JANET & ISAAC ASIMOV

NORBY IL ROBOT STRAVAGANTE

traduzione di Gianni Padoan

illustrazioni di Claudio Gardenghi

MONDADORI

© 1983 Janet and Isaac Asimov

© 1985 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, per l’edizione italiana Pubblicato per accordo con Walker Publishing Company, Inc.

Titolo dell’opera originale Norby the Mixed-Up Robot Prima edizione “Grandi Autori d’Oggi” maggio 1985


1. Un cadetto nei guai

Jeff considerò la situazione ancora per un attimo, con le labbra arricciate in una smorfia pensierosa, ma con un’espressione sconcertata.

— Nei guai? — mormorò con voce un poco tremante, come tra sé. — E perché mai sarei nei guai?

Aveva soltanto quattordici anni, a dispetto della sua altezza, ma gli sembrava di aver continuato a ripetere quella stessa domanda per almeno dodici di quegli ultimi anni. Dapprima aveva dovuto rivolgerla ai suoi genitori, poi al fratello maggiore, ai suoi insegnanti e al computer di controllo. In fondo in questo non c’era nulla di male; ma doverlo chiedere, adesso, allo stesso capo del Comando Spaziale era anche per lui un nuovo record.

Stava in piedi al fianco dell’agente Gidlow Due, il che non lo aiutava affatto.

Gidlow era vestito interamente di grigio e i suoi occhi rossi e furenti fissavano Jeff con aperto disprezzo. Anche la sua pelle era giallastra e incolore.

— No, Jeff, non è che sei nei guai — replicò l’agente, rivolto al ragazzo. — Il grosso guaio sei tu!

Poi Gidlow si girò verso l’ammiraglio Yobo e affettò l’aria con un gesto rapido del braccio, quasi che avesse voluto tagliare la testa al giovane cadetto.

— Ammiraglio — riprese — quando un combina-guai si mette a trafficare con il computer...

L’ammiraglio rimase calmissimo. L’Accademia Spaziale, che dipendeva direttamente dal Comando Spaziale, aveva già un’infinità di problemi da affrontare ed egli cominciava ad esserne stanco. Non aveva intenzione di lasciarsi coinvolgere anche dalle faccende banali.

Oltre tutto, Jeff gli piaceva. Era quel genere di ragazzo alto e goffo che anche lui era stato, molti anni prima, e di quando in quando si sentiva infastidito dalla troppo rigida disciplina che Gidlow intendeva imporre.

— Vede, signor Gidlow — disse l’ammiraglio Yobo — non capisco il motivo di tanto trambusto. Non dimentichi che lei non fa parte di questa accademia e che qui non ha alcuna autorità. Se continua a portarmi i cadetti per ogni birichinata che combinano, con la pretesa di farli mettere in graticola dal comando della Sicurezza Federale, a me non resterà più tempo per nient’altro. Da quanto ho capito, questo cadetto non ha fatto altro che mettere in funzione l’ipnoregistratore, per imparare la lezione durante il sonno; e questo nel regolamento non c’è un solo capoverso che lo proibisca.

— No, se lo si fa in modo giusto — ribatté Gidlow — ma farlo in maniera sbagliata è tutt’altro paio di maniche, ammiraglio! Lui si è buttato a capofitto nei sistemi del computer, involontariamente a quanto dice...

— Ovvio che l’ho fatto involontariamente, agente Gidlow! — protestò Jeff. Si scostò dalla fronte il ciuffo di capelli scuri e ricci e si erse in tutta la sua statura, fino a diventare più alto dell’agente. — Perché mai avrei dovuto farlo apposta?

Gidlow fece un sorrisetto agro.

— Allora, cadetto, diciamo pure che lo hai fatto per stupidità — ringhiò. —

Ammiraglio, io l’ho portato qui perché questa è una faccenda che comporta l’espulsione per motivi di sicurezza, e quindi è di sua competenza.

— Espulsione... motivi di sicurezza?

— Il modo in cui questo cadetto si è messo a trafficare con i sistemi del computer, ha avuto come conseguenza, sia pure involontaria come egli sostiene, che il computer delle cucine si è messo a dare dati sbagliati.

— Dati? Quali dati?

— Non è il caso, ammiraglio — Gidlow strinse le labbra — discutere di ciò davanti a un cadetto.

— Gidlow! Se è una faccenda da espulsione, questo giovane ha diritto di sapere che cosa ha fatto.

— Tanto per cominciare, come risultato dei contatti cervellotici che egli ha stabilito, tutte le registrazioni contenute nelle memorie del computer delle cucine sono state alterate. Per cui adesso tutte le sue ricette sono registrate nella lingua Swahili della colonia marziana!

L’ammiraglio, che si era messo a giocherellare con la tastiera della sua mensola, osservò il suo visore personale e ridacchiò.

— Qui leggo — indicò le righe apparse sul monitor — che un certo Jefferson Wells, anni quattordici, nello scorso trimestre non ha passato l’esame di Swahili.

— Sì, signore — confermò Jeff. — Stavo appunto ripassando al computer il corso di Swahili per prepararmi all’esame della settimana prossima. Quanto al computer, mi dispiace moltissimo. Ero convinto di aver seguito le procedure correttamente e non capisco dove posso avere sbagliato.

— Tu non puoi capire, punto e basta! — si alterò Gidlow. — Ciò che conta, ammiraglio, è che, fino a quando le ricette non saranno ritradotte in Basico Terrestre oppure il computer delle cucine non sarà stato riprogrammato in Swahili marziano, non c’è modo di far funzionare le cucine. Nessuno, in tutto il Comando Spaziale, potrà più mangiare!

— Cosa? — sobbalzò Yobo.

Jeff si dimenò inquieto. Si ricordò, con una stretta al cuore, che l’ammiraglio Yobo era famoso per la sua conoscenza perfetta dello Swahili marziano, parolacce incluse, non meno che per il suo prodigioso appetito.

— Sì, signore — confermò Gidlow, irrigidendosi.

— Ma questo è ridicolo! — l’ammiraglio sibilò fra i denti. — Il computer dovrebbe conoscere il marziano.

Gidlow lanciò un’occhiata a Jeff che, se avesse potuto, sarebbe scomparso volentieri sottoterra.

— Nel computer delle cucine — rincarò — sono stati registrati, fra gli altri, anche

segreti molto importanti, e l’Ufficio di Controllo dei computer dice che tutto ciò che è contenuto nel computer delle cucine è classificato segretissimo. E resta il fatto che i diversi robot governati dal computer delle cucine adesso non funzionano più e noi dovremo tirare la cinghia per parecchio tempo.

— Il che significa che per parecchio tempo io... noi — l’ammiraglio si corresse precipitosamente — non avremo nulla da mangiare!

— Sì, signore. È per questo che si tratta di una faccenda da espulsione. E noi, prima di espellere questo cadetto, dovremo sottoporlo a un sondaggio cerebrale, per accertare se ha imparato qualcosa top secret.

— Ma, signor Gidlow — replicò Jeff, con voce rauca: aveva sentito parlare di ciò che succede a chi è sottoposto al sondaggio cerebrale e l’idea era bastata a fargli seccare la gola — io non so neppure una parola di Swahili. Non so perché, ma con me l’ipnoregistratore non ha funzionato affatto; quindi, non posso aver appreso neppure nulla di segreto, a parte strane ricette marziane...

— Strane? — rimarcò l’ammiraglio, corrugando i sopraccigli. — Pensi che il cibo marziano sia strano?

— No, signore, non è ciò che intendevo...

— Ammiraglio — intervenne Gidlow — è evidente che ha ricevuto informazioni segrete, che crede ricette!

— Ma non c’è nulla di segreto nella mia testa! — Jeff cominciò a disperarsi. —

L’unica cosa strana è che quelle ricette sono in Swahili della colonia marziana, una lingua che non comprendo.

— Allora come fai a sapere che sono ricette? Eh? Eh? Ammiraglio, questo piccolo combinaguai si è condannato da solo, con le sue stesse parole!

— Conosco i nomi marziani di alcuni dei loro piatti — spiegò Jeff. — Mi piace andare ai ristoranti marziani. Mio fratello mi ci portava spesso. Lui dice sempre che non c’è nulla di meglio della cucina marziana.

— Verissimo — annuì l’ammiraglio Yobo — verissimo! Tuo fratello ha buon senso.

— Questo non ha niente a che vedere con il resto, ammiraglio — dissentì Gidlow.

— Il cadetto deve lasciare la scuola e venire con me. Scoprirò ciò che sa!

— Non posso lasciare la scuola! — disse Jeff. — Il semestre sta per finire e mi sono iscritto ai corsi estivi di robotica avanzata. Voglio inventare l’iperpropulsione!

— Con i tuoi precedenti — sogghignò l’agente — probabilmente ti serviresti dell’iperpropulsione per spedire sul Sole l’intero Comando Spaziale!

L’iperpropulsione che tu dici non l’ha mai scoperta nessuno e nessuno la scoprirà mai. E, se qualcuno la scoprirà, non sarà certamente uno zuccone come te!

Comunque, non tornerai a scuola, perché sei sospeso... per sempre, spero!

— Sbaglio — ribatté Yobo, calmissimo — o sono io quello a cui spetta prendere la decisione?

— Sì, ammiraglio — ammise Gidlow — ma, date le circostanze, lei non può prendere altra decisione.

— Vi prego di credermi! — supplicò Jeff in preda allo sconforto. — È stato un puro e semplice incidente!

— Un incidente, eh? — sogghignò l’agente. — Tu sei un pericolo per tutta la Federazione Solare! E comunque la tua permanenza all’accademia è finita. Si dà il caso, ammiraglio, che il cadetto Jefferson Wells è in arretrato con il pagamento della retta scolastica. La sua famiglia ha fatto bancarotta ed è stato Farley Gordon Wells, il cosiddetto Fargo Wells, a ridurla a questo punto.

— Non è vero! — gridò Jeff, offeso.

— Fargo Wells! — esclamò l’ammiraglio. — È lui adesso il capofamiglia?

— Sì, signore — affermò Gidlow. — Lo conosce?

— Solo di vista, solo di vista — rispose Yobo, senza tradire alcuna emozione. —

Un tempo era nella flotta.

— Fu costretto a dimettersi, per incompetenza, suppongo. E si è dimostrato un incompetente anche nella gestione degli affari familiari.

— Non è così! Non è così! — protestò ancora Jeff.

— Se non è incompetenza è sabotaggio: non ci sono alternative! — rincarò l’agente. — È possibile che sia una spia pagata dalla Lega per il Potere di Ing.

— Si sbaglia! — gridò Jeff. — Mio fratello non è un traditore. Non è stato costretto a dimettersi! Ha dovuto dimettersi quando i nostri genitori sono morti in un incidente e non c’era nessun altro che potesse occuparsi degli affari di famiglia. Ha fatto un buon lavoro!

— Così buono — sogghignò Gidlow — che non ha lasciato neppure abbastanza denaro per pagare la tua retta! Adesso verrai con me al Comando della Sicurezza per un prolungato sondaggio cerebrale; poi, quando avrò sistemato le cose con te, ti rimanderò da tuo fratello, ammesso che tu sappia dove si trova. Ho già cercato di localizzarlo — aggiunse, riportando lo sguardo sull’ammiraglio — ma non vi sono riuscito.

— Non capisco perché — replicò l’ammiraglio Yobo, con calma. — Ho consultato il computer centrale e non sembra che vi siano problemi.

Le sue dita manovrarono alcuni pulsanti della mensola e lo schermo inserito in una parete si illuminò. Il cuore di Jeff fece un balzo quando sullo schermo apparve l’immagine del fratello. Sentiva il bisogno di essere incoraggiato e sostenuto da Fargo... ma questa fu soltanto una sensazione dei primi istanti, che subito cedette a un improvviso scoraggiamento. Negli occhi azzurri e penetranti del fratello non scorse il solito sfavillio; e i suoi capelli neri, di solito scompigliati, adesso erano pettinati con cura.

“Sono veramente nei guai” pensò Jeff. “Neppure Fargo può permettersi di essere più lui!”

L’immagine olografica di Fargo annuì gravemente.

— Vedo che lei è in buona compagnia, ammiraglio — disse — e credo di indovinarne il motivo. Forse il nostro solerte signor Gidlow ritiene che Jeff sia nel libropaga di Ing? Convengo che il mio fratellino è piuttosto grande per la sua età, ma nessun Cadetto dello Spazio può essere costretto a sottoporsi ai famosi sondaggi cerebrali di Gidlow, per la questione di Ing l’Ingrato.

— Lei è fuori strada, signor Wells — replicò Gidlow, con sussiego. — Non è che noi sospettiamo suo fratello di essere in combutta con Ing, per quanto in questi tempi tristi sono ben poche le persone di cui ci si possa fidare. Noi vogliamo accertare quale materiale segreto ha appreso dal computer in Swahili marziano, e le assicuro che lo farò. Lei non potrà fermarmi, signor Wells.

— Gidlow, ammiro la sua ferma e assoluta sicurezza, ma l’Accademia Spaziale fa parte del Comando Spaziale — intervenne Yobo — e, se c’è di mezzo un sondaggio cerebrale, ho motivo di sospettare che in un modo o nell’altro sono io ad avere l’ultima parola.

— Se ci sono di mezzo questioni che riguardano la sicurezza, ammiraglio —

insistette l’agente — le nostre responsabilità sono congiunte. Con tutto il rispetto, prenderò la decisione qui e subito.

— Con tutto il rispetto, Gidlow, lei non lo farà — Yobo si eresse in tutta la sua persona, maestoso quanto il Monte Olimpo di Marte, il suo pianeta natale. —

Solamente io deciderò che cosa fare del ragazzo.

Inaspettatamente Fargo scoppiò in una risata e prese a parlare fitto fitto nello Swahili della colonia marziana. Gidlow trangugiò, mentre l’ammiraglio Yobo strinse i grossi pugni e si accigliò.

Jeff si sentì sconcertato.

— Fargo — si rivolse al fratello — che stai facendo?

— Sto semplicemente citando alcuni segreti di stato. L’ammiraglio appuntò gli occhi severi sul cadetto.

— Hai capito quanto ha detto? — gli chiese.

— No, signore.

— Egli mente! — gridò Gidlow.

— No, non credo — Yobo scrollò il capo. — Dovrebbe essere un attore consumato, per essere rimasto così impassibile, ascoltando ciò che Fargo Wells ha detto! No, possiamo accettare il fatto che Wells ha dimostrato che il fratello non ha imparato nulla dall’ipnoregistratore, come già ci ha detto. Può tornare all’accademia.

— Devo protestare, ammiraglio — Gidlow si impettì ancor più. — Ho interrogato la direttrice dell’accademia, la quale ha ammesso che le tasse scolastiche del ragazzo non vengono più pagate da tanto tempo, che non è stato ancora espulso soltanto in considerazione della sua buona condotta... la sua ex buona condotta, voglio dire. La direttrice mi ha anche detto che sperava di far concedere al ragazzo una borsa di studio, ma questo, dati i danni che egli ha causato al computer, non rientra più nel novero delle cose possibili.

L’ammiraglio Yobo si accigliò di nuovo e Fargo Wells intervenne precipitosamente, in tono rassicurante.

— Sì, ammiraglio, è vero quanto Gidlow afferma — convenne. — Non abbiamo molto denaro e non possiamo pagare la retta. Tuttavia ormai è quasi estate e probabilmente mio fratello può ottenere una vacanza... Insomma, prima che le scuole ricomincino saremo in grado di rimettere in sesto il nostro patrimonio.

Così dicendo, strizzò un occhio al fratello, ma Jeff respinse focosamente la proposta.

— Non voglio una vacanza, ammiraglio — protestò. — L’accademia mi piace e non vedo l’ora di poter entrare nella flotta spaziale.

— Non questa estate — troncò Fargo. — Ti assicuro che non avrai nulla da rimpiangere. Non siamo del tutto squattrinati. Ci rimane un’astronave da ricognizione e con quella potremo trovarci un buon lavoro. Per te sarà un’utile esperienza. Ma adesso va’ a prepararti. Se ti sbrighi, potrai rientrare sulla Terra in tempo per celebrare insieme la festa del solstizio d’estate.

In qualsiasi altra circostanza, il cuore di Jeff si sarebbe messo a fare le capriole per la gioia soltanto a pensarci. Il solstizio d’estate cadeva l’indomani e l’intero sistema solare si sarebbe unito nella celebrazione. Tutte le gigantesche città orbitanti nello spazio - lo Stato Lunare, la Colonia Marziana, i vari pianeti artificiali, tutti con le loro decine di migliaia di abitanti - avrebbero tenuto la loro riunione annuale, a cui finalmente aveva aderito anche l’Australia, nell’emisfero settentrionale della Terra, nell’isolotto conosciuto attualmente come il Territorio Internazionale di Manhattan, per un tacito omaggio a quella che un tempo era stata la sede delle vecchie Nazioni Unite, da cui aveva avuto origine la Federazione Solare. Proprio per questo il Territorio Internazionale di Manhattan aveva accettato di considerarsi parte della Federazione Solare.

Jeff si rivolse all’ammiraglio in tono supplichevole:

— Se mi fosse permesso di restare all’accademia...

— I ragazzi che mettono sottosopra i computer — intervenne Fargo — hanno bisogno di starne lontano per un po’, in un posticino bello ma primitivo come Manhattan. Non è d’accordo, ammiraglio?

Fargo e Yobo si scambiarono un’occhiata. Jeff ne fu risentito. Aveva sempre detestato che i grandi si comportassero come se lui non esistesse...

— Sì — approvò infine l’ammiraglio. — Va’ a preparare i bagagli, Jefferson Wells.

— Ma io... — cominciò Gidlow.

— Il ragazzo va a casa — troncò Yobo.

— Muoviti, Jeff! — sollecitò Fargo. — Più presto fai, prima ti liberi dell’affascinante compagnia di Gidlow. Ho da raccontarti delle storie interessanti su Ing l’Ingrato! Non avrai mica dimenticato la nostra parola d’ordine, vero? LPDSC! A stasera, fratellino!

L’immagine sullo schermo svanì di colpo, lasciando il ragazzo pensieroso e l’agente insospettito.

— Cos’è quel motto? — ringhiò Gidlow.

— Oh, niente di particolare... — il cadetto si strinse nelle spalle, cercando di prender tempo.

— Cos’è? — insistette l’altro. — Un messaggio in codice? Che diavolo significa?

— Proprio niente di particolare — ripetè Jeff: aveva già trovato una spiegazione e si augurava che a Gidlow sembrasse plausibile. — Vuol dire semplicemente “Lascia Perdere, Domani Sarai Contento”.

— Tipico di Fargo! — l’ammiraglio scoppiò a ridere. — Lui è di quelli che non si preoccupano mai di nulla! Sicuro, sicuro: non è il caso di preoccuparsi, domani è un altro giorno! È questo che tuo fratello voleva dirti!

— Sì, signore — affermò Jeff, compunto.

— Comunque — minacciò l’agente, voltando bruscamente le spalle e andandosene a passi rabbiosi — questo ragazzo non metterà mai più piede nell’accademia!

Jeff guardò sparire oltre la porta il corpo massiccio dell’agente, che sprizzava rabbia da ogni poro. “Perché quell’uomo mi odia tanto?” si chiese Jeff.

— Ma sì, Jefferson, tuo fratello ha ragione — gli disse l’ammiraglio Yobo sorridendo. — Domani le cose ti sembreranno migliori... Sai che un tempo ho conosciuto i tuoi genitori? Erano bravi sismologi.

Porse al ragazzo un foglio, che Jeff osservò con un po’ d’ansia.

— È un buono di credito — riprese l’ammiraglio. — Usalo per comprarti un computer didattico e impara più che puoi, in modo da poter tornare all’accademia con una borsa di studio,

— Non potrò mai restituirle una somma simile, signore — Jeff respinse il documento.

— Sì che potrai — affermò Yobo. — Si trattasse di Fargo potrei avere dei dubbi, ma qualcosa mi dice che tu sai servirti del buonsenso molto meglio di lui. Comunque, non è una grossa somma. Dovrai accontentarti di un robot di seconda mano. Su, prendilo! — l’ammiraglio gli porse nuovamente il buono. — È un ordine!

— Sì, signore — rispose Jeff, congedandosi.

Uscì in fretta, preoccupato e confuso. LPDSC... Fargo aveva ragione, dandogli quell’avvertimento?


2. La scelta del robot

Fare i bagagli non richiese molto tempo. I cadetti possedevano ben poche cose oltre ai vestiti e ai quaderni, anche se Jeff, grazie al fratello, aveva almeno una cosa di valore: un libro. Era un autentico volume antico, rilegato in pelle e con le pagine ingiallite. Conteneva tutte le commedie di Shakespeare nella versione originale, la stessa lingua da cui era derivato il Basico Terrestre.

Jeff sperava che nessuno dei Servizi di Sicurezza lo fermasse, aprisse il libro di Shakespeare e notasse le sottolineature che Fargo aveva fatto a una battuta dell’ Enrico V; o che, se pure lo avessero fatto, non avessero potuto comprendere il linguaggio arcaico.

Aprì il volume e trovò subito la pagina. Le iniziali di alcune parole erano segnate con un cerchietto a matita. “La Partita Decisiva Sta Cominciando”, diceva la frase.

LPDSC... Jeff aveva compreso al volo il vero significato della frase che il fratello gli aveva rammentato. Ma quale partita decisiva? Forse Fargo si era riferito a Ing?...

Il cadetto ripose il libro nello zainetto, con una certa circospezione, anche se in quel momento era solo nella camerata: ma la prudenza non è mai abbastanza. Andò a salutare i compagni e, per giustificare la sua partenza, raccontò loro della bancarotta della sua famiglia e dell’incidente con il computer delle cucine ma non andò oltre.

Prese lo shuttle per Marte. Una volta arrivato sul pianeta, fece un rapido pasto a base di melanzane piccanti al formaggio, come solo i cuochi marziani le sanno preparare; poi andò a mettersi in fila alla trasmittente di materia di Mars City.

Attraverso la cupola potè scorgere la mole lontana del Monte Olimpo, il più grosso cumulo di materia di ogni mondo occupato dagli esseri umani. Ciò lo fece sentire molto piccolo e molto povero.

“Forse farei meglio a dare il buono di credito a Fargo” pensò Jeff. “Lui ne ha più bisogno di quanto ne abbia io di un robot didattico. Però” replicò subito un altro angolino della sua coscienza “un robot didattico è una cosa che io ho sempre desiderato.”

— Avanti un altro! — sollecitò una voce.

Toccava a Jeff, ma per un attimo il ragazzo ebbe l’impulso di girare i tacchi e andarsene. Perché doveva prendere il trasferitore? Era talmente costoso...

I trasferitori di materia venivano usati già da molto tempo, però richiedevano ancora una massa enorme di energia e attrezzature molto complesse, il che spiegava il costo enorme del servizio. La maggior parte della gente prendeva il traghetto spaziale da Marte alla Luna e poi un altro traghetto per raggiungere la Terra. Perché non avrebbe potuto fare così anche Jeff, soprattutto adesso che la sua famiglia era in bancarotta? Ma con il traghetto gli sarebbe occorsa più di una settimana, mentre con il trasferitore sarebbe stato a casa quel giorno stesso. Ed era chiaro che Fargo aveva urgenza di vederlo.

Tutto questo passò per la testa di Jeff in quel breve attimo di esitazione. Entrò nella stanza. Era già piena di gente, di bagagli e di casse.

Nell’attesa che l’energia salisse al massimo, sentì ancora una volta il desiderio cocente di riuscire a inventare un sistema di iperpropulsione. Attualmente tutti conoscevano l’esistenza di un qualcosa chiamato “iperspazio”, a cui si doveva se l’icom, impiegato per tutte le comunicazioni radiofoniche e televisive istantanee, era diventato di uso comune. Per esempio, era stato proprio grazie all’icom che l’immagine di Fargo era apparsa nell’ufficio dell’ammiraglio. E che cosa vuol dire

“icom”? Nient’altro che “comunicazioni interspaziali”...

Bene, se è possibile forzare attraverso l’iperspazio una radiazione, perché allora non dovrebbe essere possibile forzarvi anche la materia? Di sicuro dev’esserci il modo di realizzare un motore che possa spingere un’astronave attraverso l’iperspazio, a una velocità maggiore di quella della luce, che è la massima possibile nello spazio normale. Questo probabilmente comporta che la materia debba prima essere convertita in radiazioni, e poi riconvertita in materia. Oppure...

Fatto sta che mezzo secolo prima era stato inventato un congegno antigravitazionale, sebbene prima di allora tutti avessero assicurato che questo era definitivamente impossibile. Adesso si fabbricavano degli anti-G talmente piccoli, da poterli mettere in un’automobile!

Ma forse le due impossibilità avevano una qualche connessione. Forse, usando unitamente un anti-G e un trasferitore di materia, che agisce soltanto a velocità inferiori a quella della luce, allora si potrebbe...

Tutto intorno sì fece buio. Accadeva sempre durante le traslazioni di materia. Nulla diede la sensazione del passaggio temporale, però la stanza si era fatta diversa anche se conteneva le stesse cose e le stesse persone. Jeff riuscì a scorgere l’orologio luminoso nell’antro buio che aveva davanti. Non erano passati neppure dieci minuti.

Jeff, facendo un rapido calcolo mentale della posizione di Marte e della Terra nelle loro rispettive orbite, valutò che la traslazione doveva essere avvenuta a una velocità pari circa alla metà di quella della luce.

Jeff rimise l’orologio, uscì dalla stanza del trasferitore, e si trovò sulla Terra. Si chiese se le sue molecole avessero retto alla traslazione senza subire danni. Questo non era appunto un caso di conversione in radiazione e di riconversione in materia?

Senza dubbio doveva essere possibile perfezionare il sistema fino al punto...

Tutti gli addetti ai trasferitori avevano sempre sostenuto che era impossibile che durante la traslazione la struttura delle molecole si alterasse, e d’altra parte mai nessuno aveva reclamato per aver subito danni. Ma...

