato il biglietto.» Con una mossa da prestigiatore, Kerim estrasse fulmineamente un biglietto giallo di prima classe dalla tasca della giacca. Poi lo fece di nuovo scomparire, e ridacchiò furbescamente.

«Come diavolo hai fatto?»

Kerim continuò a ridacchiare. «Prima di sistemarsi per la notte, quello stupido bue è andato al gabinetto. Io mi trovavo in corridoio e improvvisamente mi sono ricordato di come facevo a viaggiare gratis in treno, quand’ero ragazzo, rubando i biglietti dei passeggeri. Gli ho lasciato un minuto di tempo. Poi l’ho seguito e ho bussato alla porta del gabinetto. “Controllore,” ho gridato. “Il biglietto, per favore.” Ho ripetuto la frase in francese e in tedesco. Nell’interno c’è stato un movimento. Ho sentito che l’amico 156

 

cercava di aprire la porta e io mi sono appoggiato contro pesantemente, per fargli credere che la serratura non funzionasse bene. “Non scomodatevi, monsieur, ” ho detto educatamente. “Passate il biglietto sotto la porta.” Po-tevo sentire l’uomo che armeggiava e che respirava pesantemente. Poi c’è stata una pausa e un fruscio sotto la porta. Il biglietto era là. Ho detto ancora: ” Merci, monsieur“, ho raccolto il biglietto e me ne sono andato.»

Kerim agitò leggermente la mano. «Quello stupido idiota ora starà dormendo pacificamente. Crederà che il suo biglietto gli verrà restituito alla frontiera. Ma si sbaglia. Il biglietto verrà invece ridotto in cenere e la cenere dispersa ai quattro venti,» Kerim gesticolò verso l’oscurità. «Farò in modo che quel tizio venga fatto scendere dal treno, anche se possiede tutto il danaro del mondo. Gli diranno che le circostanze richiedono una inda-gine e che le sue dichiarazioni dovranno essere controllate all’agenzia di viaggi. Gli verrà concesso di proseguire sul treno successivo.»

Bond sorrise, ascoltando il quadro che gli stava tracciando Kerim.

«Sei un asso, Darko. E gli altri due?»

Darko Kerim scrollò le spalle massicce. «Mi verrà in mente qualcosa,» disse, sicuro di sé. «Il miglior modo di combattere i russi è quello di farli passare per stupidi. Metterli in imbarazzo. Deriderli. Non possono sopportarlo. In qualche modo, faremo venire loro i sudori freddi. Dopo di che, lasceremo che la MGB pensi a punirli per non aver portato a termine la loro missione. Senza dubbio, penserà la loro stessa gente a far loro la festa.»

Mentre stavano parlando, l’inserviente uscì dallo scompartimento numero 7. Kerim si girò verso Bond e gli posò una mano sulla spalla.

«Non aver paura, James,» disse allegramente. « Riusciremo a battere questa gente. Va’ dalla tua ragazza. Ci vedremo domani mattina. Non riusciremo a dormire molto, questa notte, ma è necessario. Ogni giorno è un giorno differente. Forse riusciremo a dormire domani.»

Bond osservò il gigante che si muoveva agilmente lungo il corridoio.

Notò che, nonostante gli scossoni del treno, le spalle di Kerim non sfioravano mai le pareti. Bond provò un’ondata di affetto per la dura, allegra spia professionale.

Kerim sparì nell’interno della cabina del controllore. Bond si girò e bussò leggermente alla porta dello scompartimento numero 7.

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22 Fuori dalla Turchia

Il treno continuò a ululare nell’oscurità della notte. Bond guardava il paesaggio illuminato dalla luce della luna che fuggiva velocemente sotto i suoi occhi. Si concentrò per rimanere sveglio.

Ogni cosa lo induceva al sonno: il ritmico galoppo metallico delle ruote, l’ondeggiare ipnotico dei fili del telegrafo, il fischio del vapore che di tanto in tanto lacerava la notte, lo stridio monotono dei respingenti alle due estremità del vagone, la ninna nanna cigolante del rivestimento di legno della cabina. Anche il debole bagliore violaceo della luce notturna accesa sopra la porta sembrava dirgli: «Farò io la guardia per te. Non può succedere nulla, mentre sono accesa. Chiudi gli occhi e dormi, dormi.»

