Coltura microbica

Titolo originale: Breeds There a Man...?

Prima edizione: Astounding, giugno 1951

Nota dell’Autore

Nel 1945, il lancio della bomba atomica rese la fantascienza rispettabile. Una volta diffusosi l'orrore per Hiroshima, ognuno poté constatare che gli autori di fantascienza non erano semplici matti e visionari, e che molti motivi di questo particolare genere letterario si ritrovavano ormai quotidianamente nei titoli dei giornali.

Immagino che lettori e autori di fantascienza fossero, nel complesso, compiaciuti: non certo per l'effetto della bomba, ma per la realizzazione concreta di qualcosa che era parso così fantascientifico.

La mia fu una reazione ambivalente. A parte gli aspetti agghiaccianti delle esplosioni nucleari, e il convincimento vagamente irrazionale che cose come le bombe atomiche continuassero ad appartenere alla FS, e non al mondo reale, avevo l'impressione che la realtà potesse avere l'effetto di umiliare la fantasia. E fu così, temo, almeno in parte. La nuova realtà tendeva a inchiodare al suolo lo scrittore di fantascienza. Prima del 1945 la fantascienza era libera e senza confini. Temi e intrecci rimanevano nel regno della pura immaginazione e potevamo fare tutto quello che volevamo. Dopo il '45, subentrò il bisogno crescente di modellare l'infinita portata dei nostri pensieri sui frammenti di “possibile” che erano divenuti realtà.

Nacque, anzi, qualcosa che definii “fantadomani”: il racconto di fantascienza che, nei titoli di giornale dell'indomani, già non sarebbe stato più nuovo. E io allora m'intestardii a voler scrivere qualcosa che, malgrado tutto, conservasse il suo carattere puramente fantascientifico anche il giorno dopo: che non risultasse, cioè, immediatamente superato dagli avvenimenti.

Il risultato fu “Coltura Microbica”: qualcosa di molto attuale ma che resta di pura fantascienza oggi come quando la scrissi nel 1951.



Il sergente di polizia Mankiewicz era al telefono e malediceva il momento in cui aveva risposto alla chiamata. La sua conversazione suonava come un fuoco d’artificio visto da una parte sola. Stava dicendo: — Ma sì! È entrato qui e ha detto «Mi metta in prigione perché voglio uccidermi»... Non so cosa dirle. Sono state le sue parole esatte. Sembra assurdo anche a me... Senta, caro signore, l’individuo risponde ai connotati. Mi ha chiesto informazioni e io gliele do... Ha una ferita sulla guancia destra, esatto, esatto, e ha detto di chiamarsi John Smith. Non ha detto affatto d’essere il dottor Tal-dei-Tali... Be’, lo so anch’io che è un nome falso. Chi vuole che si chiami John Smith? Non in un posto di polizia, per lo meno. Adesso è in cella... Ma sì, dico sul serio... Resistenza alla forza pubblica; violenza e percosse; danni proditori. Sono reati gravi... Non m’importa di chi sia... E va bene. Resterò in linea. Alzò gli occhi verso l’agente Brown e coprì con la mano il microfono. Più che una mano era un prosciutto che quasi inghiottiva l’intero ricevitore. La faccia dai lineamenti ottusi era rossa e sudata sotto la zazzera biondo-stoppa.

— Grane! — disse. — Nient’altro che grane in un posto di polizia. Per conto mio, meglio fare la ronda. Eh sì, centomila volte meglio.

— Chi è, al telefono? — domandò Brown. Era appena rientrato e in fondo non gliene importava niente. Pensava anche lui che Mankiewicz fosse più adatto per la ronda, meglio se in periferia.

— Chiamano da Oak Ridge. In teleselezione. Un tale di nome Grant, capo della divisione vattelapesca. Ora è andato a chiamare un altro, a venticinque centesimi al minu... Pronto! — Mankiewicz passò il ricevitore nell’altra mano e si sforzò di restare calmo.

— Senta — disse — lasci che le racconti la cosa da principio. Voglio che comprenda bene, dopo di che, se non è d’accordo, manderà qualcuno sul posto. Quel tale non vuole un avvocato. Ha detto e ripetuto che vuole solo restarsene in cella e, parola mia, per quanto mi riguarda non ho niente in contrario... Allora, vuole starmi a sentire? È venuto qui ieri, si è diretto subito da me e ha detto: «Sergente, voglio che mi rinchiuda perché ho intenzione di uccidermi». Al che, ho risposto: «Mi dispiace, signore, che voglia uccidersi. Non lo faccia perché, se lo farà, lo rimpiangerà per tutto il resto della vita... Ma sì che sono serio! Mi limito a riferire quello che ho detto. Non sto affatto dicendo che fosse uno scherzo divertente, ma capirà che ho anch’io i miei guai, qui, non so se mi capisce. Crede che non abbia altro da fare che dar retta ai folli che entrano qui per... «Mi dia il modo di arrestarla» ho detto. «Non posso sbatterla in cella solo perché vuole morire. Non è un reato, quello». E lui, allora: «Ma io non voglio morire». Così gli ho detto: «Senta, amico, si levi di torno». Capirà, se un tizio vuole suicidarsi, s’accomodi, se non vuole suicidarsi, meglio così, ma che non venga a piangere sulla mia spalla... Ma sì, sì, continuò. Lui allora mi dice: «Se commetto un reato, mi manderà in prigione?» E io: «Se si fa sorprendere, se qualcuno sporge denuncia contro di lei e se non può pagare la cauzione, lo faremo di certo. E adesso via, circolare». Lui allora ha preso il recipiente dell’inchiostro dalla mia scrivania e, prima che potessi impedirglielo, l’ha capovolto proprio sopra la cartelletta... Ma è la verità! Perché crede che sia stato accusato di danni? L’inchiostro è finito tutto sui miei calzoni... Sì, anche violenza e percosse! Sono saltato giù dalla predella per farlo ragionare, e lui mi ha sferrato un calcio negli stinchi e mi ha mollato un pugno in un occhio... No, che non me lo invento. Venga qui, se non ci crede, e dia un’occhiata alla mia faccia... Uno di questi giorni finirà davanti al magistrato. Credo giovedì, più o meno... Si becca novanta giorni, come minimo, a meno che il parere degli psichiatri non sia un altro. Per conto mio, il suo posto è in manicomio... Ufficialmente, è John Smith. È il solo nome che ha dato... No, signore, non verrà rilasciato senza che vengano compiuti i passi legali necessari... D’accordo, faccia pure, se crede! Io mi limito a fare il mio dovere.

Mankiewicz scaraventò giù il ricevitore, lo guardò come se volesse incenerirlo, poi lo afferrò di nuovo e cominciò a comporre un numero. Disse: — Giannetti? — ebbe la risposta che desiderava e cominciò a parlare.

— Che cos’è la C.E.A.? Ho parlato con un tale, per telefono, il quale dice d’essere... No, testone, non scherzo affatto. Se avessi voglia di scherzare, metterei fuori i manifesti. Allora, che roba sono quelle lettere?

Ascoltò, disse: — Grazie — con voce mogia mogia, e riattaccò. Aveva perso un po’ del suo colorito abituale.

— Il secondo era il capo della Commissione per l’Energia Atomica — spiegò a Brown. — Da Oak Ridge, devono avermi messo in comunicazione con Washington. Brown si alzò. — Forse questo John Smith è ricercato dall’F.B.I. Forse è uno dei soliti scienziati. — Si sentiva in vena di fare della filosofia. — Certa gente andrebbe tenuta all’oscuro dei segreti atomici. Le cose andavano bene fin tanto che il generale Groves era il solo a sapere della bomba atomica. Ma da quando hanno messo di mezzo questi maledetti scienziati, invece...

— Uff, e piantala — ringhiò Mankiewicz.

Il dottor Oswald Grant teneva gli occhi fissi sulla riga bianca che divideva la carreggiata e trattava la macchina come un nemico personale. Faceva sempre così. Era alto e nervoso, con un’espressione chiusa stampata sulla faccia. Le sue ginocchia quasi toccavano il volante e le nocche diventavano bianche ogni volta che affrontava una curva.

L’ispettore Darrity sedeva accanto a Grant con le gambe accavallate, tanto che la suola della sua scarpa sinistra era schiacciata contro la portiera. Una volta levato il piede di là, sarebbe rimasta un’impronta di polvere. Darrity giocherellava con un temperino, lanciandolo da una mano all’altra. In precedenza, aveva cercato di darsi una pulitina alle unghie con la lama affilata e lucente, ma uno scossone improvviso per poco non gli era costato un dito, e così aveva lasciato perdere.

— Cosa sa dirmi di questo Ralson?

Il dottor Grant distolse per un attimo gli occhi dalla strada, poi ve li riportò.

— Lo conosco da quando si è laureato a Princeton — rispose con un certo disagio.

— È un uomo molto brillante.

— Sì, eh? Brillante. Come mai voialtri, uomini di scienza, vi descrivete a vicenda come “brillanti”? Non ci sono, tra voi, le mediocrità?

— Sì molte. Io, per esempio. Ma Ralson non lo è. Lo chieda a chi vuole. A Oppenheimer. A Busch. Era il più giovane, ad Alamogordo.

— D’accordo. Era brillante. E nella vita privata?

Grant aspettò. — Non saprei.

— Lo conosce fin da Princeton. Quanti anni sono?

Stavano viaggiando da un paio d’ore lungo la strada che da Washington si dirigeva a nord, e avevano scambiato sì e no qualche parola. Ora Grant sentiva che l’atmosfera stava cambiando, che la legge lo afferrava per il colletto.

— Si è laureato nel quarantatré.

— Lo conosce da otto anni, allora.

— Sì, esatto.

— E non sa niente della sua vita privata?

— La vita privata di un uomo appartiene a lui solo, ispettore. Ralson non è molto socievole. Del resto pochi lo sono, nel nostro ambiente. Lavorano sempre sotto pressione e, quando sono lontani dalla loro attività, non ci tengono a coltivare le conoscenze di laboratorio.

— Le risulta che appartenesse a qualche organizzazione?

— No.

— Ha mai detto qualcosa da cui si potesse dedurre che non fosse leale?

— No! — urlò Grant, e per un poco regnò il silenzio.

Poi, Darrity domandò: — È importante, Ralson, nella ricerca atomica?

Grant si chinò più che mai sul volante.

— Importante quanto può esserlo un singolo scienziato. Nessuno è indispensabile, questo è chiaro, ma Ralson è sempre stato considerato un tipo fuori del comune. Ha la mentalità dell’ingegnere, lui.

— Che cosa significa?

— Voglio dire che non è un grande matematico, dal punto di vista della teoria pura, ma sa escogitare i congegni che permettono l’applicazione pratica dei calcoli altrui. In questo campo, non c’è nessuno che gli stia alla pari. Più di una volta, ispettore, ci siamo trovati alle prese con un problema senza avere il tempo di studiarci sopra. Stavamo tutti lì a guardarci in faccia, senza sapere che pesci pigliare, finché

Ralson ci pensava un momento e diceva: «E se provaste a fare così-e-così?» Poi se ne andava. Non gli interessava neppure sapere se la cosa aveva funzionato. Ma funzionava, immancabilmente. Magari alla fine ci saremmo arrivati anche noi, ma ci sarebbero voluti mesi di tempo. Io non so come faccia. E non serve a niente domandarglielo. Ti guarda e dice: «Ma è ovvio» e ti pianta in asso. Naturalmente, una volta che lui ci ha mostrato come fare, diventa ovvio per tutti. L’ispettore lo lasciava parlare. Quando capì che l’altro aveva finito, domandò: — L’avrebbe detto un tipo strano, mentalmente? Bizzarro, voglio dire; imprevedibile?

