Rabi al-thani

DIARIO DI FRANCES SHORE: 1 Rabi al-thani

Certe volte mi sveglio dicendo, spero che nessuno oggi mi urti i nervi. Certe volte l’aria sembra irrespirabile talmente è spessa.

Dopo la cena la vita va avanti per conto suo. Cucino e facciamo la spesa. Il sabato e la domenica dormiamo fino a tardi, guardiamo un film. Quando sono di buon umore penso ai soldi che si accumulano in banca. Adesso i negozi sono pieni di «alberi di stagione». Nelle ambasciate si tengono delle celebrazioni cantate definite «Incontri per l’assistenza alle famiglie». La parola Natale non deve essere pronunciata ma nessuno può contrastare la discesa della buona volontà su tutti gli uomini.

Andrew mi accusa di mancare di tatto. Dice che secondo lui faccio troppe domande e che forse non ricordo che quando sia arrivati al Capolinea ci avevano detto di stare attenti. Dice che non dovrebbe essermi consentito di uscire nell’androne senza un contingente delle forze di pace dell’ONU.

A sentire le mie vicine, le donne non sono velate per disprezzo ma perché vengono riverite. È per rispetto di sé che si coprono la faccia e il corpo ed è per rispetto nei loro confronti che gli uomini non le guardano. A tutta prima sembra plausibile, ma mi irrita comunque. C’è qualcosa che non va. So cos’è. Non ci credo, punto.

Tutto fila liscio per una quindicina di giorni, poi una parola, un fatto, un episodio da poco innesca una rabbia furiosa. Non do in escandescenze, ovvio, ma a volte piango un po’, quando sono da sola, sapendo che se potessi piangere come si deve, lamentandomi e sciogliendomi in lacrime, non mi sveglierei al mattino con un peso di piombo dentro la testa. Vorrei tirare giù il tetto e far entrare un po’ di luce in casa. Vorrei correre in strada e picchiare la gente. Perdere il controllo. Vorrei avvicinarmi decisa alla prima donna con il velo che mi capita sotto gli occhi e strapparle quel drappo nero dalla faccia stracciandoglielo davanti.

So che sarebbe sbagliato. Ma vorrei tanto farlo.

Andrew dice che quella sensazione di piombo è la sinusite. Dice che si prende vivendo nell’aria condizionata.

 

COMUNICAZIONE CONFIDENZIALE

 

DA: Direttore Turadup, William & Schaper, Regno dell’Arabia Saudita

A: Tutto il personale espatriato residente nel paese

DATA: 2 Rabi’ al-thani / 24 dicembre

Abbiamo ricevuto forti indicazioni, provenienti dai nostri pregevoli e più affidabili contatti, che la polizia si dispiegherà in forze durante la «Stagione delle feste», fornita di etilometri, e che sono previsti posti di blocco volanti con test effettuati in loco. Tutto indica interventi massicci volti a mettere la sordina sulle festività degli espatriati, pertanto vi preghiamo di ricordare che nel caso siate fermati in stato di alterazione la Turadup potrà fare molto poco per voi.

Con i miei più sinceri auguri per le Festività e l’auspicio di un felice e prospero Anno Nuovo...

 

Frances attraversò l’androne e quando suonò il campanello di Yasmin le aprì un enorme sari giallo: la madre di Raji la guardò dall’alto in basso, in silenzio. Non parlava una parola d’inglese, o se anche lo faceva non aprì bocca; e incrociò le braccia sul suo petto matronale, quasi schiacciandolo sotto gli strati di stoffa e le pieghe gialle. Il viso era cascante, gli occhi diretti; la sua figura era lenta, deliberata, pachidermica; da lì a poco magari avrebbe barrito. Sul labbro superiore aveva una frangetta di peluria e le braccia nude fino al gomito sembravano pronte alla lotta.

«Torno dopo», disse Frances.

Ma dopo bussarono alla sua porta e dentro sfrecciò Yasmin, il naso a punta rosso all’estremità, un fazzoletto di pizzo appallottolato in mano. «Oh, mi ucciderà, mi ucciderà», disse. «Ha invitato trenta persone a cena per domani sera. Trova da ridire su tutto, su tutto. Secondo lei Selim è rachitico».