La testa della ragazza era greve e calda sulle sue ginocchia. Sarebbe stato così facile scivolare sotto il lenzuolo e stringersi a lei, appoggiando la testa sulla morbida massa dei capelli sparsi sul cuscino.

Le palpebre di Bond si abbassarono ma si rialzarono subito. Egli alzò cautamente il braccio e guardò l’orologio: le quattro. Un’ora soltanto, prima di arrivare alla frontiera turca. Forse avrebbe potuto dormire durante il giorno. Avrebbe dato la pistola a Tatiana, si sarebbe barricato nella cabina e la ragazza avrebbe fatto la guardia.

Contemplò ancora il bellissimo viso immerso nel sonno. Come sembrava innocente: le ciglia che orlavano il morbido rilievo della guancia, le labbra socchiuse, la folta massa dei capelli arruffati che egli avrebbe voluto ricomporre con una carezza, la pulsazione regolare del collo scoperto…

Si sentì invadere da un’ondata di tenerezza e da un invincibile desiderio di prenderla tra le braccia e di stringersela contro il petto. Avrebbe voluto svegliarla, forse da un sogno, per baciarla, per dirle che tutto andava bene e per vederla addormentarsi di nuovo, felice.

Era stata la ragazza a voler dormire in quel modo. «Non mi addormenterò, se tu non mi starai vicino,» aveva detto. «Devo sapere che tu sei qui con me. Sarebbe terribile se mi svegliassi e non ti potessi toccare. Ti prego, James. Ti prego, duschka.»

Bond si era levato la giacca e la cravatta, e si era sistemato in un angolo, coi piedi sulla valigia e la Beretta sotto il cuscino, a portata di ma-no. Tatiana non aveva fatto alcun commento circa la pistola. Si era spogliata completamente, conservando su di sé soltanto il nastro nero, e aveva preteso di non essere provocante, mentre si arrampicava impudicamente 158

 

nella cuccetta e si agitava in cerca della posizione più comoda. Poi aveva teso le braccia verso di lui. Bond le aveva preso il viso tra le mani e l’aveva baciata lungamente. Quindi le aveva detto di dormire e si era appoggiato al cuscino, aspettando freddamente che i suoi sensi si calmassero. Tatiana aveva brontolato qualcosa e si era allungata, con un braccio appoggiato alle cosce di Bond.

Bond decise bruscamente di cancellare questi pensieri dal cervello e di occuparsi invece del viaggio.

Presto, sarebbero stati fuori dalla Turchia. Ma in Grecia sarebbe stato più facile? I rapporti tra la Grecia e l’Inghilterra non erano poi così felici! E

la Jugoslavia? Da che parte tendeva Tito? Probabilmente da entrambe le parti. Qualunque fosse la meta dei tre uomini della MGB, essi erano già al corrente della presenza di Bond e di Tatiana su quel treno, o l’avrebbero saputo ben presto. Bond e la ragazza non potevano rimanere chiusi in quello scompartimento per quattro giorni, con le tendine abbassate. La loro presenza sarebbe stata comunicata alla base russa di Istanbul, tramite una telefonata fatta da qualche stazione, e comunque, la scomparsa dello Spektor sarebbe stata scoperta quella mattina stessa. E dopo, che cosa sarebbe successo? Una procedura diplomatica di urgenza tramite l’Ambasciata russa di Atene o di Belgrado? Avrebbero fatto scendere la ragazza dal treno come una ladra? O sarebbe stato troppo semplice? E se invece la faccenda fosse stata più complicata, se tutto ciò facesse parte di un complotto misterioso, di una tortuosa macchinazione russa? Avrebbe forse fatto bene a eluderla? Avrebbe dovuto scendere dal treno con la ragazza, a qualche stazione secondaria e poi, in qualche modo, prendere un aereo per Londra?

Fuori, la luce dell’alba aveva cominciato a colorare di azzurro gli alberi fuggenti e le rocce. Bond guardò l’ora. Le cinque. Tra poco sarebbero giunti a Uzunkopru. Che cosa stava succedendo nell’altra carrozza? Che cosa era riuscito a fare Kerim?