“Comunque non posso farci niente” decise Jeff.

Però, continuò a riflettere, se ci sono da correre dei rischi, allora perché non fare le cose per bene? L’iperpropulsione sarebbe stata il meglio in assoluto. Avrebbe sempre comportato la conversione in radiazioni e la riconversione in materia, ma almeno si sarebbe potuto andare ovunque, e quindi in cambio di un medesimo rischio si sarebbe ricevuto assai di più.

Adesso, con il trasferitore, si poteva andare soltanto da una stazione di traslazione all’altra. Se si voleva andare in un qualche posto che non aveva una stazione, bisognava prendere un traghetto o un incrociatore spaziale per i collegamenti con la stazione più vicina, e questo richiedeva settimane, a volte addirittura anni. Non c’era da meravigliarsi che la Federazione fosse ancora confinata entro il Sistema Solare!

E, direttamente, era proprio per questo che la ribellione di Ing era così pericolosa.

Dalla Grande Stazione Centrale, il terminal del trasferitore pubblico di Manhattan, Jeff chiamò casa sua, in modo che il computer domestico avesse il tempo di mandargli il robot guardarobiere a dargli una buona spazzolata e a mettergli a posto gli abiti sgualciti.

L’appartamento dei Wells, quando vi arrivò, aveva l’aspetto di sempre. Tutti i Wells erano sempre stati orgogliosi di possedere un appartamento nella Quinta Strada, in un palazzo che, stando alle apparenze, veniva tenuto in piedi, già da secoli, con lo scotch e la buona volontà. Aveva degli svantaggi, certamente, ma dava meglio l’idea di ciò che dovrebbe essere una vera casa.

— Bene arrivato, padron Jeff — disse il computer domestico, da una parete.

— Ciao — Jeff salutò con un gesto della mano: era bello essere scandagliati e riconosciuti.

— C’è un messaggio per te da parte di tuo fratello Fargo, padron Jeff — aggiunse il computer, e da una fessura fece uscire un foglio, con un lieve ronzio.

Era l’indirizzo di un negozio di robot di seconda mano, il che significava che Fargo e l’ammiraglio Yobo dovevano essersi parlati ancora, dopo che lui aveva lasciato l’ufficio. “Perché?” si chiese Jeff. “In nome dell’antica amicizia? E Gidlow lo sa?” A Manhattan era ancora il primo pomeriggio. Recandosi a fare l’acquisto, Jeff si sentì di nuovo a disagio. Non avrebbe dovuto prima discuterne con Fargo e convincerlo a tenere per sé il denaro che gli era stato dato dall’ammiraglio? Ma l’ammiraglio doveva aver già parlato con Fargo della questione.

Prima di uscire di casa, Jeff programmò un hamburger al computer di cucina che, grazie alle cure di Fargo, era sempre in perfetto ordine. “Prima le cose che vanno fatte per prime” si disse Jeff; e la fame veniva al primo posto, per un ragazzo che continuava a crescere. “Quanto altro crescerò?” si chiese.

L’uomo piccolo e grasso pieno di sussiego che gestiva il negozio di robot usati considerò la somma che Jeff disse di avere a disposizione e non sembrò impressionato.

— Dando questa cifra come acconto — disse — puoi avere un modello quasi nuovo, come questo. È ottimo.

Il “questo” a cui si riferiva era uno dei nuovi robot cilindrici, dalle forme vagamente umanoidi, che venivano usati come insegnanti in tutte le scuole costose.

Potevano essere allacciati al computer principale di ogni città, e avere così accesso a ogni biblioteca o banca dati. Erano bravi insegnanti, tranquilli e rispettosi.

Jeff studiò il modello quasi nuovo, chiedendosi perché mai anni prima i fabbricanti avessero deciso di costruire robot somiglianti solo vagamente a esseri umani. Il fatto era che, in teoria, la gente non voleva avere intorno robot che potessero essere scambiati per uomini veri. Forse avevano ragione, comunque Jeff, per quanto lo riguardava, avrebbe preferito avere a che fare con un robot che potesse essere scambiato per una persona vera, anziché semplicemente per una caricatura.

Il modello quasi nuovo aveva la testa simile a una boccia da bowling, con in mezzo un sensore che emanava un debole alone luminoso. Quel sensore fungeva da occhi e da orecchi e, in genere, serviva a tenere il robot in contatto con tutto il resto dell’universo.

Jeff si avvicinò fino a poter leggere il numero di serie impresso sul sensore. Se fosse stato un numero basso, avrebbe voluto dire che il robot era piuttosto vecchio e non quasi nuovo come il gestore del negozio avrebbe voluto dare a intendere. Il numero era decisamente basso. Fatto ancora più importante, a Jeff non piaceva la particolare combinazione di colori del sensore. Ogni robot aveva combinazioni diverse, per distinguersi da ogni altro, ma i colori di quello erano antiestetici.

Ma il punto fondamentale non era se a Jeff piacesse o meno questa o quella parte del robot. Se avesse utilizzato il suo denaro soltanto per dare un acconto, poi dove avrebbe preso il resto? Non poteva assolutamente impegnarsi a pagare delle rate mensili per un anno o due!

Girò un’occhiata intorno, sui box di stasi trasparenti, in ciascuno dei quali era tenuto un robot il cui cervello non era operativo. C’era tra quelli qualcosa che lui potesse pagare senza rateazioni? A lui sarebbe andato bene anche un robot vecchio, purché funzionante.

Notò, in un angolo, un box di stasi, seminascosto dai box che gli stavano ammucchiati davanti. Si intrufolò fra due box e ne spostò uno per poter vedere meglio. Se il robot che aveva intravisto lo tenevano così nascosto, non doveva essere molto buono, comunque era assolutamente ciò che lui poteva permettersi.

Infatti, ciò che era dentro il box non aveva neppure l’aspetto di un robot, anche se ovviamente doveva esserlo, in quanto soltanto i robot vengono tenuti nei box di stasi.

Tutti i robot intelligenti devono essere tenuti in stasi fino al momento in cui vengono venduti: se un cervello elettronico fosse attivato e poi lasciato ad aspettare di essere venduto, potrebbe impazzire.

“Impazzirei anch’io” pensò Jeff “se mi tenessero dentro una cassa trasparente a non fare nulla.”

— Cosa c’è in quel box? — chiese d’impulso.

Il gestore chinò la schiena in avanti per vedere il box a cui il ragazzo si riferiva e scosse la testa.

— Come, quell’affare non è stato ancora mandato al ferrovecchio? — l’uomo si mostrò molto contrariato. — No, giovanotto, non è questo ciò che cerchi.

— Dev’essere terribilmente vecchio — disse Jeff.

La cosa dentro il box aveva l’aspetto di un barile metallico alto una sessantina di centimetri, sormontato da una specie di cappello anche quello di metallo. Stando alle apparenze, non aveva gambe e braccia, anzi, non aveva neanche la testa. Era giusto un barile con sopra un coperchio; e il coperchio aveva intorno una specie di tesa e sopra una specie di cappelluccio.

Jeff continuò a spingere da parte gli altri box per aprirsi la strada. Finalmente, si chinò in avanti per osservare quell’oggetto singolare meglio e più da vicino.

Era davvero un barile di metallo, ammaccato in più punti, con un’etichetta autoadesiva incollata su un fianco, anche quella tanto vecchia che si stava scollando e penzolava da una parte. “Chiodi Norb”, c’era stampato, in caratteri scoloriti. In compenso Jeff distinse, sui fianchi del barile, le aperture da cui, se si fossero dilatate, sarebbero potute uscire le braccia telescopiche.

— Non stare a perder tempo con quell’affare — disse il gestore, scuotendo la testa con convinzione. — È un pezzo da museo, ammesso che ci sia qualche museo disposto a prenderlo. E comunque non è in vendita.

— Che cos’è? È davvero un robot?

— Per esserlo lo è: un R2, uno dei primissimi modelli. Stava cadendo a pezzi, poi un vecchio lupo dello spazio lo comprò e lo sistemò alla meglio...

— Un lupo dello spazio? Chi? — esclamò Jeff.

Aveva sentito raccontare un’infinità di storie sul conto dei vecchi esploratori del Sistema Solare, gli esseri umani che se ne andavano in giro alla caccia di tutto ciò che per loro fosse strano o vantaggioso, o magari tutt’e due le cose insieme. Fargo quelle storie le conosceva tutte e rimpiangeva che i lupi dello spazio stessero diventando sempre più rari, adesso che le spie di Ing erano dappertutto.

— So soltanto — rispose il negoziante — che quell’uomo si chiamava McGillicuddy, ma non ho mai trovato qualcuno che abbia sentito parlare di lui. Per caso tu ne hai sentito parlare?

— No, signore.

— Già, naturale. Quell’uomo dev’essere morto già da una cinquantina d’anni.

Questo robot venne messo in vendita a un’asta di anticaglie e mio padre lo comprò.

Io l’ho ereditato, ma me ne disferei volentieri.

— Allora perché mi ha detto che non è in vendita?

— Perché ho cercato di venderlo un’infinità di volte, ma non funziona bene e me lo hanno sempre riportato indietro. Dovrò farlo a pezzi e venderlo a peso.

— Quanto vuole per venderlo? — si informò Jeff.

— Ti ho detto — l’uomo lo guardò pensierosamente — che non funziona bene.

Non mi hai sentito?

— Sì, ho capito benissimo, signore.

— Allora saresti disposto a firmarmi una carta in cui dichiari che lo hai capito e che ti impegni a non riportarmelo indietro anche se non dovesse funzionare?

Jeff si sentì passare per la schiena un brivido di freddo al pensiero che stava letteralmente buttando via il denaro che gli aveva dato l’ammiraglio, eppure lui

voleva proprio quel robot, con il suo aspetto bizzarro e con la sua leggenda del vecchio lupo dello spazio. In ogni caso sarebbe stato un robot come nessun altro aveva.

— Sicuro — riuscì a dire a stento. — Firmerò la dichiarazione se lei si accontenterà di prendere il denaro che possiedo e mi firmerà una ricevuta a saldo. E

voglio anche un certificato di proprietà regolarmente depositato al pubblico registro dei robot.

— Uhm! — il negoziante fece una smorfia tentata e perplessa. — Però tu sei minorenne. Non puoi fare acquisti del genere.

— Mi si danno benissimo più di diciotto anni — replicò Jeff. — Basta che lei non mi chieda di vedere i miei documenti e potrà benissimo dire di aver creduto che io sia maggiorenne.

— D’accordo. Vado a preparare i documenti.

Se ne andò e Jeff si accovacciò davanti al box di stasi, esaminando meglio ciò che conteneva. Quel misterioso McGillicuddy doveva aver sistemato gli apparati del robot dentro un barile di chiodi Norb, una vecchia marca che però era ancora famosa.

Jeff osservò più da vicino, quasi premendo il naso contro la plastica polverosa del box, con una mano sollevata per nascondere i riflessi di luce. Concluse che il cappello non doveva essere completamente calcato. Al di sotto, una zona più scura mostrava che il robot era stato messo in stasi senza che la sua testa fosse rientrata per intero nel barile. E c’era anche uno strano filo elettrico che partiva da quella zona buia e arrivava fino alla parete del box di stasi.

— Non toccarlo! — urlò il negoziante, che per caso in quel momento aveva alzato la testa dai suoi registri.

Troppo tardi: il dito teso di Jeff già toccava il box di stasi. Il gestore balzò in piedi e si asciugò la fronte con un fazzolettone.

— Ti avevo detto di non toccare! — ansimò. — Stai bene?

— Certamente — rispose Jeff, tirandosi indietro.

— Non hai preso una scossa o qualcosa del genere?

— Non ho sentito nulla.

Questo non era del tutto vero. Qualcosa aveva sentito: una strana, incomprensibile, profonda sensazione di solitudine. Una sensazione, comunque, che non poteva appartenere a lui.

— Ti avevo avvertito! — il negoziante lo guardò cupo. — Adesso non puoi reclamare i danni.

— Neppure lo voglio — assicurò Jeff. — L’unica cosa che voglio è che apra il box di stasi e mi consegni il mio robot.

— Prima firmami questa carta, in cui dichiari che hai diciotto anni. Voglio essere certo che non potrai prendere alcun pretesto per riportarmelo indietro!

Azionò lestamente i tasti del computer, la cui stampante sfornò il documento che voleva in triplice copia. Jeff diede una scorsa al foglio.

— Ti si darebbero davvero diciotto anni — considerò il negoziante. — Mostrami i tuoi documenti.

— Sarebbe come se le dicessi la mia data di nascita — obiettò il ragazzo.

— Basta che tu copra la data con il pollice. Io non ci vedo bene e così non mi accorgerò neppure di ciò che hai fatto. Mi interessa soltanto controllare il nome e la firma. — Verificò la firma sul documento che Jeff gli mostrò e annuì soddisfatto. —

Va bene, ecco la tua copia. Adesso dammi il buono di credito.

Controllò anche quello, lo inserì nel registratore di cassa e lo restituì a Jeff, il quale rabbrividì pensando che tutto ciò che l’ammiraglio gli aveva dato era stato trasferito automaticamente dal suo conto a quello del negoziante, e che non gli restava praticamente nulla.

Il negoziante si infilò in mezzo al mucchio di box e sfiorò con le dita i numeri a rilievo di quello che conteneva il robot in barile. La parte superiore si aprì. Nello stesso istante, il sottile filo elettrico si ritirò lentamente all’interno del barile e il coperchio simile a un cappello si chiuse completamente, tanto che la fascia scura scomparve; ma il gerente non sembrò accorgersene. Era troppo occupato a trascinare il box di stasi in una posizione più comoda.

— Piano! Piano! — raccomandò Jeff. — Attento a non far prendere una botta al robot!

Ma nello stesso tempo Jeff si chiese se il robot, con il filo rientrato e il coperchio calcato, fosse veramente in grado di pensare. Tuttavia provò un nuovo impulso di simpatia. Se la stessa sorte fosse toccata a lui, non gli sarebbe piaciuto affatto stare in gabbia dentro un box di plastica, capace di pensare ma incapace di venirne fuori. Per quanto tempo il robot era rimasto chiuso là dentro? E come doveva essersi sentito disperato e infelice!

— Per favore — disse al negoziante — così lo sta maltrattando! Lasci che l’aiuti a tirarlo fuori.

— Maltrattarlo? — l’altro fece una sghignazzata. — Non c’è niente e nessuno che possa maltrattarlo. Ormai è andato. — Lanciò a Jeff un’occhiata, con espressione maligna. — Non dimenticare che hai firmato la carta. Io te lo avevo detto che non funziona bene, perciò non puoi più riportarmelo. Non credo che te ne potrai servire per imparare qualcosa, per il semplicissimo motivo che non ha gli attacchi per inserirsi nel Sistema Didattico. E neppure sa parlare: emette soltanto dei suoni senza senso.

In quel momento, per la prima volta, dentro il barile accadde qualcosa. Il coperchio a forma di cappello si sollevò, anzi schizzò via, così improvviso che colpì duramente in mezzo alla schiena il negoziante, chino sul box per tirarne fuori il barile. E, sotto il coperchio, era apparsa una mezza faccia. Quanto meno questo sembrava. C’erano due grandi occhi... No! Jeff guardò meglio e si accorse che ce n’erano altri due nella parte posteriore della testa, anche se la parte posteriore avrebbe potuto benissimo essere la fronte. L’uomo fece un singulto e strinse i pugni.

— Si farebbe male da solo se tentasse di colpirlo — Jeff lo fermò in tempo. —

Oltre tutto, questo robot adesso è mio e se lei lo danneggiasse avrei tutto il diritto di ricorrere alla legge.

Accadde qualche altra cosa: il robot parlò, con voce perfettamente chiara e con una musicalità tenorile.

— Quest’uomo malvagio mi ha insultato — disse. — Mi insulta tutte le volte che si rivolge a me! Io posso parlare perfettamente, come stai constatando tu stesso. So parlare meglio di lui! Soltanto perché non desidero parlare con un mio inferiore, quale è questo cosiddetto gestore, non si può dire che non sono capace di parlare.

Il negoziante gonfiò le guance e sembrò che stesse per dire qualcosa, ma non emise alcun suono.

— Il robot — ridacchiò Jeff — sa senz’altro parlare meglio di lei.

— C’è dell’altro — aggiunse il robot. — Sono perfettamente all’altezza anche come insegnante e voglio dimostrarlo subito. Qual è il tuo nome, giovanotto?

— Jeff Wells.

— E che cosa vorresti imparare?

— Lo Swahili, il dialetto della colonia marziana. — Poi a un tratto Jeff si rese conto che avrebbe dovuto mostrare un certo rispetto nei riguardi di un robot che già aveva chiaramente dato segni di una notevole permalosità. — Ehm... signore —

aggiunse.

— Bene. Prendi la mia mano e concentrati. Nulla deve distrarti.

Nel fianco sinistro del piccolo robot (ma poteva anche essere il fianco destro) si dilatò una piccola apertura, da cui vennero fuori un braccio snodato al gomito e una mano bifronte, fatta in modo che era impossibile dire quale fosse il dorso e quale il palmo. Jeff prese la mano, che era piacevolmente morbida, per nulla viscida o metallica.

— Adesso — annunciò il robot — imparerai a dire “Buon giorno, come sta?” in Swahili marziano.

Jeff si concentrò. Chiuse le palpebre e disse qualcosa che al negoziante sembrò senza senso.

— È un borbottio confuso — sentenziò l’uomo.

— Niente affatto — ribatté Jeff. — Adesso finalmente so un po’ di Swahili e ciò che ho detto significa appunto “Buon giorno, come sta?” in Swahili marziano; soltanto che questa è la prima volta che riesco a pronunciarlo correttamente.

— In questo caso — replicò il negoziante, astiosamente — non puoi aspettarti di portarti via un robot didattico perfettamente funzionante per soli ottantacinque miserabili crediti.

— No, non posso, ma è quello che farò. Io ho il documento di vendita e lei ha preso il denaro. Tutto finisce qui, a meno che lei non desideri che io vada alla polizia a denunciare che lei ha tentato di vendere un robot non funzionante a un quattordicenne. Sono certo che il robot, se glielo chiedessi, smetterebbe di funzionare.

Il negoziante gonfiò ancora le guance e sbuffò.

Sembrò che il robot fosse diventato un poco più alto. In effetti, dal fondo del barile gli erano spuntate delle gambe telescopiche, con i piedi a disco. Adesso gli occhi del robot erano all’altezza di quelli del negoziante, che era di tutta la testa più basso di Jeff.

— Io ti suggerirei, inferiore — disse il robot — di restituire a questo giovane i suoi ottantacinque crediti e di cedermi a lui gratis. Un robot non funzionante, come ben sai, non vale nulla.

L’uomo lanciò un grido e fece un salto indietro, cadendo su un box di stasi che conteneva un robot tosaerba.

— Questo aggeggio è pericoloso! — continuò a sbraitare. — Non ubbidisce alle leggi della robotica! Mi ha minacciato! Aiuto! Aiuto!

— Non sia sciocco, signore — replicò Jeff. — Lui le ha semplicemente dato un suggerimento. E lei si tenga pure gli ottantacinque crediti: non li voglio.

— Allora d’accordo così — il negoziante sembrò molto sollevato. — Vattene e portati via quel robot. Adesso la responsabilità è tua. Non voglio vedere mai più quel robot! Né te, giovanotto!

Jeff uscì, tenendo per mano il barile che una volta aveva contenuto i chiodi Norb e da cui adesso erano spuntate due gambe, due braccia e una testa.

— Come ti chiami? — gli chiese.

— Bene, Mac, voglio dire McGillicuddy, mi chiamava Macko, ma è un nome che non mi piace. Mac e Macko sembra il nome di una coppia di artisti del varietà. Ma almeno lui si riferiva a me chiamandomi “lui”, non “esso”. Era già qualcosa: era un segno di rispetto. E a te come piacerebbe chiamarmi, Jeff?

Jeff avrebbe dovuto redarguire il robot. Tutti i robot dovrebbero sempre far precedere da un titolo il nome di un umano, ma era evidente che quel robot non aveva molto rispetto per le buone maniere e Jeff decise di non dare peso alla cosa. Oltre tutto, si sarebbe stancato presto di sentirsi chiamare “padron Jeff”.

— Sei sempre stato dentro un barile di chiodi Norb? — domandò.

— No, soltanto da quando McGillicuddy mi ha trovato. Cioè, da quando mi ha riparato. Era un genio della robotica, ti assicuro! — rispose il robot, con orgoglio. —

Quanto al barile, ormai fa parte di me e non intendo esserne privato.

— Però l’etichetta si sta staccando.

— Perché non c’è bisogno di un’etichetta. Adesso questo vecchio ma servizievole barile non contiene più dei chiodi: contiene me. E questo barile mi piace. È di buon acciaio resistente.

— Va bene — annuì Jeff. — Visto che un tempo questo meraviglioso barile conteneva i chiodi Norb, che ne diresti se ti chiamassi Norby?

— Norby... Norby... — il robot ripetè il nome come se lo stesse passando sulla lingua per gustarne il sapore, sebbene non avesse una lingua e probabilmente non potesse gustare i sapori. — Sì, mi piace molto.

— D’accordo così, allora.

Poi se ne andarono tenendosi per mano.


3. A Central Park

Il computer domestico, non avendo sentimenti né un’eccessiva intelligenza, non ebbe nulla da obiettare all’arrivo di Norby. Jeff ne fu sollevato, pur sapendo che non aveva motivo di preoccuparsi, per la semplice ragione che il computer domestico non era in grado di avere reazioni di alcun genere. Come è ovvio, il computer domestico neppure approvò.

Adesso che era a casa e potè rilassarsi, Jeff esaminò il suo acquisto con maggior attenzione.

— Penso che non sia necessario — mormorò — ma come si fa a ripararti? Bisogna tirarti fuori dal barile?

— No — affermò Norby. — È tutto qui nella mia testa. Non mi occorre altro.

Perché te ne preoccupi?

— Non me ne preoccupo affatto — Jeff si affrettò a rassicurarlo. — Mi stavo semplicemente chiedendo se vieni fuori da solo dal barile.

— Certamente no. Non avrebbe senso venir fuori dal barile. Ormai fa parte di me.

Mac ha saldato insieme i miei vari pezzi con tanta cura, che ormai questo barile è la mia corazza, il mio scheletro. Forse quando devi farti visitare dal medico tu vieni fuori dalle tue ossa?

— Non irritarti! Stavo soltanto chiedendo. Guardiamo in faccia la realtà, Norby: io non posso permettermi di spendere molto per la tua manutenzione, per cui spero che tu non abbia in programma di romperti.

— Se è la spesa che ti preoccupa, scordatelo pure. Io non ho mai bisogno di riparazioni. Se occorre so riparare qualsiasi altra macchina, ma, per quanto mi riguarda sarò sempre esattamente come mi vedi oggi. — Norby fece una veloce piroetta sui suoi piedi circolari, ma i suoi occhi rimasero puntati fermamente su Jeff: ma erano gli occhi della fronte oppure quelli sulla nuca? — Come vedi, funziono alla perfezione. Mac era un genio!

— McGillicuddy, vuoi dire?

— Naturalmente. Che bisogno c’è di usare cinque sillabe quando può bastarne una sola? Oltre tutto, era così che Mac voleva essere chiamato. Me lo disse e io gli risposi: «Se vuoi essere chiamato Mac, Mac, Mac ti chiamerò».

— Hai messo in fila tre Mac — sorrise il ragazzo.

— Anche cento volte, se a lui avesse fatto piacere! Gli sono molto riconoscente per l’ottimo lavoro che ha fatto su di me. Naturalmente, ha avuto degli aiuti.

— Aiuti? — esclamò Jeff, stupito. — Che aiuti?

Norby, che stava ridacchiando tutto contento, ammutolì di colpo e fissò Jeff con una certa solennità; poi sprofondò di colpo la testa nelle spalle.

— Che tipo di aiuti, ti ho chiesto? — insistette Jeff. Norby non disse nulla.

— Senti, ti ho rivolto una domanda! — il ragazzo cominciò a spazientirsi. — Devi rispondermi: è un ordine! Devi sempre ubbidire ai miei ordini!

— Devo proprio? — da sotto il coperchio giunse un suono lamentoso. — Non potremmo essere amici?

— Amici! Bene, Norby, adesso capisco perché gli altri proprietari hanno sempre avuto dei problemi con te. Hai passato troppo tempo con un vecchio lupo dello spazio che si sentiva talmente solo, da dimenticare che tu sei un robot e da trattarti come un qualsiasi altro essere umano. Ma tu sai bene che non lo sei. Tu sei il mio robot didattico, ma non saresti in grado di insegnarmi molto comportandoti con insubordinazione. Il cappello si sollevò appena e gli occhi di Norby spuntarono da sotto il bordo del coperchio, ma se ne poteva scorgere soltanto una piccola parte.

— Non è affatto per questo che i precedenti proprietari non si sono trovati bene con me — ribatté il robot. — Era a me che loro non andavano bene. Ho fatto apposta a comportarmi male con loro.

— Così la prossima volta dirai che ti sei ingannato anche con me e mi costringerai a riportarti indietro.

— Sì, potrei anche farlo, se continuerai a comportarti con me come hai appena fatto. Ma perché mai dovresti pretendere che ubbidisca ai tuoi ordini? Forse mi avresti comprato se fossi un qualsiasi robot didattico?

— Se la metti in questo modo, no — Jeff sorrise. — Puoi anche dire che ho ubbidito a un impulso improvviso e irresistibile. Mi è piaciuto il tuo aspetto. Sei la cosa più buffa che mi sia mai capitato di vedere.

— Buffa? — si risentì il robot. — Ho una certa dignità! Sono molto ben proporzionato: ecco come sono!

— Va bene, va bene! Non occorre che tu ti offenda ancora. D’accordo, possono essere state benissimo le tue proporzioni aggraziate a farmi provare lo strano impulso di comprarti.