«A me sembra che stia bene», ribatté Frances.

«Dice che non lo faccio mangiare. Lei gli tappa il naso e lo ingozza. Ascolta, Frances, ti prego, informati attraverso le tue amicizie, ci sarà pure una medicina da dargli per farlo crescere?».

«Non mi sembra una buona idea».

«Mi osserva ogni secondo. E Shams ha il muso perché è stata mandata via dalla sua camera».

«E dove dorme?».

«Sul pavimento del soggiorno, è ovvio».

«Ma queste sere i tuoi ospiti non se ne andranno fino alle tre».

Yasmin si strinse nelle spalle, irritata. «Quella che soffre sono io, non Shams, dammi retta. Per quella donna qualsiasi cosa io faccia è sbagliata. Qualsiasi cosa».

«Quanto rimane?».

«Come posso saperlo? Raji dice, è mia madre, finché le pare. Sul serio, Frances, quella donna è cieca di fronte al figlio. È cieca di fronte ai suoi difetti...».

«Speriamo che non la tenga sveglia di notte cantando».

Yasmin la guardò dritta negli occhi, poi congiunse i palmi nascondendo il fazzoletto. Abbassò lo sguardo. «Ti ho interrotta», disse. «Avevo dimenticato che è la vigilia di Natale».

«Domani sera mandami Shams che ti faccio avere un po’ di pudding».

Sulla porta, Yasmin disse sottovoce, con gli occhi rivolti al pavimento: «Frances, non capisco perché devo vivere nella vergogna».

«Ma non ce l’hanno fatta, no?», disse Jeff Pollard. «Non ci sono riusciti o sbaglio? A rovinarci il Natale».

Quello era il giorno della festa, 3 Rabi al-thani. Marion era accasciata contro la sedia, all’altro capo del tavolo. «Mi manca la regina», disse.

Carla la guardò. «Come, scusa?».

«Il suo discorso. Il discorso che tiene», disse l’altra con un sospiro profondo. «Qualcuno dovrebbe dare un’occhiata alle bambine in piscina».

Qualcuno. Ma non io. Marion si sfregò la fronte con la mano intorpidita, sudata, sporca di maionese. «Ci sono un mucchio di avanzi».

«Dalli al guardiano», fece Russel dondolandosi sulla sedia, «così chiama a raccolta tutta la sua ghenga».

«Li vorrà i cavoletti di Bruxelles in insalata?», chiese Frances.

«Vuole qualsiasi cosa».

«Non mangia altro che riso e cipolle», disse Marion. «Risparmia per tornarsene in India».

Erano le quattro del pomeriggio. Le bambine avevano aperto i regali ed erano fuori a tentare di affogarsi l’una con l’altra. Natale, pensò Marion, è uguale ovunque. Ma che caldo, in quel posto c’era un caldo soffocante, e la roba da bere era tossica, dava alla testa. E lei aveva sgobbato come un mulo; ci erano mancate soltanto le decorazioni di Natale, misteriosamente introvabili, e la penuria di patate da fare al forno. I rami dell’albero di plastica erano già impolverati; prima di metterlo via, pensò confusamente, potrei buttarlo sotto la doccia.

«Durante il Ramadan ci rendono la vita uno schifo», disse Jeff. «Si assicurano che non ci passino inosservate le loro feste».

Frances ribatté, scoraggiata: «È il loro paese».

«Non ti capisco». Jeff poggiò il gomito sul tavolo e cominciò a giocherellare con il dado del Credit Suisse; dal soffitto si staccò una stella filante viola che gli penzolò delicatamente sopra la testa. «Non riesco a inquadrarti. Prima te la prendi con questa gente e poi la difendi».

«Senti, io non seguo delle teorie. Valuto questione per questione. Parlo di quello che constato».

«Sempre che», disse Jeff, «tu non li prenda sul serio. E tieni bene a mente che in fondo hai a che fare con dei kebabbari».