Bond si appoggiò all’indietro, più calmo. Dopo tutto, c’era una semplice risposta logica ai suoi problemi. Se essi fossero riusciti a sbarazzarsi rapidamente dei tre uomini della MGB, avrebbero potuto continuare il loro viaggio in treno e svolgere il piano originale. In caso contrario, Bond avrebbe potuto abbandonare il treno, e, con la ragazza e la macchina, raggiungere direttamente Londra dalla Grecia. Ma, se gli inconvenienti fossero stati risolti, Bond avrebbe proseguito. Bond e Kerim erano uomini pieni di risorse. Kerim aveva un agente a Belgrado che sarebbe venuto a 159

 

prenderli al treno. E poi c’era sempre l’Ambasciata.

Il cervello di Bond continuò a fantasticare, aggiungendo dei prò, e togliendo dei contro. Giunto al termine del suo ragionamento, Bond dovette ammettere a se stesso che era posseduto da un insano desiderio di proseguire e di arrivare fino in fondo al gioco per capire quale fosse il fonda-mento dell’intera faccenda. M. gli aveva lasciato carta bianca e Bond aveva sotto mano sia la ragazza che la macchina. Perché avere paura? Certamente sarebbe stato un pazzo, se fosse scappato; avrebbe evitato una trappola solo per cadere in un’altra.

Il treno fischiò lungamente e cominciò a rallentare.

Cominciava il primo round. Se Kerim non fosse riuscito… Se i tre uomini fossero rimasti sul treno…

Passò un convoglio di carri merci, trainato da una locomotiva sotto pressione. Una lunga serie di capannoni svanì velocemente. L’Orient Express rallentò sempre di più e, finalmente, con un sospiro dei freni idraulici e il sibilo dello scarico del vapore, si fermò. La ragazza si agitò nel sonno. Bond spostò delicatamente la sua testa sul cuscino, si alzò e scivolò fuori dalla cabina.

Era una tipica stazione secondaria dei Balcani, costruita al livello dei binari, in modo che i passeggeri erano costretti a fare un salto pauroso, per scendere a terra. Alcuni funzionari sporchi e dalle guance non rasate gironzolavano attorno al treno e non si sforzavano neppure di apparire importanti. Una lunga fila di contadini aspettava il disbrigo delle pratiche doganali per prendere d’assalto i vagoni di terza classe.

Nell’edificio della stazione, proprio di fronte a Bond, c’era una porta chiusa sormontata da un cartello con la scritta POLIS. Attraverso i vetri della finestra Bond credette di distinguere le spalle e la testa di Kerim.

« Passeports. Douanes! »

Un uomo in abiti borghesi e due agenti in uniforme verde scura entrarono nel corridoio. Il controllore della carrozza letto li precedeva, bus-sando alle porte.

Giunto alla porta numero 12, il controllore proruppe in un discorso indignato in turco, agitando i passaporti e i biglietti che teneva in mano e facendoli passare ad uno ad uno come se si fosse trattato di un mazzo di carte. Quando ebbe terminato, l’uomo in borghese fece un cenno ai due agenti, bussò leggermente alla porta dello scompartimento e, quando la porta si aprì, entrò. I due agenti rimasero nel corridoio.

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Bond si avvicinò al gruppetto. Riuscì a sentire una conversazione agitata, tenuta in pessimo tedesco. Una delle voci era fredda, l’altra furiosa e spaventata. Il passaporto e il biglietto di Herr Kurt Goldfarb erano man-canti. Herr Goldfarb li aveva forse ripresi dalla cabina del controllore?

Certamente no. Herr Goldfarb non li aveva forse mai consegnati al controllore. Era naturale. In quel caso, la faccenda era molto incresciosa. Si doveva procedere a un’inchiesta. Senza dubbio, il consolato tedesco di Istanbul avrebbe messo a posto le cose (Bond sorrise, a quella prospettiva). Nel frattempo, Herr Goldfarb non poteva proseguire. Senza dubbio sarebbe stato in grado di partire il giorno dopo. Herr Goldfarb doveva vestirsi. Il suo bagaglio sarebbe stato trasportato nella sala di attesa.