— Non un impulso, comunque — ribatté Norby.

— No?

— No! L’ultima volta che sono stato riportato al negozio, ho fatto in modo di tenere la testa un poco sollevata, prima di essere messo in stasi, e ho anche messo in funzione la mia antenna sensoriale... sai, quel filo che tu hai notato subito. Ma il negoziante è un uomo troppo inferiore perché potesse accorgersene. In conclusione, non intendevo affatto essere venduto ancora alla prima persona che fosse entrata nel negozio. Volevo osservare i clienti ben bene e sondarli...

— Sondarli? — rimarcò Jeff.

— Sondare le loro menti. Posso farlo benissimo. Per questo ho concluso fin dal primo momento che tu mi piacevi e che...

— Grazie, Norby.

— Bene, sembravi una persona ragionevole e non troppo presuntuosa. Avevi l’aria di non essere uno dei tanti che si sentono terribilmente superiori a un povero robot.

Mi auguro di non essermi sbagliato.

— Ti faccio le mie scuse se ho detto qualcosa che ti ha offeso. Non ne avevo l’intenzione.

— D’accordo. Accetto le scuse. Comunque sia, ho fatto del mio meglio per indurti a comprarmi. Ho anche fatto in modo che il negoziante dicesse di me tutte quelle cose odiose, il che per me non è stato affatto difficile ben sapendo che tu per reazione mi avresti voluto ancor più. Come vedi, l’espediente ha funzionato.

— Okay, Norby, d’accordo: siamo amici. — Jeff si rese conto che Norby non aveva accennato alla sensazione di solitudine che tanto lo aveva colpito, per cui evitò di parlarne. — Ma, con tutte le cose che sai fare, non avresti potuto rendere un po’

più stabile quella trappola per topi travestita da taxi che ci ha portati a casa dal negozio?

— Avrei potuto farlo senz’altro, se avessi avuto a disposizione i pezzi di ricambio necessari — affermò il robot, tranquillamente. — Avrei anche potuto costruire un taxi interamente nuovo, credo. Ma hai ragione. Il sistema antigravitazionale del taxi era così malandato, che ci ha tenuti per la maggior parte del tempo a due dita dal suolo. E il cervello elettronico del taxi era così vecchio e deteriorato, che avrebbe dovuto essere venduto come ferrovecchio almeno da un paio d’anni.

Il tono di superiorità con cui lo strano robot aveva pronunciato quei giudizi strappò a Jeff un sorriso.

— A Manhattan quasi tutti i taxi sono così — disse. — E adesso, Norby, ti dispiacerebbe parlarmi di Mac, di ciò che ti ha fatto e di che tipo di aiuti ricevette? Te lo chiedo da amico, tengo a precisare.

— Sì, certo. Ma non adesso. Ciò che ho intenzione di fare, come prima cosa, è attaccarmi alla più vicina presa di corrente e godermi un buon bagno elettronico rinfrescante. Spero che tu abbia abbastanza denaro per pagare la bolletta della luce, Jeff.

— Fino a questo posso arrivarci — sorrise il ragazzo, divertito — a meno che tu non abbia intenzione di fare un bagno ogni ora.

— Non sono così ingordo — replicò Norby. Caracollò fino a un angolo della stanza e si collegò alla presa della luce, con il suo corpo a barile disteso mollemente sul tappeto e le gambe estratte quel tanto che gli occorreva per dondolarsi da una parte e dall’altra.

Jeff sogghignò. Qualunque cosa avesse fatto quel McGillicuddy per rabberciare Norby, il risultato era assolutamente unico. Jeff non aveva mai incontrato un robot che somigliasse a Norby, e neppure ne aveva mai sentito parlare. “Aspetta che Fargo torni a casa” gli venne fatto di pensare “e veda questo affare!” Come mai Fargo non era ancora a casa?

La mezzanotte venne e passò. Il solstizio d’estate sarebbe stato celebrato all’alba.

Quanto meno così Fargo aveva detto. E lui aveva sempre preso la celebrazione molto seriamente. Allora dove era andato a cacciarsi?

Jeff finalmente cedette al sonno, per quanto si sentisse vagamente inquieto e nonostante i tanti rumori che Norby faceva esplorando l’appartamento. Non potè fare a meno di chiedersi se non avrebbe combinato qualche danno. Ma ciò che lo preoccupava maggiormente era Fargo. Fargo era sempre stato un buon fratello e per lui era come un padre, pieno di premure e di attenzioni. Il suo unico neo era appunto quello di farsi aspettare da tutti. Non c’era mai da fidarsi quando lui diceva che sarebbe rientrato a una certa ora.

— Svegliati! È quasi l’alba!

Jeff saltò a sedere sul letto e si sfregò gli occhi.

— Fargo, sei tu? — bofonchiò, ancora mezzo addormentato.

— Sono Norby. Se all’alba vuoi essere al parco per celebrare il solstizio, sarà meglio andare.

— Ma Fargo non c’è e il parco non è sicuro...

— E di che ti preoccupi? — la testa del robot spuntò fuori al massimo. — Non ci sono io? Ti proteggerò!

— Tu sei troppo piccolo — esitò Jeff. — Ho bisogno di Fargo. Lui è un esperto nelle arti marziali. Le ha insegnate anche a me, ma io non sono bravo quanto lui.

Comunque, mio fratello si è fatto promettere che non sarei andato al parco senza di lui.

— Che cosa sono le arti marziali? Fammi vedere.

— Va bene — disse Jeff, saltando giù dal letto e grattandosi furiosamente la testa

— ma aspetta che prima mi sia lavato.

Un quarto d’ora dopo era già in pantaloni e camicia. Si mise in posizione davanti a Norby e lanciò un urlo.

— Allora? — fece il robot, dopo essere rimasto ad aspettare per un po’. — Adesso che succede?

— Che vuoi che succeda? Sei tu che devi attaccare!

Norby si avventò prontamente sul ragazzo, che scartò di lato, afferrò al volo una delle braccia del robot e se la fece passare sulle spalle, con un violento strattone il barile volò contro la parete e ripiombò a terra. Come Jeff aveva lasciato la presa, i quattro arti si erano ritirati dentro il barile e le loro aperture si erano chiuse ermeticamente. Il barile rotolò attraverso tutta la stanza.

— Norby, ti sei fatto male? — Jeff si precipitò in suo aiuto. — Non intendevo scaraventarti via con tanta violenza. È stato un riflesso condizionato, che non sono riuscito a controllare.

Dal barile non giunse alcun suono.

— Ehi, Norby! Sei rimasto danneggiato?

— Macché danneggiato! — il suono giunse fioco avvilito. — Nulla può danneggiarmi, non fisicamente. Ma sono rimasto ferito nel mio amor proprio.

— Mi dispiace. Mi dispiace davvero! In futuro cercherò di stare più attento, te lo prometto.

Jeff prese il robot fra le braccia e si avviò pesantemente verso la porta. Il barile di Norby era ingombrante e massiccio. Bastarono pochi passi perché il ragazzo capisse che sarebbe stata un’impresa ardua.

Il cappello di Norby si sollevò e i suoi occhi sbirciarono Jeff.

— Che cosa vuoi fare, Jeff? — domandò.

— Ti sto portando al parco. Suppongo che a te non piaccia molto camminare, con quelle tue gambette.

— Ciò che vuoi dire veramente — ribatté Norby — è che con quelle tue gambe interminabili ti sarebbe d’impaccio fare passetti tanto corti, da permettermi di restarti al fianco. Giusto?

— Be’, sì — ammise Jeff.

— Non posso darti torto — il robot fece una risatina — ma ci sono parecchie cose che tu non sai.

— Mai affermato il contrario — a volte il ragazzo si sentiva un poco irritato dal tono saccente del robot.

— Fai bene. Intanto, ti metterò a parte di un segreto.

— Quale segreto?

— Questo.

Norby allungò un braccio telescopico e prese saldamente Jeff per mano.

Inaspettatamente, si sollevò da terra e fluttuò in avanti, rimorchiandosi dietro verso la finestra un Jeff sbigottito.

— Hai un dispositivo antigravitazionale! — esclamò il ragazzo. — Un dispositivo miniaturizzato che...

— Non così forte! — lo azzittì Norby. — Non occorre che tutti possano sentirti!

— Ahi! — la testa di Jeff era andata a sbattere contro la cornice superiore della finestra.

Il ragazzo ebbe giusto il tempo di pensare che, per fortuna, il loro appartamento era così vecchio, che aveva ancora delle finestre apribili, non gli spessi cristalli inamovibili dell’aria condizionata, come tutti i palazzi meno antichi. L’attimo dopo si trovò in volo sulla Quinta Strada, verso Central Park. Penzolava giù, aggrappato al braccio metallico del robot, come un sacco appeso a una teleferica; ma subito si accorse che poteva muoversi, volteggiare in aria, flettere il braccio e le gambe come se stesse nuotando nel mare, anzi come se non avesse avuto più peso. L’antigravità di Norby aveva invaso anche il suo corpo, lo sosteneva...

— Sapevo di possedere l’antigravità — disse Norby — ma temo di non riuscire a ricordare come agisce. E tu non dovrai farne mai cenno con nessuno.

Adesso Central Park era sotto di loro. Alle loro spalle dietro i grattacieli che frastagliavano la linea dell’orizzonte, il cielo mostrava un chiarore diffuso, sebbene il sole non fosse ancora spuntato.

— Mi sono sempre domandato come potrebbe essere un congegno antigravitazionale personale — commentò Jeff, talmente eccitato da ansimare lievemente.

— Richiede un forte dispendio di energie, se la cosa ti interessa, e non so quando potrò fare il prossimo bagno elettrico.

— A me sembra una cosa facile. Facile e deliziosa, come nuotare in un oceano di acqua invisibile...

— Bella forza! Non sei mica tu che devi produrre il campo antigravitazionale! A te non costa alcuna fatica! — bofonchiò Norby, scontrosamente. — E non lasciarti incantare tanto da lasciare la mia mano. Reggiti forte! Piuttosto, dimmi dov’è che ti devo portare per quella tua celebrazione del solstizio.

— Nel Ramble, la parte boscosa del parco — spiegò Jeff. — Dall’altra parte di quel laghetto, con le barche attraccate alla riva. Hai visto dove?

— Ho visto sì!

— Bene, allora va’ giù, adesso.

— Non avere fretta! Devo prima capire come fare. Non posso semplicemente lasciarmi cadere giù. A me non accadrebbe nulla, sia chiaro, ma tu ti romperesti tutte le ossa. Come se non bastasse, è buio e io non posso rendere la mia luce interna tanto brillante da vedere dove stiamo andando a sbattere. Cioè, per potere potrei, ma sprecherei troppa energia. Non posso produrre contemporaneamente il campo antigravitazionale e una luce forte. Che cosa credi che io sia? Una centrale nucleare?

Norby prese a scendere in un grande cerchio concentrico, quanto più dolcemente poteva; ma a un tratto schizzò bruscamente in avanti.

— Ehi! — protestò Jeff. — Sta’ più attento!

— Uffa, quante storie! — si spazientì Norby. — Sto cercando di fare le cose nel modo migliore che posso, ma non è facile allentare il campo gravitazionale e farti fare un atterraggio morbido. Ecco, ora, ora! Trattieni il fiato! E smettila di distrarmi!

È già abbastanza difficile capire dov’è il suolo, in mezzo a tutto questo buio!

A Jeff l’impatto brusco fece sbattere i denti. Si ritrovò sui ginocchi e sui gomiti in mezzo alla polvere; subito dopo, nell’involontaria capriola, andò a picchiare la testa contro il bordo di una vasca per i pesci rossi. Erano stati fortunati: quello era proprio il punto in cui avrebbero dovuto atterrare, se Norby avesse avuto abbastanza luce da vederci. Comunque, a dispetto del buio, Jeff potè scorgere i pesci rossi. La vasca dava l’impressione di essere illuminata dall’interno, il che era assurdo, dato che l’amministrazione pubblica di Manhattan era sempre così dissestata, da non poter spendere molto per l’illuminazione dei parchi.

— Norby! Dove sei? — chiamò Jeff, ingegnandosi di gridare con un mormorio.

La luce nella vasca si fece più intensa e a poco a poco una forma spuntò fuori dall’acqua. Era un barile drappeggiato da gigli acquatici. Continuò a innalzarsi, fino a quando rimase sospeso sull’acqua, a una trentina di centimetri, e si diede uno scrollone a mezz’aria, come fanno i cani per asciugarsi, innaffiando tutt’intorno di goccioline d’acqua.

— Ehi! — protestò Jeff, in mezzo a quella doccia.

Il barile smise lentamente di girare. Dal fondo spuntarono due gambe che fecero qualche passo, a mezz’aria, con atteggiamento di grande sussiego. Subito dopo Norby andò a posarsi accanto a Jeff.

— Non ho calcolato esattamente le distanze — disse, con ostentata noncuranza. —

Ho acceso la luce appena un attimo troppo tardi. Tutto qui. Per il resto, è stato un atterraggio perfetto, se posso permettermi di dirlo.

— Dillo pure, ma soltanto per quanto riguarda te! — mugugnò il ragazzo, cercando di darsi una spazzolata con la mano. — Adesso sono coperto di fango! Guarda quale è stato il risultato dell’acqua che mi hai scrollato addosso, sulla polvere in cui sono affondato!

— Presto ti sarai asciugato — commentò Norby. — Anche il fango si asciugherà e allora ti sarà facile scrollartelo via.

— E a te come è andata? — si preoccupò Jeff. — Ti sarai riempito d’acqua! Non farai la ruggine, vero?

— Nulla può danneggiarmi — affermò Norby. — Acciaio inossidabile all’esterno, e ancora meglio all’interno!

Si tolse con grande cura un giglio d’acqua che gli era rimasto appiccicato ai fianchi e lo rilanciò nella vasca; poi spense la sua illuminazione interna, ma rimase luce abbastanza perché Jeff potesse scorgerlo.

— Adesso — commentò il ragazzo — capisco come mai una normalissima mossa di judo è bastata a scaraventarti contro la parete.

— Hai attaccato prima che fossi pronto — si giustificò Norby.

— Mai fatta una cosa del genere! Sei stato tu ad attaccare per primo.

— Volevo dire che ti sei difeso prima che io fossi pronto — il robot voleva sempre avere l’ultima parola.

— Neanche questo — insistette Jeff. — La realtà è che semplicemente tu non sei capace di governare perfettamente i tuoi apparati. Lo hai detto tu stesso quando stavi antigravitando.

— È stato duro, devo ammetterlo, ma ci sono riuscito — Norby non volle cedere.

— Non hai visto che atterraggio? Assolutamente perfetto.

— Perfetto un corno! Non hai governato bene. Poco c’è mancato che mi facessi passare da parte a parte tutto il globo terrestre e rivenirne fuori in Cina!

— Ho fatto ciò che potevo — replicò Norby, in tono seccato. — Di sicuro non troveresti un altro robot capace di fare una cosa del genere, per il prezzo che mi hai pagato. Rimasi danneggiato in una collisione spaziale, poi Mac mi rimise insieme in modo da rendermi invulnerabile; ma per questo dovette servirsi dell’equipaggiamento di salvataggio e così...

— Che equipaggiamento di salvataggio? — interruppe Jeff.

— Oh, senti, se tu non vuoi credere a qualunque cosa ti dico, non ho più niente da dirti.

— Che equipaggiamento di salvataggio? Maledizione, almeno qualche volta dovresti pur degnarti di rispondere alle mie domande! Sei o non sei un robot?

— Sì, lo sono — rintuzzò Norby — ma perché tu non vuoi capire che ti sto dicendo la verità?

— Hai ragione — Jeff tirò un profondo sospiro. — Ti faccio le mie scuse. E allora, Norby, di quale equipaggiamento di salvataggio stai parlando?

— L’equipaggiamento di salvataggio dì una vecchia nave spaziale che abbiamo trovato su un asteroide.

— Ma questo è impossibile! No, Norby, ti credo — Jeff si affrettò a correggersi —

ti credo, ma è impossibile. A nessuno è mai successo di trovare i relitti di un’astronave sperduti su un asteroide. Il Comando Spaziale si preoccupa di recuperare immediatamente ogni relitto di un naufragio o di una collisione. In quest’epoca computerizzata, il Comando Spaziale sa sempre quando e dove avviene un incidente.

— Bene, in quel caso il Comando Spaziale non ne sapeva nulla e, in ogni caso, non era intervenuto. Siamo stati noi a recuperare il relitto. E adesso non pretenderai che ti precisi di quale asteroide si trattava! Ve ne sono a centinaia di migliaia. Era un piccolo asteroide uguale in tutto e per tutto a qualsiasi altro piccolo asteroide.

— Che cosa è successo, quando lui ti ha aggiustato?

— Lui non ha fatto altro che ridacchiare soddisfatto per tutto il tempo. Sembrava molto soddisfatto di sé e non faceva che ripetere: «Gente, aspettate che loro s’accorgano di ciò che sono riuscito a fare!». Mac era un autentico genio, sai? Io gli chiesi perché fosse tanto contento e soddisfatto, ma lui non volle dirmelo. Mi disse che voleva che fosse una sorpresa anche per me. Poi lui morì e io non ho potuto scoprire più nulla.

— Scoprire che cosa?

— Tutto ciò che sono in grado di fare, e come e perché. Come l’antigravità, per esempio. Mi sono accorto per caso di possederla, ma non ho idea di come funziona.

Ci sono delle volte in cui neppure io capisco esattamente che cosa avviene dentro di me. Così tu ti fai beffe di me... Ma se non ho potuto effettuare un atterraggio migliore, è perché non ho avuto tempo di impratichirmi a sufficienza. Per favore, non parliamone più.

— Mi stai prendendo in giro? — Jeff rivolse al robot un’occhiata sconcertata. —

No, scusa, mi è sfuggito. So benissimo che non mi stai prendendo in giro. Eppure...

— Jeff, non scherzare. È una questione molto seria, su cui non c’è proprio nulla da scherzare. Se gli scienziati subodorassero qualcosa, mi prenderebbero e mi farebbero a pezzi, per scoprire come faccio le cose che faccio, e io non voglio che questo avvenga. Credimi, se sapessi qualcosa, sarei ben felice di dirlo, senza bisogno di essere smontato; ma...

Jeff si accovacciò nell’erba, prendendosi fra le braccia i ginocchi infangati. Alzò gli occhi al cielo, che adesso cominciava a rosseggiare, nelle prime luci dell’alba.

— Sai, Norby? — riprese. — Sospetto che quella di cui mi hai parlato fosse un’astronave extraterrestre. Sarebbe la prima prova concreta dell’esistenza di intelligenze aliene oltre il Sistema Solare. E, se così fosse, la prima prova concreta saresti tu.

— Ma tu non ne parlerai ad alcuno! Devi promettermelo! — Norby fu preso dal panico.

— Mai! Mai a nessuno! — Quasi per suggellare la promessa solenne, Jeff prese la mano del robot e la strinse. — E adesso andiamo alla celebrazione del solstizio.

— D’accordo — annuì il robot — ma potrebbe non essere così facile. Sembra che da queste parti sia passata un’orda di elefanti.

Infatti, il terreno era coperto di orme e si udivano, sempre più vicini, rumori di passi, molto numerosi. Istintivamente Jeff prese il robot per mano e se lo tirò dietro, dentro un cespuglio. Quasi subito fra gli alberi, in fondo al sentiero, apparve un gruppo di persone. Ciascuno portava un binocolo.

— Osservatori di uccelli — intuì Jeff.

— Che cosa sono? — si informò Norby. — Non ho mai visto prima niente del genere.

— Semplicemente perché con quel McGillicuddy hai passato troppo tempo nello spazio a osservare gli asteroidi. Agli esseri umani piace osservare l’attività degli altri animali. Questi studiano gli uccelli, non gli asteroidi.

— Vuoi dire che si permettono di ficcare il naso nella privacy degli uccelli?

— Gli uccelli non se ne preoccupano troppo.

— Ma quegli esseri umani non hanno niente di meglio da fare?

— Osservare gli uccelli è una cosa buona. Sarebbe peggio se andassero in giro facendo chiasso o insudiciando il bosco.

— Gli uccelli insudiciano. Loro...

— Zitto, Norby!

La persona che guidava il gruppo, una donna in un abito di tweed, si fermò vicino al laghetto.

— Qui! — chiamò gli altri. — È un buon posto per osservare le civette. Da più di un secolo Central Park ne è pieno. Prima si fermavano qui solo occasionalmente, ma senza mai restarvi a lungo. Adesso invece vi trovano molti topi da mangiare, l’aria non è troppo inquinata e la città non troppo rumorosa. Se così non fosse, le civette avrebbero deciso che per loro il prezzo di un buon pasto sarebbe stato troppo alto.

Invece sembra che a loro adesso Manhattan piaccia, come a tutti noi buoni patrioti.

Almeno piace alle piccole civette. Ho sentito dire che nidificano sugli alberi, qui intorno, e poiché non è ancora giorno fatto, abbiamo buone speranze di riuscire a scorgerne una, quando si alzerà in volo.

— Io non voglio vedere una civetta in volo! — Norby ebbe una reazione spaventata.

— Cosa c’è? — gridò la donna in tweed, con voce acuta. — Chi ha parlato? Se tra voi c’è qualcuno che non vuol vedere le civette, perché è venuto?

— A me le civette non piacciono proprio — affermò Norby. — È probabile che siano anche pericolose.

— Soltanto se tu fossi un topo — sussurrò Jeff — e non lo sei, anche se certe volte ti comporti proprio come un topo. E adesso sta’ zitto!

— C’è qualcuno dietro quel cespuglio — disse un ragazzo. — Proprio qui dietro!

— Malviventi! — gridò una ragazza, puntando il binocolo. — Ci aggrediranno e ci ruberanno i binocoli!

— Io non ho alcun bisogno dei vostri binocoli! — reagì Norby, indignato. — Se voglio, ho la mia visione telescopica.

— Davvero? — esclamò Jeff, affascinato. — Potrebbe risultare comoda.

— Forse sono i terroristi di Ing — disse un uomo — e stanno tenendo un convegno segreto qui nel parco.

Il gruppo di osservatori di uccelli si fece di colpo molto inquieto: tutti rimasero muti e immobili, come paralizzati dal timore.

Jeff trattenne persino il respiro e, una volta tanto, anche Norby si decise a tacere.

A un tratto, una forma si staccò dal folto degli alberi e svolazzò sulla teste degli osservatori di uccelli.

— I terroristi ci attaccano! — urlò lo stesso uomo che ne aveva parlato poco prima.

La donna in tweed rimase come ipnotizzata e agitò le braccia, come indicando qualcosa, eccitatissima.

— Guardate! Guardate! Un grosso gufo grigio! Un gufo canadese! È raro vederli così al sud! È la prima volta che ne avvisto uno a Central Park!

Gli altri non le badarono affatto. Rinculavano sul sentiero, stringendosi forte al petto i loro binocoli.

— Andiamocene! — urlò uno di loro. — Non ha senso stare a osservare gli uccelli quando i terroristi stanno osservando noi.

Jeff non avrebbe voluto rovinare il divertimento di quella gente. Non voleva neppure trovarsi coinvolto personalmente, ma non aveva scelta. Si alzò in piedi, in modo da sbucare fuori da sopra il cespuglio, mostrandosi alla capogruppo.

— Non sono un terrorista, signora — la rassicurò — e neppure un rapinatore. Sono qui per celebrare il solstizio d’estate, secondo una tradizione di famiglia.

— Povera me! — gemette la donna. — Il gufo è volato via!

— Me lo auguro! — si fece udire Norby. — Era talmente grosso, da potermi scambiare per un topo.

Jeff lo fece tacere con una gomitata.

— Lui — spiegò alla donna — non vuole mostrarsi, perché si vergogna di aver paura di un uccellino.

— Chiamalo piccolo! — protestò il robot. — Le sue ali erano grandi almeno tre metri!

— Sta’ zitto! — gli ordinò Jeff, e stavolta Norby ubbidì, sia pure continuando a mugugnare tra sé. — Chissà, signora, forse riuscirà a vederlo ancora.

— Lo spero, lo spero moltissimo! Vederlo è stata l’avventura più emozionante di tutta la mia vita! Ma cosa c’è dietro il cespuglio?

— Oh — il ragazzo si raschiò più volte la gola, imbarazzato. — Diciamo che è il mio fratellino, una specie di fratellino piccolo. Lui si spaventa facilmente.

— Niente affatto! — protestò Norby. — Sono più coraggioso di un lupo dello spazio!

— Come dice? — si stupì la donna.

— Nulla, nulla. Dice di essere coraggioso. Dice — aggiunse Jeff, con una risatina canzonatoria — di non aver paura di nulla, purché possa avere l’opportunità di scappare molto lontano.

— Sono più coraggioso di un leone! — gridò Norby.

— Dai! Un leone tu non lo hai mai neppure visto.

— Sì che l’ho visto! — affermò Norby. — In fotografia. Mac sulla sua astronave aveva una vecchia enciclopedia. E per tua norma e regola io so essere coraggioso. Io non scappo davanti al pericolo.

— Il suo fratellino parla molto bene per essere così piccolo — osservò la donna, allungando il collo.

— Sì, è un bambino prodigio — rispose Jeff, mettendosi in modo da tagliarle la strada e da impedirle di arrivare a scorgere il robot — ma è timido. Si sentirebbe molto a disagio se lei si avvicinasse troppo. Sì, è vero, parla molto, ma soltanto perché ha un grande cappello... una grande bocca, intendo dire. Adesso però purtroppo devo iniziare la celebrazione del solstizio.

— Non potrei assistervi anch’io? — chiese la donna.

— No, non può! — reagì Norby, astiosamente. — Si suppone che lei è una che osserva gli uccelli, non le usanze private della gente.

— Lo scusi, signora — Jeff intervenne prontamente. — Lui intendeva dire semplicemente che è una cerimonia privata di famiglia. Non è previsto che qualcuno possa assistervi.

Dal bosco giunse un grido:

— Tutto bene, signorina Higgins?

