Troppo tardi!

Nella confusione, Bigman si sentiva stordito e impotente. Nello sforzo di restare il più vicino possibile all'irrequieto Morriss, si ritrovò a trottare di gruppo in gruppo e ad ascoltare conversazioni affannate il cui contenuto non sempre capiva, a causa della sua ignoranza riguardo a Venere.

Morriss non aveva tempo per fermarsi. Ogni minuto arrivava una persona nuova, un rapporto nuovo, una decisione nuova. Erano passati solo venti minuti da quando Bigman aveva rincorso Morriss, e già una dozzina di piani erano stati proposti e scartati.

Un uomo appena rientrato dal settore minacciato stava dicendo con il fiato mozzo: «Gli hanno puntato addosso i raggi spia e ora riusciamo a distinguerlo. Se ne sta seduto con la leva stretta nella mano. Gli abbiamo fatto pervenire la voce della moglie via etere, poi attraverso i pubblici sistemi di comunicazione, poi attraverso gli altoparlanti esterni. Non credo che la senta. Comunque se ne sta lì immobile».

Bigman si morse il labbro. Che avrebbe fatto Lucky se fosse stato lì? La prima idea che gli era passata per la testa era stata di arrivare alle spalle dell'uomo (che si chiamava Poppnoe) e di spingerlo giù. Ma quello era stato il primo pensiero di tutti ed era stato scartato immediatamente. Il tizio si era rinchiuso in una delle camere di controllo della cupola che erano state costruite accuratamente per impedire qualsiasi forma di manipolazione. Ogni ingresso era elettrificato e i sistemi d'allarme venivano azionati dall'interno. Ora quella misura cautelativa si ritorceva contro Afrodite: invece di proteggerla la metteva in pericolo.

Bigman era sicuro che al primo rumore, al primo bagliore di una segnalazione la leva sarebbe stata abbassata e l'oceano di Venere si sarebbe riversato su Afrodite. Non si poteva correre questo rischio quando l'evacuazione non era ancora stata portata a termine.

Qualcuno aveva suggerito di usare del gas velenoso, ma Morriss aveva scosso la testa senza dare spiegazioni. Bigman credeva di sapere che cosa stava pensando il venusiano. L'uomo che aveva in mano, la leva non era né ammalato, né pazzo, né malvagio, era solo controllato mentalmente. E questo significava che i nemici erano due. "L'uomo alla leva" pensava Bigman tra sé, "avrebbe sì potuto indebolirsi col gas al punto da non aver la forza di manovrarla, ma prima che ciò accadesse l'indebolimento si sarebbe riflesso nella sua mente e gli uomini che gliela controllavano avrebbero fatto funzionare molto in fretta i muscoli delle braccia di quel loro strumento."

«Ma che cosa stanno aspettando?» brontolò sottovoce Morriss, mentre il sudore gli colava a rivoli per le guance. «Se solo potessi puntare un cannone atomico su di lui.»

Bigman sapeva perché anche questo era impossibile: un cannone atomico, per colpire quell'uomo dal punto più vicino possibile, avrebbe dovuto avere una potenza tale da consentirgli di penetrare un quarto di miglio di architettura e avrebbe danneggiato la cupola quanto bastava per provocare lo stesso pericolo che loro cercavano di evitare.

«Dov'è Lucky?» pensò, e ad alta voce disse: «Se non è possibile arrivare a quel tizio, perché non ai comandi?».

«Che intende dire?» chiese Morriss.

«Voglio dire metterli fuori uso. Per aprire il portello ci vuole dell'energia, no? E se l'energia venisse tolta?»

«Bella idea, Bigman, ma ogni portello ha il proprio generatore di energia d'emergenza.»

«E non lo si può neutralizzare da nessuna parte?»

«E in che modo? Quell'uomo è chiuso là dentro, e ogni centimetro cubo è pieno di sistemi d'allarme.»

Bigman alzò il capo e immaginò di vedere il possente oceano che li sovrastava. Disse: «Questa è una città chiusa, come quelle su Marte. Noi dobbiamo pompare aria dappertutto, non lo fate anche voi?».

Morriss tirò fuori un fazzoletto, si asciugò lentamente la fronte e fissò il piccolo marziano. «I condotti di ventilazione?»