L’uomo della MGB che si precipitò fuori dallo scompartimento era un tipo dalla pelle scura: il più giovane dei tre emissari. Il suo viso oliva-stro era grigio dalla paura. Aveva i capelli arruffati ed era vestito unicamente con la parte inferiore del pigiama. Ma non c’era nulla di comico nella fretta con cui percorse il corridoio. L’uomo passò di fronte a Bond, si fermò davanti alla porta numero 6 e, prima di bussare, cercò di ricomporsi.

La porta si socchiuse; Bond ebbe la rapida visione di un baffo e di un grosso naso. Poi la porta si aprì maggiormente e Goldfarb sparì nell’interno. Ci fu una lunga pausa di silenzio, durante la quale l’uomo in abiti borghesi controllò i documenti di due anziane signore francesi che occupavano il numero 9 e 10, e quelli di Bond.

Il funzionario diede un’occhiata rapida al passaporto di Bond, e lo riconsegnò al controllore. «Viaggiate con Kerim Bey, vero?» chiese l’uo-mo distrattamente, esprimendosi in francese.

«Sì.»

« Merci, monsieur. Bon voyage, » salutò e bussò energicamente alla porta numero 6. La porta si aprì e il funzionario entrò.

Cinque minuti dopo, la porta fu spalancata violentemente. Il funzionario si sporse, con un’espressione adirata dipinta sul volto e fece un cenno agli agenti. Disse loro qualcosa in turco, e la sua voce sembrava furiosa.

Poi si voltò nuovamente verso l’interno dello scompartimento. «Considera-tevi in stato di arresto, Mein Herr. La tentata corruzione dei funzionari pubblici è un grave reato, in Turchia.» Ci fu una adirata protesta nel pessimo tedesco di Goldfarb; ma il vociare fu zittito da una dura frase in russo. Un Goldfarb diverso, un Goldfarb dagli occhi spiritati, uscì dallo scompartimento e si diresse barcollando verso il numero 12. Un agente ri-161

 

mase di guardia fuori dalla porta.

«E i vostri documenti, Mein Herr? Venite avanti, per favore. Devo verificare questa fotografia.» L’uomo in abiti borghesi osservò attentamente il passaporto. «Avanti, per favore.»

A malincuore, col grosso viso pallido di rabbia, l’uomo della MGB

che si faceva passare per Benz uscì nel corridoio avvolto in una vistosa vestaglia di seta blu. Il suo sguardo duro si posò su Bond, ignorandolo.

L’uomo in abiti borghesi chiuse seccamente il passaporto e lo restituì al controllore. «I vostri documenti sono in regola, Mein Herr. E ora, per cortesia, il bagaglio. Entrò nello scompartimento seguito dal secondo agente. L’uomo della MGB voltò la schiena a Bond e osservò la perquisizione.

Bond notò il gonfiore sotto la manica sinistra della vestaglia e una protuberanza sotto la cintura. Si chiese se fosse il caso di avvisare l’uomo in abiti borghesi. Decise che avrebbe fatto meglio a starsene tranquillo; avrebbero potuto invitarlo a scendere per testimoniare.

La perquisizione era finita. L’uomo in abiti borghesi salutò freddamente e proseguì lungo il corridoio. L’uomo della MGB rientrò nel suo scompartimento sbattendo la porta alle spalle.

Peccato, pensò Bond. Uno è riuscito a farla franca.

Bond si voltò nuovamente verso il finestrino. Un grosso individuo, con un cappello grigio in capo e un grosso foruncolo sulla nuca, stava ve-nendo scortato verso la porta con la scritta POLIS. Una porta sbatté in fondo al corridoio. Goldfarb, scortato da un agente, scese dal treno, attraversò i binari e entrò a testa bassa nello stesso ufficio.