— Che bravi, poveri cari! — la donna si sciolse in un sorriso commosso. — Sono molto spaventati, e ciò nonostante sono tornati in mio soccorso. Non sono commoventi? — Poi alzando la voce: — Tutto bene, amici cari. Vi raggiungo subito.

— Poi, di nuovo, rivolto a Jeff: — Non le piacerebbe unirsi al nostro gruppo, una di queste mattine?

— Oh, certamente — assicurò Jeff — ma adesso non sarebbe meglio che lei tornasse da loro? Saranno molto in ansia per lei.

— Ne sono sicura. Noi ci incontriamo tutti i mercoledì, a parte qualche occasione particolare. Le farò avere un invito. Vuole darmi il suo nome e l’indirizzo?

Jeff glielo disse e lei lo scrisse in una piccola agenda. In lontananza, si udì il verso del gufo.

— Da questa parte! — la signorina Higgins chiamò il gruppo. — Forse potremo dargli un’altra occhiata!

Si allontanò e Jeff comprese dalle voci che si era riunita agli altri e li stava guidando lungo un altro sentiero. Finalmente il parco sembrò di nuovo deserto.

— Che cosa orribile! — esclamò Norby.

— Niente affatto — ribatté Jeff. — Solo un piccolo ritardo, e nulla di cui ci fosse da preoccuparsi. Ai vecchi tempi a Central Park accadevano cose peggiori.

— Rapinatori e terroristi? — sottolineò Norby. — Raccontami di loro.

— Molto tempo fa c’erano delle persone violente, ma ormai Central Park è del tutto civilizzato.

— Allora perché mi hai detto che non ti è permesso andare nel parco di notte?

— Fargo si preoccupa troppo — Jeff alzò le spalle. — Qualche volta crede che io sia ancora un bambino. Comunque sia, adesso il parco è completamente civilizzato, come puoi vedere tu stesso.

— Meno male — commentò Norby. — Io sono un oggetto molto civilizzato e preferisco non avere niente a che fare con chiunque non lo sia.


4. Oltre Central Park

Jeff si stiracchiò. Non aveva dormito abbastanza, ma il sole stava spuntando, ed era il solstizio.

— Vieni, Norby — chiamò il robot con un gesto.

— Raggiungiamo quel posto dei fratelli Wells.

— Quel posto è vostro? Appartiene a voi?

— Non proprio. Non legalmente, ad ogni modo, però lo sentiamo come nostro.

Intimamente nostro.

— Ma non legalmente? — sottolineò Norby. — Se c’è il rischio di avere grane con i poliziotti, io non vengo.

— Non avremo grane con i poliziotti — replicò Jeff, in tono irritato. — Dove credi di essere? Sugli asteroidi? Seguimi e non fare tante storie.

Si avviò lungo un altro sentiero dalla parte opposta del laghetto, ma quasi subito si fermò e si guardò indietro. Norby non si era neppure mosso.

— Va bene — si arrese Jeff — se preferisci usa pure l’antigravità. So che per te camminare è difficile.

— Posso camminare perfettamente, quando voglio! — il robot non mancò di risentirsi. — Posso camminare meglio e più a lungo di chiunque altro, ma non più velocemente. Gli esseri umani credono che la velocità sia tutto, e comunque non sono poi tanto veloci quanto credono. Gli struzzi e i canguri corrono su due zampe, e sono molto più veloci degli esseri umani. Ho letto di loro...

— Nell’enciclopedia di Mac — completò Jeff, spazientito. — E poi i canguri non corrono, ma saltano.

— Anche gli esseri umani saltano, ma non possono andare così forte come i canguri. Oltre tutto, quando saltano hanno un aspetto molto poco dignitoso. Se per corpo avessero un barile, come me, non ne sarebbero capaci. Aspetta di veder saltare me!

— Okay, salta pure se vuoi, ma sta’ attento...

Troppo tardi. Norby inciampò nella radice sporgente di un albero. Fece una capriola e atterrò sulla testa, che però non rientrò nel barile. Il suo corpo si sollevò a mezz’aria, con le gambe che si dimenavano nella parte superiore e gli occhi che sporgevano nella parte inferiore.

Jeff si sforzò di restare serio e per circa quindici secondi ci riuscì; poi scoppiò a ridere.

— Non c’è niente da ridere! — si offese Norby. — Ho deciso di rigirarmi, grazie al mio campo gravitazionale.

— Così, sottosopra?

— Ti sto semplicemente mostrando che posso farlo tutte le volte che voglio.

Sarebbe un campo gravitazionale davvero meschino quello che funzionasse soltanto in posizione eretta! Questo chiunque può farlo. Io ho vinto delle gare di corsa a testa in giù. Posso restare a testa in giù più a lungo di chiunque altro.

— Potresti farlo anche stando in orizzontale?

— Certamente, ma non sarebbe dignitoso. Ho voluto mostrarti qual è il modo dignitoso di farlo. Se però insisti, lo farò anche in quel modo sciocco che tu dici.

Norby si raddrizzò, non senza un certo sforzo, poi ridiscese lentamente fino a quando i suoi piedi furono nuovamente posati a terra. Vacillò un poco, ma fece un verso simile a quello degli acrobati e rimase su un piede solo, cercando di imitare i danzatori.

— Bene — disse — dove vuoi che vada? Posso andare in tutte le direzioni possibili.

— Questo significa — insinuò Jeff — che tu non sai concretamente da che parte vai, fino a quando non provi. Giusto?

— Sbagliatissimo! — ribatté Norby, con voce sonora. — E lascia che ti dica una cosa, visto che ti reputi tanto intelligente.

— Di’ pure.

— Ciò che voglio veramente dirti — il robot abbassò la voce e il suo tono si addolcì — è che dobbiamo affrettarci, se non vogliamo arrivare in quel posto del solstizio quando il sole sarà già alto e sarà ormai tardi.

Gli porse la mano. Jeff la prese e il robot e il ragazzo si avviarono, mano nella mano, lungo il sentiero ombroso che si addentrava nella parte più boscosa del Ramble. Adesso il cielo era abbastanza chiaro da consentire di scorgere le forme degli alberi e delle rocce.

Camminando allegramente, giunsero in una vasta radura attraversata da un torrentello, un torrentello che nasceva da una sorgente, in cima a un alto roccione a precipizio che chiudeva la radura. Sulla sommità si delineava contro il cielo una ringhiera, e da là un altro sentiero attraversava tutto il roccione, diventava un ponticello sottile e girava dietro la cima, evidentemente riunendosi al sentiero principale.

Un albero di salice, piccolo ma grazioso, si piegava sul torrentello, e intorno alle sue radici crescevano piccoli gigli bianchi, ancor più candidi nel tenue chiarore della radura. Un vento leggero faceva dondolare i fiori e spargeva intorno un profumo delicato.

— Mi piace qui — mormorò Norby. — È bello!

— Non sapevo che i robot potessero capire la bellezza — Jeff non finiva più di stupirsi.

— Sicuro che possono. Un flusso di elettricità è una cosa bellissima quando il tuo potenziale è giù. A parte il fatto che io non sono un robot ordinario.

— Lo vedo. Quei pezzi estranei che ti sono stati messi dentro devono venire da un altro robot, di un tipo completamente diverso, o addirittura da un computer extraterrestre o roba del genere.

— Questo non ha niente a che vedere con il resto, Jeff. Il guaio, con voi creature di proteine, è che siete convinti di essere stati voi a inventare la bellezza. Posso apprezzarla anch’io. Posso apprezzare tutto ciò che voi potete apprezzare, e posso fare tutto ciò che voi fate. Sono forte e coraggiosissimo, e sono un buon compagno di avventure. Aspetta che ci capitino delle vere avventure, e te lo dimostrerò! Sarai felice di avermi con te.

— Ne sono sicuro, Norby. Sinceramente.

— Mac desiderava, sempre delle avventure, ma continuava a rimandare, e così arrivò alla sua fine senza averne vissuta nessuna, ad eccezione del ritrovamento dell’astronave aliena. E anche allora non accadde nulla.

— A te sì, però.

— Hai ragione! Sono stato rimesso insieme.

— Rimesso insieme, tu dici... Sì, sei davvero uno strano accrocco di chissà quali componenti elettronici.

— Perché ti diverti a prendermi in giro? Per dimostrarmi quanto gli esseri umani sanno essere crudeli?

— Io non sono affatto crudele. E sono felicissimo che tu sia stato rimesso insieme e che in te ci siano dei componenti di provenienza extraterrestre. È appunto...

In quel momento Norby, che si era fermato con le gambe allungate al massimo, spalancò gli occhi.

— Ehi! — gridò.

— Che succede? — Jeff si allarmò.

Cercò di lasciare la mano di Norby, ma il robot gli tenne stretta la sua in una morsa dolorosa, mentre con l’altra mano indicava dietro di sé. Jeff si ricordò che Norby aveva occhi anche dietro la nuca.

— Pericolo! — rispose Norby, concitatamente.

— Dove? Dove? Chi? Che cosa?

Jeff guardò da una parte e dall’altra e, alla fine, anche in alto, giusto in tempo per notare che sul ponticello qualcosa si muoveva. Due figure avanzavano velocemente, troppo velocemente per non essere notate nella luce ormai abbastanza forte. Erano tre uomini. Per l’esattezza, due uomini che inseguivano un terzo.

— Norby! — gridò Jeff. — Stanno aggredendo Fargo!


5. Spie e poliziotti

Norby fu lesto ad afferrare il ragazzo per mano e ad attivare il suo campo gravitazionale. Jeff, trascinato in un volo improvviso, guardò giù e valutò in un baleno la situazione.

— Fuori le bombe! — gridò.

Nella fulminea picchiata, andarono a cadere proprio sulla testa del più grosso dei due aggressori. Jeff si rialzò di scatto, pronto a sostenere una lotta disperata ma l’altro non ci pensava neppure. Sotto il peso del ragazzo, era crollato a terra, aveva picchiato il capo ed era svenuto.

— Pensa all’altro, Fargo! — gridò Jeff, con voce resa un poco ansimante dalla velocità della picchiata, che gli aveva impedito di respirare.

— Non ce n’è bisogno — rispose il fratello, ansimando anche lui. — Ci ha pensato il tuo barile.

C’era Norby, accanto a lui, davanti al secondo uomo che, disteso in terra, sembrava addormentato.

— Non è un barile, Fargo — disse Jeff. — È...

Il fratello non gli stava prestando attenzione. I suoi occhi brillavano di eccitazione.

Lui amava le lotte e le corse e i rischi e il pericolo, mentre Jeff non li amava in maniera particolare. Non riusciva a evitarli, ma non li amava. Sta di fatto che li avrebbe evitati, se avesse potuto, mentre Fargo aveva l’abitudine di andare sempre a cacciarsi a capofitto nei pasticci. Jeff si chiese ancora una volta, come già gli era capitato di fare spesso, se per lui era un bene essere imparentato con Fargo. E stavolta decise, improvvisamente, che sì, lo era.

— Allora, Fargo, cos’è tutta questa faccenda? — chiese, sentendosi come se fosse lui il fratello maggiore e non il minore.

— Sono io che te lo chiedo, piuttosto! Che fai qui? Un attimo fa non c’eri! Da dove sei arrivato? Dal cielo? E come hai fatto a mettere a terra quel gorilla, e perché ti porti dietro un barile?

— Non pensarci. Chi sono questi tipi, e perché ti davano la caccia? Credevo che l’amministrazione civica fosse riuscita a fare piazza pulita dei rapinatori.

— Non sono rapinatori, Jeff. Mi stavano dietro fin da quando ho parlato con l’ammiraglio Yobo di te e... ehm, di altre cose. Speravo di essere riuscito a far perder loro le mie tracce, ma evidentemente mi ero sbagliato. Mi avevano preceduto ed erano andati ad aspettarmi a casa. Per fortuna, ho un sesto senso...

— Come me — venne fuori la voce soffocata di Norby. — Anch’io ho il sesto senso.

— Cosa? — trasalì Fargo. — Sei stato tu a parlare, Jeff? O c’è qualcun altro qui intorno?

Si guardò in giro ma non scorse nessuno.

— Non curartene. Raccontami tutto. Dunque, stavi andando a casa, quando quel tuo famoso sesto senso...

— Appunto. Qualcosa mi ha suggerito di non entrare senza aver prima consultato il terminale del computer che ho nascosto sotto lo zerbino, e quello mi ha avvertito che l’appartamento era stato scassinato e c’erano dentro due uomini. Ho fatto qualche altra domanda e il computer mi ha informato che tu eri uscito poco prima dello scasso, così ho saputo che eri salvo. Bene, in casa non c’era nulla di cui mi dovessi preoccupare, ad eccezione di te, e non avevo alcuna intenzione di andare a cacciarmi in trappola. Prima dovevo trovare te: dopo, insieme, ci saremmo presi cura di quei due... esattamente come abbiamo fatto. Dico bene, ragazzo mio?

— Non dimenticatevi che vi ho aiutati anch’io — disse Norby, in uno di quei mormorii sonori che erano la sua specialità.

— Cosa? — Fargo trasalì di nuovo.

— Non farci caso — disse Jeff. — Dunque sei venuto direttamente al parco?

— Naturalmente. Sapevo che saresti venuto qui, per la celebrazione del solstizio.

Ma loro mi hanno seguito e ho dovuto cercare di “seminarli”. C’ero quasi riuscito, quando ti sono piombato addosso, per modo di dire, e tu sei piombato su di loro, nel senso più letterale.

— Anch’io — si fece udire di nuovo il mormorio.

— Ancora! — trasalì Fargo, guardandosi intorno accigliato. — Non sarò mica matto a udire delle voci! Devi averle sentite anche tu, Jeff, per forza! Ma allora come mai rimani così indifferente? Tu ne sai qualcosa?... Ascolta bene, ragazzo mio: se c’è qualcosa che stai tentando di nascondermi, farai meglio a parlarmene.

Così dicendo, raggiunse il barile e lo esaminò da vicino, con espressione perplessa.

— Cos’è questo? — rivolse al fratello un’occhiata indagatrice. — Non mi dirai che lo hai portato per brindare al solstizio e te lo sei bevuto tutto da solo!

— No. Quel barile è il mio robot.

— Stai scherzando — così dicendo, Fargo allungò un piede e diede un colpetto al fusto metallico, come per saggiarlo. — Che razza di robot sarebbe un barile?

— Questo è un gesto terribilmente scortese — protestò Norby. — E tu, Jeff, gli permetti di fare una cosa del genere? — Il robot estrasse le gambe e le braccia e si raddrizzò. Il suo cappello si sollevò e da sotto il bordo due occhi lampeggianti d’ira si fissarono su Fargo. — Se fossi stato io a prendere a calci te, sono sicuro che avresti avuto parecchio da obiettare!

— Vedo che lo sai bene! — replicò Fargo, in un tono chiaramente minaccioso. —

Comunque è vero, questo affare è proprio un robot. Dove lo hai preso, Jeff?

— In un negozio di robot usati. Tu stesso mi hai detto di comprare un robot didattico, e lui questo è. Ma soprattutto è un mio amico. Tutto bene, Norby?

— Sì — lo rassicurò il robot — e sono felice che tu mi consideri tuo amico, anche se molto spesso non mi tratti come tale. Di sicuro non puoi pretendere che vada tutto bene, quando insisti a metterci in queste situazioni spiacevoli con i rapinatori...

— È un robot didattico? — si informò Fargo.

— Sicuro. Mi sta insegnando che la vita è complicata e pericolosa — sospirò Jeff, rassegnato. — Ma tu non mi hai ancora detto chi sono questi rapinatori.

— Bene, non li conosco di nome, ma suppongo che siano degli scagnozzi di Ing.

— Colpì con un piede il più piccolo dei due, che continuava a lamentarsi. — Per fortuna non hanno l’aria di essere troppo danneggiati.

Improvvisamente il più grosso fece un sospiro profondo, riaprì gli occhi e si rotolò su un fianco, cercando di raggiungere una specie di corto bastone che gli era sfuggito di mano ed era rimasto nell’erba.

Norby allungò un braccio prima ancora che Jeff se ne potesse accorgere, prese il bastone e se ne servì per colpire il sicario. Quello lanciò un urlo e crollò svenuto.

— Prendilo — Norby lanciò il bastone a Jeff. — Il mio sesto senso mi dice che lo troverai molto utile.

Fargo si fece avanti, prese il bastone dalle mani di Jeff e lo esaminò con attenzione.

— Ehi, questa è una “verga della verità” — esclamò. — È un’arma illegale!

Contiene un congegno a raggi capace di stordire una persona. È un oggetto costoso con cui si può fare dell’ottimo lavoro, ma dovrebbero averlo solo gli appartenenti alla Flotta Spaziale.

— Questo dimostra quanto è inefficiente la flotta — commentò Norby — se chiunque può saccheggiare i suoi depositi d’armi.

— Proprio a me vieni a dire che la flotta è... — cominciò Fargo, ma si interruppe in tempo. — Che razza di robot sei andato a rimediare, Jeff? I robot sono programmati in modo che non possano mai nuocere a un essere umano. È quella che si chiama la Prima Legge della Robotica.

— Ecco un altro esempio di bella gratitudine da parte tua! — si lamentò Norby. —

Suppongo che non saresti stato troppo contento se questa canaglia avesse usato il suo bastone contro di te. Ma tu non sei stato neppure in grado di riconoscere di che cosa si trattava, finché stava nell’erba. Lui ha approfittato della tua ingenuità e stava facendo in modo di servirsene per stordirti. Sbagliando, si intende: non ha considerato che tu non hai cervello e quindi non c’è nulla che si possa stordire.

— Ascolta, tu! — reagì Fargo. — Un robot non può permettersi di insultare un uomo!

Fece per avventarsi sul robot, che fu lesto a trotterellare accanto a Jeff, mettendosi sotto la sua protezione.

— Lascialo stare, Fargo — intervenne Jeff. — In effetti non intendeva far del male a degli esseri umani.

— Certo che no — confermò Norby. — Non è colpa mia se sono caduto proprio su uno di loro. Jeff ha ordinato “Fuori le bombe!” e io non ho fatto che ubbidire. Poi, impadronendomi della verga della verità prima che lo facesse il sicario, non ho fatto altro che cercare di proteggere un essere umano e, sia pure usando questa definizione in senso molto improprio, mi riferisco proprio a te, Fargo. L’ho stordito, sì, questo è vero; ma come avrei potuto sapere che la scarica dell’arma era regolata sull’intensità massima? Per quanto potevo saperne, avrebbe dovuto essere sul minimo; quindi, se l’ho stordito, è stato soltanto per un incidente. Ehi, Jeff, io non so se posso fidarmi di questo tuo stupido fratello. Siamo sicuri che è dalla nostra parte?

— Certo che lo è! E non è uno stupido.

— Sarà, ma sta tanto a preoccuparsi che io abbia ferito i due malviventi, mentre non si preoccupa per nulla del fatto che lui ha ferito i miei sentimenti!

— Lui ancora non ti conosce. Non sa ancora quanto tu sei suscettibile.

— Perché, Jeff — chiese Fargo, sconcertato — il tuo robot, mentre parla con te, tiene gli occhi chiusi e rivolti verso di me?

— Tiene aperti gli occhi dalla mia parte — spiegò Jeff. — Ha la faccia bifronte, con un paio d’occhi da ciascun lato.

— Non mi hai ancora detto dove lo hai preso.

— L’ho comprato nel negozio che tu mi hai raccomandato.

— Il gestore è una persona davvero raccomandabile! — il robot non tralasciò neppure quell’occasione per risentirsi.— È uno stupido e un disonesto.

— Vuoi dire — Fargo riportò lo sguardo sul fratello — che quell’uomo ti ha costretto a prendere il barile?

— No — affermò Jeff — anzi sono stato io a insistere parecchio per avere proprio Norby. Il gestore ha fatto di tutto per dissuadermi.

— Allora, questo significa che ti è piaciuto un robot che si permette di dare a me dello stupido?

— Sta’ calmo, Fargo. Come prima cosa, questo robot si chiama Norby e ti prego di chiamarlo per nome. Seconda cosa, è un robot del tutto normale, a parte il fatto che è stato rimesso insieme alla meglio.

— Questo — si risentì Norby — non è affatto necessario che tu vada a raccontarlo a chiunque.

— Fargo non è “chiunque”, ma è mio fratello. È uno di noi. E dire che tu sei stato rimesso insieme alla meglio non è sparlare, ma dire le cose come stanno. Fargo se ne sarebbe accorto comunque in cinque minuti. Basta guardare come ti comporti per capirlo. È un segreto che non si può tenere nascosto.

— Stai ferendo di nuovo i miei sentimenti — si lamentò Norby. — Soltanto perché sono un povero robot ricostruito, credi di poterti permettere di dire ogni cosa sul mio conto.

— Smettetela di chiacchierare — intervenne Fargo. — Abbiamo cose più importanti da fare. Per esempio, i nostri prigionieri stanno per riprendere i sensi.

Conviene servirsi della loro verga per stordirli di nuovo.

— Dobbiamo farli parlare — obiettò Jeff — e non potremo farlo se li stordiremo.

Penserà Norby a legarli saldamente prima che si sveglino del tutto.

— Con che cosa? — ribatté il robot. — Sarò pure stato rimesso insieme alla meglio, ma non fino al punto di essere capace di legare qualcuno senza una corda. Ho l’aspetto di uno che tiene una corda dentro di sé?

— Usa questa — disse Fargo, lanciando a Norby un gomitolo di grosso spago. —

Questa avrebbe dovuto essere una celebrazione solenne del solstizio, per tenere vive le tradizioni di famiglia, ma fra una cosa e l’altra non potremo celebrare proprio nulla.

— E quello spago che cosa ha a che fare con il solstizio? — chiese Jeff.

— Non pensarci — rispose Fargo. — Sarà una sorpresa l’anno prossimo.

Ammesso — aggiunse con un sospiro — che riusciamo ad arrivare all’anno prossimo!

Nel frattempo Norby, con sorprendente efficienza, aveva legato le mani dei due inseguitori catturati dietro le loro schiene, con un unico pezzo di spago, in modo che i due fossero anche annodati l’uno all’altro. Poi, finito il lavoro, ritirò in se stesso gli arti e la testa, riprendendo l’aspetto di un normalissimo barile.

Fargo, che non era ancora del tutto tranquillo, teneva la strana verga spianata contro i due uomini, pronto a servirsene. Jeff, per la verità, non era molto meno preoccupato del fratello, sia pure per altri motivi.

— Non faremmo meglio a chiamare la polizia? — suggerì. — Anche a Manhattan i civili non possono prendere la legge nelle loro mani.

— No, questo è affar mio — troncò il fratello. Poco dopo i due aggressori cominciarono ad agitarsi e spalancarono gli occhi, sorpresi e impauriti.

— Ben tornati nel mondo dei vivi — ridacchiò Fargo. — Innanzi tutto, i vostri nomi.

I due serrarono le labbra, con un gesto di sfida; ma bastò una leggera scarica della verga perché quello grande e grosso lanciasse un urlo di dolore e tornasse sulle sue spavalde decisioni.

— Io mi chiamo Fister — disse — e lui è Sligh. Bada, Wells, non puoi tenerci prigionieri. Più a lungo lo farai e peggio sarà per te e per tuo fratello.

— Grazie dell’avvertimento — sogghignò Fargo — ma prima che impazzisca di terrore e vi lasci andare, ho intenzione di scoprire alcune cosucce.

Piazzò l’arma davanti agli occhi dei due, e azionò alcuni congegni, in modo che Fister e Sligh vedessero bene che cosa stava facendo.

— Adesso la “verga della verità” è predisposta per il suo impiego principale —

riprese — e voi sapete meglio di me come funziona. Reagisce automaticamente a qualunque bugia, lanciando una scossa elettrica molto poco piacevole. Ma voi due non avete nulla da temere: basta che diciate la verità, e non dovrete assaggiare la scossa.

— Attento, Fargo! — bofonchiò quello che aveva detto di chiamarsi Fister, e che già aveva perso gran parte della sua baldanza. — Ciò che stai facendo è illegale.

— Niente affatto — ribatté Fargo. — L’illegalità è soltanto vostra, sotto ogni aspetto. La verga che sto usando appartiene a voi, non a me. Chiarito questo, mi piacerebbe sapere, tanto per cominciare, chi è Ing e che aspetto ha. Non sarà per caso una bellissima donna?

— Non lo so — disse Sligh. Era (o, piuttosto, era stato, prima di cadere a terra) abbigliato con eleganza, con un completo marrone, e con i capelli impomatati accuratamente, su un volto lungo e magro.

Non accadde nulla e Fargo rimase disorientato.

— Maledizione! — imprecò. — Devi aver detto la verità, a meno che questa verga non funzioni bene. Sei ben deciso a dirmi la verità?

— Sicuro! — affermò Sligh, ma subito dopo lanciò un grido di dolore, scosso da un brivido improvviso.

— No, vedo che la verga funziona bene — commentò Fargo — quindi farai meglio a dirmi la verità, a meno che non ti piaccia la sensazione che hai appena provato.

Questo vale anche per te, Fister. Intesi? Dunque, Sligh, tu non sai che aspetto ha Ing.

Ma questo che cosa significa, che lo hai sempre visto sotto un qualche camuffamento o che addirittura non lo hai mai visto?

— Nessuno lo ha mai visto — affermò Fister.

— Tieni la bocca chiusa! — lo rimbeccò il compare.

— Quali sono gli scopi finali di Ing? — Fargo riprese l’interrogatorio.

Ci fu una brevissima pausa, poi la faccia di Sligh si contorse in uno spasimo rivelatore.

— È meglio che tu dica la verità — lo minacciò Fargo. — Vedi bene che si resta colpiti dalla scarica anche se si tenta soltanto di mentire.

— Non c’è alcun bisogno di mentire — ribatté Sligh, con un grugnito. — Sai bene che cosa Ing vuole ottenere. Vuole essere il capo del Sistema Solare, per il suo bene.