— Quando uno è un genio, non ci si aspetta certo che sia normale, le sembra?

— Forse no. Ma fino a che punto era anormale, questo particolare genio?

— Praticamente non parlava quasi mai. A volte, non lavorava nemmeno.

— Come? Se ne stava a casa e andava a pescare?

— No. Veniva in laboratorio; ma se ne stava seduto al suo tavolo. Tutto lì. A volte continuava così per settimane. Non ti rispondeva, quando gli parlavi; non ti guardava neppure.

— Aveva mai piantato lì il lavoro, alla lettera?

— Prima d’ora? Mai! — Aveva mai dichiarato di volersi suicidare? O detto di non sentirsi al sicuro, se non in galera?

— No.

— È sicuro che questo John Smith sia Ralson?

— Quasi al cento per cento. Ha una bruciatura sulla guancia destra dovuta ad una sostanza chimica, ed è una cicatrice inconfondibile.

— Va bene! Vuol dire che gli parlerò e sentirò un po’ che tipo è. Il silenzio ritornò, e in modo definitivo, questa volta. Il dottor Grant si concentrò sulla linea bianca e l’ispettore Darrity continuò a giocherellare col temperino, facendolo saltare da una mano all’altra.

La guardia carceraria parlò brevemente nel citofono, poi alzò gli occhi sui due visitatori.

— Possiamo farlo portare qui, ispettore. È lo stesso.

— No. — Il dottor Grant scuoteva la testa. — Andiamo noi da lui. Darrity domandò: — È normale per Ralson, dottor Grant? Si aspetta forse che aggredisca la guardia mentre lo accompagna fuori dalla cella?

— Non saprei — rispose Grant.

La guardia carceraria allargò la mano callosa. Il suo grosso naso si arricciò un poco.

— Finora non abbiamo preso alcuna decisione per lui, a causa di quel telegramma da Washington; ma, francamente, il suo posto non è qui. Sarò ben contento di togliermi questa responsabilità.

— Lo vedremo in cella — concluse Darrity.

Si avviarono lungo il corridoio nudo, interrotto soltanto da porte a sbarre. Occhi spenti, privi di curiosità, seguivano il loro passaggio. Il dottor Grant si sentiva accapponare la pelle.

— È stato tenuto qui per tutto questo tempo?

Darrity non rispose.

La guardia, che li precedeva di qualche passo, si fermò.

— La cella è questa.

— È il dottor Ralson, quello? — domandò Darrity.

Il dottor Grant fissò in silenzio la figura stesa sulla branda. Al loro arrivo, l’uomo si era sollevato su un gomito e sembrava raggomitolarsi su se stesso come se volesse sparire dentro la parete. Aveva capelli radi e stopposi, una figura magra e sottile e occhi di un azzurro intenso ma privi di espressione. Sulla guancia destra c’era una chiazza rossa, in rilievo, che da un lato si assottigliava e finiva a punta.

— È Ralson — disse Grant.

La guardia aprì la porta ed entrò nella cella ma l’ispettore Darrity, con un cenno, gli intimò di aspettare fuori. Ralson li osservava, muto. Aveva sollevato entrambi i piedi sulla branda e continuava a strisciare all’indietro. Deglutiva e il pomo di Adamo gli andava su e giù.

— Il dottor Elwood Ralson? — domandò tranquillamente Darrity.

— Che cosa volete? — La voce, cosa un po’ sorprendente, era baritonale.

— Le dispiacerebbe seguirci? Avremmo alcune domande da rivolgerle.

— No! Lasciatemi in pace! — Dottor Ralson — disse Grant — sono stato mandato qui per chiederle di ritornare al lavoro.

Ralson guardò l’altro scienziato e nei suoi occhi, per un attimo, balenò qualcosa che non era paura.

— Salve, Grant — disse. Si alzò dalla branda. — Senta, ho cercato di ottenere che mi rinchiudessero in una cella imbottita. Non potrebbe convincerli anche lei? Mi conosce, Grant. Sa bene che non chiederei mai una cosa se non la ritenessi più che necessaria. Mi aiuti. Non sopporto le pareti di cemento. Mi fanno sentire il desiderio di... sbattere... — col palmo della mano diede un gran colpo contro l’intonaco grigio e duro, dietro la branda.

Darrity sembrava pensoso. Tirò fuori il temperino e ne estrasse la lama lucida. Con cura, si pulì l’unghia del pollice, domandando intanto: — Non vuole consultare un medico?

Ma Ralson non gli rispose. Seguiva il luccichio del metallo e le sue labbra si schiudevano a poco a poco. Il respiro gli si era fatto rauco ed affannoso.

— Metta via! — disse.

Darrity lo guardò. — Che cosa?

— Il coltello. E non lo tenga davanti a me. È una vista che non sopporto.

— Perché no? — disse Darrity. Mostrava il temperino. — Cos’ha di male? È un bel temperino, questo.

Ralson si slanciò. Darrity indietreggiò e la sua mano destra si abbatté sul dell’altro. Sollevò il temperino in aria.

— Cosa c’è, Ralson? Che cosa vuole?

Grant emise un’esclamazione di protesta, ma Darrity gli fece cenno di tacere.

— Che cosa vuole, Ralson? — ripeté.

Ralson tentò di allungarsi per afferrare il coltello, poi si piegò sotto la stretta implacabile dell’ispettore.

— Mi dia quel temperino.

— Perché, Ralson? Che cosa vuole farne?

— La prego. Devo averlo... — supplicava, ora. — Devo smettere di vivere.

— Vuole morire?

— No. Ma devo! Darrity gli diede una spinta. Ralson barcollò all’indietro e finì sopra la branda, che cigolò rumorosamente. Lentamente, Darrity richiuse il temperino e se lo mise in tasca. Ralson si era coperto la faccia. Le spalle gli tremavano ma, a parte questo, era perfettamente immobile.

Arrivavano grida dal corridoio, mentre gli altri carcerati reagivano al baccano che proveniva dalla cella di Ralson. La guardia ritornò di corsa, gridando: — Zitti! — man mano che avanzava.

Darrity alzò la testa.

— È tutto a posto, guardia.

Si stava asciugando le mani con un fazzolettone bianco.

— Penso — disse — che gli occorra un medico.

Il dottor Gottfried Blaustein era piccolo e bruno e parlava con accento vagamente austriaco. Gli sarebbe bastata una barbetta per impersonare la caricatura dello psichiatra, visto dall’uomo della strada. Ma era rasatissimo e vestito con la massima cura. Guardava attentamente Grant, soppesandolo, facendo mentalmente osservazioni e deduzioni. Gli veniva spontaneo, ormai, con chiunque gli capitasse di incontrare.

— Mi ha tracciato una specie di quadro — disse. — Ha descritto un uomo di grande talento, forse di genio. Mi dice che si è sempre sentito a disagio con gli altri; che non si è mai perfettamente adattato all’ambiente dei laboratori, anche se là aveva toccato l’apice del successo. Esiste un altro ambiente al quale si sia adattato?

— Non capisco.

— Non capita a tutti noi di essere così fortunati da trovare un tipo di compagnia a noi congeniale nel posto o nel campo in cui riteniamo necessario guadagnarci da vivere. Spesso, uno cerca di rifarsi suonando uno strumento, o facendo del podismo, o iscrivendosi ad un circolo. In altre parole, uno si crea un nuovo tipo di società, quando non lavora, nella quale possa sentirsi più a suo agio. Non occorre che abbia alcun nesso con l’attività che svolge quando lavora. È un modo di evadere, e non è necessario che sia un vizio.

Sorrise e aggiunse: — Io, per esempio, colleziono francobolli. Sono un membro attivo della Società Americana dei Filatelici.

Grant scosse la testa.

— Non so che cosa facesse durante le ore di riposo. Dubito che avesse un’attività sul genere di quelle che lei ha citato.

— Uhmmm. Bene, sarebbe un vero peccato. La distensione e lo svago si trovano dovunque li si cerchi, ma bisogna pure trovarli da qualche parte, no?

— Ha già parlato con il dottor Ralson?

— Dei suoi problemi? No.

— E non lo farà?

— Oh, sì. Ma è qui da una settimana appena. Bisogna prima dargli la possibilità di riaversi. Era in uno stato di grande eccitazione, quando è arrivato; quasi in delirio. Lasciamo che si riposi e si abitui al nuovo ambiente. Dopo, lo interrogherò.

— Sarà possibile convincerlo a ritornare al lavoro?

Blaustein sorrise. — Come posso saperlo? Non so nemmeno quale sia la sua malattia.

— Non potrebbe liberarlo almeno del male peggiore: di questa mania suicida, voglio dire, e pensare poi al resto della cura mentre lui lavora?

— Forse. Per adesso non potrei nemmeno avanzare un parere, senza prima avere avuto diversi colloqui con lui.

— Quanto tempo pensa che ci vorrà?

— In queste cose, dottor Grant, è impossibile pronunciarsi. Grant congiunse le mani, battendole l’una contro l’altra.

— Faccia quello che ritiene più opportuno, allora. Ma la cosa è più importante di quanto possa immaginare.

— Non metto in dubbio. Ma forse lei potrebbe aiutarmi, dottor Grant.

— Come?

— Procurandomi alcune informazioni che potrebbero anche essere classificate come segreto di stato.

— Informazioni di che genere?

— Vorrei conoscere il tasso dei suicidi, dal 1945 a oggi, tra gli scienziati nucleari. Inoltre, quanti di loro hanno lasciato i loro impieghi per dedicarsi ad attività scientifiche d’altro tipo, o per abbandonare addirittura la scienza.

— C’entra con Ralson, tutto questo?

— Non pensa che potrebbe essere un male professionale, quella sua terribile infelicità?

— Ecco... molti di noi hanno lasciato i loro incarichi, naturalmente.

— Perché “naturalmente”, dottor Grant?

— Devo spiegarle come stanno le cose, dottor Blaustein. Negli ambienti della ricerca atomica si vive sottoposti a continue pressioni e soffocati dalla burocrazia. Si ha a che fare con il Governo; si ha a che fare con i militari. Uno non può parlare del suo lavoro; deve stare sempre attento a quello che dice. Naturalmente, quando si presenta l’occasione di un incarico universitario, dove è possibile fissare il proprio orario, svolgere il proprio lavoro, scrivere saggi che non debbano essere sottoposti alla C.E.A., partecipare a convegni che non si svolgano a porte chiuse, la si afferra al volo.

— E si abbandona per sempre il proprio campo di specializzazione.

— Restano sempre le applicazioni di natura civile. Intendiamoci, c’è stato anche un collega che se n’è andato per un’altra ragione. Una volta mi confidò che di notte non poteva dormire. Diceva di udire centinaia di migliaia di lamenti che venivano da Hiroshima, tanto che non aveva più il coraggio di spegnere la luce. L’ultima volta che ebbi sue notizie, era commesso in un negozio di abbigliamento.

— E lei, lamenti non ne ha mai sentiti?