«Sì, ce ne deve essere uno con un portello là dentro, no?»

«Certo che c'è.»

«E da qualche parte lungo il suo percorso non c'è la possibilità di strappare un filo, o tagliarlo, o di far qualcosa?»

«Aspetti un momento. Si potrebbe infilare nel condotto una microbomba invece del gas tossico di cui parlavamo prima...»

«Non è abbastanza sicuro» disse Bigman spazientito. «Mandate un uomo. Le città subacquee hanno bisogno di condotti larghi, vero? Potrebbe passarci un uomo?»

«Non sono così grandi» rispose Morriss.

Bigman deglutì faticosamente. Le parole che stava per dire gli costavano molto. «Anch'io non sono poi così grande, forse ci passo.»

Morriss fissò con occhi spalancati il minuscolo marziano ed esclamò: «Per Venere, potrebbe farcela, sì, potrebbe farcela. Venga con me!».

A giudicare dall'aspetto delle strade di Afrodite sembrava che nessuno, né donne né uomini né bambini, dormisse. Presso la parete di transite e attorno all'edificio in cui alloggiava il quartier generale di soccorso, la gente gremiva tutti i viali, trasformandoli in scure masse di umanità vociante. Erano state messe delle catene dietro le quali i poliziotti, armati di pistole paralizzanti, camminavano avanti e indietro nervosamente.

Lucky, che si era precipitato fuori dal quartier generale di soccorso in una corsa sfrenata, fu bloccato di colpo dalle catene. Una miriade di immagini gli si presentarono improvvisamente davanti agli occhi; la luminosa insegna a spirali di lucite, alta nel cielo di Afrodite e senza alcun sostegno visibile, girava lentamente e diceva: AFRODITE, BELLA LOCALITÀ DI VENERE, VI DÀ IL BENVENUTO.

Vicino a lui avanzava una fila di persone che si portavano appresso gli oggetti più svariati: valigette stracolme, portagioielli, abiti buttati sul braccio. A uno a uno salivano sugli hovercraft. Era evidente chi e cosa erano: gente fuggita dalla zona minacciata, che attraversava il portello con le cose più importanti che riusciva a portarsi appresso. L'evacuazione era manifestamente in atto. Nella fila non c'erano né donne né bambini.

Lucky urlò a un poliziotto che gli stava passando vicino: «C'è un hovercraft disponibile?»

L'altro alzò gli occhi. «Nossignore. Sono tutti occupati.»

Lucky esclamò spazientito: «Affari del Consiglio».

«Non posso farci niente. Questa gente sta usando tutti gli hovercraft della città.» E sollevò un pollice a indicare la fila che si muoveva poco lontano.

«È importante! Devo uscire di qui.»

«E allora dovrete farlo a piedi» rispose l'agente.

Lucky strinse i denti irritato. Non c'era modo di attraversare la folla a piedi o su un veicolo a ruote. Avrebbe dovuto farlo in volo e subito.

«Non c'è qualche altro mezzo disponibile, qualsiasi cosa?» Adesso non stava parlando tanto al poliziotto quanto al proprio spazientito ego, furibondo per essere stato ingannato tanto facilmente dal nemico. Il poliziotto gli rispose seccamente: «A meno che non voglia usare un hopper».{3}

«Un hopper? Dov'è?» Gli occhi di Lucky brillarono.

«Stavo scherzando» disse l'altro.

«Ma io no. Dov'è questo hopper?»

Nello scantinato dell'edificio che aveva appena lasciato ce ne erano diversi. Tutti smontati. Quattro uomini si offrirono subito di dargli una mano e l'apparecchio che aveva l'aspetto migliore fu montato all'aperto. Le persone più vicine della fila osservavano incuriosite mentre alcuni urlavano scherzosamente: «Hop, hop hopper!».

Era l'antico grido delle gare di hopper. Cinque anni prima era stata una mania che aveva travolto il sistema solare: gare su rotte impervie e costellate di ostacoli. Finché quella mania era durata, i venusiani erano stati i più entusiasti. Probabilmente metà delle case di Afrodite avevano degli hopper negli scantinati.

Lucky controllò la micropila. Era attiva. Avviò il motore e mise in moto il giroscopio. L'hopper si raddrizzò immediatamente, restando immobile sull'unica gamba.

