Caduta!

Lucky balzò coraggiosamente nel fiume scendendo lentamente per via del fatto che la gravità di Io era debole. Era arrabbiato per quella lentezza, arrabbiato con Bigman per quegli entusiasmi infantili che lo coglievano così all'improvviso - e imprevedibilmente - anche con se stesso per non averlo fermato quando poteva farlo.

Quando Lucky piombò giù l'ammoniaca schizzò alta nell'aria, poi ricadde con sorprendente rapidità. L'atmosfera rarefatta di Io non riusciva a reggere le piccole gocce neppure con la bassa gravità.

Nel fiume di ammoniaca non si aveva il senso del galleggiamento; peraltro Lucky non si era neppure aspettato di provarlo. L'ammoniaca liquida era meno densa dell'acqua e aveva minore capacità di sollevamento, e nemmeno la corrente era forte, sempre a causa della debole gravità. Se Bigman non avesse avuto il respiratore danneggiato si sarebbe trattato soltanto di uscire dal fiume e di emergere dai cumuli che potevano essersi formati.

Invece...

Lucky nuotava a furiose bracciate verso il basso. Da qualche parte, più avanti, il piccolo marziano probabilmente stava lottando sempre più debolmente contro la velenosa ammoniaca. Se lo squarcio nel respiratore era grande o si fosse ingrandito lasciando penetrare l'ammoniaca liquida, Lucky sarebbe arrivato troppo tardi.

Forse era già troppo tardi, e quel pensiero gli fece contrarre dolorosamente il petto.

Una figura schizzò oltre Lucky e si tuffò nell'ammoniaca polverosa. Scomparve, lasciandosi dietro un tunnel nel quale l'ammoniaca franò lentamente.

«Panner?» provò a chiamare Lucky.

«Sono qui» il braccio dell'ingegnere si posò sulla spalla di Lucky da dietro. «Quello era Mutt, è arrivato di corsa quando lei ha urlato. Eravamo entrambi sulla sua stessa lunghezza d'onda.»

Insieme si fecero strada in mezzo all'ammoniaca sulla scia del cane. Quando lo trovarono l'animale stava ritornando.

«Ha preso Bigman!» gridò ansiosamente Lucky.

Bigman si era aggrappato debolmente ai fianchi del cane coperti dalla tuta e, anche se ciò impacciava Mutt nei movimenti, la bassa gravità gli consentiva di avanzare rapidamente avvalendosi dei muscoli delle spalle.

Nell'attimo in cui Lucky si chinò per prendere Bigman la presa del piccolo marziano si allentò e lui cadde.

Lucky lo sollevò. Non perse tempo a indagare o a parlare. C'era una sola cosa da fare. Aperto al massimo l'erogatore di ossigeno della tuta dell'amico, se lo caricò sulle spalle e si precipitò verso l'astronave. Pur facilitato dalla gravità di Io, non aveva mai corso così sfrenatamente in tutta la sua vita. Nella sua corsa a passi orizzontali toccava il suolo così fugacemente che dava l'impressione di volare a bassa quota.

Panner gli andava appresso e Mutt pure gli stava alle calcagna, eccitato.

Lucky usò la lunghezza d'onda comune per avvertire gli altri, e subito fu approntata una delle camere a tenuta stagna. Si precipitò dentro quasi senza rallentare. Il portello gli si chiuse alle spalle e l'interno fu inondato di altra aria per compensare la perdita che si era avuta durante l'apertura del pannello.

Con fulmineità Lucky liberò Bigman del casco e poi, più lentamente, gli sfilò la tuta.

Auscultò il cuore e con sollievo ne sentì il battito. La camera a tenuta stagna ovviamente era dotata del necessario per il pronto soccorso. Fece le iniezioni necessarie per una stimolazione generale, e attese che il calore e l'abbondante ossigeno facessero il resto.

E alla fine Bigman sbatté le palpebre e concentrò con difficoltà lo sguardo su Lucky. Mosse le labbra e formò la parola «Lucky», anche se non si udì alcun suono.

Lui rise sollevato, e finalmente trovò il tempo per spogliarsi a sua volta della tuta.