Grant accennò di sì con la testa. — Non è piacevole sapere che sia pure una parte infinitesimale di responsabilità per la distruzione atomica potrebbe essere nostra.

— E Ralson, come la pensava?

— Non aveva mai fatto discorsi del genere.

— In altre parole, se ne soffriva, non aveva neppure la valvola di sicurezza dello sfogo con i colleghi.

— Penso di no.

— Eppure, la ricerca nucleare va continuata, vero?

— E come!

— Come si comporterebbe, dottor Grant, se sentisse di dover fare qualcosa senza averne la forza?

Grant accennò una stretta di spalle. — Non saprei.

— C’è gente che si uccide, piuttosto.

— Allora è questo che affligge Ralson?

— Non lo so. Come faccio a saperlo? Parlerò stasera stessa con il dottor Ralson. Non posso prometterle niente, intendiamoci, ma per quanto mi sarà possibile la terrò informata.

Grant si alzò. — Grazie, dottore. Cercherò di procurarle quei dati che le servono.

L’aspetto di Elwood Ralson era migliorato, dopo una settimana trascorsa nella casa di cura del dottor Blaustein. Le guance gli si erano riempite e non appariva più così teso e inquieto. Era senza cintura e senza cravatta. Non aveva i lacci alle scarpe.

— Come si sente, dottor Ralson? — chiese Blaustein.

— Riposato.

— È stato trattato bene?

— Non posso lamentarmi, dottore.

Blaustein mosse distrattamente la mano cercando il tagliacarte col quale era solito giocherellare durante i momenti di pausa, ma le sue dita non incontravano niente. Era stato messo via, naturalmente, insieme a qualsiasi altro oggetto tagliente o appuntito. Non c’era niente sullo scrittoio, ora: soltanto carte.

— Si accomodi, dottor Ralson. E i suoi sintomi, come vanno?

— Vuol dire se sento ancora quello che lei chiama impulso suicida? Sì. Migliora o peggiora, a seconda dei miei pensieri, credo. Ma è sempre presente. Non può fare niente per aiutarmi.

— Forse ha ragione. Spesso ci sono cose che non posso alleviare. Ma vorrei sapere tutto il possibile di lei. È un uomo importante...

Ralson sbuffò.

— Non è d’accordo su questo punto? — domando Blaustein.

— No, non sono d’accordo. Non esistono uomini importanti, proprio come non esistono batteri importanti presi in senso individuale.

— Non capisco.

— Né io me l’aspettavo.

— E tuttavia, mi sembra che dietro la sua affermazione debba esserci stato un lungo ragionamento. Sarebbe indubbiamente di grande interesse che lei mi dicesse qualcosa di questo ragionamento.

Per la prima volta, Ralson sorrise. Non era un sorriso amabile.

— È divertente osservarla, dottore. Procede nel suo compito con tanto scrupolo... Lei deve ascoltarmi, dico bene? e deve farlo con quell’aria di falso interesse e di untuosa simpatia. Io potrei dirle le cose più ridicole ed essere ugualmente sicuro del suo ascolto. Non è così?

— Non pensa che il mio interesse possa essere reale, pur ammesso che sia di natura professionale?

— No, non lo credo affatto.

— Perché no?

— Non vale la pena di discuterne.

— Preferisce ritornare in camera?

— Se non le dispiace. Anzi, no! — La sua voce improvvisamente si caricò di collera mentre si alzava di scatto, e, immediatamente, si rimetteva a sedere.

— Perché non dovrei servirmi di lei? Non mi piace parlare con gli altri. Sono tutti stupidi. Non vedono più in là del loro naso. Si perdono per ore su cose che saltano agli occhi, ma che per loro non hanno alcun significato. Se parlassi con loro, non capirebbero; perderebbero la pazienza; riderebbero. Mentre lei è tenuto ad ascoltarmi. È il suo mestiere. Non può interrompermi per darmi del matto, anche se in cuor suo lo pensa.

— Sarò ben felice di ascoltarla, qualsiasi cosa voglia dirmi. Ralson respirò profondamente.

— So una cosa da un anno, ormai, che ben pochi hanno scoperto. Forse è qualcosa che nessun essere vivente conosce. Sa che i progressi della cultura umana avvengono a ondate? Nel corso di due generazioni, in una città di trentamila uomini liberi, si ebbero abbastanza geni letterari ed artistici di prima grandezza da bastare per un secolo, in circostanze normali, a una nazione di milioni di sudditi. Mi riferisco all’Atene di Pericle.

«Ci sono altri esempi. C’è la Firenze dei Medici, l’Inghilterra di Elisabetta, la Spagna degli Emiri cordovani. Vi fu il fiorire di riforme sociali tra gli israeliti dell’ottavo e del settimo secolo prima di Cristo. Capite che cosa voglio dire?

Blaustein assentì. — La storia è un argomento che l’interessa, vedo.

— Perché no? Non c’è niente che mi obblighi a restringere i miei interessi alla disintegrazione nucleare e alle onde d’urto.

— No, no, assolutamente. Continui, prego.

— Da principio, ho pensato che avrei potuto imparare qualcosa di più sulla vera essenza dei cicli storici se avessi consultato uno specialista. Ebbi alcuni colloqui con uno storico di professione. Una perdita di tempo.

— Come si chiamava, quello storico?

— Ha importanza?

— Forse no, se preferisce tenere le cose per sé. Che cosa le disse?

— Disse che avevo torto; che la storia sembrava soltanto procedere per accessi improvvisi. Disse che, a studiare bene le cose, le grandi civiltà degli Egiziani e dei Sumeri non erano sorte all’improvviso, o dal niente, ma sulla base di una sottocivilizzazione dal lungo sviluppo che aveva già raggiunto un grado di raffinatezza nelle sue arti. Disse che l’Atene di Pericle poggiava sopra una Atene pre-periclea di risultati minori, senza la quale l’Atene di Pericle non sarebbe mai esistita.

«Gli domandai perché non vi fosse stata una Atene post-periclea con risultati ancora più alti, e lui mi spiegò che Atene venne rovinata da una pestilenza e da una lunga guerra con Sparta. Gli domandai di altre esplosioni culturali e ogni volta era una guerra che vi aveva posto termine, o che, in alcuni casi, le aveva perfino accompagnate. Era anche lui come gli altri. La verità era lì; lui non doveva fare altro che chinarsi a coglierla; ma non lo faceva.

Ralson fissò il pavimento, poi riprese a parlare, con voce stanca: — Dottore, a volte, in laboratorio, vengono da me. Mi dicono: «Ralson, come diavolo dobbiamo fare per sbarazzarci del tale effetto che rovina tutti i nostri calcoli?». Mi mostrano gli strumenti, i diagrammi, e io dico: «Ma avete la soluzione sotto il naso. Perché non fate così-e-così? La capirebbe anche un bambino». Poi me ne vado, perché non sopporto l’espressione perplessa delle loro facce ottuse. Più tardi, vengono a dirmi:

«Avevi ragione. Ralson. Come ci sei arrivato?». Ma io non posso spiegarglielo, dottore; sarebbe come spiegare a quello storico che l’acqua bagna. E così non potrei spiegare a quello storico, né posso spiegare a lei. Sarebbe una perdita di tempo.

— Allora preferisce tornare in camera?

— Sì.

Blaustein, dopo che Ralson era stato scortato fuori del suo studio, rimase per diversi minuti seduto, a meditare. Le sue dita aprirono meccanicamente il cassetto in alto a destra e tirarono fuori il tagliacarte. Poi, continuarono a rigirarlo. Alla fine, prese il ricevitore e formò un numero che gli era stato dato e che non figurava sull’elenco.

— Parla Blaustein — disse. — Il dottor Ralson, qualche tempo fa, probabilmente da più di un anno, è andato a consultare uno storico di professione. Non so nemmeno se sia un professore universitario. Se poteste trovarmelo, vorrei parlargli. Thaddeus Milton, dottore in lettere, fissò pensosamente Blaustein e si passò una mano fra i capelli grigi. — Sono venuti da me — disse — e io ho detto che, in effetti, avevo conosciuto quell’uomo. D’altra parte, ho avuto ben poco a che fare con lui. Niente a che fare, anzi, eccettuate poche conversazioni di natura professionale.

— Come andò che si rivolse a lei?

— Mi scrisse una lettera; perché a me, piuttosto che a qualche altro, proprio non saprei. Più o meno in quell’epoca, una serie di miei articoli era stata pubblicata su una rivista semiculturale destinata a un pubblico abbastanza generico. Forse, avrà avuto occasione di leggerli.

— Capisco. E gli articoli quale argomento trattavano, in generale?

— Erano considerazioni sulla validità dei cicli nella visione storica. Vale a dire, se si possa realmente dire che una particolare civiltà debba seguire fasi di sviluppo e di declino in tutto analoghi a quelli riguardanti gli esseri singoli.

— Ho letto Toynbee, dottor Milton.

— Bene, allora sa di che cosa parlo.

— E quando il dottor Ralson è venuto a consultarla — disse Blaustein — l’ha fatto in riferimento ai cicli nella visione storica?

— Mah! Sotto un certo aspetto, direi di sì. Naturalmente, Ralson non è uno storico e alcuni suoi concetti sugli andamenti culturali sono piuttosto drammatici e... come dire...? a carattere sensazionale. Scusi, dottore, se le faccio una domanda che potrà sembrare scorretta. Il dottor Ralson è uno dei suoi pazienti?

— Il dottor Ralson non sta molto bene ed è affidato alle mie cure. Questo, e altro che potrà venir detto qui, è confidenziale, s’intende.

— Stia tranquillo. Capisco benissimo. Tuttavia, la sua risposta mi spiega alcune cose. Alcune idee di Ralson rasentavano l’irrazionale. Si preoccupava molto, così mi è parso, del rapporto tra quelli che lui chiamava "accessi culturali" e le calamità di vario genere. Ora, tali rapporti sono stati notati con frequenza. Il momento di massima vitalità di una nazione può spesso coincidere con una fase di grande insicurezza nazionale. L’Olanda costituisce un buon esempio. I suoi grandi artisti, uomini di stato ed esploratori appartengono alla prima parte del diciassettesimo secolo, periodo in cui l’Olanda era impegnata in una lotta mortale con la massima potenza europea di allora, la Spagna. Mentre sul territorio nazionale la distruzione sembrava imminente, l’Olanda si stava costruendo un impero nell’Estremo Oriente e si era creata basi sulla costa settentrionale del Sud America, sulla punta meridionale dell’Africa e nella Valle dell’Hudson, nell’America del Nord. La sua flotta mise in crisi l’Inghilterra. E poi, una volta trovata la propria stabilità politica, ecco che cominciò a declinare.

«Bene, come dicevo, non è un fatto insolito. I gruppi, come gli individui, s’innalzano a incredibili altezze in risposta ad una sfida, mentre, in assenza di una sfida, vegetano. Dove il dottor Ralson si allontanava dal sentiero della logica, tuttavia, era nell’insistere che tale teoria tendesse a confondere la causa con l’effetto. A sentir lui, non erano i momenti di guerra e di pericolo a stimolare gli “accessi culturali”, bensì viceversa. Affermava che, ogni qualvolta un gruppo di individui mostrava troppa vitalità e abilità, una guerra si rendeva necessaria per distruggere la possibilità di un loro ulteriore sviluppo.

— Capisco — disse Blaustein.