— Sì, per il suo bene, ovviamente — ridacchiò Fargo — ma per il bene del Sistema Solare, come tu credi, o per il bene personale del caritatevole signor Ing,

come invece credo io? Ma certo mi sbaglio. Voi tutti siete patrioti dai sentimenti molto nobili, e vi preoccupate unicamente del benessere degli altri. Suppongo che vogliate sostituire il governo più o meno democratico della Federazione con un tipo di governo più autoritario.

— Un governo più efficiente con un capo più deciso. Sì, ammetto che questo gioverà a Ing personalmente e gioverà anche a me, ma gioverà a chiunque. Ti sto dicendo la verità: vedi che la verga non mi colpisce.

— Ciò significa soltanto che tu credi che sia vero ciò che dici. Ritenendoti un idealista prendi in giro te stesso, questo posso concedertelo, e forse anche Ing la pensa allo stesso modo, per quanto ne dubiti parecchio. Mi piacerebbe avere lui sotto la “verga della verità”! Dopo, come lo chiamerete il vostro Ing? Re Ing? Regina Ing?

Padrone Ing? Capo? Signore? Imperatore?

— In qualunque modo lui deciderà.

— E Ing come conta di realizzare i suoi piani? Io che c’entro?

— Chiunque si opponga a Ing deve essere necessariamente soppresso o convertito.

Tu potresti essere un convertito ideale.

— Speravate di ottenerlo adoperando questa verga?

— Avrebbe dovuto tenerti buono mentre ti portavamo via. Per la conversione vera e propria abbiamo altri metodi.

— Non ne dubito, ma c’è un altro fatto. Fino a poco tempo fa non mi stavate alle calcagna. Posso chiedere perché e che cosa vi ha fatto cambiare idea?

— Non sarebbe saggio che te lo dicessi.

— Sono sicuro che lo pensi veramente, quindi non stai mentendo. Sì, puoi evitare di provare una nuova scossa dicendomi soltanto quelle verità che non mi rivelano nulla. D’altra parte, forse le vostre rivelazioni neppure mi occorrono. Sospetto che Ing, nei suoi piani, voglia innanzi tutto impadronirsi del Comando Spaziale. Una volta che ne avrà ottenuto il controllo, gli sarà facile impadronirsi dell’intera Federazione. Adesso, in questi ultimi giorni, Ing deve aver pensato che io sarei la persona ideale per infiltrarmi nel comando e tradire l’ammiraglio Yobo.

L’ammiraglio è mio amico e si fida di me, mentre io ho un bisogno disperato di denaro, il che renderebbe molto più facile la mia “conversione”, come la chiamate voi. È questo uno degli “altri metodi” a cui ti riferivi: la pura e semplice corruzione, secondo il vecchio stile. Ho ragione?

— Tutto ciò che posso dirti — rispose Sligh, dopo un attimo di esitazione — è che Ing è pieno di quattrini ed è molto generoso con quelli che considera suoi amici.

— Fargo — intervenne Jeff — questo non è tutto.

— Sta’ zitto, Jeff! E tu, Sligh, sta’ bene attento a ciò che sto per fare. Rivolgerò la

“verga della verità” su di me. Controlla pure: come vedi, non ne ho modificato l’assetto; quindi, se ti dicessi qualcosa che non risponde a verità, sarei io a subire la stessa scossa che hai provato tu quando hai cercato di mentire.

— Sì, vedo. E con questo?

— Pensi che, se dovessi ricevere la scossa, riuscirei a nascondertelo?

— No — Sligh scosse la testa.

— Molto bene. Sto per dirti che non c’è alcuna speranza di riuscire a convertirmi.

Sono stato messo fuori dalla flotta e non me ne importa niente, perché ho altre cose da fare; invece l’unica ambizione di mio fratello è entrare nella flotta ed essere ammesso al servizio del Comando Spaziale. Lui non è come me! Ha solo quattordici anni, sebbene ne dimostri di più, e si è sempre dimostrato un ragazzo serio su cui si può fare pieno affidamento. Nulla al mondo lo indurrebbe a passare dalla parte di Ing, e nulla al mondo indurrà me a mandare a monte i suoi progetti. Il che, per quanto concerne i vostri progetti, mette fuori causa tanto lui quanto me.

Sligh corrugò la fronte, sconcertato e dubbioso.

— Questa verga è sempre carica? — chiese.

— Jeff — Fargo si rivolse al fratello — fammi una domanda a cui possa rispondere con una bugia.

— Ti interessano le donne, Fargo?

— Neanche un po’ — disse il fratello maggiore, e subito dopo lanciò un urlo e la singolare arma gli cadde dalle mani. — C’era proprio bisogno, Jeff, che mi facessi dire una bugia così grossa? Per dare la dimostrazione, sarebbe bastata anche una piccola bugia!

I suoi occhi si erano riempiti di lacrime, per l’improvviso dolore acuto. Dovette far passare qualche secondo prima che potesse riprendere l’interrogatorio.

— Torniamo a te e a Ing — si rivolse di nuovo al più piccolo dei due sicari. —

Adesso dimmi...

— Sta venendo qualcuno! — lo interruppe il fratello.

Si udì il lieve ronzio di un motore antigravitazionale, già vicino, e un attimo dopo sopra le loro teste era sospesa una macchina bianca e azzurra della polizia. I suoi riflettori girevoli si puntarono sulla radura ombrosa, in cui il sole, basso all’orizzonte, non era ancora penetrato. Ne discese lentamente un megafono, la cui voce risuonò potente e autoritaria:

— Polizia! Nessuno si muova! Abbiamo ricevuto una chiamata di emergenza e ci sono state comunicate le coordinate di questo punto. Che sta succedendo?

Fargo si allontanò dai due uomini legati, gettò lontano la “verga della verità” e alzò le mani. Anche Jeff alzò le mani. Norby rimase un comune barile. Dopo un attimo di esitazione, Sligh e Fister si misero a gridare:

— Aiuto! Aiuto!

— Che diavolo sta accadendo laggiù? — disse la voce del megafono.

Contemporaneamente la macchina si abbassò fin quasi al livello del suolo e ne

scivolò fuori una figura in uniforme blu, circondata dal tipico alone luminescente di uno scudo magnetico.

— Ehi, Fargo — esclamò Jeff — finalmente sul mercato sono arrivati gli scudi magnetici. Non potremmo permettercene un paio, per noi due?

— No di sicuro per tutta la vita — fu l’agente a rispondere. — Costano un capitale e comunque ai civili non è permesso acquistarli.

— È per questo che tu non ne hai uno, Jeff? — fece Fargo. — Ing è troppo avaro per regalartene uno?

— Me lo ha regalato, ma si è guastato — rispose l’altro. — Il fabbricante lo aveva garantito, invece...

— Si vede che Ing aveva una tangente sul contratto — Fargo scoppiò a ridere.

L’agente si avvicinò. Il suo scudo magnetico scintillava intorno alla sua figura, ma non nascondeva la pistola a raggi paralizzanti che stringeva fra le mani.

— Se lo scudo magnetico è così costoso, agente — osservò Fargo — come mai l’amministrazione comunale se li può permettere?

— Infatti non può — rispose l’agente. — Solo pochi di noi lo hanno in dotazione.

Per mia fortuna, il sindaco è mio padre. E adesso rispondete: che cosa succede qui?

— Come può ben vedere... — cominciò Fargo.

— Ciò che posso vedere lo vedo da me! Vedo due uomini inermi legati strettamente e altri due uomini accanto, in possesso di quella che ha tutta l’aria di essere una “verga della verità”, cioè di un’arma illegale. Il che a sua volta ha tutta l’aria di essere una rapina e mi fa ritenere che ho l’onore di parlare con dei rapinatori.

— Ehi! — Jeff trasalì. — Lei non è un agente!

— Vuoi che ti mostri il tesserino? — replicò l’agente.

— No, no! Ciò che volevo dire, è che lei è una agente... una donna!

— Meglio tardi che mai, Jeff — ridacchiò Fargo. — Ci sono delle speranze se, alla tenera età di quattordici anni, riesci finalmente a distinguere un sesso dall’altro.

— Un poliziotto è un poliziotto, a prescindere dal sesso — ribatté l’agente. —

Adesso, avete nulla da aggiungere prima che vi arresti sotto l’imputazione del tutto evidente di...

— Ehi! — reagì Jeff. — Lei si sbaglia. Le vittime siamo noi!

— Guarda, guarda! Di solito le vittime sono quelle che sono legate.

— È vero! — incalzò Fister. — Ci sleghi, agente!

— Come è andata?

— Quei due ci sono saltati addosso, mentre io e il mio amico stavamo passando pacificamente per il parco, per compiere i riti religiosi del solstizio.

— Siete Solariani? — chiese l’agente, con interesse.

— Solariani ferventi, per tradizione familiare — assicurò Sligh. — Tutt’e due, io e il mio amico. E queste due canaglie hanno violato i nostri diritti religiosi.

— Signora Poliziotto — intervenne Fargo — le suggerisco di portare questi due uomini e l’umile sottoscritto al più vicino posto di polizia per l’interrogatorio.

Usando la loro ‘‘verga della verità”, o meglio ancora un modello più perfezionato di cui la polizia deve essere certamente in possesso, farà presto a scoprire che questi due uomini sono seguaci di Ing l’Ingrato, e che mi stavano inseguendo per costringermi a unirmi a loro nei loro affari nefasti. Io, con grande abilità, sono riuscito a cambiare le carte in tavola, così loro...

— Okay. State zitti, se sapete come si fa. Come prima cosa, slegate questi due. Poi, quando lo avrete fatto, vi caricheremo tutti sulla macchina della polizia e io e il mio compagno vi porteremo al posto di polizia. Avete qualche obiezione?

— Io certamente no — affermò Fargo. — Jeff, slega queste due canaglie, ma sta’

attento a non metterti fra loro e la pistola a raggi di questa affascinante poliziotta.

— I tuoi modi — l’agente lo fissò socchiudendo appena gli occhi, come sforzandosi di ricordare qualcosa — mi sono vagamente familiari.

— Alle donne succede spesso — si vantò Fargo.

— Non ne dubito, anche se la sensazione che provano dev’essere tutt’altro che gradevole. Come ti chiami?

— Fargo Wells.

— Farley Gordon Wells, per caso? — gli occhi della donna si spalancarono.

— Sì. Il mio nome per intero è proprio questo.

— Sei quel ragazzo che una volta, al liceo Neil Armstrong, ha introdotto nell’impianto di condizionamento d’aria quella sostanza per dissolvere i vestiti?

— Proprio quello. Ero sicuro che lo scherzo non è di quelli che si dimenticano facilmente. E, per tutti i fulmini di Giove, tu devi essere proprio la ragazza che ne fu la prima vittima. Albany Jones, vero? Se non avessi indossato l’uniforme, ti avrei riconosciuta immediatamente, a parte il fatto che ora sei anche meglio di allora.

— Come ti permetti? — si risentì la ragazza. — Io invece ho motivo di ritenere che mio padre, il sindaco, abbia un gran desiderio di conoscerti.

A Fargo non sfuggì il contenuto minaccioso della frase e si grattò il mento, chiaramente a disagio.

— Bene, in seguito, può darsi — disse, imbarazzato — quando saremo fuori da tutta questa faccenda.

— È una persona immorale, lo si capisce subito! — affermò Sligh, che adesso si era alzato e si strofinava i polsi indolenziti, per riattivare la circolazione del sangue.

— Lei, agente, non deve credere a una sola parola di tutto ciò che dice.

— Sarà la “verga della verità” a stabilire come stanno le cose — ribatté Albany Jones. — Adesso voi quattro afferratevi alla maniglia e fatevi issare sulla macchina.

— Un momento — intervenne Fargo. — Mio fratello no. Lui ha appena quattordici anni e si trova qui per celebrare il solstizio. Per favore, lascialo andar via, con il suo fustino di chiodi, questo barile che vedi. Lui non ti serve: ci sono già io.

— Il semplice fatto che ho quattordici anni non vuol dire che... — protestò Jeff.

— Chiudi la bocca, Jeff — lo azzittì il fratello, tornando a rivolgersi all’agente. —

I nostri genitori sono morti, Albany. Ho dovuto provvedere io ad allevarlo ed è duro dover fare da genitore a un ragazzo testone.

— Basta così — troncò Albany — o mi scioglierò in lacrime! Comunque sta bene.

Lui può andare.

— Va’ a casa, Jeff — ordinò Fargo. — Comunque prima di entrare consulta il computer portinaio.

Mentre i tre uomini aggrappati alla maniglia già venivano sollevati verso la macchina sospesa a mezz’aria, Fargo si girò e salutò il fratello con la mano.

— Ti raggiungerò appena possibile — assicurò.

Jeff aspettò che la macchina della polizia fosse nuovamente scomparsa. Adesso il parco era in piena luce del giorno. Il ragazzo afferrò il barile e si sforzò di portarlo in bilico su una spalla. Sembrava che il barile pesasse una tonnellata, come se fosse pieno di rottami di ferro, come in effetti era.

— Almeno potresti mettere in funzione la tua antigravità — Jeff mormorò al cappello di Norby.

Lentamente, Jeff prese a innalzarsi.

— Solo un filo di antigravità, idiota! — protestò. — Vuoi correre il rischio che quella poliziotta ci veda e si insospettisca?

Altrettanto lentamente, i suoi piedi si riposarono sull’erba. Il barile adesso sembrava vuoto. Si incamminò verso casa, ma a un tratto gli occhi di Norby sbirciarono da sotto il bordo del cappello.

— Stiamo andando dritti a casa? Dunque non mi fai assistere alla celebrazione del

solstizio?

— Ormai è tardi. Il sole è già alto sull’orizzonte.

— Non possiamo far finta che non sia ancora spuntato? Chi mai verrebbe a saperlo?

Noi lo sappiamo, Norby! Non ci si può far gioco di cose come... — Jeff si interruppe, cercando le parole che consentissero al robot di capire ciò che, secondo il punto di vista di un umano, un robot non può comprendere. — Sì, potrei anche pregare l’Uno, ma non sarebbe più esattamente l’alba. Si può farlo soltanto a ogni solstizio e a ogni equinozio, cioè quattro volte l’anno.

— Conosco l’astronomia elementare, Jeff!

Il ragazzo tornò nello stesso punto in cui, poco prima, erano stati interrotti dall’apparizione di Fister e Sligh che inseguivano Fargo. La radura era ancora ombreggiata e abbastanza fresca. Se la brillantezza del sole ne disturbava il raccoglimento, tuttavia aggiungeva ai paraggi un tocco di serenità.

Jeff mise giù Norby e si sedette a gambe incrociate sull’erba, davanti al torrentello.

Rimase immobile con le mani posate sulle cosce e gli occhi socchiusi.

— Non stiamo facendo niente di niente — disse Norby, dopo un buon minuto. —

Che cosa succede?

— Non interrompermi — sospirò Jeff, aprendo gli occhi. — Sto meditando. Sto cercando di sentire l’Uno dell’universo, ma non posso farlo se tu non fai star calmo il tuo sistema nervoso.

— Il mio sistema nervoso non ha bisogno di rilassarsi — replicò il robot.

— Non stai calmo un momento! Se non te ne stai buono senza fare quei tuoi sciocchi rumori, ti porterò a casa di filato. Lasciami sintonizzare con l’Uno.

Norby ritirò dentro le braccia e le gambe, con uno scatto infastidito, ma i suoi occhi continuarono a sbirciare da sotto la testa. Jeff riprese la sua posizione. Si sentiva proprio bene, come tutte le volte.

— Io sono parte dell’universo — mormorò dopo un po’. — Sono parte della vita.

Sono una creatura terrestre, da cui la vita si è evoluta qui sulla Terra. In qualsiasi posto andrò e qualunque cosa potrò fare, non dimenticherò mai la Terra. Rispetterò tutte le forme di vita. Non dimenticherò che tutti siamo parte dell’Uno.

Dopo un’altra pausa di silenzio, Jeff si alzò. Si chinò per aiutare Norby a rialzarsi, e subito il robot estese le sue gambe e si avviò con lui.

— Che cosa c’è? — chiese Jeff.

— Tutto questo si riferisce anche a me, Jeff?

— Certo che sì. Tu sei parte del Sistema Solare quanto me e quanto ogni altro essere che in esso vive.

— Ma si può dire che io “vivo”?

— Hai una coscienza, quindi devi essere vivo — rispose Jeff, abbozzando un sorriso che fu subito smorzato dall’espressione terribilmente seria di Norby, se così si può dire dei lineamenti di un robot fatto di metallo. — Vedi, Norby, anche se non sei vivo nel senso umano, sei ugualmente parte dell’Uno. In definitiva hai anche tu un’origine terrena.

— E se invece una parte di me non fosse originaria del Sistema Solare, ma di un mondo extraterrestre?

— Questo non avrebbe alcuna importanza. L’Uno include ogni stella di ogni galassia e anche tutto ciò che non è una stella o una galassia. Ogni cosa, terrestre o aliena, è parte dell’Uno. Comunque, io certamente mi sento parte di te e di Fargo e di chiunque mi prema. Tu non ti senti parte di me?

— Penso proprio di sì — disse Norby, allungando il braccio fino a prendere la mano di Jeff. — Può anche darsi che noi siamo ambedue importanti l’uno per l’altro.

Si mise a saltellare contento su un piede e sull’altro.

— Jeff, faremo meglio a andare a casa — si ricompose. — E faremo meglio a usare l’antigravità. Mi sento meglio adesso. Il mio aspetto può essere buffo, ma ciò non deve importare a nessuno. Ho preso coscienza e sono vivo e sono un tutt’uno con l’universo intero. Non è così, Jeff?

— Sì, Norby.

— E come se non bastasse l’intero universo è un tutt’uno con me. Non è così, Jeff?

— Penso che sia più adatto a te limitarti a sentirti un tutt’uno con l’universo.

— L’ho detto unicamente per un riguardo a quelli che possono essere i sentimenti dell’universo, Jeff — affermò il robot. — Io penso che all’universo piacerebbe sentirsi un tutt’uno con me.

— Mah... Può anche darsi.

Era una giornata eccezionalmente bella. Lungo le strade adesso c’erano parecchie persone che facevano jogging e Norby le salutava tutte:

— Sono un tutt’uno con voi!

— Non disturbarli, Norby — Jeff gli strinse la mano più forte. — Il jogging è un lavoro duro.

— Sai, Jeff? — riprese Norby. — Quando tu stavi meditando, ho cercato di farlo anch’io. Penso di aver fatto un sogno.

— Eppure si suppone che tu non possa dormire né sognare — obiettò il ragazzo.

— È probabile che io abbia imparato a farlo quando ero chiuso nel box di stasi.

Comunque sia, mi è sembrato di trovarmi in un mondo strano. Sì, ero consapevole di essere sempre nel parco, eppure ero consapevole anche di essere in quel mondo strano. Ero consapevole di ambedue le cose contemporaneamente. Questo significa sognare, Jeff?

— Non saprei, Norby, ma non direi che è questo il modo in cui io sogno.

— Ho sognato — Norby ignorò l’affermazione — di uno strano paese in cui mi sembra di non essere mai stato, per quanto non possa esserne del tutto sicuro. Come faccio a sapere tutto ciò che ho fatto? Può anche essere che non stavo sognando, ma ricordando.

— Se dovessi mai andare in quel mondo strano, Norby, non andarci senza di me.

— Io non voglio andare in nessun posto senza di te, Jeff; soltanto che, in effetti, io non so come andare in nessun posto. So soltanto tornarne.

— Temo che sia così.

— Questo è un grave inconveniente, Norby.

— Ma potrò sempre riportarti a casa. Dopo tutto, la mia funzione è di proteggerti e di insegnarti, per cui non puoi rimproverarmi se non sono perfettamente in grado di portarti in ogni posto. Ma anche se è così mi terrai con te, vero, Jeff? È vero che non mi venderai a qualcun altro? Cercherò di essere un bravo robot.

— So che farai del tuo meglio — affermò Jeff, ma gli capitò di chiedersi in quale misura vi sarebbe riuscito un robot raffazzonato alla meglio come Norby.


6. La caduta di Manhattan

Jeff girò l’angolo di un palazzo e si trovò nella Quinta Strada.

— Fra poco saremo a casa — disse a Norby — e mi preparerò una buona colazione.

— Non dimenticare una presa di corrente per me — gli raccomandò il robot. —

Devi provvedere anche a quelle che sono le mie necessità.

Sempre tenendosi per mano, attraversarono la grande strada, che appariva ancora deserta; ma prima che giungessero sul marciapiede opposto Jeff lanciò un’esclamazione soffocata e sgranò gli occhi, allarmato.

— Oh, no!

— Che c’è? — si informò Norby.

— Presto, allontaniamoci!

Il ragazzo fece un brusco dietrofront e si avviò a grandi passi, concitatamente.

Norby lo imitò, pur senza capire che cosa preoccupasse tanto il padrone, ma i suoi passi producevano uno spaventoso rumore di ferraglie. Jeff lo prese per un braccio.

— Attiva l’antigravità, appena appena! — gli ordinò. Con un balzo a mezz’aria, andarono a nascondersi dietro al cespuglio più vicino.

— Suppongo — disse Norby, risentito — che non vorrai darti la pena di dirmi che cosa sta succedendo. Già, io non sono che un robot! Tu ritieni che io non sono altro che un mucchio di acciaio, suppongo. Io non ho...

— E sta’ zitto! — sbuffò il ragazzo. — Perché non usi gli occhi, anziché quel rumore di ferraglie che tu chiami voce? Non vedi che intorno alla nostra casa ci sono degli uomini in uniforme?

— Poliziotti? — chiese il robot.

— Quelle non sono le uniformi della polizia.

— Allora chi sono? Infermieri? Guardaparco? Portieri d’albergo?

— Guarda che non è proprio il momento di fare dello spirito! Temo che siano gli uomini di Ing. E se sono tanto audaci da compiere un’incursione...

Parlava più a se stesso che a Norby, ma il robot lo interruppe:

— Forse hanno conquistato la città.

— Non vedo come abbiano potuto farlo — obiettò Jeff. — È vero che l’Isola di Manhattan si proclama indipendente e neutrale, e perciò il suo minuscolo territorio non ha un suo esercito; ma anche così...

— Se è veramente un’incursione — obiettò Norby — stanno correndo un grosso rischio e di conseguenza ciò a cui stanno dando la caccia per loro deve essere molto importante. Purtroppo temo che stiano dando la caccia proprio a me.

— A te?

— E a chi altri? Quello è il tuo appartamento, vero o no? Là viviamo io e te.

Abbiamo appena avuto uno scontro con gli uomini di Ing e, se ce l’avessero con te, lo avremmo già constatato. Dunque, non possono avercela che con me. Questione di logica elementare; e io nella logica sono molto bravo.

— Ma perché mai dovrebbero avercela con te? Perché non con me?

Norby emise un suono simile a uno sbuffo e non rispose alla domanda.

— No, non possono aver conquistato l’intera città — disse. — Sta arrivando Albany Jones.

Infatti sui palazzi roteava una macchina della polizia, muovendosi lentamente, come se stesse cercando qualcosa. Gli uomini in uniforme che sorvegliavano l’entrata dell’edificio spararono in aria, senza alcun effetto.

— Come fai a sapere che è proprio Albany? — chiese Jeff.

— È la sua macchina. Ovviamente non posso essere del tutto certo che dentro ci sia proprio lei, però è la sua macchina. Io posso sintonizzarmi con i motori e così mi è facile distinguere l’uno dall’altro. È una delle tante cose che potrei insegnarti, oltre alle lingue. Non dimenticare che sono un robot didattico! Le lingue sono la mia specialità, però sono certo che saprei insegnare parecchie altre materie.

La macchina della polizia lanciò un mucchio di spine sugli uomini che stavano sul marciapiede. Incomprensibilmente, il risultato fu uno scoppio di panico. Alcuni degli uomini si gettarono dentro il portone; gli altri si slanciarono come pazzi da una parte e dall’altra della strada. Quando esplode una bomba a spine, gli effetti si sentono soltanto nelle immediate vicinanze e comunque non sono letali, ma quelli che ne vengono colpiti si sentono come se fossero stati punti da una dozzina di porcospini. E

togliersi quelle spine non sempre è facile e indolore.

Il traffico stradale dirottò all’istante nelle strade laterali, non appena i guidatori si resero conto che là era in corso una battaglia.

— Perché non fai dei segnali alla macchina della polizia? — suggerì Norby. —

Deve pur sapere dove siamo!

— Stavo appunto per farlo — disse Jeff.

Spuntò fuori da dietro il cespuglio e si mise a fare con le braccia dei gesti eccitati.

La macchina della polizia si abbassò lentamente e ne cadde giù qualcosa. Jeff cercò di afferrarlo, ma calcolò male il tempo e la distanza. Prese un brutto colpo alla spalla destra.

— Ahi! — si lamentò. — Da quando ti conosco, Norby, le cose non fanno che cadere su di me, oppure sono io che vado a cadere sulle cose. Mi sta venendo uno di quei lividi... Perché non lo hai preso tu? A te niente può far male.

— Tranne che al mio amor proprio! E con te che ti dimeni come un ossesso per cercare di afferrare quel coso, che cosa avrei potuto fare? Ho tentato di prenderlo, ma tu ti sei messo in mezzo.

— Comunque, che cosa è? — Jeff si stava ancora sfregando la spalla indolenzita dal colpo.

— Una cintura come quella che Albany aveva indosso a Central Park — rispose Norby. — È uno scudo magnetico personale. Se lo usi, gli uomini di Ing non potranno più neppure toccarti.

— Come faccio a usarlo? Non so come funziona.

— Appunto per questo tu hai me. Io so come funziona. Ho già decifrato il suo semplice meccanismo. Mettilo e, quando hai bisogno di essere protetto, abbassa questa levetta. Infila le braccia tra queste specie di bretelle. No, non così: la parte metallica della cintura deve essere sul davanti. Vedi come?

— La parte metallica! — bofonchiò Jeff. — È questo che ha colpito la mia spalla.