Probabilmente gli hopper sono la forma di trasporto più grottesca mai costruita. Sono costituiti da un corpo ovoidale ampio quanto basta per contenere un uomo ai comandi, sovrastati da un rotore a quattro pale e sorretti da un'unica gamba metallica rivestita di gomma. Facevano pensare a un gigantesco trampoliere addormentatosi con una zampa ripiegata sotto il corpo.

Lucky toccò il pulsante a scatto e la gamba dell'hopper si ritrasse. Lo scafo si abbassò fino a due metri dal suolo mentre la gamba rientrava nel condotto che attraversava il veicolo fin sotto il pannello dei comandi. Al momento della massima ritrazione ci fu un sonoro clic e la gamba scattò in fuori mentre l'hopper faceva un balzo di dieci metri in aria.

Le pale rotanti sopra il veicolo lo tennero sospeso per lunghi secondi durante i quali Lucky riuscì a vedere le persone che stavano sotto. Era una folla che si estendeva per mezzo miglio, il che significava dover fare diversi balzi. Serrò le labbra. Questo gli avrebbe fatto perdere minuti preziosi.

Ora l'hopper stava scendendo con la lunga gamba protesa. La folla sottostante cercò di disperdersi, ma non fu necessario perché quattro getti di aria compressa li sospinsero via quanto bastava perché la gamba potesse posarsi a terra senza far danni.

Non appena ebbe toccato il cemento, la gamba si ritrasse. Per un istante Lucky riuscì a vedere i volti sbalorditi che lo attorniavano, poi l'hopper balzò nuovamente in aria.

Lucky doveva ammettere che le gare di hopper erano molto eccitanti. Da ragazzo vi aveva partecipato spesso. L'esperto guidatore poteva far fare al suo strano veicolo incredibili acrobazie, trovando spazio per posarsi dove sembrava non ve ne fosse assolutamente. Lì, nelle città sotto cupola di Venere, le gare dovevano essere state una sciocchezza rispetto a quelle spericolate che avevano luogo nelle vaste e aperte arene di terreno roccioso e frastagliato della Terra.

In quattro balzi Lucky aveva superato la folla. Spense i motori e l'hopper si fermò dopo una serie di piccoli, singhiozzanti balzelli. Lucky saltò giù. Probabilmente era tutt'ora impossibile trovare un veicolo aereo, ma forse avrebbe potuto requisire un qualche veicolo terreno.

Ma si sarebbe perso altro tempo.

Bigman, ansimante, si fermò un attimo per riprendere fiato. Le cose erano successe in fretta; era stato trascinato in un vortice frenetico.

Venti minuti prima aveva fatto la sua proposta a Morriss, ora era chiuso in un condotto che gli comprimeva il corpo, e lo avvolgeva nell'oscurità.

Avanzò sui gomiti addentrandosi ancora di più; di tanto in tanto si fermava per accendere la minuscola torcia il cui fascio di luce sottilissimo gli mostrava le pareti lattee che aveva davanti e che si restringevano fino a diventare nulla. Sul polso della manica gli avevano incollato una piantina fatta in fretta.

Morriss gli aveva stretto la mano prima che lui si arrampicasse e balzasse nell'apertura che stava su un lato di una stazione di pompaggio. I rotori del gigantesco ventilatore erano stati fermati, le correnti d'aria bloccate.

Morriss aveva mormorato: «Spero che questo non lo scateni». Poi gli aveva stretto la mano.

Bigman gli aveva ricambiato il sorriso, quindi si era fatto strada nell'oscurità mentre gli altri se ne andavano. Nessuno aveva ritenuto necessario accennargli la cosa ovvia: si sarebbe trovato dalla parte sbagliata della barriera di transite, il lato dal quale gli altri ora si stavano ritirando. Se in qualunque momento la leva che apriva il portello della cupola fosse stata abbassata, l'acqua avrebbe fatto irruzione nel condotto le cui pareti avrebbero avuto la stessa resistenza di un condotto di cartone.

Mentre avanzava strisciando, Bigman si chiese se prima avrebbe sentito un rombo, se l'acqua lo avrebbe in qualche modo avvertito della propria presenza prima di travolgerlo. Sperava di no. Non voleva avere nemmeno un secondo di attesa. Se l'acqua doveva arrivare, lui voleva che accadesse in fretta.