— Mi dispiace ma... per poco non gli risi in faccia. Forse sarà per questo che non ha mantenuto l’ultimo nostro appuntamento. Proprio verso la fine dell’ultima seduta, lui mi domandò, e non le dico con quanta serietà e convinzione, se non giudicassi strano che una specie assurda come la razza umana dominasse la Terra, quando tutto quello che l’uomo aveva in suo favore era l’intelligenza. Al che, risi apertamente. Forse ho fatto male, povero diavolo.

— È stata una reazione naturalissima — disse Blaustein. — Ma non voglio farle perdere altro tempo. Mi è stato di grande aiuto, professore. Si strinsero la mano, poi Thaddeus Milton prese congedo.

— Bene — disse Darrity — ecco qui i dati sui recenti suicidi tra il personale scientifico. Riesce a cavarne qualche deduzione?

— Dovrei farla io, questa domanda — obiettò gentilmente Blaustein. — Senza dubbio l’F.B.I. avrà indagato a fondo.

— Può scommetterci l’intero debito nazionale, su questo. Sono suicidi autentici. Non c’è alcun dubbio. Il tasso è quattro volte superiore al normale, tenuto conto dell’età, della condizione sociale e del livello economico.

— E per quanto riguarda gli scienziati inglesi?

— Suppergiù la stessa cosa.

— E l’Unione Sovietica?

— E chi lo sa? — L’investigatore si protese in avanti. — Dottore, non penserà che i sovietici abbiano una specie di raggio capace di invogliare la gente al suicidio, vero?

Certo è un po’ sospetto che solo gli addetti alle ricerche atomiche vadano soggetti a questa tendenza.

— Sospetto? Forse no. I fisici nucleari potrebbero essere soggetti a una particolare carica di tensione. È difficile dirlo senza aver compiuto uno studio accurato.

— Vuol dire che i complessi potrebbero cominciare a farsi sentire? — domandò Darrity, cauto.

Blaustein fece una smorfia.

— La psichiatria sta diventando troppo popolare. Tutti parlano di complessi, di nevrosi, di psicosi, di coercizioni e via discorrendo. Il complesso di colpa di un individuo equivale, per un altro, a una buona dormita. Se potessi parlare con ciascuno di quelli che si sono suicidati, forse potrei sapere qualcosa.

— Ma parla con Ralson.

— Già, parlo con Ralson.

— Ce l’ha, lui, il complesso di colpa?

— Non molto accentuato. Ha un passato dal quale non mi meraviglierei se gli provenisse un morboso desiderio di morte. A dodici anni, vide la madre morire travolta da un’automobile. Poi, il padre gli morì lentamente, di cancro. Tuttavia, l’effetto di quelle esperienze sui suoi problemi attuali non è molto chiaro. Darrity prese il cappello.

— Bene, dottore, vorrei che accorciasse un po’ i tempi. C’è qualcosa di grosso, in pentola, di ancor più grosso della Bomba H. Non so che cosa ci potrebbe essere di più grosso di così, eppure... c’è.

Ralson insisté per rimanere in piedi. — Ho passato una notte pessima, dottore.

— Spero che queste sedute non la turbino — disse Blaustein.

— Be’, forse sì. Mi riportano alla mente l’argomento. Le cose peggiorano, quando ci penso. Che effetto fa secondo lei, dottore, sentirsi parte di una coltura microbica?

— Veramente non ci ho mai pensato. Ad un batterio, probabilmente, deve sembrare assolutamente normale.

Ralson non udì. Continuò lentamente: — Una coltura in cui viene studiata l’intelligenza. Noi studiamo ogni sorta di cose per quanto riguarda i loro rapporti genetici. Prendiamo le mosche della frutta e incrociamo quelle dagli occhi rossi con quelle dagli occhi bianchi per vedere che cosa succede. Non c’importa niente degli occhi rossi e degli occhi bianchi, ma cerchiamo di estrarne alcuni basilari principi genetici. Capisce quello che voglio dire?

— Certamente.

— Perfino negli esseri umani, possiamo seguire varie caratteristiche fisiche. C’è il “labbro” degli Asburgo e l’emofilia che, partendo dalla Regina Vittoria, si è sviluppata nei suoi discendenti tra le famiglie reali russa e spagnola. Possiamo perfino seguire le caratteristiche di ebetismo e di criminalità di antiche famiglie americane. Sono cose che s’imparano al liceo. Ma non si possono riprodurre gli esseri umani come si fa con le mosche della frutta. Gli uomini vivono troppo a lungo. Occorrerebbero secoli per trarre delle conclusioni. È un vero peccato non avere una razza speciale di uomini che si riproducano a intervalli di settimane, no?

Aspettò la risposta dell’altro, ma Blaustein si limitava a sorridere. Ralson continuò: — Soltanto che è esattamente quello che saremmo tutti noi per un altro gruppo di esseri il cui arco vitale si estendesse per migliaia di anni. Per loro, noi ci riprodurremmo abbastanza velocemente. Saremmo creature dalla vita breve e loro potrebbero studiare il meccanismo genetico di caratteristiche come il talento musicale, la mentalità scientifica e così via. Non che queste cose sarebbero interessanti per loro in quanto tali, proprio come non c’interessano, in quanto tali, gli occhi bianchi della mosca della frutta.

— È un concetto molto interessante — disse Blaustein.

— Non è soltanto un concetto. È la verità. Per me, salta agli occhi, e non m’importa di come la vede lei. Si guardi attorno. Guardi questo pianeta, la Terra. Per quale ragione dovremmo essere noi i signori del mondo quando non ci sono riusciti i dinosauri? D’accordo, noi siamo intelligenti, ma che cos’è l’intelligenza? La riteniamo importante perché l’abbiamo. Se il dinosauro avesse potuto scegliere la qualità capace, secondo lui, di assicurare il dominio della sua specie, avrebbe indicato la dimensione e la forza. E non avrebbe avuto tutti i torti, del resto.

«L’intelligenza, in sé, non vale molto ai fini della sopravvivenza. L’elefante se la cava molto male a paragone del passero, e sì che è molto più intelligente. Il cane tira avanti abbastanza bene, sotto la protezione dell’uomo, ma non quanto la mosca comune, contro la quale ogni mano umana è pronta ad alzarsi. Oppure, prendiamo i primati nel loro insieme. I più piccoli cercano di sparire davanti al nemico; i più grandi riescono a stento a cavarsela. Quello che se la passa meglio di tutti è il babbuino, e questo grazie ai suoi denti, non al suo cervello. Un sottile velo di sudore copriva la fronte di Ralson.

— Ed è facile vedere che l’uomo è stato fatto su misura, secondo le precise indicazioni degli esseri che ci studiano. Generalmente, i primati hanno una vita breve. Naturalmente, i più grandi vivono più a lungo; è una regola abbastanza diffusa nella vita animale. Tuttavia, l’essere umano ha un arco di vita che è il doppio di quello delle grandi scimmie: più a lungo perfino di quello del gorilla, che pure pesa più di lui. Noi maturiamo più lentamente. È come se fossimo stati volutamente allevati per vivere un po’ più a lungo, così che il nostro ciclo vitale fosse di durata più conveniente.

Balzò in piedi, scuotendo il pugno verso l’alto. — Mille anni sono come ieri... Blaustein schiacciò in fretta un bottone.

Per un attimo, Ralson si divincolò per sottrarsi all’inserviente vestito di bianco che era entrato, poi si lasciò trascinare via.

Blaustein lo seguì con lo sguardo, scuotendo la testa, poi si attaccò al telefono. Si fece passare Darrity.

— Ispettore, tanto vale che lo sappia. La faccenda minaccia di andare per le lunghe.

Ascoltò, poi scrollò la testa. — Lo so. Non minimizzo l’urgenza. La voce nel ricevitore era aspra e metallica. — Sì che la minimizza, dottore. Le manderò il dottor Grant. Penserà lui a spiegarle la situazione.

Grant s’informò di come stesse Ralson, poi, quasi a malincuore, domandò se poteva vederlo. Blaustein accennò garbatamente di no.

Grant disse: — Sono stato incaricato di illustrarle la situazione attuale riguardo alle ricerche atomiche.

— In modo che io possa capire, vero?

— Lo spero. È un passo disperato, dottore. Debbo ricordarle...

— Di non farne parola con anima viva. Sì, lo so. Quest’insicurezza da parte vostra è un gran brutto sintomo. Dovreste pur sapere che queste cose non si possono tenere nascoste.

— Viviamo immersi nella segretezza. Ed è contagiosa.

— Appunto. Qual è il segreto del momento?

— C’è... o almeno, potrebbe esserci una difesa contro la bomba atomica.

— E questo è un segreto? Sarebbe meglio che venisse gridato subito ai quattro venti.

— Per amor del Cielo, no! Mi ascolti, dottor Blaustein. Per adesso, è solo sulla carta. È ancora allo stadio: E = mc², si può dire. Sarebbe un guaio dare adito a speranze, col rischio di doverle deludere. D’altro canto, se si sapesse che siamo quasi in possesso di una difesa, potrebbe nascere il desiderio di scatenare e vincere una guerra prima che la difesa sia completamente sviluppata.

— Questo non lo credo. Ma comunque non voglio distrarla. Qual è la natura di questa difesa, o mi ha già detto il massimo che poteva darmi?

— No, posso spingermi fin dove crede; fin dove sarà necessario per convincerla che dobbiamo riavere Ralson... e presto!

— Bene, parli allora, così anch’io conoscerò qualche segreto. Mi sentirò come un membro del Gabinetto.

— Pochi ne sapranno quanto lei. Aspetti, dottor Blaustein, lasci che mi spieghi in linguaggio da profano. Finora, i progressi militari erano andati avanti quasi di pari passo sia nel campo offensivo sia in quello difensivo. Già una volta era sembrato che la bilancia dovesse pendere in maniera definitiva e permanente in favore dell’offesa, e fu quando fu inventata la polvere da sparo. Ma la difesa riconquistò il terreno perduto. Il cavaliere in armatura medievale divenne il moderno carrista, e il castello di pietra si trasformò nel fortino di cemento armato. La stessa cosa, in sostanza, tranne che tutto era stato aumentato di diversi ordini di grandezza.

— Benissimo. Riesce a essere molto chiaro. Ma, con la bomba atomica, saltano fuori altri ordini di grandezza, è così?

— Esattamente. Solo che non possiamo fare mura sempre più spesse. Abbiamo esaurito i materiali sufficientemente robusti. Perciò, dobbiamo abbandonare i materiali. Se l’atomo attacca, dobbiamo far sì che l’atomo difenda. Ci serviremo dell’energia stessa; un campo di forza.

— E che cosa sarebbe — domandò gentilmente Blaustein — un campo di forza?

— Vorrei poterlo spiegare. Per adesso è un’equazione sulla carta. L’energia può venire incanalata in modo da creare un muro di inerzia immateriale, almeno in teoria. In pratica, non sappiamo come fare.

— Sarebbe un muro che non può essere sfondato, è così? Nemmeno dagli atomi.