A bordo della Luna Gioviana, Harry Norrich si fermò sulla soglia della porta aperta dello scomparto in cui Bigman stava finendo di riprendersi. I suoi occhi ciechi e azzurri come la porcellana esprimevano una calda soddisfazione.

«Come sta l'invalido?»

Bigman si tirò su in mezzo al lettino e urlò: «Benissimo. Per le sabbie di Marte, mi sento benissimo! Se non fosse perché Lucky vuole tenermi a letto sarei già in giro».

Lucky bofonchiò un commento incredulo.

Bigman lo ignorò. Disse invece: «Ehi, lasciate entrare Mutt, bravo vecchio Mutt! Qui, ragazzo, qui!».

Mutt, al quale era stato tolto il guinzaglio, trotterellò verso Bigman, agitando furiosamente la coda e, anche se non aveva la parola, diceva tutto con i suoi occhi intelligenti.

Il braccino di Bigman cinse il collo del cane. «Questo sì che è un amico. Ha sentito quello che ha fatto, vero Norrich?»

«Lo hanno sentito tutti.» Ed era ovvio che Norrich provava orgoglio per l'impresa del suo cane.

«Riesco a stento a ricordare quello che è successo prima che perdessi conoscenza» disse Bigman. «Ho respirato un mucchio di ammoniaca e poi mi è sembrato di non riuscire più a raddrizzarmi; sono rotolato giù, penetrando attraverso quella neve di ammoniaca come se fosse il vuoto. Poi ho visto qualcosa avventarsi verso di me e quando ho avvertito del movimento ho avuto la certezza che si trattasse di Lucky. Ma quando ho spostato un po' di neve, ed è penetrata la luce gioviana, ho capito che si trattava di Mutt. L'ultima cosa che ricordo è che mi sono avvinghiato a lui.»

«È stata una buona cosa» commentò Lucky. «Io ci avrei messo di più a trovarti e sarebbe stata la tua fine.»

Bigman scrollò le spalle. «Oh Lucky, non esagerare. Non sarebbe successo niente se il respiratore non avesse sbattuto contro una roccia e non si fosse spaccato. E se avessi avuto abbastanza cervello per azionare l'erogatore di ossigeno avrei potuto tener fuori l'ammoniaca. Evidentemente, è stata quella prima inspirazione a pieni polmoni a farmi sconnettere. Non riuscivo più a pensare.»

In quel momento Panner passò davanti alla porta. Mise dentro la testa per guardare: «Come va, Bigman?».

«Per le sabbie di Marte! Sembra che tutti mi considerino un invalido o qualcosa del genere. Non ho niente che non vada. Persino il comandante ha fatto una capatina ed è riuscito a ritrovare la lingua quel tanto che gli è bastato per bofonchiarmi qualcosa.»

«Be'» disse Panner «forse si è calmato.»

«Ma figuriamoci!» esclamò Bigman. «Vuole solo essere sicuro che il suo primo volo non venga rovinato da una disgrazia. Vuole che il suo stato di servizio sia immacolato. Tutto qui.»

Panner rise. «Pronti per il decollo?»

«Stiamo per lasciare Io?» chiese Lucky.

«Da un momento all'altro. Gli uomini stanno caricando l'attrezzatura che ci porteremo appresso, e mettendo al sicuro quella che lasciamo qui. Se dopo il decollo vi sarà possibile raggiungere la cabina di pilotaggio, fatelo. Da lì si gode la migliore vista possibile di Giove.»

Grattò Mutt dietro un orecchio, poi se ne andò.

Si misero in contatto radio con Giove Nove per comunicare che stavano lasciando Io, come avevano fatto giorni prima quando erano atterrati sul satellite.

Bigman chiese: «Perché non chiamiamo la Terra? Il consigliere capo Conway dovrebbe essere informato che ce l'abbiamo fatta».

«Ufficialmente» rispose Lucky «non ce l'avremo fatta del tutto fino a che non saremo tornati su Giove Nove.»

Non aggiunse che non era affatto ansioso di ritornare là, e che lo era ancor meno di parlare con Conway. Dopo tutto, il suo viaggio non aveva portato a nessun risultato.

Si guardò attorno nella cabina dei comandi. Ingegneri e uomini erano ai loro posti, pronti per il decollo. Il comandante, i suoi due ufficiali e Panner invece erano lì dentro.