Sentì che la parete cominciava a incurvarsi. Si fermò per consultare la mappa. Il piccolo fascio di luce illuminava debolmente lo spazio attorno a lui. Era la seconda curva che gli avevano disegnato e ora il condotto sarebbe salito verso l'alto.

Bigman si rigirò su un fianco contorcendosi per seguire la curva a danno del suo umore e delle sue carni che si scorticavano.

«Per le sabbie di Marte!» imprecò. I muscoli delle cosce gli dolevano mentre premeva con forza le ginocchia sulle pareti del condotto per non scivolare giù di nuovo. Centimetro per centimetro avanzò annaspando sul lieve pendio.

Morriss aveva copiato la mappa dalle carte costellate di geroglifici che gli erano state mostrate attraverso un trasmettitore visifono dal Dipartimento dei Lavori pubblici di Afrodite. Bigman aveva osservato le colorate linee ricurve chiedendo spiegazioni riguardanti i segni e i simboli.

Raggiunse uno dei montanti di rinforzo che attraversavano in diagonale il condotto. Era contento di avere qualcosa a cui aggrapparsi, attorno a cui stringere le mani per allentare un po' della tensione dei gomiti e delle ginocchia indolenziti. Rimise la mappa nella manica e si aggrappò al montante con la mano sinistra. Rigirò la piccola pila che teneva nella destra e la collocò in verticale contro un'estremità del montante.

L'energia della micropila, che di solito forniva elettricità alla piccola lampadina della torcia trasformandola in luce fredda, grazie a un altro comando poteva anche creare un piccolo campo di forza all'altra estremità della pila. Il campo di forza era in grado di tagliare istantaneamente qualsiasi materiale che si trovasse davanti. Bigman azionò il comando e subito una delle estremità del montante fu tranciata.

Invertì le mani. Puntò la pila all'altra estremità del montante. Un altro tocco e tagliò anche quella. Il montante gli restò fra le dita; se lo fece scivolare lungo il corpo fino ai piedi, poi lo lasciò andare. Lo sentì cadere rumorosamente giù per il condotto.

L'acqua ancora non arrivava. Mentre ansimava e si contorceva, Bigman era consapevole di questo. Superò altri due montanti e un'altra curva, poi si ritrovò in piano e finalmente raggiunse una serie di deflettori segnati chiaramente sulla mappa. In tutto, il tratto che aveva percorso probabilmente non superava i duecento metri, ma quanto tempo aveva impiegato?

E ancora l'acqua non erompeva.

I deflettori, le cui lame sporgevano alternativamente su entrambi i lati del condotto e che servivano a mantenere agitato il flusso dell'aria, erano l'ultimo punto di riferimento. Tagliò ogni lama con un rapido movimento della torcia; ora doveva calcolare tre metri dall'ultima lama. Anche per far questo si avvalse della pila: era lunga venti centimetri, quindi avrebbe dovuto disporla successivamente sulla parete quindici volte.

Per due volte gli sfuggì e due volte dovette tornare indietro fino al segno rimasto dalla tranciatura dell'ultima lama, scivolando indietro e imprecando sottovoce: «Per le sabbie di Marte!».

La terza volta riuscì a concludere la misurazione. Premette il dito sul punto in cui aveva posato per la quindicesima volta la pila. Morriss aveva detto che l'obiettivo sarebbe stato quasi direttamente sopra la sua testa. Riaccese la pila, passò il dito lungo la superficie curva del condotto, e si rigirò sulla schiena.

Quindi mise di nuovo in azione il campo di forza e, puntando il calcio della pila, per quanto poteva calcolare nell'oscurità, a circa otto millimetri dalla parete (il campo di forza non doveva penetrare troppo in profondità!) tracciò un cerchio. Il metallo tagliato gli cadde addosso e lui lo scostò.

Illuminò i fili ora scoperti e li esaminò. Pochi centimetri più avanti ci doveva essere una stanza in fondo alla quale, a poco meno di trenta metri, sedeva quell'uomo, accanto al portello. Era ancora là? Ovviamente non aveva ancora abbassato la leva (che cosa stava aspettando?), altrimenti Bigman a questo punto sarebbe stato morto, travolto dall'acqua. Lo avevano bloccato in qualche modo? Forse portato via a forza?