— Nemmeno dalle bombe atomiche. Il solo limite alla sua resistenza sarebbe la quantità di energia che potremmo immettervi. Sempre in teoria, sarebbe impermeabile perfino alle radiazioni. I raggi gamma rimbalzerebbero lontano. Quello che noi sogniamo è uno schermo che andrebbe collocato in permanenza intorno alle città; a un’intensità minima, usando un quantitativo quasi inesistente di energia. Ma potrebbe essere portato all’intensità massima in una frazione infinitesima di secondo, facendo interferire una radiazione a onda corta; diciamo l’energia che si irradia da una massa di plutonio abbastanza grande per essere un’ogiva atomica. Tutto questo è teoricamente possibile.

— E perché vi serve Ralson?

— Perché è il solo che possa tradurre la cosa in pratica, ammesso che sia possibile, con sufficiente rapidità. Al giorno d’oggi, ogni minuto è prezioso. Sa quale sia la situazione internazionale. La difesa atomica deve arrivare prima della guerra atomica.

— È così sicuro di Ralson?

— Sono sicuro di lui nella misura in cui è possibile essere sicuri di qualcosa. È un uomo incredibile, dottor Blaustein. Ha sempre ragione. Nessuno, nel nostro campo, riesce a spiegarsi come faccia.

— Una specie di intuito, no? — Lo psichiatra sembrava turbato. — Una sorta di ragionamento che vada al di là delle normali capacità umane?

— Non mi arrischio neppure a cercare di stabilire cosa sia.

— Lasci, allora che gli parli ancora una volta. Poi le farò sapere.

— Bene. — Grant si alzò, come per prendere congedo; poi, quasi ripensandoci, disse: — Vorrei avvertirla, dottore, che se non farà qualcosa, la Commissione ha intenzione di togliere il dottor Ralson dalle sue mani.

— Per tentare con un altro psichiatra? Se desiderano farlo, naturalmente, non sarò io ad oppormi. Sono del parere, tuttavia, che nessun professionista serio potrà asserire che esista una cura rapida.

— Non alludevo ad ulteriori cure mentali. Ralson potrebbe essere semplicemente rimesso al lavoro.

— In questo caso, dottor Grant, mi opporrò con tutte le mie forze. Non caverete niente da lui. E sarà la sua morte.

— Non caviamo niente da lui in nessun modo.

— Ma così resta almeno una speranza, no?

— Speriamo. Ma, tra parentesi, non faccia cenno neppure al fatto che ho parlato di portare via Ralson. — Non lo farò, e grazie per avermi avvertito. Arrivederci, dottor Grant.

— L’ultima volta mi sono comportato da idiota, vero, dottore? — disse Ralson. Sembrava accigliato.

— Vuol dire che non crede più a quello che aveva detto?

— Ci credo! — L’esile persona di Ralson tremò per l’intensità di quell’affermazione.

Poi Ralson corse alla finestra, e Blaustein fece ruotare un poco la poltrona, per non perderlo d’occhio. Ma c’erano le sbarre, alla finestra. Non era possibile saltar giù. Quanto ai vetri, erano infrangibili.

Il crepuscolo si spegneva e stavano spuntando le prime stelle. Ralson le fissava, affascinato, poi si girò verso Blaustein e puntò un dito verso l’esterno.

— Ogni singola stella è un’incubatrice. Loro ne mantengono la temperatura al grado desiderato. Esperimenti diversi; temperature diverse. E i pianeti non sono che enormi colture, contenenti svariati “brodi” nutrienti e svariate forme di vita. Gli sperimentatori – chiunque essi siano – seguono criteri economici. Hanno coltivato molti tipi di vita in questa particolare provetta. I dinosauri in un’era umida e tropicale, e noi umani tra i ghiacciai. Accendono e spengono il sole, e noi qui, a cercare di studiarne le leggi fisiche! Leggi fisiche! — Tese le labbra, come se ringhiasse.

— Non è possibile che il sole venga acceso e spento a volontà — obiettò Blaustein.

— Perché non è possibile? Il sole è come l’elemento riscaldante di un forno. Crede che i batteri sappiano come funziona il calore che arriva fino a loro? Che cosa ne sappiamo? Forse anche loro sviluppano teorie. Forse hanno le loro cosmogonie sulle catastrofi cosmiche. Forse pensano che un creatore benefico li rifornisca di cibo e di calore, dicendo loro: «Crescete e moltiplicatevi».

«Noi ci riproduciamo come loro, senza sapere perché. Obbediamo alle cosiddette leggi di natura, che poi sono soltanto la nostra interpretazione di forze incomprensibili alle quali siamo soggetti.

«E ora, stanno lavorando al più grosso esperimento che avessero finora tentato. È in atto da ben duecento anni. Gli sperimentatori, nel millesettecento, decisero di sviluppare una tendenza all’attività meccanica. L’esperimento è partito dall’Inghilterra e noi l’abbiamo chiamato Rivoluzione Industriale. Prima c’è stato il vapore, poi l’elettricità, adesso gli atomi. L’esperimento era interessante ma gli sperimentatori hanno rischiato un po’ troppo nel lasciarne dilagare gli effetti. Ed ecco perché dovranno essere molto drastici nel mettervi fine.

— E in che modo avrebbero in programma di concluderlo? — domandò Blaustein.

— Ha un’idea, in proposito?

— Lo domanda a me, come vogliono concluderlo? Può guardarsi attorno, e vedere dov’è arrivato il mondo, e tuttavia domanda a me che cosa metterà fine alla nostra era tecnologica. La Terra intera teme una guerra atomica e farebbe qualsiasi cosa pur di evitarla; eppure, la Terra intera pensa che una guerra atomica sia inevitabile.

— In altre parole, gli sperimentatori, che lo vogliamo o no, disporranno in modo che la guerra atomica ci sia, per distruggere l’era tecnologica in cui ci troviamo e ricominciare tutto da capo. È così, vero?

— Sì. Ed è logico. Quando noi sterilizziamo uno strumento, lo sanno, i germi, da dove viene il calore che uccide? O che cosa l’ha prodotto? Esiste un modo mediante il quale gli sperimentatori possono aumentare il calore delle nostre passioni; un modo in cui possono manovrarci, che sfugge alla nostra comprensione.

— Mi dica — domandò Blaustein — È per questo che vuole morire? Perché pensa che la distruzione della civiltà stia per sopraggiungere e non possa essere evitata?

— Non voglio morire — disse Ralson — solo che... devo, capisce? — I suoi occhi esprimevano tormento. — Dottore, se avesse una coltura di bacilli altamente pericolosi e da tenere sotto assoluto controllo, non ricorrerebbe a una specie di schermo gelatinoso impregnato di... di penicillina, diciamo, da disporre a una certa distanza tutto attorno al centro di inoculazione? Qualsiasi germe si avventurasse un po’ troppo lontano dal centro, morirebbe. Non avrebbe niente contro quel particolare germe rimasto distrutto; potrebbe perfino ignorare che qualche germe si fosse spinto fin là. Sarebbe un fatto puramente automatico.

«Dottore, c’è un anello di penicillina intorno ai nostri intelletti. Quando ci spingiamo troppo in là; quando penetriamo il vero significato della nostra esistenza, abbiamo sconfinato nella penicillina e dobbiamo morire. L’effetto è lento: però è difficile sottrarvisi. — Sorrise brevemente, con tristezza. — Potrei ritornare in camera mia, ora, dottore?

Il giorno dopo, verso mezzogiorno, il dottor Blaustein salì nella stanza di Ralson. Era una cameretta molto simile a una cella. Le parti imbottite erano grigie. I materassi giacevano direttamente sul pavimento imbottito. Non c’era nessun oggetto metallico, nella stanza; niente che potesse essere utilizzato per togliersi la vita. Perfino le unghie di Ralson erano tagliate ben corte.

Ralson si alzò. — Salve!

— Buongiorno, dottor Ralson. Possiamo parlare un momento?

— Qui? Non posso neppure offrirle una sedia.

— Non importa, resterò in piedi. Faccio un lavoro sedentario e mi fa bene, ogni tanto, rimanere un po’ in piedi. Dottor Ralson, ho pensato tutta la notte a quello che m’ha detto ieri e nei giorni scorsi.

— E ora vuole sottopormi a una cura per liberarmi di quelle che, secondo lei, sono fissazioni.

— No. Vorrei piuttosto farle delle domande e forse farle notare alcune conseguenze delle sue teorie, conseguenze alle quali... mi perdona se lo dico...? alle quali forse non ha pensato.

— Davvero?

— Vede, dottor Ralson, da quando mi ha esposto le sue teorie, anch’io, ormai, so quello che sa lei. Eppure, io non penso affatto a suicidarmi.

— La convinzione è qualcosa di più della cognizione, dottor Blaustein. Dovrebbe credere a quelle teorie con tutto il suo essere, e non è il suo caso.

— Non pensa che possa trattarsi piuttosto di un fenomeno di adattamento?

— In che senso?

— In fondo lei non è un biologo, dottor Ralson. E sebbene, come fisico, sia eccezionalmente brillante, non ha pensato a tutto quello che può accadere a quelle colture batteriche di cui si serve come analogia. Come sa, è possibile ottenere colture di microbi resistenti alla penicillina o a qualsiasi altro veleno.

— Ebbene?

— Gli sperimentatori che ci allevano hanno lavorato con l’umanità per molte generazioni, no? E questa particolare tendenza che stanno coltivando da due secoli non mostra in alcun modo di volersi estinguere spontaneamente. Al contrario, sembra una vena piuttosto vitale e molto infettiva. Tentativi più antichi di coltura intensiva vennero confinati in singole città o in aree limitate e durarono soltanto una generazione o due. Stavolta, le caratteristiche si estendono a tutto il mondo. È una tendenza molto infettiva. Non pensa che i bacilli, stavolta, possano avere sviluppato l’immunità contro la penicillina? In altre parole, i metodi che gli sperimentatori usano per spazzar via la coltura potrebbero non funzionare più come una volta. Ralson scosse la testa. — Su di me, funzionano.

— Forse lei non è resistente. O è incappato in una concentrazione di penicillina particolarmente densa. Pensi a tutti coloro che stanno cercando di mettere al bando gli armamenti atomici e di stabilire forme di governo mondiale allo scopo di ottenere una pace durevole Gli sforzi sono aumentati, in questi ultimi anni, e i risultati si cominciano a vedere.

— Nessuno è ancora riuscito a impedire lo scoppio di una guerra atomica.

— No, ma forse tutto quello che manca è un altro piccolo sforzo. Gli avvocati della pace non si uccidono. Cresce di continuo il numero di umani immunizzati contro gli sperimentatori. Sa che cosa stanno facendo, nel suo laboratorio?

— Non voglio saperlo.

— Ma deve saperlo, invece. Stanno cercando di creare un campo di forze che fermi la bomba atomica. Dottor Ralson, se io coltivo un batterio virulento e patologico, può anche capitarmi, pur con tutte le precauzioni, di scatenare un’epidemia. Per gli sperimentatori, saremo batteri, non discuto, ma siamo lo stesso pericolosi, o non ci spazzerebbero via con tanta cura dopo ogni esperimento.

«Loro non sono rapidi, vero? Per loro, un millennio è un giorno, vero? Prima che loro si accorgano che siamo sfuggiti dal “brodo”, diciamo così, e che abbiamo superato lo sbarramento di penicillina, potrebbe essere troppo tardi per fermarci. Ci hanno portato fino all’atomo e, se solo riusciamo a impedire a noi stessi di usarlo gli uni contro gli altri, potremmo rivelarci pane troppo duro perfino per i denti degli sperimentatori. — Ralson si alzò dal materasso. Sebbene non fosse alto, superava Blaustein di qualche centimetro.