Frances si alzò in piedi, si pulì la bocca con il tovagliolo e si tolse il cappello di carta della festa. «Scusatemi», disse. Non avrebbe fatto una scenata ma aveva intenzione di mantenere la promessa. Gettò il tovagliolo sulla sedia e guardò Marion dall’altra parte del tavolo. Lei le restituì lo sguardo, come un’allocca. Frances uscì dalla stanza. Rimase in corridoio cercando di non ascoltare la conversazione e domandandosi se Marion l’avrebbe seguita. Non venne nessuno: né Marion per unirsi alla sua protesta, né Jeff per scusarsi, e neppure suo marito per convincerla a tornare a tavola e avere l’opportunità di spiegare cosa non andava.

Dopo pochi minuti si rese conto che non sarebbe venuto proprio nessuno. Non sapevano che se ne era andata via per protesta. Pensavano semplicemente che fosse in bagno. Ritornò dentro e si risedette rimettendosi il cappello in testa.

Mezz’ora più tardi, mentre le donne riordinavano, arrivarono i Parsons. Facevano il giro delle feste della Turadup; ci tenevano a mitigare l’impressione d’indifferenza che Eric aveva dato con la sua imprescindibile circolare. Perché potesse bere anche lui, quel giorno aveva precettato Hasan. «Salve a tutti, auguri di buone feste», disse a gran voce mentre entrava dalla porta aperta; i piedi lasciavano orme di polvere sulla moquette. Hasan era fuori in macchina, con la portiera aperta e i sandali poggiati nella polvere; parlava in un arabo sbocconcellato con il guardiano e cercava di colpire le mosche che passavano.

«Allora?», chiese perentorio Russel. «Vi hanno fermati?».

«C’era un posto di blocco a King Khalid Street».

«Ah sì, hanno fatto il test dell’alcol a Hasan?».

«Veramente ci hanno soltanto chiesto i documenti. Ci hanno dato un’occhiata e ci hanno lasciati andare».

Russel bofonchiò. «Cercano qualcuno, mi pare. Non gli interessa il beveraggio. Non so, Eric, perché ti fai prendere dalle paturnie. Santo cielo, se ci ripenso... quelle sagre del vino che organizzavano, delle gare vere e proprie­... Andavano a casa di qualcuno, Andrew, tutto fatto a puntino, abito scuro... Veniva l’ambasciatore. Mi ricordo che in una di quelle occasioni si erano presentati gli Arnott, la volta che i sauditi li avevano rilasciati su cauzione».

«Sì», disse Eric Parsons un po’ più brusco del solito, «ma quei giorni sono finiti».

Daphne si allungò sul divano, aggraziata nel vestito di seta; sezionava una tortina ripiena di frutta secca con una forchetta da dolce, scrutando ogni boccone che metteva in bocca. «Le hai fatte tu queste, Frances cara?», chiese. A Marion che girava con delle pile di piatti sporchi disse: «Non hai la lavastoviglie?».

Gli Shore tornarono a casa a piedi. Era l’ora migliore per stare fuori: il cielo dorato e rosa polvere, le luci che si accendevano nelle strade della sera e i fruscii degli altoparlanti delle moschee, il lamento amplificato del muezzin. Durante il fine settimana le auto si spintonano sulla Corniche, mezza città accorre a vedere il tramonto; che a volte cala con velocità impressionante. Nell’entroterra il buio scende ancora più in fretta, il sole declina dietro i grattacieli di cemento. Sulla città si stringe la notte, come se fosse il suo ambiente naturale.

«Ti ricordi il giardino?», chiese Frances. Andrew camminava sul bordo dell’alto marciapiede quasi a voler dimostrare di essere sobrio; lei camminava per strada, trenta centimetri sotto di lui, tenendosi stretta al suo fianco. «Ti ricordi che quella sera, quando siamo andati a fare la spesa, te l’ho fatto notare?».

«Non potrei dire di sì. Dov’era?».

Frances ci pensò. «Non sono sicura, avevo perso l’orientamento».

«Non è da te».

«È stato un po’ di tempo fa». Svoltarono in Al-Suror Street. Delle sagome bianche, ben definite nell’oscurità, si affrettavano verso la moschea. «Ma devi ricordartene, c’era un cancello e una luce dentro, si riusciva a vedere il prato. Ho desiderato tante volte ripassarci davanti».