Va bene così?

— Sì — confermò Norby — per quanto, in effetti, basto io ad assicurarti tutta la protezione che ti occorre, in ogni momento.

— In ogni momento in cui non c’è pericolo!

Jeff abbassò la levetta della cintura e all’istante si rese conto di essere circondato da una brillante radiazione luminosa. Il cielo, la strada, gli edifici, tutto prese una tinta giallina che faceva apparire ogni cosa straordinariamente brillante e allegra. Però Norby non aveva un aspetto allegro.

— Jeff! — piagnucolò. — Non posso raggiungerti!

— Sicuro che puoi, Norby. Ti sento e ti vedo perfettamente.

— Non voglio dire questo. Voglio dire che sono rimasto fuori dello scudo magnetico.

Jeff abbassò la leva, allungò un braccio fino a toccare il robot e riattivò di nuovo il campo magnetico. Adesso l’eccezionale corazza luminosa avvolse entrambi.

— Che differenza fa? — ghignò Jeff. — A te nulla può far del male e, se sei in grado di proteggere me, a maggior ragione puoi proteggere te stesso.

— Fuori del campo magnetico mi sentivo solo — affermò Norby.

Intanto la macchina della polizia era discesa fin quasi al livello della strada.

Albany si sporse dal finestrino.

— Salite, salite, presto! — gridò. — Quei maledetti Ingrati stanno tornando con un bazooka di grosso calibro!

Jeff si sforzò di issarsi a bordo, con Norby aggrappato addosso a lui disperatamente. Poi, per fortuna, il robot pensò di attivare il suo campo gravitazionale, ma diede tanta forza che fu letteralmente catapultato in aria e allora fu Jeff a doversi tenere aggrappato, a testa in giù. Albany lo afferrò e lo tirò dentro.

— Santo cielo! — esclamò la ragazza. — Tu e il tuo robot siete leggerissimi.

Dentro siete vuoti?

Jeff udì, dietro di sé, delle grida concitate e un rumore di passi precipitosi. Poi avvenne una formidabile esplosione e la macchina fu scaraventata in aria. Solo per un miracolo l’onda d’urto dell’esplosione non aveva causato danni.

— Gli uomini di Ing hanno conquistato la stazione di polizia — riferì Albany. —

Mi sono venuti dietro ed è possibile che abbiano già conquistato anche tutte le altre stazioni di polizia di Manhattan. — Si inumidì le labbra e scosse la testa. —

Purtroppo abbiamo sottovalutato gli Ingrati. Li abbiamo sempre ritenuti il male minore, un branco di terroristi inetti, ma adesso è chiaro che ce lo hanno fatto credere per poter agire indisturbati. Hanno messo insieme una forza formidabile e ormai si preparano a impadronirsi del sistema.

— Come hai fatto a fuggire? — domandò Jeff.

— Grazie al mio scudo magnetico, ovviamente. Devo dire a mio padre che faccia in modo che il Consiglio Comunale decida di dare in dotazione questi scudi a tutti i poliziotti. Ma temo che ormai sia già troppo tardi, almeno per quanto riguarda Manhattan. È il Comando Spaziale che...

— E di Fargo che ne è stato? — la interruppe Jeff. Albany si strinse nelle spalle.

Sui suoi grandi occhi i sopraccigli si aggrottarono, in un’espressione piena di infelicità.

— La verità è che non lo so — rispose. — Lo hanno afferrato non appena sono saltati fuori dal trasferitore del posto di polizia e io ero talmente occupata a scappare che non ho avuto alcuna possibilità di vedere che cosa gli succedeva. Però, mentre lo stavo portando al posto di polizia, mi ero fatta dare il suo indirizzo... — Si interruppe, mostrando un certo imbarazzo, e ritenne necessario aggiungere una precisazione: —

Prendiamo sempre nome e indirizzo di quelli che fermiamo. Normale routine.

— Sì, sì — incalzò Jeff, sollecitandola a arrivare al punto che gli interessava maggiormente — ma a Fargo che è successo?

— Sono volata dritta dritta al vostro appartamento, nel caso che anche lui fosse riuscito a fuggire e fosse venuto qui. Non avevo idea di dove altro potesse andare.

Quando ho visto che la casa era sorvegliata dagli Ingrati, ho pensato che Fargo potesse essere rimasto intrappolato nelle vicinanze. E invece, come sai, ho trovato te

— concluse la ragazza, con una nota evidente di disappunto nella voce.

— Allora — a questo Jeff non badò affatto — tu non sai dove si trova Fargo?

— No. Mi dispiace ma non lo so. Ciò che dobbiamo fare, adesso, è andare in cerca di un trasferitore che non sia ancora nelle mani degli Ingrati e servircene. Dobbiamo assolutamente fare rapporto al Comando Spaziale di quanto è avvenuto a Manhattan, o gli Ingrati si impadroniranno di tutta la Terra. Però probabilmente non avrebbero attaccato Manhattan se prima non fossero riusciti a impossessarsi di tutti i posti-chiave del sistema di comunicazioni. Ed è proprio questo che mi preoccupa maggiormente — aggiunse, lanciando a Jeff uno sguardo solenne. — Se non possiamo fare rapporto al Comando Spaziale...

— Mi metta giù, signorina Jones — chiese Jeff. — Devo andare in cerca di mio fratello.

— Non posso metterti giù. Verresti catturato all’istante. E non c’è motivo di preoccuparsi per Fargo. Tuo fratello è molto attraente... molto intelligente, volevo dire, e sono certa che sa badare a se stesso. Sono ben altre le cose di cui dobbiamo preoccuparci! Può darsi che anche il Comando Spaziale sia già infestato dagli uomini di Ing!

— So che Fargo ha avuto una qualche conversazione privata con l’ammiraglio Yobo — disse Jeff. — È possibile che fosse proprio questo il problema con cui loro due avevano a che fare. Ed è possibilissimo che sia proprio questo il motivo per cui Fister e Sligh davano la caccia a mio fratello. Non volevano convertirlo: volevano finirlo! Signorina Jones, la prego, lasci che vada a cercarlo. Loro lo uccideranno!

— Se mi è concesso darvi un suggerimento... — intervenne Norby.

Udendo la voce del robot Albany sussultò così violentemente che la macchina fece una sbandata, quando le sue mani inavvertitamente urtarono i comandi.

— Questo è un robot, non un barile! — esclamò. — Che cosa buffa!

— Una cosa buffa! — strillò Norby. — È lei la cosa buffa, altrimenti non sarebbe

tanto occupata a chiacchierare da non vedere il pericolo che abbiamo proprio davanti.

Si stanno avvicinando delle macchine a propulsione antigravitazionale. Poiché sono protette da uno scudo magnetico, probabilmente appartengono a quel certo Ing di cui lei si preoccupa tanto. Se fossi in lei, me la svignerei più che in fretta da qualche altra parte, ma ovviamente io sono semplicemente una cosa buffa, per cui lei non vorrà darmi ascolto.

— Macchine di Ing? — gli occhi di Albany si fecero colmi di terrore. Era evidente che le cose stavano ancora peggio di quanto Norby aveva detto. — Ing deve aver progettato tutto questo già da tempo. Sta facendo di Manhattan un solo boccone, come se la città fosse una polpetta di carne e lui il lupo. Bene, comunque abbiamo gli scudi. Ma siamo in grado di batterci?

— Con che cosa? — chiese Jeff.

— Ho un piccolo bazooka portatile e lo sfollagente elettronico.

— Saranno efficaci contro i loro carri armati?

— No.

— E questa macchina ha lo scudo magnetico?

— Scherzi? Con le finanze disastrate di Manhattan? No, soltanto i nostri scudi personali, grazie a papà.

— Quindi loro in pochi secondi distruggeranno la nostra macchina e noi faremo un volo... — Jeff si interruppe un attimo per guardare fuori e valutare la situazione — da un’altezza di trenta piani.

— Vi conviene arrendervi — disse Norby. — Questo ci darà un po’ di tempo e così potrò pensare a un qualche modo per salvare la situazione. Io sono tremendamente ingegnoso.

— Non si direbbe, se non sai proporre altro che arrenderci — replicò Albany. —

Tutti sanno arrendersi!

— Ora come ora non c’è altro da fare — intervenne Jeff — e potrebbe anche essere l’unico modo di trovare Fargo. Faremo bene a scendere a terra in tutta fretta.

Mi sembra che una delle macchine di Ing tenga un disintegratore puntato proprio contro di noi. — Si tolse il suo scudo magnetico e porse a Norby il congegno. — Puoi nasconderlo dentro di te?

— Penso di sì — rispose il robot — ma dopo mi sentirò come se avessi fatto indigestione. Perché non lo inghiottisci tu? Anche tu hai dentro una specie di capiente cavità.

— Che spiritoso! Su, sbrigati. Prendi anche la cintura della signorina Jones.

Norby, sia pure facendo dei versi risentiti, fece sparire i due dispositivi, mentre la macchina si posava a terra. Erano stati inseguiti, ovviamente, e non appena gli uomini di Ing balzarono fuori dalle loro macchine, Albany e Jeff si arresero.

Consegnandosi ai loro nemici, ebbero cura di mostrarsi scornati ma noncuranti: quanto meno tentarono, il che fu particolarmente arduo per Jeff, che teneva Norby sotto un braccio. Norby non fece alcuno sforzo per apparire scornato e noncurante.

Non fece altro che sforzarsi di apparire un qualunque, normalissimo barile.

La stazione urbana di Central Park era dentro un vecchio edificio di mattoni e mostrava tutti i segni di un’usura di secoli e di restauri molto rari e trascurati.

Sligh e Fister spinsero Albany e Jeff verso il traslatore della stazione. A dispetto della cronica carenza di fondi dell’amministrazione municipale e dei vari tentativi di tutti i consiglieri comunali, sembrava che non ci fosse modo di economizzare i quattrini necessari per tenere il traslatore in funzione. Era indispensabile che ogni stazione di polizia ne avesse uno, per ogni eventuale viaggio attraverso lo spazio.

Jeff reggeva ancora Norby. Sligh gli lanciò uno sguardo torvo.

— Ehi, Wells! — lo apostrofò. — Non penserai di trascinarti dietro quel barile da ogni parte. Mi ha già fatto un bozzo sulla testa, una volta, e non penserai di potertene servire ancora come di un’arma. Mettilo giù e lo romperò a colpi di mazza.

Jeff strinse Norby a sé ancora più forte.

— Ho bisogno di questo barile — disse. — È un congegno indispensabile... ehm!

per la mia salute.

— Stai cercando di dirmi che hai nascosto dentro quel vecchio barile un rene artificiale?

— Non voglio dirtelo affatto.

— Cioè, senza quel barile, tu moriresti?

— Io... ehm! — Jeff detestava dire le bugie, ma a quanto pareva era Sligh che si ingegnava di dirle al posto suo.

— Non riuscirai a prenderti gioco di me, stupido ragazzo — affermò Sligh. —

Sembri troppo grosso e sano per aver bisogno di una macchina che ti tenga in vita.

Sai cosa c’è dentro quel barile, secondo me? Il denaro dei Wells. Forse dell’oro!

Mettilo giù!

Dal cappello del robot uscì un mormorio, così sommesso che solo Jeff potè udirlo:

— Non startene impalato! Buttati nel traslatore. Jeff esitò un attimo, chiedendosi che cosa Norby avesse in mente di fare, ma improvvisamente si sentì pizzicare.

— Fa’ presto! Entra!

Albany era già nel traslatore. Fister e Sligh si tenevano alle spalle di Jeff, per impedirgli ogni possibilità di fuga. Il pizzico fece fare a Jeff un salto in avanti e, nello stesso attimo, le braccia di Norby si estesero in tutta la loro lunghezza, spingendo Fister e Sligh nella direzione opposta, fuori della porta del traslatore. Albany chiuse la porta, con reazione prontissima.

— E adesso come facciamo? — Il volto della ragazza si fece subito perplesso. — I comandi che mettono in funzione il traslatore sono all’esterno.

— Sarà anche così — replicò Norby, poggiandosi contro la porta — ma io sto cercando di azionarli attraverso la parete di metallo. E poi dite pure che non sono ingegnoso!

— Loro riusciranno a forzarsi il passo in qualche modo — cominciò Albany.

— Ho già quasi finito — la interruppe Norby.

— Dobbiamo andare dove loro hanno portato Fargo — disse Jeff.

— Sento la sua presenza — assicurò il robot — e sto sistemando i controlli in modo che il traslatore ci porti dritti da lui. Quanto meno lo spero.

Jeff si sentì afferrare lo stomaco da una sensazione di nausea e la vista gli si appannò. Quando rinvenne, vide che si trovavano in un diverso terminale del traslatore. Si rimise in piedi e aiutò Albany ad alzarsi. Lei si diede una spazzolata agli abiti, con un gesto meccanico, e sembrò piuttosto infastidita.

— Non si può dire davvero — si lamentò Jeff — che Norby abbia una guida dolce!

— Penso che tu non abbia nulla da rimproverare al tuo robot — commentò Albany.

— Il traslatore è vecchio e non funziona bene. Credo che nella nostra città tutti i traslatori non siano più stati riparati almeno da cinque anni.

— Norby — il ragazzo si rivolse al robot — sai come si fa ad aprire la porta?

— Dammi soltanto un minuto di tempo e ci riuscirò. E dall’altra parte troverai tuo fratello.

La porta si aprì e si trovarono in un enorme locale grigio. Al posto del soffitto c’era un settore di una cupola di vetrite, oltre la quale si scorgeva un fitto nebbione turbinoso.

— Sta’ a vedere che mi sono sbagliato — mormorò Norby, tra sé.

— Quale posto della Terra può mai essere questo? — Albany era sconcertata.

— Io invece penso che questo posto non sia affatto sulla Terra — replicò Jeff, preoccupatissimo. — Norby, dove diavolo ci hai portati?

— Sulla Terra — il robot, dubbioso, domandò a sua volta — c’è una città chiamata Titano?

— Chiamata come? — Jeff sgranò gli occhi. Norby indicò un avviso su una parte del locale. Era stampato in antichi caratteri gotici, molto difficili da leggere.

— Che cosa dice? — chiese Jeff.

— È tedesco coloniale, un’altra lingua che potrei insegnarti — rispose Norby. — È

molto diffuso in tutte le regioni oltre la fascia degli asteroidi.

— Oltre la fascia degli asteroidi? — ripetè Jeff, colpito. — Che cosa dice quell’avviso? Non mi importa nulla se è scritto in gotico oppure in sanscrito, ma che cosa dice?

— Dice semplicemente “Proprietà della base avanzata di Titano”. Suppongo che Titano sia una città nel settore tedesco della Regione Europea. È possibile che io abbia fatto un piccolo errore nel calcolare la rotta.

— Un errore colossale! — replicò Jeff, in tono esasperato. — Titano è un satellite di Saturno!

— Ne sei sicuro?

— Certo che ne sono sicuro! Dove mai sulla Terra c’è una città protetta da una cupola? Guarda lassù! Titano è appunto avvolto da un’atmosfera densa fatta in gran parte di nitrogeno e in superficie la sua temperatura è vicina al punto di liquefazione.

Se ti avessimo seguito fuori della cupola, a quest’ora io e la signorina Jones avremmo fatto una fine terribile.

— Come potevo sapere che cosa c’è fuori della cupola? — si difese Norby. — Io ho sentito la presenza di esseri umani e ho pensato che Fargo potesse essere qui. Per questo vi ho portati qui. È un fatto che dentro la cupola ci sono degli esseri umani, ma non è colpa mia se nessuno di loro è tuo fratello.

Il robot si mise a trafficare nuovamente con i comandi del traslatore e Jeff perse ancora i sensi.

— Ci siamo! — gridò Albany. — Questo è il Comando Spaziale, grazie al cielo!

Qui siamo al sicuro. Norby, meriteresti una medaglia!

— Niente affatto! — ribatté Jeff, irritato. — Ciò che meriterebbe, è una raffica di disintegratore nella pancia di quel suo barile! Quelle non sono le uniformi del Comando Spaziale.

— Ne sei certo? — chiese stavolta la ragazza.

— Guarda meglio, se non ci credi!

Due degli sconosciuti si avventarono bellicosamente contro di loro.

— A morte i nemici di Ing l’Incomparabile! — urlarono, slanciandosi all’attacco.

— Oh, no! — Albany impallidì. — Hanno già conquistato anche il comando!

Uno degli uomini raggiunse la ragazza, ma sembrò inciampare e volò in aria, sopra le spalle della poliziotta, che si stropicciò le mani molto soddisfatta.

— Hai visto? Funziona! — si rivolse a Jeff. — Durante il corso di addestramento mi hanno insegnato lo judo e le arti marziali, ma non credevo che avrei potuto...

Si interruppe e fece un verso soffocato. L’altro uomo si era gettato su di lei e l’aveva presa per il collo con un braccio, tentando di strangolarla. Jeff si precipitò in suo aiuto, ma Albany lo fermò.

— No, lascialo a me! — disse, con voce strozzata. — Tu occupati dell’altro.

Il primo attaccante si stava rimettendo pesantemente in piedi. Jeff si fermò davanti a lui, aspettando che si fosse rialzato per caricarlo, ma Norby lo precedette. Attivò l’antigravità, si sollevò in aria e ripiombò giù addosso all’Ingrato, mettendolo completamente fuori combattimento.

Albany, intanto, cercava di scrollarsi di dosso il secondo Ingrato, che la stringeva con sempre più forza. In rapidissima successione, lo colpì al plesso solare con una gomitata, gli assestò un diretto poderoso in piena faccia, gli diede un calcio violento con i suoi pesanti stivali da poliziotto e nello stesso tempo lo centrò in pieno naso con una testata. Il malcapitato mandò un grido e lasciò la presa. Albany lo afferrò per un polso, piroettò su un piede e gli torse un braccio. Appena lui si piegò, fece leva con un fianco, diede uno strattone violento e lo scaraventò in aria. L’uomo ricadde a terra pesantemente, si insaccò sul pavimento e rimase steso, gemendo.

— Torniamo dentro il traslatore prima che ne arrivino degli altri! — ordinò Albany.

Non appena furono al sicuro dentro il traslatore, con la porta ben chiusa, Norby spinse fuori dal suo corpo a barile un filo metallico piatto e sottile, che tenne teso orizzontalmente contro la parete.

— Avrei dovuto pensarci prima — disse. — Questo amplifica notevolmente la mia sensibilità e la mia forza di concentrazione. Il guaio è che consuma molta energia e non posso mai sapere quando potrò fare un nuovo pieno di elettricità, se mai potrò farlo.

— Questa volta hai localizzato Fargo? — chiese Jeff, ansiosamente.

— Sì. Definitivamente. Senza alcuna possibilità di errore — affermò il robot.

Jeff provò ancora una volta la sensazione di nausea, ma adesso riuscì a non perdere i sensi.

— Questo traslatore è in condizioni migliori — commentò Norby. — Ritengo che adesso troveremo Fargo.

La porta si aprì.

— Infatti, sono sicurissimo che troverai Fargo — aggiunse il robot — dato che tuo fratello è qui.

Jeff scorse un enorme salone drappeggiato di bandiere. Lungo una parete era schierata una fila di uomini armati. Nel centro c’era una piattaforma, su cui era sistemato quello che poteva essere soltanto un trono. Fargo, con le mani legate dietro la schiena, era seduto sul bordo della piattaforma e sul trono stava seduto qualcuno, interamente coperto da un’armatura metallica, tanto che avrebbe potuto benissimo essere scambiato per un robot.

— Siamo in buona compagnia! — esclamò Fargo. — L’adorabile Albany Jones, il mio fratellino sempre così pieno di risorse e il suo grazioso barile. Come avete fatto a trovarmi, comunque? E perché non avete portato con voi quelli dell’esercito?

— Silenzio! — ruggì la forma sul trono, con la voce metallica e stridente di una macchina in cattivo stato.

— Silenzio! Parla Ing! — Fargo gli fece il verso, sarcasticamente. — Tutti tacciano, mentre io do il benvenuto ai nuovi ospiti alla corte di Ing l’Innocente. Non mancate di notare la distorsione della sua voce, che è sgradevolissima anche quando non è distorta. Notate il grazioso alluminio del suo costume, disegnato per nascondere un corpo repellente, e la maschera facciale che serve a risparmiare ai presenti la vista della sua faccia e la sua espressione, che sono...

L’uomo sul trono fece un gesto e una guardia costrinse Fargo a tacere, spianandogli contro la sua arma.

— Poiché Ing teme le parole ma è abbastanza coraggioso da attaccare un nemico quando il rapporto di forze è di uno contro cento, sono costretto a tacere — Fargo si strinse nelle spalle.

Albany e Jeff si avvicinarono a Fargo. Il ragazzo portava tra le braccia il barile che, ovviamente, era ermeticamente chiuso.

La voce di Ing risuonò di nuovo, aspra e ripugnante:

— Bene, bene! Abbiamo qui con noi due fratelli che, insieme, sanno moltissime cose sull’Accademia Spaziale e sulla flotta. E ciò che loro sanno, lo sapremo anche noi! — La sua voce prese una sfumatura di disprezzo. — Inoltre, abbiamo con noi una donna poliziotto, il cui padre è ricco e potente e mi aiuterà a conquistare la Terra, se vorrà riavere la sua bambina nelle sue forme attuali. Inoltre, vedo qualcosa che sembra un barile. Dammelo, Jeff Wells!

Jeff strinse Norby più forte e non disse nulla.

— Non otterrai nulla di buono rifiutando di consegnarmelo — riprese Ing, minaccioso. — Mi è stato detto che è uno strano barile dotato di braccia, tutte le volte che vuole avere delle braccia. E anche delle gambe. È qualcosa che voglio esaminare personalmente. Dammelo, ragazzo, o dovrò fartelo strappare dalle mani con la forza.

Norby emise attraverso il cappello un mormorio appena percettibile:

— Svelto, Jeff, mettiti vicino alla signorina Jones!

Jeff, cautamente, si avvicinò alla ragazza, fino a toccarle la schiena con il gomito.

— Adesso avvicinatevi tutt’e due a Fargo — mormorò ancora Norby. — È

necessario che ci teniamo tutti in contatto fisico.

— Va bene, toccherò io Fargo — sussurrò Albany — ma a che scopo?

— Ho un’idea ingegnosa — disse Norby, stavolta con voce normale.

— Ha parlato! — trasalì Ing. — È un robot e lo voglio. Io sono l’imperatore, qui, e voglio essere ubbidito!

— La storia degli imperatori della Terra è invero assai triste — ribatté Fargo.

(Intanto Albany si era appoggiata alle spalle di Fargo, e Jeff a quelle della ragazza).

— Lascia che ti racconti di Napoleone Bon...

— Sta’ zitto! — intimò Ing. — Sergente, prendi quel robot e dammelo. Se qualcuno di loro dovesse opporre resistenza, uccidi la donna!

Norby lanciò improvvisamente un grido:

— Gli scudi personali!

Ne diede lestamente uno a Albany e l’altro a Fargo. Poi si aggrappò strettamente a Jeff ed emise un suono acuto e strano.


7. L’iperspazio

Norby lanciò un’esclamazione sbalordita:

— Per la coda di tutte le comete!

— Dove siamo? — domandò Jeff, guardando a occhi sgranati lo strano castello in cima alla collina che avevano davanti. Il pendio era coperto da giardini a terrazze e proprio sulla cima si ergeva un elegante castello di marmo in miniatura.

— Ciò che posso dirti — il robot si affrettò a sviare il discorso — è ciò che ho fatto. Ho proiettato Fargo e Albany fuori dell’edificio. Ciò basterà a dar loro un certo margine di vantaggio. Con i loro scudi personali, con la conoscenza di Albany delle arti marziali e con la pronta intelligenza di Fargo, che tu mi hai sempre decantato, potranno anche riuscire a organizzare un contrattacco.

— Sì, sì — ribatté Jeff, con impazienza — ma dove ci troviamo noi?

— Bene — il cappello del robot si sollevò e da sotto i suoi occhi sbirciarono intorno — quello che ho cercato di fare era raggiungere il Comando Spaziale. Avevo memorizzato le coordinate che Mac mi diede molto tempo fa, ma forse non erano giuste.

— Sì, sì, capisco — fece Jeff, con impazienza sempre maggiore — ma vuoi dirmi dove ci troviamo?

— Bene — ammise Norby, imbarazzato — questa è appunto una delle cosucce che non so.

— Non lo sai! — Jeff, disperato, si guardò intorno. I paraggi erano incantevoli. La luce del sole era calda e brillante. Si udiva un lieve stormire di fronde... Tutto questo andava benissimo, ma in che punto della Terra erano capitati, ammesso che questa fosse la Terra?

— È mai possibile, Norby, che tu non riesca a fare proprio niente in modo giusto?

Per essere un robot vali molto poco!

— Io faccio del mio meglio, ma non sempre è facile — si giustificò Norby, con un filo di voce. — Ciò non toglie che vorrei sapere dove siamo.

In quel momento dal castello venne fuori qualcosa. Aveva tutto l’aspetto di essere un dinosauro, a parte le dimensioni.

— Un allosauro in miniatura? — fece Jeff, incerto; ma ad ogni buon conto indietreggiò di un passo.

La creatura gli arrivava appena ai ginocchi. Era ancora più bassa di Norby. Portava quello che si sarebbe detto un collare d’oro e, quando agitava la coda, emetteva una serie di suoni variegati.

— Sta parlando o sta semplicemente facendo dei rumori? — chiese Jeff, provando

un impulso improvviso di accostarsi al rettile e di carezzarlo sulla testa.

— Come, non capisci ciò che dice? — si meravigliò Norby. — Già, dimenticavo che non sei un linguista. Lui, o più esattamente lei, sta dicendo che sei molto carino.

— Anche lei è molto carina, ma che ci fa un dinosauro in miniatura sulla Terra?

— Non credo che questa sia la Terra — disse Norby.

— Però tu capisci la sua lingua. Questo non significa che dovresti anche sapere di dove lei è?