— Davvero stanno lavorando a un campo di forza?

— Stanno cercando. Ma hanno bisogno di lei.

— No. Io non posso.

— Devono averla là, perché possa subito aiutarli in cose che per lei sono evidenti. Per loro, non sono evidenti affatto. Ci pensi, occorre il suo aiuto, altrimenti... sarà la prima disfatta dell’uomo per mano degli sperimentatori.

Ralson mosse rapidamente alcuni passi, fissando la parete grigia e imbottita.

— Ma la disfatta deve esserci — mormorò. — Se gli umani costruissero quel campo di forze, sarebbe la fine per tutti loro prima di poterlo completare.

— Alcuni di loro potrebbero essere immuni, no? E, in ogni caso, per loro sarà la fine ugualmente. Perciò stanno tentando.

— Cercherò di aiutarli — disse Ralson.

— Sente sempre il desiderio di uccidersi?

— Sì.

— Ma cercherà di non farlo, vero?

— Mi sforzerò di non farlo, dottore. — A Ralson tremavano le labbra. — Ma bisognerà sorvegliarmi continuamente.

Blaustein salì gli scalini e presentò il lasciapassare alla guardia dell’atrio. Era già stato sottoposto a ispezione al cancello esterno ma ora la sua persona, il suo lasciapassare e la sua firma venivano fatti oggetto di un nuovo controllo. Dopo un momento, la guardia si ritirò nel suo sgabuzzino e fece una telefonata. La risposta fu soddisfacente. Blaustein si mise a sedere e, mezzo minuto dopo, era di nuovo in piedi per stringere la mano al dottor Grant.

— Lo stesso presidente degli Stati Uniti avrebbe difficoltà ad arrivare quassù, no?

— disse Blaustein.

Lo scienziato sorrise. — Proprio così, se venisse senza preavviso. Presero un ascensore che li portò fino al dodicesimo piano. L’ufficio verso il quale Grant fece strada aveva finestre che si affacciavano su tre lati. Era isolato acusticamente e ad aria condizionata. I mobili di noce erano ben tenuti e lucidissimi.

— Santo Cielo — commentò Blaustein — sembra l’ufficio di un presidente di consiglio d’amministrazione. La scienza comincia ad assomigliare all’alta finanza. Grant sembrava imbarazzato. — Sì, lo so, ma il denaro dello stato scorre facilmente ed è difficile persuadere un congressista che fai un lavoro importante se non gli fai toccare con mano la superficie esterna.

— Blaustein sedette e si sentì sprofondare lentamente nella poltrona imbottita.

— Il dottor Elwood Ralson — annunciò — acconsente a riprendere il lavoro.

— Meraviglioso! Speravo tanto che mi dicesse questo.

Come ispirato dalla buona notizia, Grant offrì un sigaro allo psichiatra, che rifiutò.

— Tuttavia — disse Blaustein — È sempre un uomo molto malato. Dovrà essere trattato con cura e con infinite precauzioni.

— Sì, certo. È naturale.

— Forse non sarà semplice come pensa. Voglio parlarle un poco dei problemi di Ralson, affinché possa comprendere quanto sia delicata la situazione. Continuò a parlare e Grant l’ascoltò da principio preoccupato, poi stupefatto.

— Ma allora quell’uomo è pazzo, dottor Blaustein. Non ci servirà a niente. È uscito completamente di senno.

Blaustein si strinse nelle spalle.

— Dipende da come vogliamo definire la pazzia. “Pazzo” è una brutta parola, io non la uso mai. Ralson ha delle fissazioni, siamo d’accordo. Ma è impossibile stabilire se queste influiscano o meno sul suo talento.

— Ma senza dubbio! Nessun uomo sano di mente potrebbe...

— La prego, la prego! Non lanciamoci in una discussione sulle definizioni psichiatriche di sanità mentale e via dicendo. Il nostro uomo ha delle idee fisse e, in circostanze normali, mi guarderei bene dal prenderle sul serio. Solo che, a quanto mi è dato capire, l’abilità particolare di quest’uomo sta nel procedere alla soluzione di un problema grazie a ragionamenti che pare esulino dai processi logici normali. È così, no?

— Sì. Questo bisogna riconoscerlo.

— E allora come possiamo, lei e io, giudicare il valore di una delle sue conclusioni? Lasci che glielo domandi, ha provato impulsi suicidi, ultimamente?

— Non mi pare.

— E gli altri scienziati, qui?

— No, no, che idea! — Consiglierei, tuttavia, che mentre procedono le ricerche sul campo di forze, gli scienziati impegnati in tale senso vengano sorvegliati qui e a casa. Sarebbe anzi una buona misura non lasciarli neppure andare a casa. Uffici come questo, per esempio, potrebbero essere adibiti a dormitori...

— Dormire in laboratorio? Non acconsentirebbero mai.

— Oh, sì. Se non dirà loro la vera ragione, e dirà invece che si tratta di una misura di sicurezza, acconsentiranno. Al giorno d’oggi, “misura di sicurezza” è una parola meravigliosa, no? E Ralson dovrà essere sorvegliato più di chiunque altro.

— S’intende.

— Ma tutto questo è secondario. Va fatto solo per mettere in pace la mia coscienza, nell’eventualità che le teorie di Ralson fossero esatte. In effetti, io non ci credo: sono soltanto fissazioni. Ma, una volta stabilito questo, è necessario domandarsi quali siano le cause di tali fissazioni. Che cosa c’è nella mente di Ralson, nel suo passato, nella sua vita, che gli rende così necessario soffrire di quelle particolari fissazioni? Non è una risposta semplice da dare. Potrebbero essere necessari anni di costante psicanalisi per trovare la soluzione. E, finché non l’avremo trovata, Ralson non guarirà.

«Ma, nel frattempo, possiamo forse avanzare ipotesi intelligenti. Ralson ha avuto un’infanzia molto infelice che, per un verso o per l’altro, l’ha messo faccia a faccia con la morte, e nel modo più sgradevole. In aggiunta, non è mai stato in grado di vivere a contatto con altri bambini o, fatto adulto, con altri uomini. Le loro forme di ragionamento, più lente, riuscivano solo a spazientirlo. Qualunque sia la differenza tra la sua mente e quella degli altri, questa differenza ha eretto una barriera tra lui e la società, impenetrabile quanto il campo di forza che state tentando di progettare. Per ragioni analoghe, non ha potuto godere di una normale vita sessuale. Non si è mai sposato; non ha mai avuto donne.

«È facile capire come possa avere tentato di compensare la mancanza di contatti umani rifugiandosi nel pensiero che gli altri essere umani sono inferiori a lui. Il che è vero, naturalmente, almeno per quanto riguarda le facoltà intellettive. Ma la personalità umana ha infinite sfaccettature, e non in tutte lui è superiore. Nessuno lo è.

«Altri, perciò, disposti anche loro a vedere soltanto quello che è inferiore, proprio come nel suo caso, non avranno accettato la sua ostentata superiorità. L’avranno giudicato strano, o addirittura ridicolo, il che avrà reso anche più importante, per Ralson, dimostrare fino a che punto la specie umana fosse miserabile e inferiore. E

quale mezzo migliore per riuscirci, del dimostrare che l’umanità era soltanto un insieme di batteri per altre creature d’ordine superiore, che su questi batteri eseguivano esperimenti? A questo punto, i suoi impulsi suicidi possono essere spiegati come un desiderio selvaggio di sottrarsi completamente al fatto d’essere un uomo; di mettere fine all’identificazione con la specie miserabile creata dalla sua stessa mente. Capisce?

Grant assentiva. — Povero diavolo.

— Sì, è un peccato. Se fosse stato curato come si deve, nell’infanzia... Bene, è consigliabile che il dottor Ralson non abbia contatti con il resto del personale. È troppo malato per essere lasciato in mezzo agli altri. Lei, personalmente, deve disporre in modo da essere l’unico a vederlo o a parlargli. Il dottor Ralson è d’accordo, su questo. A quanto pare, ritiene che lei non sia stupido come la maggior parte degli altri.

Grant sorrise debolmente. — Mi fa piacere.

— Naturalmente, dovrà stare molto attento. Non discuterete d’altro che di lavoro. Se dovesse spontaneamente esporle le sue teorie, ma ne dubito, si limiterà a risposte vaghe, senza compromettersi, e si allontanerà. E deve assolutamente tenerlo lontano da qualsiasi oggetto tagliente o appuntito. Non gli permetta di avvicinarsi alle finestre. Non lo perda d’occhio. Lei mi capisce: io affido il mio paziente alle sue cure, dottor Grant.

— Farò del mio meglio, dottor Blaustein.

Per due mesi, Ralson visse in un angolo dell’ufficio di Grant, e Grant visse con lui. Le finestre erano state munite di inferriate, i mobili di legno sostituiti con divani imbottiti. Ralson faceva le sue riflessioni seduto sul divano e i suoi calcoli su un blocco appoggiato sopra un cuscino.

Il cartello “Non disturbare” era appeso in permanenza alla maniglia esterna. I pasti venivano lasciati nel corridoio. La toilette attigua all’ufficio era stata destinata a uso privato, e la porta che comunicava con l’ufficio era stata tolta. Grant si era procurato un rasoio elettrico. Si assicurava che Ralson prendesse ogni sera le pillole per dormire e non si coricava finché l’altro non si era addormentato. E, sempre, i rapporti venivano sottoposti a Ralson. Lui li leggeva mentre Grant l’osservava senza averne l’aria.

Poi, Ralson li lasciava cadere e fissava il soffitto, facendosi schermo agli occhi con una mano.

— Niente? — domandava Grant.

Ralson scuoteva la testa.

Un giorno Grant disse: — Senta, farò sgomberare completamente l’edificio. È importante che veda alcune delle strutture sperimentali che abbiamo montato. Così fecero, vagabondando attraverso gli stanzoni deserti e illuminati, come due fantasmi, mano nella mano. Si tenevano sempre per mano. La stretta di Grant era forte. Ma, dopo ogni giro, Ralson continuava a scuotere la testa. Una mezza dozzina di volte parve accingersi a scrivere; ogni volta scarabocchiava qualcosa, poi scaraventava il cuscino da un lato.

Finché, un bel giorno, cominciò a scrivere e riempì mezza pagina rapidamente. Con gesto automatico, Grant si avvicinò. Ralson alzò la testa, coprendo il foglio di carta con mano tremante.

— Chiami Blaustein — disse.

— Come?

— Ho detto di chiamare Blaustein. Lo faccia venire qui. Subito!

Grant corse al telefono. Ralson scriveva rapidamente, ora, fermandosi solo per passarsi sulla fronte il dorso della mano sinistra, che ritirava tutta bagnata. Ad un tratto guardò in su e chiese con voce stravolta: — Viene?

Grant sembrava preoccupato. — In studio non c’è.

— Lo cerchi a casa. Lo trovi, dovunque sia. Usi quel telefono. Non ci giochi. Grant lo usò; e Ralson girò un’altra pagina del blocco.

Cinque minuti dopo, Grant disse: — Sta venendo. Che cosa c’è, Ralson, si sente male?

Ralson poteva parlare solo a fatica. — Non ho tempo... Non posso parlare. Scriveva, vergando alla meglio, scarabocchiando, tracciando diagrammi tremolanti. Era come se stesse lottando, spingendo le sue mani a muoversi.