Ancora una volta Lucky si interrogò sugli ufficiali, come tante volte aveva fatto riguardo a ciascuno dei dieci uomini che la rana-V non aveva avuto la possibilità di eliminare dalla lista dei sospetti. Varie volte aveva parlato con ciascuno di loro, così come ancor più spesso aveva fatto Panner. Aveva perquisito i loro alloggi. Insieme a Panner aveva controllato il loro stato di servizio. Non era risultato nulla.

Sarebbe tornato su Giove Nove senza avere individuato il robot e, dopo, farlo sarebbe stato ancor più difficile. E forse avrebbe dovuto presentarsi al quartier generale del Consiglio per dare la notizia del suo fallimento.

Ancora una volta il pensiero dei raggi-X gli entrò disperatamente nel cervello. Pensò anche a qualche altro mezzo per ottenere dei risultati con la forza. E, come sempre, si rese conto che ciò avrebbe comportato il rischio di scatenare un'esplosione, probabilmente un'esplosione nucleare.

Questo avrebbe distrutto il robot. Ma avrebbe anche ucciso tredici uomini e fatto saltare in aria un'astronave senza prezzo. Ma, peggio di tutto, non avrebbe indicato un modo sicuro per individuare i robot umanoidi che, Lucky ne era certo, stavano saccheggiando le altre parti della Confederazione Solare.

Sobbalzò sentendo l'improvvisa esclamazione di Panner. «Ci siamo!»

Vi furono il familiare e lontano vuuun della spinta iniziale, il contraccolpo dovuto all'accelerazione e la superficie di Io prese ad allontanarsi sempre più in fretta.

Il visore non avrebbe potuto centrare Giove completamente: era troppo grande. Invece centrò la Grande Macchia Rossa e la seguì nella sua rotazione attorno al globo.

Panner disse: «Siamo di nuovo entrati in Agrav, sì, ma solo temporaneamente. Giusto per consentire a Io di allontanarsi».

«Ma stiamo ancora cadendo verso Giove!» esclamò Bigman.

«È vero! Ma solo fino a quando sarà arrivato il momento giusto. Poi viaggeremo con i motori iperatomici e ci tufferemo verso Giove in un'orbita iperbolica. Una volta stabilita questa, chiuderemo i motori iperatomici e lasceremo che sia Giove a fare il lavoro. Il punto di avvicinamento maggiore sarà a circa centocinquantamila miglia. La gravità di Giove ci farà roteare furiosamente, come un sassolino in una fionda, e poi ci scaglierà via di nuovo. Al momento giusto la spinta iperatomica interverrà di nuovo. Avvantaggiandoci dell'effetto fionda risparmiamo un po' di energia rispetto alla soluzione alternativa di partire direttamente da Io, e avremo un primo piano eccezionale di Giove.»

Guardò l'orologio. «Cinque minuti.»

Si stava riferendo, come Lucky sapeva, al momento in cui l'astronave sarebbe uscita da Agrav per avvalersi dei motori iperatomici e avrebbe iniziato a curvare per entrare nell'orbita programmata, attorno a Giove.

Continuando a guardare l'orologio Panner proseguì: «Abbiamo deciso di uscire da Agrav nel momento che ci permetterà di dirigerci verso Giove Nove il più direttamente possibile. Meno deviazioni facciamo, più energia risparmiamo. Dobbiamo tornare su Giove Nove con la maggior quantità possibile di energia di cui disponevamo al decollo. Più ne portiamo indietro, miglior figura farà Agrav. Io mi sono dato un obiettivo dell'ottantacinque per cento, ma se riusciamo a tornare con il novanta, sarà un risultato superlativo».

Bigman disse: «E se tornassimo con più energia di quanta ne avevamo al momento della partenza, come giudicherebbe la cosa?».

«Super superlativa, Bigman, ma impossibile. C'è una cosa che si chiama Seconda Legge della Termodinamica che impedisce di trarre profitto o, se per questo, anche di andare in pari. Qualche perdita dobbiamo subirla per forza.» Fece un largo sorriso e disse: «Un minuto».

E, nel secondo previsto, il suono dei motori iperatomici riempì la nave con i suoi mormorii smorzati e Panner si rimise in tasca l'orologio con aria soddisfatta.