— A dire la verità, Jeff, non so come faccio a capire la sua lingua. Non sapevo neppure di averla registrata nelle mie memorie, prima che la udissi. Non ricordo neppure di averla mai udita prima d’ora, a meno che... a meno che questo non sia il posto che ho sognato.

— Come hai fatto ad arrivare fin qui? — Jeff quasi non si rese neppure conto che il dinosauro gli stava annusando una mano e, con gesto automatico, prese a grattargli la testa.

— Io mi sono semplicemente lanciato attraverso l’iperspazio. È per questo che adesso mi è così difficile trovare la strada del ritorno. Dallo spazio normale mi sarebbe sempre molto facile tornare indietro, ma...

— Cosa hai detto? Hai viaggiato attraverso l’iperspazio senza neppure un traslatore? — esclamò Jeff.

Norby arretrò di un passo.

— Ho forse fatto qualcosa di illegale? — chiese preoccupato.

— No, ma è impossibile. Nessuno può farlo.

— Bene, io l’ho fatto.

— Si è trattato di un vero viaggio iperspaziale. Come sei venuto a sapere in che modo arrivare fin qui?

— Pensavo che chiunque lo sapesse.

— Lascia stare e rispondimi: come hai fatto?

Norby rifletté un attimo, prima di rispondere.

— So come fare queste cose, ma non so come farle.

— Questa è un’affermazione priva di senso — replicò Jeff. Si lasciò cadere sull’erba e subito la strana creatura gli mise le zampe anteriori in grembo e gli posò la testa su una spalla. Faceva un verso simile a un morbido “gruffle, gruffle, gruffle”.

Jeff allungò una mano e prese ad accarezzarle distrattamente il lungo collo, irto di protuberanze puntute che si allungavano fino alla punta della coda.

— Tu sai di alzare un braccio? — ribatté Norby.

— Certamente.

— E sai come fai per alzarlo? Sapresti spiegare esattamente che cosa devi fare per alzare un braccio? Che cosa accade dentro il tuo braccio, per farlo alzare?

— Decido semplicemente di alzare il braccio, e il braccio si alza.

— Bene, io decido semplicemente di saltare nell’iperspazio, e questo avviene.

Posso andare ovunque in qualunque momento. Ma non so come faccio.

— Ma, Norby, questo fa di te l’essere più prezioso di tutto il Sistema Solare!

— Oh, lo so bene, questo.

— Ciò che voglio dire, è che lo sei veramente. Nessuno sa come viaggiare attraverso l’iperspazio senza un traslatore. Sarebbe la più grande scoperta della storia se ogni essere umano potesse farlo a suo piacere! — Eccitato com’era, Jeff prese ad accarezzare il dinosauro sempre più velocemente, senza neppure rendersene conto. —

Ho sempre avuto l’ambizione di essere proprio io a fare una simile scoperta. È per questo che volevo andare all’accademia e imparare tutto quello che c’è da imparare sulla teoria dell’iperspazio. Ho sempre sognato di riuscire a inventare l’iperpropulsione, prima o poi, e adesso, con il tuo aiuto...

— Ti ho detto che so come fare, niente di più. È per questo che hai voluto prendermi con te, Jeff? Soltanto perché io so come si viaggia nell’iperspazio?

— No. Ti ho detto che sono felice di averti preso prima che tu mi dicessi di tutto questo. Però adesso sono doppiamente felice. — Jeff strinse a sé la strana creatura, sebbene non si accorgesse neppure di quanto faceva. — Comunque, visto che sei venuto qui, dove siamo?

— Questo è appunto l’altro aspetto della faccenda, Jeff — tentò di spiegare il robot. — Io so come fare, ma temo di non sapermi regolare nel modo giusto. Volevo andare al Comando Spaziale, ma ho commesso un errore di calcolo. Non so dove ci troviamo, eppure conosco la lingua di questa creatura!

Jeff abbassò gli occhi sul dinosauro e soltanto allora si accorse che gli stava leccando l’orecchio sinistro con la sua lingua calda e asciutta. La respinse con un gesto brusco e la strana cucciola capitombolò giù dal suo grembo. Si rimise in piedi e spiegò le creste di pelle che teneva ripiegate ai due lati della spina dorsale.

— Ali! Ha le ali! — esclamò Jeff. — Allora è uno pterodattilo o qualcosa di simile.

— Non ha senso — ribatté Norby, con saccenteria. — Anche uno stupido può vedere che è un drago.

— I draghi sono animali mitici!

— Non qui, evidentemente.

— Come puoi esserne tanto sicuro? Non sai neppure “qui” che razza di posto è.

— Credo che una parte di me lo sappia, ma non riesco a sintonizzarmi con quella parte. Mi spiace, Jeff. Sono un robot raffazzonato e penso che dovrei essere distrutto.

— Non prima che tu mi abbia riportato indietro. E anche allora, non permetterò mai che qualcuno ti distrugga. Ma adesso torniamo indietro, Norby. È molto importante.

— Non ti agitare, Jeff, ma il fatto è che ho qualche piccolo problema nel mettere a fuoco come potrei fare. Mi devo essere allontanato molto dal Sistema Solare terrestre.

Se soltanto potessi ricordare dove si trova questo posto! È come se una parte di me lo avesse già visto prima. O forse l’ho soltanto sognato?

— Sai, Norby? Ritengo che questa possa essere una conseguenza dei vari pezzi di provenienza extraterrestre che McGillicuddy ha usato per rimetterti in sesto. Quegli oggetti extraterrestri, di qualunque cosa si tratti, un tempo devono essere stati qui, e di conseguenza tu sei stato attirato in questo posto senza che te ne rendessi conto pienamente.

— In questo caso... Ehi!

Si interruppe bruscamente. Il piccolo drago si stava precipitando a corsa pazza verso di lui. Non fece in tempo a scansarsi e venne urtato. Perse l’equilibrio e rotolò a terra. Senza minimamente badare a lui, la draghetta proseguì la sua corsa fino al piccolo castello. Jeff aiutò il robot a rimettersi in piedi.

— I cuccioli di drago non impareranno mai le buone maniere — deplorò Norby. —

Mi ricordo di quella volta... — Si interruppe, sforzandosi di mettere a fuoco i suoi ricordi, ma dovette arrendersi. — No, non ricordo nulla. Eppure per un attimo mi era sembrato di ricordare qualcosa connesso con i draghi; ma non è così.

— Adesso mi stai confondendo di nuovo le idee.

— Non posso farci nulla. Ho paura che saremo costretti a restare qui tanto a lungo, da non poter aiutare Fargo e Albany a sconfiggere Ing.

— Ascolta, Norby: io ho fame. Può darsi che qui intorno riesca a trovare una qualche forma vivente commestibile; ma tu? Tu qui non troverai mai una presa elettrica a cui rifornirti di corrente. Morirai di fame. Pensaci! Può darsi che questo ti aiuti a ricordare qual è il modo di tornare indietro.

— Tanto per cominciare, io non posso morire di fame. Le prese elettriche mi servono soltanto per fare uno spuntino, di quando in quando; ma per i pasti veri e propri mi rifornisco nell’iperspazio e questo posso farlo ovunque e in qualunque momento. Nell’iperspazio c’è energia illimitata. Dovresti provare anche tu.

— Sì, lo farei, se potessi — disse Jeff. — Ma dimmi: che aspetto ha l’iperspazio?

— Nessun aspetto particolare.

— Questo non mi aiuta molto.

— Come posso spiegarti? L’iperspazio è il nulla. Non ha dimensioni di spazio o di tempo; là non esiste né il dove né il quando. Quando mi trovo nell’iperspazio, io percepisco... bene, non saprei come spiegarti. È una struttura che non è là realmente, ma è là potenzialmente, in quanto l’universo non è altro che questo, una struttura che, in qualche modo, è virtualmente nell’iperspazio...

— Norby!

— Bene, di’ pure che non riesco a spiegartelo. Non posso. Tutto ciò che so è che l’iperspazio è definitivamente potenziale... cioè, è potenzialmente qualcosa, una riserva di energia da impiegare per la creazione di un universo, che in effetti fa parte di esso...

— Non riesco a seguirti. Come si crea un universo?

— Penso che un qualche punto dell’iperspazio di colpo acquisti un dove e un quando. Come ciò possa avvenire è oltre la mia possibilità di comprensione, per cui ovviamente è oltre ogni possibilità di comprensione di qualsiasi persona del Sistema Solare. Anche se io riuscissi a spiegarti, tu non riusciresti mai a capirmi.

— Grazie per l’alta considerazione che mostri di avere della mia intelligenza! Ma tutto ciò che io desidero realmente sapere è come ritornare nel nostro Sistema Solare.

— Certamente. Non devo fare altro che sintonizzarmi con la struttura dell’iperspazio e trovare il punto da cui possiamo uscirne.

— Farai bene a non perdere altro tempo. Sta arrivando un altro drago, un drago molto più grosso.

— Probabilmente — disse Norby, sforzandosi di non mostrarsi intimorito, e tuttavia andando a mettersi alle spalle di Jeff — è la madre del piccolo drago che viene a ringraziarci per essere stati cortesi con la sua bambina.

— Io non ci conto troppo — replicò Jeff, afferrandosi forte al robot.

Non sarebbe servito a nulla scappare. Il drago aveva zampe lunghe e forti, e le sue ali non lo erano di meno. Arrivava soltanto al mento di Jeff, ma aveva una doppia fila di denti aguzzi e scintillanti, che spuntavano minacciosi dalle sue mascelle smisurate.

La draghessa-madre emise dei suoni dello stesso tipo di quelli della draghina-figlia, ma molto più sonori.

— Che cosa sta dicendo? — mormorò Jeff.

— Sta dicendo che siamo degli alieni e perciò dobbiamo essere portati alla Grande Dragoneria, a meno che lei riesca a comunicare con noi.

— Allora che aspetti, Norby? Dille che tu puoi parlare con lei.

Norby emise una raffica veloce di suoni e la dragonessa rispose con suoni simili.

— Jeff, andiamocene immediatamente! — squittì a un certo punto il robot, indignato. — Questo stupido rettile mi ha insultato!

— Che cosa ha detto?

— Si è permessa di dire che io sono nient’altro che un barile e che puzzo di chiodi!

— Bene, penso che abbia ragione. Una volta il tuo barile...

— Basta così! Andiamocene!

— Niente affatto. Se scappiamo alla cieca, senza sapere dove andare, saremo doppiamente persi. Invece, ascolta che cosa lei può dirci.

Ma lei non disse nient’altro. Invece si avventò su di loro, spinse il robot lontano dal ragazzo e morse Jeff sul collo. Storse le labbra e arricciò tutto il muso, in una smorfia di disgusto, come se ciò che aveva assaggiato non le piacesse affatto. Poi girò la grossa schiena e tornò indietro, verso il suo castello.

— Aiuto, Norby! — gridò Jeff. — Il drago mi ha morso. Può avere la rabbia!

— Non molto profondamente — affermò Norby, esaminando il collo di Jeff. — È

soltanto un graffio, appena tanto profondo da succhiarne fuori una goccia di sangue.

Ho la sensazione che la dragonessa abbia avuto un motivo preciso per farlo.

— Io invece ho la sensazione che abbia voluto assaggiarmi. La prossima volta mi mangerà in un solo boccone! Vuoi forse che finisca in pasto a un drago? Trova una soluzione, razza di stupido barile! Riportami a casa. Andiamocene da qui! Non mi importa se finiremo per perderci, sarà sempre meglio che restare a far da pranzo a quel mostro!

Mio caro signore, non ha alcun motivo di agitarsi. Da qualunque parte lei venga e per quanto sia incomprensibile la sua lingua, c’è sempre il modo di stabilire fra noi una comunicazione diretta di tipo mentale.

Jeff spalancò la bocca, stupefatto.

— Norby — urlò — ho udito una voce! Una voce dentro la mia testa!

Per riuscire a comunicare con lei, dovevo necessariamente assaggiare la sua composizione organica, dato che lei non capisce il linguaggio verbale.

— Ti dico che qualcuno mi sta parlando, Norby!

— È quell’abominevole dragonessa, Jeff. Non degnarti neppure di risponderle.

Per favore aspetti un minuto. Devo correre a disinfettare me e la mia bambina.

Ci avete toccate e, poiché siete alieni, probabilmente sarete pieni di germi.

— Non sono affatto pieno di germi — si risentì Jeff. — Lo sarà lei, piuttosto. Sono certo che mi prenderò il tetano, a causa di questo suo morso. Con tutti quei denti, lei magari non usa neppure il dentifricio!

Nessun vero gentiluomo si permetterebbe di dire una cosa simile. Uso il dentifricio e anche lo spazzolino, e così fa Zargl, la mia figlioletta. Nessun Jamyn degno di rispetto vorrebbe ospitarla in questo mondo! Registrerò le coordinate iperspaziali di questo mondo nelle memorie elettroniche di quel suo barile da stivaggio. ..

— Barile da stivaggio! — si indignò Norby.

— ... e vi prego di andarvene al più presto.

— Ti ha già trasmesso le coordinate, Norby?

— Sì, ma non me ne servirò. Non voglio nulla che venga da lei. Non...

— Norby, servitene immediatamente o ti farò a pezzi con le mie stesse mani e ti sistemerò in modo che mai più nessuno possa rimetterti insieme!

La dragonessa-madre apparve sulla porta del castello, tenendo la bambina fra le braccia. Fece con le ali un gesto dai chiaro significato: pussa via!

Sciò! Sciò! Andatevene, brutti mostri!

— Andiamo via, Norby.

— Sì, sì, sto cercando! Ma penso che tu sei un autentico mostro, se permetti che mi si tratti così, quando neppure mezz’ora fa dicevi di volermi bene.

— Certo che ti voglio bene, ma non è questo il punto. Andiamo, sbrigati!

— Dammene la possibilità! Se continui a sbraitare e ad agitarti, mi farai confondere!

— Occorre che sottolinei il fatto che tu confuso lo sei sempre?

— Lasciami concentrare: le coordinate di questo posto le ho in memoria; le coordinate della Terra le conosco già; non devo fare altro che concentrarmi su tuo fratello, per localizzarlo. Bene, così. E adesso... uno... due... speriamo che stavolta funzioni, Jeff!... e tre!

Erano librati in volo sull’isola di Manhattan e sotto di loro Central Park appariva come una toppa di verde.

Jeff abbracciò Norby con una stretta convulsa.

— Stai andando troppo in alto! — gridò. — Più in basso, più in basso, ma non troppo velocemente!

— Hai messo il braccio su due dei miei occhi. Non riesco a vedere altro che nuvole e cielo. Ecco, così va meglio. Scendiamo!

— C’è una folla di gente, nel parco — osservò Jeff — e circonda la stazione.

Abbassati tanto da poter vedere che cosa sta succedendo.

— E se ci trovassimo nel raggio d’azione di un disintegratore? — si preoccupò Norby.

— Cerca di evitarlo.

— Per te è facile dirlo! Non sei tu che devi pilotare.

— Andiamo, Norby! Più in basso!

La folla si muoveva disordinatamente, come se non sapesse che fare e dove andare.

Molti si erano sparpagliati per i sentieri trasversali, dove non c’era traffico.

Davanti al recinto della stazione c’era un gruppo di uomini di Ing, con i disintegratori in pugno.

— Disperdetevi, ribelli, disperdetevi! — urlava il loro capo. — Disperdetevi o seppelliremo il parco sotto i vostri cadaveri!

— Credi che sia disposto a farlo? — esitò Norby.

— Non lo so — Jeff si strinse nelle spalle, incerto. — Però se Ing conquistasse la vittoria a costo di uno spargimento di sangue, si circonderebbe di odio. Lui deve saperlo, per cui ritengo che voglia evitare una strage. Però, se i suoi uomini si trovassero in una situazione disperata...

— Temo che ci si troveranno presto, Jeff — osservò il robot — visto che qui sotto ci sono anche tuo fratello e quella donna poliziotto sua amica e loro indossano gli scudi personali.

Potevano già udire la voce di Fargo.

— Avanti, cittadini — gridava — salviamo la nostra amata isola da Ing l’Ignominioso! Seguitemi!

Nessuno lo seguì. Tutti rimasero indecisi.

— Fai presto a dire “seguitemi” — ribatté un uomo — ma tu hai lo scudo personale e noi no!

— D’accordo — replicò Fargo. — Allora restate qui e aspettateci, pronti a venire a darci man forte quando sarà il momento. Avanti, Albany! Strappiamo i disintegratori dalle loro mani!

— Prendeteli vivi! — urlò il capo degli uomini di Ing. — Ing ci pagherà bene per la loro cattura!

Si avventarono alla carica, ma nello stesso tempo anche Fargo si slanciò all’attacco. Afferrò al volo il calcio di un disintegratore, che gli si stava per abbattere sulla testa come una mazza, e fu lui, invece, ad assestare un colpo violento e preciso al plesso solare dell’aggressore. L’uomo di Ing si piegò in due e per un po’ perse ogni interesse a quanto stava avvenendo intorno a lui.

Albany Jones prese a saltellare intorno a un altro degli uomini di Ing, sfidandolo a farsi sotto con dei gesti beffardi della mano. Lui caricò; lei si girò e si piegò e bloccò l’attacco con un fianco; afferrò l’uomo per ì polsi e lo scaraventò addosso a un altro dei suoi compari. Ambedue gli uomini di Ing finirono a gambe all’aria.

— Bene così! — urlò Norby, battendo sonoramente le mani. — Mettili tutti knock-out\

— Sono troppi per loro due soli — valutò Jeff. — Se la gente non si sbriga a correre in loro aiuto, Fargo e Albany saranno sopraffatti nel giro di pochi minuti.

— Ma neppure noi due, da soli — obiettò Norby — possiamo essere per loro di valido aiuto.

— Portami a fare un giro sul parco — decise il ragazzo. — Forse gli osservatori d’uccelli sono ancora qui intorno.

— E loro che cosa possono fare di buono?

— Voglio trovare quella signorina Higgins, il loro capo. Mi ha fatto l’impressione di essere una donna energica e coraggiosa, proprio le due qualità che ci servono.

Andiamo, Norby. Se non riusciremo a trovarla, andremo noi stessi ad aiutare Fargo, anche se con poche speranze.

Sorvolarono Central Park a zigzag, cercando con gli occhi un gruppetto di gente con alla testa una donna in un abito di tweed.

— Che cosa ti aspetti che possa mai fare una vecchia matta, Jeff?

— Non posso esserne del tutto sicuro, ma ho come un presentimento che lei possa aiutarci. E non è matta: è semplicemente piena di entusiasmo.

— Guarda! Sono loro?

— Può darsi. Abbassati ancora, Norby, e cerca di atterrare dall’altra parte di quegli alberi. Dobbiamo evitare di spaventarli.

Jeff e Norby si mossero cautamente in mezzo agli alberi.

— È proprio lei! — esclamò Jeff, e prese a chiamarla a gran voce. — Signorina Higgins! Signorina Higgins!

La signorina Higgins si fermò e si guardò intorno.

— Sì, che c’è? — alzò la voce. — Forse qualcun altro ha visto il merlo indiano?

— Sono io, signorina Higgins.

La signorina Higgins squadrò Jeff per un attimo.

— Oh, sì — lo riconobbe — quel giovane con il suo fratellino. Ci siamo conosciuti soltanto all’alba, e già vuoi unirti alla nostra spedizione pomeridiana. Quanto lodevole entusiasmo c’è in te!

— Non si tratta esattamente di questo, signorina Higgins. Ing e i suoi Ingrati stanno cercando di impadronirsi del parco.

— Il nostro parco? Dunque è questo il rumore che abbiamo sentito? Hanno spaventato gli uccelli e hanno mandato a monte le nostre osservazioni pomeridiane.

— Sì, mi dispiace, ma la causa del rumore è questa.

— Come si permettono?

— Forse lei riuscirà a fermarli, signorina Higgins. C’è già un gruppo numeroso di patrioti irritati, ma hanno bisogno di un capo.

— Dove sono? — gridò la signorina Higgins, agitando bellicosamente l’ombrello.

— Portami da loro. Voi, amici miei, restate qui e continuate a osservare gli uccelli.

Prendete nota di tutti i cardinali e di tutte le ghiandaie azzurre che scorgete.

Ricordatevi che i cardinali sono rossi e le ghiandaie azzurre sono azzurre!

— Facciamo presto, signorina Higgins — la sollecitò Jeff. — Vuole prendere la mia mano?

— Sì, suppongo che non ci sarebbe nulla di male — la signorina Higgins arrossì.

— Tu sei talmente giovane...

Jeff la afferrò, la strinse forte a sé passandole un braccio intorno ai fianchi, e l’anziana signorina là per là non seppe se scandalizzarsi o sentirsi lusingata.

— Impetuoso come tutti i giovani! — si limitò a constatare.

— Tutto bene, Norby! — il ragazzo non le badò affatto. — Portaci su a tutta forza.

Bada che adesso hai un doppio carico!

La signorina Higgins lanciò un gridolino di protesta ma subito dopo, trovandosi librata a mezz’aria, trascinata sempre più in alto, rimase ammutolita.

— Ritorna al recinto della stazione — gridò Jeff. — Presto! Là si continua a combattere!

La signorina Higgins aveva già ritrovato il suo sangue freddo; anzi, appariva deliziata.

— Che vista magnifica si gode da quassù! — squittì. — È così che si dovrebbe sempre osservare gli uccelli. Quando volano via, si può anche seguirli.

Jeff e Albany erano circondati e gli uomini di Ing li serravano sempre più da presso e minacciosi. Ormai era solo questione di tempo. Alcuni degli uomini di Ing tenevano a bada la folla, con i disintegratori spianati.

— Scendi, Norby! — ordinò Jeff. — E lei, signorina Higgins, guidi la folla contro quegli Ingrati.

— Puoi esser certo che lo farò! — sibilò la donna, indignata. — Razza di barbari!

— Stiamo arrivando, Fargo! — gridò Jeff.

Atterrarono. La signorina Higgins trotterellò via senza indugi e Norby rotolò verso il nemico più vicino, che si gettò prontamente su di lui. Uno dei bracci del robot sfrecciò in avanti e strappò via il disintegratore dalle mani dell’avversario, lanciandolo a Jeff, che lo afferrò al volo.

Nel frattempo la signorina Higgins marciava verso la folla, brandendo il suo ombrello e incitando con voce sorprendentemente sonora:

— Muovetevi, codardi! Avete intenzione di restarvene qui con le mani in mano mentre quei villani si impadroniscono del vostro parco? Central Park è fatto per gli osservatori d’uccelli e per la brava gente, non per i villani! Salvate il vostro parco, se avete nelle vene una goccia di sangue di vero uomo e di vera donna! Lascerete che io vada ad affrontarli da sola? Sono una debole e fragile donna quasi di mezza età, eppure io non ho paura di affrontarli! Chi vuole seguirmi? Avanti, miei bravi soldati, battiamoci per i nostri sacrosanti diritti!

Parti alla carica, con l’ombrello levato in aria come una spada, impavida.

— Urrà per la signorina Higgins! — gridò Norby.

— Urrà! — ripetè la folla, slanciandosi animosamente dietro alla coraggiosa generalissima. — Evviva la signorina Higgins!

La massa di gente si mosse in avanti e nell’attimo stesso gli uomini di Ing girarono sui tacchi e corsero in cerca della relativa sicurezza che offriva loro il recinto della stazione. La folla si gettò all’inseguimento con furia selvaggia.

Jeff trattenne Norby e gli impedì di andare con gli altri.

— No, no! — gli spiegò. — Ormai le cose si sono messe bene per noi e ciò che dobbiamo fare adesso, è andare in gran fretta al Comando Spaziale. Puoi riuscire a programmare senza errori le coordinate spaziali?

— Sicuro. Passerò dritto attraverso l’iperspazio.

— Hai energia sufficiente?

— Non preoccuparti. Ho fatto il pieno nell’iperspazio, quando siamo tornati dalla terra dei draghi.

— Bene. E devo aggiungere che viaggiare attraverso l’iperspazio è molto piacevole. Non ho sentito nulla. È stato come battere gli occhi, o come fare un singhiozzo.

— Sì, ma soltanto perché ho uno scudo iperspaziale incorporato — disse Norby. —

Non ti ho forse detto che il vecchio Mac era un genio? Suppongo che è per questo che non ho bisogno di un traslatore. Sono io stesso un traslatore e, se ti reggi stretto, ti porto con me.

— Come fai a sapere che voglio venire con te?

— Spero che tu lo voglia.

— E che accadrebbe se ti fossi sbagliato?

— Capisco che per te è terribile doverlo ammettere, Jeff, ma tu sai bene che io non mi sono mai sbagliato.

— Anzi, non lo sapevo affatto!

— Bene, non ha senso perdere tempo a discutere con una persona irragionevole.

Dammi le coordinate del Comando Spaziale. Okay, si parte!


8. Giù la maschera

Jeff non potè trattenere un verso di dolore. Stavolta era atterrato su un fianco, sempre aggrappato a Norby, e il gomito destro gli faceva un male da pazzi.

— Dove siamo? — mormorò Norby, con gli occhi che sbirciavano intorno fra il bordo del barile e il coperchio. — Siamo finiti nel posto giusto?

— Sì, stavolta sì — sospirò Jeff, rimettendosi in piedi.

— Non per nulla mi chiamano Norby l’Infallibile.

Jeff si guardò in giro e constatò che era in mezzo agli alti ufficiali del Comando Spaziale, incluso l’ammiraglio Yobo, che lo fissavano a bocca aperta e occhi sbarrati, quasi che fosse un fantasma. Alle sue spalle c’era la porta aperta della stazione di traslazione del comando.

— Funziona! — gridò uno degli ufficiali. Corse in direzione del ragazzo, ma gli passò oltre senza badargli e si infilò nel traslatore.