— Dètti! — lo sollecitò Grant. — Scriverò io.

Ralson lo respinse. Le sue parole erano incomprensibili. Si teneva il polso con la sinistra, spingendolo come fosse stato un pezzo di legno, e alla fine crollò sui fogli. Grant glieli sfilò piano piano di sotto e lo aiutò a distendersi sul divano. Continuò a stargli vicino, inquieto e senza sapere cosa fare, finché non arrivò Blaustein.

Blaustein diede un’occhiata e domandò: — Che cos’è successo?

— Credo sia vivo — disse Grant, ma nel frattempo Blaustein se n’era già accertato da sé e Grant gli raccontò quello che era successo.

Blaustein praticò un’iniezione, poi aspettarono. Ralson aveva gli occhi aperti, ma senza espressione. Gemeva.

Blaustein si chinò su di lui. — Ralson.

Brancolando, alla cieca, Ralson afferrò una mano dello psichiatra.

— Dottore. Mi porti via.

— Sì. Subito. È riuscito a progettare quel campo di forze, è così?

— È tutto sulla carta. Grant, è sulla carta.

Grant aveva in mano i fogli e li stava scorrendo, dubbioso. Ralson aggiunse, debolmente: — Non è tutto lì. È tutto quello che posso scrivere. Dovrà ricavarlo da lì. Mi porti via, dottore!

— Aspetti — disse Grant. Poi a Blaustein, bisbigliando concitatamente: — Non potrebbe lasciarlo qui finché non avremo fatto delle prove? Non riesco a decifrare quasi niente di quello che c’è scritto qui. La scrittura è illeggibile. Gli domandi che cosa gli fa credere che la cosa funzionerà.

— Domandare a lui? — disse Blaustein, gentilmente. — Non è lui quello che ha sempre ragione?

— Domandatemelo lo stesso — disse Ralson, che, dal punto dove era sdraiato, sul divano, aveva sentito. I suoi occhi si erano fatti all’improvviso sbarrati, ardenti. I due si girarono.

Ralson disse: — “Loro” non vogliono un campo di forze. “Loro”! Gli sperimentatori! Finché non avevo un’idea chiara della soluzione, le cose rimanevano stazionarie. Ma non ho fatto in tempo a intravedere il delinearsi dell’idea – l’idea che ora è là, su quei fogli – e a seguirla per pochi secondi, che ho sentito... ho sentito... Dottore...

— Che cosa c’è? — disse Blaustein.

Ralson aveva ripreso a bisbigliare: — Sono sempre più immerso nella penicillina. Mi accorgevo di sprofondarci dentro, mano a mano che il problema si avviava alla soluzione. Non sono mai stato immerso a... a tal punto. Ecco come ho capito che l’idea era esatta. Mi porti via.

Blaustein si raddrizzò.

— Dovrò portarlo via, Grant. Non c’è altro da fare. Se riesce a decifrare quello che ha scritto, bene. Se non ci riesce, non posso in nessun modo aiutarla. Quest’uomo non può svolgere altro lavoro nel suo campo senza lasciarci la vita, lo capisce?

— Ma — obiettò Grant — sta morendo per qualcosa di immaginario.

— D’accordo, ammettiamo pure che sia così. Ma alla fine sarà morto ugualmente, no?

Ralson era di nuovo privo di sensi e non udiva niente di tutto questo. Grant lo guardò con espressione cupa, poi disse: — E va bene, dottore, se lo porti via. Dieci tra gli uomini più importanti dell’Istituto guardavano perplessi mentre, sullo schermo illuminato, sfilavano una alla volta le diapositive. Grant, con espressione dura e accigliata, stava loro di fronte.

— Credo che il concetto sia abbastanza semplice — disse. — Siete matematici ed ingegneri. Quegli scarabocchi potranno sembrarvi illeggibili, ma sono stati tracciati seguendo un concetto ben preciso. Quel concetto deve essere presente per forza nello scritto, per quanto sia distorta la scrittura. La prima pagina è abbastanza chiara: dovrebbe essere già un ottimo spunto. Ciascuno di voi studierà a lungo ogni pagina. Dovrete annotare ogni possibile versione di ogni foglio. Ognuno lavorerà per conto suo. Non voglio che vi consultiate.

Uno di loro domandò: — Ma, Grant, come sa che quei fogli significano qualcosa?

— Perché sono appunti di Ralson.

— Di Ralson! Credevo che fosse...

— Credeva che fosse ammalato — disse Grant. Doveva quasi gridare per coprire il brusio che si era levato fra i presenti. — Lo so. E lo è infatti. Quella è la scrittura di un uomo molto vicino a spegnersi. È tutto l’aiuto che potremo avere da Ralson, quello. In quegli scarabocchi, c’è la soluzione al problema del campo di forze. Se non riuscirete a trovarla, dovremo forse perdere dieci anni per cercarla altrove. Si chinarono sul loro lavoro. La sera passò. Passarono due giorni, tre giorni... Grant guardò i risultati. Scosse la testa.

— Se lei mi dice che c’è una soluzione, ci credo. Per conto mio, non riesco a vederla.

Lowe che, in assenza di Ralson, poteva senz’altro essere considerato il migliore ingegnere nucleare dell’Istituto, accennò una stretta di spalle.

— Neppure per me è molto chiaro. Se funziona, Ralson non ha spiegato il perché.

— Non ha avuto tempo di spiegarlo. Si può costruire il generatore così come lui lo descrive?

— Posso tentare.

— Le dispiacerebbe esaminare tutte le altre interpretazioni di quei fogli?

— Le altre sono decisamente inconsistenti.

— Ma controllerà, tanto per precauzione?

— Sì, certo.

— E la costruzione la inizierà subito?

— Metterò all’opera il personale. Ma le confesso francamente che sono pessimista.

— Lo so. Anch’io.

L’impianto prese forma. Hal Ross, il tecnico più anziano, venne messo a capo della costruzione, e da quel momento smise di dormire. A qualsiasi ora del giorno o della notte, lo si poteva trovare sul posto, intento a grattarsi la testa calva. Soltanto una volta fece delle domande.

— Che diavolo è, dottor Lowe? Non abbiamo mai costruito niente del genere. A che cosa dovrebbe servire?

— Sa bene dove si trova, Ross — rispose Lowe. — Sa che qui non si fanno domande.

Ross non domandò più niente. Si sapeva, però, che odiava la struttura in costruzione. La definiva orrenda e innaturale. Ma restava al suo posto. Blaustein telefonò, un giorno.

— Come sta Ralson? — s’informò Grant.

— Non bene. Vuol presenziare al collaudo del Proiettore di Campo da lui disegnato.

Grant esitò.

— È giusto, in fondo. Lo dobbiamo a lui.

— Dovrei venire anch’io ad accompagnarlo.

Grant era sempre più incerto. — Potrebbe essere pericoloso, sa. Perfino in una prova di collaudo pilota, ci troveremo a scherzare con un quantitativo spaventoso di energia.

— Non sarà più pericoloso per noi che per voi — osservò Blaustein.

— Benissimo. L’elenco degli osservatori dovrà essere approvato dalla Commissione e dall’F.B.I., ma includerò anche lei.

Blaustein si guardò intorno. Il proiettore di campo era sistemato proprio al centro del vastissimo laboratorio di collaudo, ma tutto il resto era stato sgomberato. Non c’era nessuna connessione visibile con la pila al plutonio che serviva da fonte di energia, ma stando a quello che lo psichiatra aveva intuito dai discorsi che si facevano lì intorno – Blaustein si guardava bene dal fare domande a Ralson – la connessione si trovava al di sotto.

Da principio, gli osservatori avevano girato intorno alla macchina, facendo commenti incomprensibili, ma ora si stavano allontanando. La galleria si riempiva a poco a poco. Dall’altro lato c’erano almeno tre uomini in uniforme da generale, e tutto un seguito di ufficiali di grado superiore. Blaustein scelse un punto ancora deserto presso la balaustra; per amore di Ralson, più che altro.

— È sempre del parere di restare? — domandò.

Faceva piuttosto caldo, nel laboratorio, ma Ralson aveva il cappotto addosso, con il bavero rialzato. La precauzione è inutile, si diceva Blaustein. Dubitava che qualcuno potesse riconoscere Ralson, ridotto com’era.

— Sì, resterò — disse Ralson.

Blaustein era contento. Desiderava assistere al collaudo. Si girò di nuovo, nell’udire una nuova voce.

— Salve, dottor Blaustein.

Per un attimo, Blaustein non riuscì a dare un nome all’interlocutore, poi disse: — Ah, ispettore Darrity. Che cosa fa, qui?

— Sono qui per la ragione più ovvia. — Darrity indicò gli osservatori. — Non c’è modo di setacciarli al punto da poter essere sicuri che non si verifichino errori. Una volta, mi sono trovato vicino a Klaus Fuchs come ora mi trovo vicino a lei. Gettò in aria il temperino e, con destrezza, lo riprese al volo.

— Sì, capisco. Dove potremmo trovare la sicurezza assoluta? Quale uomo può fidarsi ciecamente, sia pure della propria coscienza? E stavolta, rimarrà vicino a me, no?

— Sarebbe una precauzione come un’altra. — Darrity sorrise. — Sbaglio o era molto ansioso di essere ammesso qui dentro?

— Non per me, ispettore. E mi farà la cortesia di mettere via quel temperino?

Darrity si girò, meravigliato, nella direzione che Blaustein gli indicava col capo. Poi mise via il temperino e, per la seconda volta, guardò il compagno di Blaustein. Emise un leggero fischio.

— Salve, dottor Ralson — disse.

— Salve — borbottò Ralson, a fatica.

Blaustein non si meravigliò della reazione di Darrity. Ralson aveva perso dieci chili da quando era entrato nella casa di cura. La sua faccia era giallastra e rugosa: la faccia di un uomo che si ritrovava improvvisamente sessantenne.

— Comincerà presto il collaudo? — domandò Blaustein.

— Pare che stiano appunto per iniziare — disse Darrity.

Si voltò e si appoggiò alla balaustra. Blaustein prese Ralson per un braccio e fece l’atto di condurlo via, ma Darrity intimò sottovoce: — Resti qui, dottore. Non voglio che se ne vada in giro.

Blaustein guardò giù nel laboratorio. I tecnici erano fermi qua e là e sembravano a disagio, come se si sentissero impietrire lentamente. Blaustein riconobbe Grant, alto e magro, che accennava di voler accendere una sigaretta, poi cambiava idea e rimetteva in tasca sigaretta e accendino. I giovani tecnici addetti ai quadri di comando aspettavano, con i nervi tesi.

Infine, si udì un leggero ronzio e un lieve odore di ozono si diffuse per l’aria. Ralson, in tono aspro, disse: — Guardate! Indicava con l’indice e Blaustein e Darrity guardarono in quella direzione. Il proiettore irradiava una luminosità tremolante, ed era come se tra loro e l’ordigno si stesse levando dell’aria surriscaldata. Una palla di ferro scendeva dall’alto dondolando, a mo’ di pendolo, e passava attraverso l’area luminosa.

— Ha rallentato, vero? — disse Blaustein, emozionato.

Ralson assentì.

— Stanno misurando a che altezza è salita dall’altro lato per calcolare la perdita di impulso. Sciocchi! L’avevo detto che avrebbe funzionato.