«D'ora in poi,» disse «fino alle manovre di atterraggio, quando saremo vicini a Giove Nove, tutto è automatico.»

Aveva appena pronunciato queste parole quando il ronzio cessò, le luci della cabina tremolarono e poi si spensero. Quasi subito si riaccesero, ma ora sul pannello dei comandi c'era una parola in rosso: EMERGENZA.

Panner scattò in piedi. «Per lo spazio! Che cosa...?»

Corse fuori della cabina di pilotaggio mentre gli altri lo fissavano e si fissavano l'un l'altro, esprimendo vari gradi di orrore. Il comandante era diventato bianco come un cencio e il suo volto segnato s'era trasformato in una maschera tesa.

Con improvvisa decisione Lucky seguì Panner e ovviamente Bigman seguì Lucky.

Incontrarono uno degli ingegneri che si stava arrampicando su dalla sala motori. L'uomo ansimava. «Signore!»

«Che cosa è successo?» sbottò Panner.

«Agrav non funziona, signore. Non si riesce ad attivarlo.»

«Che cosa mi dici dei motori iperatomici?»

«La riserva principale ha cortocircuitato. L'abbiamo bloccata appena in tempo per impedire l'esplosione. Se la tocchiamo tutta la nave salterà. Ogni briciola di energia immagazzinata scoppierà.»

«Dunque stiamo funzionando col serbatoio di emergenza?»

«Sì.»

Lo scuro volto di Panner era congestionato. «E a che diavolo serve? Non potremo percorrere un'orbita attorno a Giove con il serbatoio di emergenza. Togliti dai piedi, fammi scendere.»

L'uomo si spostò e Panner saltò nel condotto che portava giù. Lucky e Bigman gli stavano alle calcagna.

Loro due non erano più stati nella sala motori da quel primo giorno in cui erano saliti a bordo della Luna Gioviana. Adesso la scena era diversa. Non vi era alcun angusto silenzio, nessuna sensazione di possenti forze silenziose al lavoro.

Invece, attorno a loro si levava alto il lamento degli uomini.

Panner schizzò al terzo livello. «Allora, cos'è che non va?» urlò. «Che cosa non va, esattamente?»

Gli uomini si divisero per lasciarlo passare e poi tutti si accalcarono per guardare i visceri sbudellati di un complesso meccanismo, indicando questo o quello con toni di disperazione e collera insieme.

Si udirono dei passi sui pioli che conducevano al livello, poi comparve il comandante in persona.

Si rivolse a Lucky che stava in disparte con espressione seria. «Che cosa succede, consigliere?» Era la prima volta che si rivolgeva a Lucky da quando avevano lasciato Giove Nove.

Lucky rispose: «Un danno serio, comandante».

«Come è successo? Panner!»

Questi alzò gli occhi dall'oggetto che stava esaminando attentamente e urlò irritato: «Che cosa vuole, per lo spazio?».

Le narici di Donahue vibrarono. «Perché si è permesso che qualcosa andasse storto?»

«Non si è permesso proprio nulla.»

«E allora come lo chiama questo?»

«Sabotaggio, comandante, un deliberato, micidiale sabotaggio.»

«Che cosa?»

«Sono stati fracassati completamente cinque relè gravitazionali e i pezzi di ricambio sono stati portati via e non riusciamo a trovarli. Il comando di propulsione iperatomica è stato fuso e cortocircuitato in modo irrimediabile. Nulla di tutto questo è casuale.»

Il comandante fissò il suo ingegnere capo. Con voce incolore disse: «Si può fare qualcosa?».

«Forse è possibile trovare i cinque relè di ricambio oppure ricavarli da qualche altra parte. Non ne sono sicuro. Forse si può allestire un comando di propulsione improvvisato. Ci vorrebbero comunque giorni e giorni e non potrei garantire dei risultati.»

«Giorni?» urlò Donahue. «Impossibile. Stiamo cadendo verso Giove!»

Seguì un silenzio totale per qualche istante, poi Panner tradusse in parole ciò che tutti sapevano: «È vero, comandante. Stiamo cadendo verso Giove e non siamo in grado di fermarci in tempo. Questo significa che siamo perduti. Siamo tutti morti.»