Un sorriso mesto si allargò sul volto di Bigman al pensiero che forse stava strisciando all'interno di un verme di metallo per nulla.

Ora seguiva i fili. Lì, da qualche parte, doveva esserci un relè. Tirò delicatamente prima un filo, poi un altro. Uno si spostò e mise in luce un piccolo doppio cono nero. Bigman trasse un sospiro di sollievo. Si mise la pila tra i denti per avere entrambe le mani libere.

Cautamente, molto cautamente, ruotò le due estremità del cono in direzioni opposte. I due attacchi magnetici cedettero e le due metà si aprirono rivelando ciò che contenevano. Un interruttore: due contatti luccicanti, uno dei quali incastrato nel suo selettore di campo e separato dall'altro da una distanza quasi impercettibile. A uno stimolo appropriato, quale per esempio l'abbassamento di una piccola leva, il selettore di campo avrebbe sprigionato l'energia necessaria per fare abbassare l'altro contatto, permettendo al flusso di energia di passare attraverso l'intercapedine e di aprire il portello della cupola. Sarebbe successo tutto in un milionesimo di secondo.

Sudando e aspettandosi che arrivasse la fine ora, proprio ora che mancava un secondo alla conclusione della sua missione, Bigman armeggiò nella tasca del giubbotto ed estrasse un pezzo di plastica isolante. Era già un po' molle per il calore del suo corpo. La impastò per un momento, poi la avvicinò delicatamente al punto in cui i due contatti quasi si toccavano. La tenne lì contando fino a tre, poi la tirò via.

Ora i contatti avrebbero anche potuto chiudersi, ma tra loro ci sarebbe stata una sottile pellicola di plastica attraverso la quale il flusso di corrente non poteva passare.

La leva avrebbe anche potuto essere abbassata: il portello non si sarebbe aperto.

Ridendo, Bigman riprese la strada del ritorno, passando davanti ai resti dei deflettori, oltre i montanti che aveva tagliato, e scivolò giù...

In mezzo alla confusione che pervadeva la città, Bigman cercava disperatamente Lucky. L'uomo della leva era stato imprigionato, la barriera di transite era stata sollevata e la popolazione stava rientrando (furibonda soprattutto con l'amministrazione cittadina che aveva permesso che tutto ciò accadesse) nelle case che avevano abbandonato. Per la gente che si era angosciosamente aspettata il disastro, la fine della paura diede inizio a una gran festa.

Finalmente Morriss comparve come dal nulla e posò una mano sul braccio di Bigman. «Lucky sta chiamando.»

Stupito, Bigman chiese: «Da dove?».

«Dalla mia stanza negli uffici del Consiglio. Gli ho detto quello che lei ha fatto.»

Bigman arrossì di piacere. Lucky sarebbe stato orgoglioso di lui! «Voglio parlargli» disse.

Ma sullo schermo il volto di Lucky era cupo. «Congratulazioni, Bigman, ho saputo che sei stato fantastico.»

«Non è stato nulla» rispose Bigman sorridendo. «Ma tu dove ti eri cacciato?»

Lucky chiese: «C'è lì il dottor Morriss? Non lo vedo».

Morriss avvicinò il volto allo schermo. «Sono qui.»

«A quanto ho sentito avete catturato quell'uomo.»

«Proprio così. L'abbiamo potuto fare grazie a Bigman» rispose Morriss.

«E allora mi lasci indovinare: quando vi siete avvicinati a lui, non ha nemmeno tentato di abbassare la leva. Si è arreso e basta, vero?»

«Sì» rispose Morriss accigliandosi. «Ma cosa le fa pensare che sia andata così?»

«Perché l'incidente al portello era una cortina fumogena. Il danno vero doveva succedere qui, da questa parte. Non appena me ne sono reso conto mi sono messo in movimento. Ho cercato di ritornare qui. Ho dovuto servirmi di un hopper per passare in mezzo alla ressa e di una macchina per il resto del tragitto.»

«E?» chiese Morriss ansiosamente.

«E sono arrivato troppo tardi» rispose Lucky.