«Perché?».

«Perché mi piacerebbe vederlo».

Andrew era pronto ad accontentarla; a portarcela immediatamente se voleva. Ma: «Sarà difficile trovarlo, non lo abbiamo già passato?», le disse.

«Non mi sembra».

«Forse abbiamo preso una svolta diversa, o qualcosa del genere, per via dei lavori stradali. Forse invece hanno cambiato i sensi unici, è un continuo».

Dietro al cancello dell’ufficio del Ministero del Pellegrinaggio, in una specie di prolungamento, era accovacciata una guardia notturna; la luce della lampada gli inondava il dhoti e illuminava il viso rivolto a terra, le mani abbandonate fra le ginocchia. Dietro a un muro, invisibili, urlavano i gatti.

«Ma te ne ricordi?», gli chiese lei.

Per un istante Andrew le poggiò la mano sulla spalla, con un gesto delicato, e scese dal marciapiede. «Perché ha importanza?».

«Sapessi quanto ci ho pensato a quel prato. A come sarebbe avere dell’erba vera invece che sintetica. Qui, quando piantano i fiori, sembrano di cera e gli alberi quasi secchi. Veramente non lo hai visto? Non ti ricordi che te l’ho detto?».

«Mi sa di no». Ormai erano al Capolinea, davanti al varco di metallo che si apriva nel muro; Andrew nella semioscurità armeggiò con le chiavi. «Hai visto degli altri topi?», chiese.

«No, li ho sentiti».

«Maledizione». Le chiavi gli caddero sul gradino. Si chinò a raccoglierle. Lei si guardò oltre la spalla, lungo la strada deserta. Ma non era deserta, perché fuori dal negozio di articoli d’informatica, con le serrande chiuse, c’era un uomo in thobe all’ombra del muro; puntava gli occhi in un’altra direzione, la testa era girata verso Medina Road, e in mano, col calcio rivolto verso il marciapiede, aveva un fucile.

«Andrew...».

La voce le morì in gola. Allungò una mano e gli sfiorò la schiena china. Lui si raddrizzò, con le chiavi che tintinnavano, e ne infilò una nella serratura. Si sentì un raschio metallico. «Devo metterci un po’ d’olio», disse. «Inutile aspettare che lo faccia Raji: potrebbe sporcarsi il suo bel vestito». Spinse il cancello ed entrò dentro, dietro il muro. Frances lanciò un’altra occhiata alla strada. L’uomo c’era ancora, immobile. «Dai», le fece lui. Lei distolse a fatica gli occhi ed entrò; Andrew chiuse a chiave il cancello alle sue spalle.

La mattina dopo alle undici suonò il campanello. Frances pensava che fosse Shams con qualche avanzo della cena per trenta, e invece era una visita maschile: un ometto profumato con la barba ispida curata di fresco, il thobe e una valigetta. Sotto il thobe spuntava un ventre prominente e teso che non sembrava tanto parte di lui, quanto il suo bene più prezioso; mentre con gli occhi la scorse da capo a piedi, con la mano libera ci si dava delle piccole pacche sopra. «Salve, signora», disse e allargò un gran sorriso. «Sono il padrone di casa. Viene a presentarmi».

«Piacere».

«Posso entrare e do un’occhiata alla mia proprietà?».

«Sì, se vuole».

Fece qualche passo dentro, poggiò la valigetta e congiunse le mani battendole appena due volte. «Lamentele?». Lo disse come se fosse impossibile; anzi, neppure immaginabile.

«Ci sono i topi», rispose Frances.

«Fuori?», chiese lui repentino.

«Certo, fuori», ammise lei.

«Mi preoccupa solo dentro».

«Sì, capisco».

«Posso giro della casa?».

«Si accomodi». Frances si sedette alla scrivania per riprendere a scrivere il diario; ma quando lui uscì dalla stanza si alzò e vagò inquieta fra le poltrone con le braccia conserte sul petto, per proteggersi.

Appena finito il giro, il padrone di casa tornò in soggiorno con l’espressione soddisfatta. «Le faccio complimenti», disse, «la tiene molto bene. Io sono amante degli inglesi. Da che parte viene?».