Ralson parlava con evidente difficoltà.

— Si limiti ad osservare, dottor Ralson — raccomandò Blaustein. — Non mi agiterei più del necessario, se fossi in lei.

Il pendolo venne arrestato nel suo dondolio e tirato su. La luminosità del proiettore divenne un po’ più intensa e la sfera venne calata di nuovo. E così di seguito, e ancora, e ogni volta il movimento della sfera veniva rallentato, con una specie di forte strattone. La sfera, nel colpire l’area di luminosità, mandava un suono perfettamente percettibile. E, alla fine, rimbalzò via. Da principio con pesantezza, come se avesse urtato un materiale cedevole; poi, schizzò via come se fosse stata scagliata contro un ostacolo metallico, tanto che tutto il locale risuonò. I tecnici ritirarono il pendolo e non lo usarono più. Il proiettore si distingueva appena, ora, dietro il tremolio luminoso che l’avvolgeva come una nebbia. Grant diede un ordine e l’odore di ozono divenne improvvisamente acuto e pungente. Dagli osservatori si levò un grido, mentre ciascuno scambiava commenti col suo vicino. Molti indici erano puntati.

Blaustein, preso dall’eccitazione generale, si sporgeva dalla balaustra. Dove prima c’era il proiettore, ora si vedeva soltanto un enorme specchio semi-sferico. Era perfettamente, meravigliosamente limpido. Blaustein vide la sua immagine riflessa; un ometto proteso da una balconata che correva via ricurva su due lati. Vedeva le lampade fluorescenti riflesse in macchioline di luce. Tutto era meravigliosamente nitido.

Si mise ad urlare: — Guardi, Ralson. Riflette l’energia. Riflette le onde di luce come uno specchio! Ralson...

Si girò. — Ralson! Ispettore, dov’è Ralson?

— Cosa? — Darrity si voltò di scatto. — Non l’ho visto.

Si guardava attorno, allarmato.

— Bene, non può andare lontano. Non c’è modo di uscire di qui, per ora. Lei cerchi dall’altro lato, dottore.

Poi, si batté una mano sulla coscia, si frugò per un attimo in tasca e mormorò: — Il mio temperino. Non c’è più.

Fu Blaustein a trovare Ralson. Era nell’interno del piccolo ufficio appartenente a Hal Ross. La stanza si affacciava sulla balconata ma, naturalmente, date le circostanze, era deserta. Lo stesso Ross non era nemmeno compreso tra gli osservatori. Un meccanico anziano non aveva bisogno di osservare. Ma il suo ufficio era il luogo ideale per mettere fine alla lunga lotta contro il suicidio. Blaustein si arrestò un attimo sulla soglia, in preda a un senso di malessere, poi si voltò. Incontrò lo sguardo di Darrity, mentre quest’ultimo sbucava da un ufficio simile una trentina di metri più in là. Gli fece cenno, e Darrity arrivò di corsa. Il dottor Grant tremava per l’emozione. Aveva già acceso due sigarette, ne aveva aspirato un paio di boccate e subito le aveva schiacciate sotto il tacco. Ora stava armeggiando con una terza.

Intanto, diceva: — È andata meglio di quanto si potesse umanamente sperare. Domani faremo il collaudo con le armi da fuoco. Sono sicuro del risultato, ormai, ma il collaudo è in programma e tanto vale andare fino in fondo. Salteremo le armi più leggere e cominceremo dal bazooka. O magari no. Potrebbe essere necessario costruire una speciale struttura di collaudo per risolvere il problema del rimbalzo. Gettò via la terza sigaretta.

Un generale osservò: — Bisognerà provare con un vero e proprio bombardamento atomico, naturalmente.

— Ah, s’intende. Sono già state prese disposizioni per allestire un modello di città ad Eniwetok. Potremmo costruire un generatore sul posto e poi sganciare la bomba. Nell’interno, ci saranno animali.

— È proprio convinto che, se regoleremo il campo al massimo della sua potenza, sarà sufficiente a trattenere la bomba?

— Non si tratta solo di questo, generale. Finché la bomba non verrà sganciata, il campo praticamente non si avvertirà nemmeno. La radiazione del plutonio dovrà attivare il campo un attimo prima dell’esplosione. Come è stato fatto qui durante l’ultima fase. Consiste in questo l’essenza della trovata.

— Sapete — obiettò un professore di Princeton — io ci vedo degli inconvenienti. Quando il campo è completamente attivato, tutto quello che è sotto la sua protezione viene a trovarsi nell’oscurità totale, almeno per quanto riguarda il sole. E non basta: resta il fatto che il nemico potrebbe adottare la tattica di lanciare missili radioattivi innocui ad intervalli frequenti, al solo scopo di attivare il campo. Sarebbe un’azione di disturbo che scaricherebbe sensibilmente la nostra pila.

— Gli inconvenienti si possono risolvere — disse Grant. — Ora che il problema principale è risolto, sono certo che, un po’ alla volta, potremo eliminare tutte le difficoltà.

L’osservatore inglese si era fatto strada verso Grant e gli stava stringendo la mano.

— Mi sento già più tranquillo sul futuro di Londra — stava dicendo. — Non posso fare a meno di desiderare che il vostro governo mi conceda di prendere visione di tutto il progetto. Quello che ho visto mi è parso assolutamente geniale. Adesso sembra ovvio, naturalmente, ma chi è stato ad avere un’idea simile?

Grant sorrise. — Non è la prima volta che viene fatta una domanda del genere in riferimento agli ordigni progettati dal dottor Ralson...

Si voltò perché qualcuno gli aveva battuto sulla spalla.

— Oh, dottor Blaustein! L’avevo quasi dimenticata. Venga, voglio parlarle. Trascinò da parte il piccolo psichiatra e gli sussurrò nell’orecchio: — Senta, non potrebbe convincere Ralson a lasciarsi presentare a quei signori? Questo è il suo trionfo.

— Ralson è morto — disse Blaustein.

— Cosa?

— Non potrebbe lasciare un momento queste persone?

— Sì... sì... Signori, vogliate scusarmi, scappo per qualche minuto. Grant si allontanò in fretta, con Blaustein.

Gli uomini dell’F.B.I. erano già entrati in azione. Senza darlo a vedere, sbarravano l’ingresso all’ufficio di Ross. Fuori, c’era la folla di coloro che si attardavano a discutere la soluzione al problema di Alamogordo di cui erano appena stati testimoni. Là dentro, ancora ignota a tutti, c’era la morte di colui che aveva risolto il problema. La barriera di agenti si divise per lasciar entrare Grant a Blaustein. Poi, tornò a richiudersi.

Grant sollevò per un attimo il lenzuolo.

— Sembra sereno — disse.

— Direi quasi... felice — mormorò Blaustein.

Darrity dichiarò, con voce spenta: — L’arma del suicidio è stata il mio temperino. È stata colpa mia; lo metterò nel rapporto.

— No, no — disse Blaustein — sarebbe inutile. Era mio paziente e il responsabile sono io. In ogni caso, non sarebbe vissuto ancora per molto. Da quando aveva inventato il proiettore, era un morente.

— Quanto di questa storia deve finire nelle scartoffie federali? — domandò Grant.

— Non potremmo fare finta di niente per quello che riguardava la sua follia?

— Temo di no, dottor Grant — rispose Darrity.

— Ho raccontato all’ispettore tutta la storia — disse Blaustein, con tristezza. Grant guardava ora l’uno ora l’altro, preoccupato.

— Parlerò con il Capo dell’F.B.I. Andrò perfino dal Presidente, se necessario. Non vedo che bisogno ci sia di nominare la pazzia o il suicidio. Ralson otterrà il pieno riconoscimento come inventore del proiettore di campo. È il meno che possiamo fare per lui. — Grant stringeva i denti.

— Ha lasciato un biglietto disse Blaustein.

— Un biglietto?

Darrity porse a Grant un pezzo di carta.

— I suicidi lo fanno quasi sempre. Anche per questa ragione il dottore mi ha detto che cosa realmente ha ucciso Ralson.

Il biglietto era indirizzato a Blaustein e diceva:

Il proiettore funziona; sapevo che avrebbe funzionato. È fatta, ormai. Avete ottenuto quello che volevate e non avete più bisogno di me. Perciò me ne vado. Non dovrete più preoccuparvi per la razza umana, dottore: avevate ragione voi. Ci hanno coltivati troppo a lungo; hanno commesso troppe imprudenze. Siamo fuori del brodo di coltura, ormai, e loro non sono più in grado di fermarci. Lo so. È tutto quello che posso dire. Lo so.

Ralson aveva firmato in fretta e, in calce, aveva scarabocchiato un’altra riga:

Ammesso che vi siano abbastanza uomini resistenti alla penicillina.

Grant fece l’atto di appallottolare il foglio, ma Darrity fu lesto a impedirglielo.

— Quel foglio andrà agli atti, dottore.

Grant glielo diede e disse: — Povero Ralson! Credeva davvero a tutte quelle sciocchezze.

Blaustein assenti. — Ci credeva, sì. A Ralson verranno rese solenni onoranze funebri, suppongo, e verrà fatta pubblicità alla sua invenzione senza che si parli della follia o del suicidio. Ma gli uomini del governo s’interesseranno ugualmente delle sue folli teorie. Del resto, potrebbero non essere tanto folli, vero, ispettore Darrity?

— Ma via, Blaustein, è assurdo — disse Grant. — Non uno degli scienziati che hanno collaborato a questa impresa ha mostrato il minimo segno di inquietudine.

— Glielo dica, ispettore — disse Blaustein.

— C’è stato un altro suicidio — riferì Darrity. — No, no, non si tratta di uno scienziato. Non era neppure un laureato. È accaduto stamattina e abbiamo indagato perché pensavamo che ci fosse qualche rapporto con il collaudo di oggi. Ma pareva che non ce ne fossero, e così volevamo tenere per noi la notizia fino al termine del collaudo. Solo che ora pare che un rapporto ci sia.

«L’uomo che è morto aveva moglie e tre bambini. Nessuna ragione per desiderare la morte. Non aveva mai sofferto di squilibri mentali. Si è gettato sotto una macchina di proposito. Non è morto subito e hanno fatto in tempo a procurargli un medico. Era conciato da far paura, ma riuscì a dire: “Ora mi sento molto meglio”. Poi, è spirato.

— Ma chi era? — gridò Grant.

— Hal Ross. L’uomo che ha costruito materialmente il proiettore. L’uomo che occupava questo ufficio.

Blaustein si avvicinò alla finestra. Nel cielo che si stava facendo buio, cominciavano a spuntare le stelle.

— Quell’uomo — disse — non sapeva niente delle teorie di Ralson. Non aveva mai parlato con Ralson, lui, così m’ha detto l’ispettore. Probabilmente gli scienziati, nel complesso, sono resistenti. Devono esserlo, o ben presto si vedono costretti ad abbandonare la professione. Ralson era un’eccezione, un individuo sensibile alla penicillina che insisteva nel rimanere. Avete visto tutti che cosa gli è successo. Ma che dire degli altri; quelli che avanzano lungo sentieri di vita dove non c’è una selezione costante dei più sensibili? Quanta parte dell’umanità è sensibile alla penicillina?

— Ma lei crede a Ralson? — domandò Grant, inorridito.

Blaustein alzò gli occhi alle stelle.

Incubatrici?