— Questo ragazzo — considerò un altro degli ufficiali — deve essere necessariamente arrivato con il traslatore ed esserne venuto fuori senza che ce ne accorgessimo. Possibile che nessuno abbia visto niente? Se è questa la vigilanza che ci protegge, dobbiamo aspettarci che da un momento all’altro appaia in mezzo a noi Ing stesso!

— Io l’ho visto arrivare — affermò Yobo, con la sua voce vibrante da basso. —

Però ritengo che scoprirete che, a prescindere da come il cadetto Wells ha fatto ad arrivare, il traslatore è di nuovo fuori servizio.

Di nuovo fuori servizio, non ancora. L’ammiraglio fu molto attento a non descrivere esattamente ciò che aveva visto e a non rivelare che l’arrivo non era avvenuto attraverso il traslatore. “Davvero una brava persona” pensò Jeff. Capace di ragionare in fretta e, comunque, sempre dalla parte dei suoi cadetti.

— Posso parlarle a quattr’occhi, ammiraglio? — chiese Jeff.

Yobo si grattò il mento, pensierosamente, poi fece un segno agli altri, un gesto appena accennato che però aveva la forza di un ordine. Gli ufficiali uscirono.

— Il mio robot... — iniziò Jeff.

— Tu hai comprato quel robot con il denaro che ti ho dato? Non hai trovato nulla di meglio da scegliere?

Norby borbottò qualcosa, ma il ragazzo gli diede un colpetto sulla schiena per farlo star buono.

— È un ottimo robot — affermò Jeff — ed ha molte buone doti assieme ad altre che possono essere decisamente esasperanti, a volte. Potrà insegnarmi lo Swahili marziano in pochi minuti. È anche un bravo meccanico e sono certo che potrà aggiustare il traslatore. Ing e i suoi Ingrati hanno preso il controllo di Manhattan e...

— Sappiamo già tutto, cadetto Wells. Ci ha dato un ultimatum, intimandoci la resa, e pretende di essere chiamato “imperatore”. La mia impressione è che il traslatore non è guasto, ma è stato bloccato all’altro terminale. — Yobo fissò il ragazzo dritto negli occhi, calmissimo, come per scrutare i suoi pensieri e le sue reazioni. — E tu che cosa ne dici?

— Che cosa intendete fare?

— Di sicuro non intendo arrendermi — disse Yobo — ma dovrò essere molto cauto ed attento. Ing tiene in ostaggio l’intera Manhattan e non è da escludere che anche altre zone della Terra cadano in suo potere, a meno che...

— A meno che?

— A meno che tuo fratello non possa fare qualcosa. In tutto questo tempo lui è stato il mio consigliere più stretto. Sospettava che Ing avrebbe colpito innanzi tutto Manhattan, e aveva preso delle contromisure.

— Di che genere?

— Staremo a vedere — Yobo, sempre calmissimo, eluse la risposta. — Nel frattempo, cos’è che tu vuoi che si faccia? A parte l’aggiustare un traslatore che non è aggiustabile?

— No, in effetti non credo che il mio robot possa aggiustare il traslatore, se Ing lo ha bloccato. Posso consultare Norby, signore? Il mio robot si chiama appunto Norby.

— Fa’ pure, cadetto.

Jeff si chinò su Norby e gli parlò, per così dire, all’orecchio.

— Adesso che facciamo?

Il robot rispose a voce così bassa, che neppure Jeff potè udirla e il ragazzo gli si dovette avvicinare maggiormente, fino a toccare con il naso il coperchio del barile.

Inaspettatamente si sentì prudere il naso, come se fosse attraversato da una leggera scossa elettrica.

— Ehi! — si rialzò di scatto, istintivamente. Norby allungò una mano fino a raggiungere la gamba del ragazzo e la strinse forte.

Non voglio che l’ammiraglio possa sentire! Credo che se lui ci desse una piccola nave spaziale, potrei truccarla in modo che possa raggiungere la Terra con un balzo attraverso l’iperspazio.

— Ehi, Norby! — il ragazzo trasalì: adesso si sentiva la leggera scossa elettrica nella gamba.

Credo che il drago ti abbia messo in grado di ricevere le mie comunicazioni telepatiche: è sufficiente che io ti tocchi. Procurami una nave spaziale!

— Cadetto Wells! — intervenne l’ammiraglio. — Siamo certi che sei sano di mente?

— Sì, signore, quanto meno lo sono per la maggior parte del tempo. E anche Norby lo è, qualche volta. Ciò che vogliamo, è una piccola nave spaziale, grossa giusto quanto occorre per trasportare me e Norby.

— Che cosa avresti intenzione di fare?

— L’idea sarebbe di passare attraverso la rete di sorveglianza che Ing deve aver predisposto e piombare dritti dentro il suo quartier generale. So dov’è. Vi sono già stato e l’ho riconosciuto. Lui ha fatto camuffare il posto con delle bandiere, tuttavia sono abbastanza sicuro che è la sala d’attesa principale della Stazione Centrale di Manhattan. Ho riconosciuto il suo odore inconfondibile da vecchio museo. Da ragazzo vi andavo molto spesso e la conosco a palmo a palmo. Conosco le coordinate di traslazione della stazione, quanto meno le conosce Norby, dato che registra in memoria le coordinate di tutti i luoghi in cui gli capita di andare...

— Tutto questo non ha alcun senso — troncò Yobo. — Punto primo, senza un traslatore occorrerebbero molti giorni per arrivare sulla Terra. Punto secondo, se si disponesse di un traslatore, non vi sarebbe alcun bisogno di una nave spaziale. Punto terzo, se quanto tu dici fosse minimamente possibile, manderei sulla Terra non una nave, ma l’intera flotta spaziale. Ultimo punto, e definitivo, in quanto taglia la testa al toro, non farei comunque nulla, dato che Ing minaccia di far saltare in aria l’intera Manhattan, se mi azzarderò a far muovere anche una nave soltanto.

— È solo un bluff — affermò il ragazzo.

— Ne sei proprio sicuro? Saresti disposto a giocare, sulla base di questa tua certezza, la sopravvivenza di una città che è la più illustre testimonianza dell’antica storia della Terra, con tutta la sua popolazione residua?

— Se si muovesse l’intera flotta, inevitabilmente sarebbe notata; invece una sola nave, una piccola nave...

— Non ha senso! Sarebbe notata anche quella. Dovresti ben conoscere l’efficienza dei moderni sistemi di avvistamento spaziale, cadetto Wells. Sei stato all’accademia abbastanza a lungo per saperlo.

— La prego, ammiraglio, si fidi di me — insistette Jeff. — Il mio robot sa cavarsela molto bene con tutti i tipi di macchinari. Saprebbe truccare i propulsori di una delle vostre piccole astronavi, in modo da renderla infinitamente più veloce, tanto che possa passare attraverso la rete di satelliti-spia senza essere notata. Allora sarebbe facile piombare di sorpresa proprio dentro la sala d’attesa della Stazione Centrale.

— Ciò che mi suggerisci è impossibile, a meno che...

— Yobo si interruppe e, prima di terminare la frase, lanciò a Norby un’occhiata perplessa. — A meno che quel barile che ti tieni così stretto non sia uno stregone.

Comunque, che ne diresti del mio spazioscafo privato? Sarebbe abbastanza piccolo?

— Quanto è piccolo?

— Abbastanza da poter contenere me soltanto, per quanto vi possiate entrare anche tu e il tuo barile-robot, se per voi non fa nulla dormire sul pavimento.

— E perché mai dovremmo dormire sul pavimento, signore?

— Perché voi due non potrete avere il mio spazioscafo privato se dentro non ci sarò anch’io, e nell’unico letto dormirò io. È un privilegio che mi spetta per il mio grado, cadetto.

— Portare anche lei, signore? — Jeff si chinò sul cappello di Norby e consultò il robot con un mormorio. — Sei in grado di far muovere lo spazioscafo con dentro noi due e l’ammiraglio?

— No! — affermò Norby, categoricamente. — Non vedi quanto è grosso, lui?

— È vero, non sono rachitico — Yobo udì e rispose — ma non intendo restarmene qui tranquillamente seduto ad aspettare, facendomi girare i pollici. Ne ho abbastanza di tutta questa faccenda! Se tu riesci a far arrivare una nave fin dentro la Stazione Centrale, cadetto, a bordo voglio esserci anch’io. Qualunque cosa dovesse accadermi, qui ci sono diverse brave persone, non foss’altro secondo l’alta considerazione che ciascuna ha di se stessa, pronte a succedere al mio posto.

— Norby, puoi e devi farcela — disse Jeff. — Non voglio sentire rifiuti.

Ammiraglio, lei può venire, ma permetta che sia io ad avere il comando.

— Cadetto Wells — replicò l’ammiraglio, con una smorfia arcigna — somigli a tuo fratello più di quanto avrei immaginato. Ma prima che si faccia qualsiasi cosa, dovrai dirmi esattamente come ti aspetti di far arrivare una nave fin sulla Terra. Non appena ci muovessimo, saremmo avvistati, il che equivale a dire che saremmo perduti. Lo sai quanto me.

— Ammiraglio — riprese Jeff, dopo un attimo di riflessione — può darmi la sua parola che quanto sto per dirle rimarrà strettamente riservato?

— Questa è una richiesta impertinente — protestò l’ammiraglio. — Ogni informazione che tu possa avere e che possa essere di una qualche importanza per la sicurezza federale deve essere comunicata immediatamente e senza alcuna condizione. Ad ogni modo, che cosa intendi per “strettamente riservato”?

Jeff si vide con le spalle al muro.

— Bene, signore — si decise a dire — il fatto è che Norby può muoversi attraverso l’iperspazio anche senza un traslatore.

— Veramente? Sì, avevo già sospettato che tu avessi in mente qualcosa del genere, per quanto mai nessuno sia riuscito a compiere quanto tu affermi di poter fare. E

come fa Norby a realizzare l’impossibile?

— Non lo so, ammiraglio, e non lo sa neppure lui.

— Quando tutta questa storia sarà finita, dovremo farlo aprire, per scoprire il suo segreto della navigazione iperspaziale.

— Jeff — si mise a strillare Norby — non devi avere nulla a che fare con questo mostro troppo cresciuto! È ancora peggio di quel drago!

— Quale drago? — chiese Yobo.

— Soltanto un mostro mitologico, signore — il ragazzo non ritenne opportuno perdere tempo in troppe spiegazioni non strettamente necessarie. — Proprio per questo la notizia deve restare assolutamente riservata. Se la cosa si risapesse, tutti gli scienziati pretenderebbero di farlo a pezzi e comunque non scoprirebbero nulla, e poi nessuno riuscirebbe a rimetterlo insieme, e così resteremmo senza più nulla del tutto.

— Ricordagli che nessuno ucciderebbe la gallina dalle uova d’oro — il robot mormorò al ragazzo — però cambia la gallina con un animale più intelligente.

— E così, ammiraglio — Jeff fece star zitto il robot — Norby, così come è, potrebbe essere un’importante arma segreta per la Federazione. Ha tutta una gamma di poteri che può governare con assoluta facilità... quasi, diciamo.

— Va bene, ma allora perché non andiamo con un incrociatore da battaglia carico di uomini armati fino ai denti?

— Vede, ammiraglio, il fatto è che, almeno per il momento, l’energia di Norby è piuttosto limitata.

— Vuoi dire — l’ammiraglio scoppiò a ridere — che è un piccolo robot e può maneggiare solo cose piccole?

— Lei non è una cosa piccola, specie di uomo troppo cresciuto! — si risentì Norby.

— No, suppongo di non esserlo — l’ammiraglio ridacchiò ancora. — Ma andiamo avanti, specie di barile sottosviluppato. Farò preparare il mio spazioscafo personale.

Un’ora dopo erano sullo scafo, e Norby si era ben sovralimentato di corrente elettrica.

— Non prometto di riuscirci — bofonchiò il robot. — Portare con me attraverso l’iperspazio un’intera nave non è un’impresa da poco.

— Puoi farcela, Norby — lo incoraggiò Jeff.

— Io? Un barile sottosviluppato?

— Sì, tu. Un robot vecchio, intelligente, coraggiosissimo e pieno di energie. E se non dovessi riuscirci, tirerò fuori tutti i tuoi meccanismi e ti riempirò di margarina rancida, in modo che quella dragonessa non possa più sentire puzzo di chiodi!

Il balzo attraverso l’iperspazio non fu perfetto.

— Non siamo dentro la Stazione Centrale — disse Jeff.

— E con questo? — replicò Norby, permaloso come sempre. — Ne siamo appena al di fuori. Un piccolo margine di errore di rotta deve essere sempre dato per scontato. Chiedi a qualsiasi navigatore!

— Va benissimo così — disse l’ammiraglio. — C’è bisogno soltanto di una normale correzione di rotta.

Due secondi dopo, lo spazioscafo personale dell’ammiraglio era sospeso su un cuscino d’aria proprio al di sopra del trono di Ing. Nelle strutture dello scafo erano rimaste impigliate parecchie bandiere, strappate via dalle pareti nella fulminea irruzione, e la vetrata da cui lo spazioscafo era passato era infranta.

— Una manovra molto brillante, ammiraglio — si congratulò Jeff. — Davvero brillante.

— Sono stato io a fare il balzo nell’iperspazio — si risentì Norby — e sono io a regolare il cuscino d’aria! Sono io l’unico che abbia fatto qualcosa di veramente brillante, fra tutti! Solo che non ce la faccio più a tenere lo spazioscafo sospeso!

Lascia che sia l’ammiraglio a ricevere qualche elogio, Norby — lo calmò Jeff, telepaticamente. — Il grado esige pure dei privilegi.

— Ascoltate!

La voce stentorea dell’ammiraglio riecheggiò nell’immenso salone. Lo stesso Ing, che stava accanto al trono con il volto sempre nascosto dalla maschera, guardò in su, ammutolito. I suoi soldati rimasero come in trance, sorpresi e colpiti dall’improvvisa comparsa della nave spaziale.

— Vi teniamo sotto il tiro dei nostri cannoni — minacciò l’ammiraglio Yobo, toccando un pulsante per far spuntare fuori dallo scafo almeno un cannone, e puntandolo direttamente su Ing. — Gettate le armi e arrendetevi. Non ci sarà un Impero Solare e tanto meno un suo imperatore!

Lo spazioscafo si abbassò lentamente sul trono e lo sfasciò. A Jeff sfuggì un sospiro di sollievo.

Ing, scampato per un pelo al crollo disastroso, si precipitò verso il traslatore.

— Fermatelo! — gridò Jeff.

— Non possiamo rischiare di ucciderlo — esitò l’ammiraglio — o i suoi seguaci faranno di lui un martire, un eroe... Fammi pensare. Potrei tentare di mettere fuori uso il traslatore con una cannonata, ma così correrei ugualmente il rischio di...

— Fatemi uscire! — gridò Norby. — Ci penso io! L’ammiraglio, con decisione improvvisa, azionò un altro pulsante e nello spazioscafo si aprì un portello.

— Accomodati pure, piccolo robot! — esclamò Yobo.

Norby si rotolò fuori, rimbalzò sul pavimento e si rimise prontamente in piedi. Si slanciò all’inseguimento di Ing, ma la porta del traslatore era aperta e l’altro era già quasi dentro la cabina. Il robot non avrebbe fatto in tempo a fermare il fuggitivo.

Proprio allora dal traslatore balzarono fuori Fargo e Albany, con un gruppo di agenti della polizia di Manhattan, armati fino ai denti.

— I miei ossequi, imperatore — Fargo abbozzò un inchino sarcastico. — Siamo venuti per deporti, ma vedo che Norby e il mio fratellino sono arrivati prima di noi, con la stessa idea. Ti sei illuso se hai sperato di poter battere i fratelli Wells!

— Fargo — riecheggiò la voce rimbombante e inconfondibile dell’ammiraglio Yobo — che è successo? Mettiti a rapporto.

— Ammiraglio, è qui anche lei? Bene, è molto semplice. Siamo stati fatti prigionieri e portati qui; ma io e Albany, grazie a Norby, siamo riusciti a fuggire.

Dopo, le cose sono andate esattamente come speravo. La popolazione di Manhattan stava insorgendo. Per quanto sia poco numerosa, la gente di quest’isola ha profondi sentimenti patriottici. Ho attaccato l’edificio della stazione di Central Park e l’ho conquistato, con l’aiuto della perfetta conoscenza delle arti marziali da parte di Albany Jones, questa incantevole poliziotta alla quale ritengo debba essere concessa una promozione al merito...

— Siamo stati aiutati anche dalla signorina Higgins — aggiunse Albany — una donna che si occupa di osservazione degli uccelli. Lei ha detto che non le importava niente di tutto il resto dell’universo, ma che Central Park appartiene al popolo. È stata lei a guidare la folla contro gli Ignobili di Ing e ha messo personalmente fuori combattimento almeno sette Ingrati, prima che perdessi il conto.

— Poi — riprese Fargo — abbiamo liberato ed armato un gruppo di agenti, con i quali abbiamo provveduto a riconquistare tutta la zona. In questo stesso momento ogni punto di Manhattan che non sia ancora tornato sotto il nostro controllo lo sarà presto. E quanto a te, Ing l’Inglorioso, sospetto che fra poco avrai un forte mal di testa.

Ing era rimasto muto e immobile, senza più speranze, mentre i suoi uomini gettavano le armi e si arrendevano. Norby, che era andato a metterglisi alle spalle, colpì con una mazzata del braccio la testa dell’uomo, protetto dal singolare elmo. Ing crollò a terra con un clangore metallico. Norby gli si sedette sopra e strappò via la maschera dalla sua faccia.

— Avrei dovuto immaginarlo! — risuonò la voce dell’ammiraglio, vibrante di indignazione. — Ing l’Intrigante non è altro che l’agente Gidlow Due, proprio quello che si dava tanto da fare. Però sospettavo che dovesse essere qualcuno dei servizi di sicurezza. Chi altri avrebbe potuto portare a termine un colpo di mano con tanta precisione?

— Gidlow sapeva che lei sospettava qualcosa del genere — aggiunse Fargo — e proprio per questo ha cercato di far credere che il traditore ero io, per fuorviare i sospetti.

— C’era quasi riuscito — ammise Yobo. — Le faccio le mie scuse, signor Wells.

Le sarà resa giustizia e le assicuro che non sarà dimenticato ciò che lei e il cadetto Jefferson avete fatto per il trionfo della buona causa.

— E per quanto riguarda Norby? — squittì il robot, ponendo un piede sulla schiena di Gidlow-Ing, come un cacciatore sulla sua preda.

— Non sarà dimenticato — aggiunse l’ammiraglio — neppure il cadetto Norby.

— Come? — esultò il robot. — Davvero sarò un cadetto?

— Naturalmente soltanto onorario — precisò Yobo.

— Toglietemi questo diavolo di dosso! — strillò Gidlow-Ing. — Non potete uccidermi in questo modo! Esigo un regolare processo!

— Ma sì — ghignò Norby — processiamolo subito, secondo le regole.

Usando l’antigravità per sollevarsi a mezz’aria, Norby serrò le braccia intorno al petto dell’imperatore mancato e lo rimise in piedi; poi trascinò a mezz’aria anche lui e si mise a dondolare da una parte e dall’altra, portando con sé il malcapitato in un valzer esilarante. Le gambe del traditore, rivestite dalla corazza metallica, ciondolavano buffamente come il batacchio di una campana.

Nella sala d’attesa scoppiò una risata formidabile, a cui si unirono anche quelli che erano stati i seguaci di Ing. Il fotografo della polizia fu lesto a tirar fuori la telecamera olografica e riprese tutta la scena in immagini tridimensionali.

— La rivoluzione di Ing è finita — dichiarò l’ammiraglio. — Gli uomini delle forze di polizia di Manhattan si sono comportati nobilmente.

— Tanto perché lei lo sappia — intervenne Albany, in tono dolce ma fermo — gli uomini delle forze di polizia di Manhattan per una buona metà sono donne.

— Verissimo, mia cara — annuì l’ammiraglio, rivolgendole un inchino appena accennato ma pieno di galanteria — tanto più che anche i soldati del mio Comando Spaziale per una buona metà sono donne. Mi sono semplicemente servito di un antiquato modo di dire. Ma questo mi fa notare che la sua uniforme sembra essere strategicamente molto ben tornita, per cui non posso esonerarmi dal farle i miei complimenti anche per la sua figura.

— Ammiraglio — Fargo non seppe trattenere una risatina — questo è ancora niente. Dovrebbe vedere sotto l’azione di uno di quegli acidi solventi dei tessuti! Ma per questo io solo posso fare all’agente Jones le più sincere e convinte congratulazioni.

— Perché tu... — intuì l’ammiraglio, sforzandosi di immaginare la scena. Adesso che le formalità potevano dirsi esaurite, si poteva anche tornare al meno protocollare

“tu”, più naturale fra persone legate da antica amicizia e da grande stima. — Bene, Fargo, in tal caso le congratulazioni devo farle a te. Congratulazioni per il tuo buon gusto, s’intende. Hai indubbiamente buon gusto nello sceglierti sia le poliziotte sia i fratelli.


9. Il cerchio si chiude

La vittoria venne celebrata con un solenne banchetto, nella grande ruota orbitante del Comando Spaziale.

L’ammiraglio aveva ottenuto un’altra medaglia da appuntare sul petto. Fargo era stato ricompensato con una grossa somma di denaro, tale da proteggerlo per sempre dal pericolo di bancarotta. Albany, seduta vicino a lui - molto, molto vicino - era stata promossa tenente. A Jeff, oltre a un encomio solenne, era stata data una borsa di studio per terminare l’accademia.

Norby occupava il posto accanto a quello di Jeff e teneva sotto il braccio una grossa busta di pelle, in cui era riposto l’attestato ufficiale, che rendeva noto «a tutti e a chiunque il presente documento sia portato a conoscenza» che Norby Wells era da quel momento elevato al grado di Cadetto Onorario del Comando Spaziale «con tutti i privilegi e gli onori connessi al grado». Quali fossero i privilegi e gli onori di Norby non lo aveva ancora scoperto, ma continuava a chiederselo.

Jeff constatò, con soddisfazione del tutto comprensibile in un ragazzo che continuava a crescere smisuratamente, che alla tavola dell’ammiraglio il cibo era considerevolmente migliore che non alla mensa dei cadetti. Norby era collegato da un cordone elettrico alla presa più vicina e si ingozzava senza ritegno per quanto, come avrebbe affermato più tardi, la corrente elettrica dell’ammiraglio non avesse un gusto migliore di qualunque altra.

— Suppongo, ammiraglio — disse Jeff a un certo punto — che il computer elettronico delle cucine adesso funzioni.

— Sì, alla perfezione — assicurò Yobo, con evidente soddisfazione.

— Deve ringraziare Norby, per questo. Lui ci sa fare con i computer.

— Quando li aggiusto io — si vantò il robot — scorrono come versi di una poesia.

— Bravo. Ma dimmi, Fargo — Yobo si rivolse al maggiore dei Wells — che cosa voleva dire quel motto che dicesti a tuo fratello, il giorno che mandò il computer in avaria?

— LPDSC? — Fargo sorrise in un modo furbesco.

— Jeff mi assicurò che significava “Lascia Perdere, Domani Sarai Contento”, o qualcosa del genere, ma non credo di averla bevuta.

— Ha fatto bene, ammiraglio. Ciò che significa veramente, è “La Partita Decisiva Sta Cominciando”. Volevo avvisare mio fratello che io e lui dovevamo metterci alla caccia di Ing. Non sapevo, in quel momento, che Ing-Gidlow era proprio vicino a lei, ammiraglio! Ma c’è una cosa che mi preoccupa ancora.

— Quale?

— Aver confinato Ing su un asteroide non mi sembra sufficiente. Sappiamo tutti che sugli asteroidi le misure di sicurezza sono piuttosto rilassate. Lui potrebbe approfittarne per fuggire.

— E se anche lo facesse? — l’ammiraglio rimase indifferente. — Tutti si fanno beffe di lui. La rapidità con cui la sua tentata rivolta è stata soffocata e le immagini olografiche della sua danza finale con Norby lo hanno coperto di ridicolo nell’intero universo. Ha fatto la figura di un buffone. Non potrebbe più fare nulla, neppure se venisse rimesso in libertà.

— Quanto a questo non saprei — commentò Jeff, storcendo le labbra in una smorfia per nulla convinta.

Furono interrotti da un ufficiale, che si avvicinò all’ammiraglio con i segni di una viva preoccupazione dipinti sul volto.

— Cosa c’è, Alfiere? — lo sollecitò Yobo.

— Il computer principale del Comando Spaziale si è messo a recitare poesie. Tutti i suoi messaggi sono in versi, incluse le ricette per il suo computer personale delle cucine, con il risultato che il cuoco-robot si confonde e non riesce più a cucinare in modo giusto.

L’ammiraglio si alzò di scatto e depose il tovagliolo sulla mensa, con un gesto che tradiva l’ira.

— Il mio computer di cucina? — tuonò.

— Sì, signore. Il resto del banchetto dovrà essere rimandato.

— Norby! — esplose l’ammiraglio. Non vi fu alcuna risposta.

— Norby! — Jeff accompagnò il grido furente con uno scappellotto sul coperchio del robot.

— Io ho detto ai computer di mettersi a scorrere come versi di una poesia — si giustificò Norby, piagnucolando. — Come avrei potuto immaginare che quegli stupidi computer mi avrebbero preso alla lettera?

— Domando e dico — ruggì l’ammiraglio — se questo barile...

— Questo “cadetto” barile, prego — puntualizzò Norby, con sussiego.

— Dovrebbe essere gettato in una fonderia!

— La sfascerebbe in un attimo — sospirò Jeff.

— Gli do quindici minuti di tempo per rimettere in funzione il computer! —

sbraitò Yobo.

— Norby, ubbidisci! — incalzò Jeff.

— Sì, sì, ma la colpa è dei computer.

— E poi questo sarà pure un robot raffazzonato alla meglio — Jeff girò sugli altri uno sguardo di sfida — ma è il mio robot e nessuno deve toccarlo.

Fine

Norby Il Robot Stravagante
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