La locomotiva lanciò un fischio, un tipo nuovo di fischio: il saluto allegro di un macchinista greco. La porta della carrozza letto venne chiusa rumorosamente. L’uomo in abiti borghesi e il secondo agente scesero dal treno, dal vagone di coda, e si avviarono lentamente verso la stazione. Il capostazione controllò l’orologio e alzò la bandierina. L’Orient Express cominciò a muoversi, lasciando dietro di sé alcuni vagoni che avrebbero preso la direzione del nord, verso la Cortina di Ferro, e che avrebbero tran-sitato a Dragoman, la frontiera bulgara, a soli ottanta chilometri di distanza.

Bond abbassò il finestrino e diede un ultimo saluto alla frontiera turca, dove due uomini erano probabilmente seduti in una stanza squallida in attesa di una sentenza di morte. Due uccelli abbattuti, pensò. Due su tre.

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Il futuro appariva più roseo.

Bond osservò l’arida pianura, monotona, illuminata dal sole nascente.

L’alba prometteva una magnifica giornata. Sollevò il finestrino con un colpo secco e indugiò un attimo, prima di rientrare nello scompartimento; aveva deciso: sarebbe rimasto sul treno e avrebbe condotto in porto la faccenda.

23 Fuori dalla Grecia

Un caffè bollente allo squallido buffet di Pithion (il vagone ristorante sarebbe stato agganciato soltanto a mezzogiorno), il controllo puramente formale dei funzionari della dogana greca, e poi le cuccette vennero ripie-gate mentre il treno correva velocemente in direzione sud, verso il Golfo di Enez, al termine del Mare Egeo. Il paesaggio era un’orgia di luce e di colori. L’aria era più asciutta. Girasoli, granturco, vigne, campi di tabacco che germogliavano al sole. Come Darko aveva detto, era un altro giorno.

Bond si lavò e si fece la barba sotto lo sguardo divertito di Tatiana.

La ragazza fu piacevolmente sorpresa che James non si ungesse i capelli con la brillantina. «È un’abitudine sporca,» disse. «Mi hanno detto che in Europa è molto di moda. Ma è strano che voi occidentali non adoperiate molto profumo. In Russia, tutti gli uomini lo usano.»

«Noi ci laviamo,» disse seccamente Bond.

Un colpo alla porta interruppe le proteste indignate di Tatiana. Era Kerim. Bond lo fece entrare. Kerim fece un inchino alla ragazza. «Una scena domestica affascinante,» commentò ironicamente, appoggiandosi al-la porta. «Mi è stato concesso raramente di poter vedere una così bella coppia di spie.»

Tatiana gli rivolse uno sguardo feroce. «Non sono abituata allo spirito occidentale,» disse freddamente.

La risata di Kerim fu disarmante. «Prima o poi vi abituerete, mia ca-ra. L’Inghilterra è il paese dell’ humor; gli inglesi usano scherzare su qualsiasi argomento. Ho dovuto imparare anch’io, a fare degli scherzi.

Questa mattina, ad esempio, mi sono divertito moltissimo, quando quei poveri ragazzi hanno dovuto interrompere il viaggio. Avrei voluto essere presente quando la polizia ha telefonato al consolato tedesco di Istanbul.

Ecco il lato peggiore dei passaporti falsi. Non è difficile procurarsene uno, ma è quasi impossibile contraffare anche il loro certificato di origine, 163

 

ovvero la scheda della nazione che dovrebbe averlo emesso. Temo proprio che la carriera dei vostri due compagni abbia avuto una ben triste fine, Mrs. Somerset.»

«Come hai fatto?» chiese Bond, mentre si annodava la cravatta.

«Danaro e influenza. Cinquecento dollari al controllore. Quattro chiacchiere con la polizia. La sorte ha voluto che il nostro amico tentasse il sistema della corruzione. È un peccato che anche quel furbone di Benz della porta accanto, non sia caduto nella trappola; ma mi era impossibile ripetere due volte lo scherzetto del passaporto. Lo prenderemo in un altro modo. Per l’uomo coi foruncoli è stato facile: non conosceva il tedesco e viaggiava senza biglietto. Bene: la giornata è cominciata favorevolmente.

Abbiamo vinto il primo round, ma ora, il nostro amico della porta accanto starà molto in guardia. Ha capito con chi ha a che fare. Ma forse è meglio.