«Yorkshire».

«Yorkshire». L’uomo s’accese in viso e si baciò la punta delle dita richiuse verso l’interno del palmo. «So il vostro Yorkshire, so il vostro paese molto bene. Il castello di Windsor, il Tottenham. William Wordsworth, il Bardo dell’Avon. Il vostro famoso ristorante Langan’s Brasserie». Di nuovo la scorse con uno sguardo da capo a piedi. «Signora, quanti figli ha?».

«Quattro», rispose lei, «tutti maschi».

«Congratulazioni», esclamò gongolante. «Eppure, signora, sembra non più di ventun anni». Colse l’occasione per avvicinarsi e sfiorarle appena la vita. Frances si spostò. «Mi vedrà più spesso», promise.

«Non si dimentichi la valigetta».

«La signora dall’altra parte il velo lo porta?».

«Sì e no. Si copre la testa».

«Ah», fece il padrone di casa con uno sguardo devoto. «Allora non disturbo. Non aprirà la porta».

Disturbi me, eh?, brutta carogna untuosetta, pensò Frances. Lo accompagnò alla porta e se la chiuse dietro a chiave. Sperò che lui sentisse la serratura scattare.

DIARIO DI FRANCES SHORE: 8 Rabi al-thani

Sul giornale di oggi un’altra lettera che si chiede se le donne sono la causa del male e del peccato.

I beduini, dice Yasmin, hanno i fucili da caccia e certe volte se li portano in città. Non le ho spiegato il perché della mia domanda.

Finalmente è arrivato il modello di Andrew. Lo avevano bloccato in dogana e lui e Jeff sono dovuti andare a prenderlo all’aeroporto, tirandosi dietro Hasan nel caso ci fosse stato bisogno di allungare qualche mazzetta. Con mia sorpresa lo hanno portato qua e lo hanno messo sul tavolo della sala da pranzo: era un palazzo bianco candido chiuso in una scatola di plexiglas come il giocattolo di un bambino viziato. Loro due avevano l’espressione devastata. Dovrò andare da Russel a farmi prestare il trapano elettrico, ha detto Jeff. Perché, ho detto io, cosa devi farci, qualcosa non va? Il ministro, se lo vede, ha detto Andrew, diventa matto.

E dando un’occhiata da vicino ho visto che era popolato: sulle serpentine di vetro delle scale mobili e sui prati di plastica verde smeraldo c’erano delle donne in miniatura, delle sottilissime dirigenti californiane eleganti, in giacca e pantalone, e delle segretarie appariscenti, altrettanto californiane, con la minigonna e il prendisole attillati che lasciavano scoperte le spalle e una parte del seno di plastica lucidissima.

Andrew camminando avanti e indietro ha chiesto, abbiamo una gruccia di fil di ferro, delle pinzette?

Appena Jeff è tornato, con il trapano hanno fatto un forellino dietro il modello e, legate le pinzette alla gruccia, le hanno infilate dentro. Poi una dopo l’altra hanno afferrato le donne di plastica per la testa e le hanno tirate fuori mentre imprecavano dicendo, ma a Los Angeles che cazzo c’hanno per la testa? Be’, ha fatto Jeff, la mia mattinata è bella che andata. Io ho raccolto le donnine nel palmo della mano. Erano perfette, tutte con gli stessi lineamenti da bambola e il cranio schiacciato.

Jeff è tornato in ufficio ma Andrew, ginocchioni, è rimasto a lungo a osservare il modello con le mani poggiate aperte sul tavolo e il mento posato sopra, come se lo guardasse dal livello della strada. Per incoraggiarlo gli ho detto, adesso è a posto, chiudi il foro con la colla. Lui mi ha risposto che stavano finendo i soldi.

Ero sbalordita, non pensavo che nel Regno avrei mai sentito pronunciare queste parole. È impossibile che i soldi finiscano.

Non ne abbiamo più per pagare i subappaltatori, ha detto, perché il governo saudita non paga noi.

Come mai?

Il petrolio è andato giù e loro tagliano. Ne risentono tutti, tutti i dipartimenti governativi. Sono in guerra l’uno con l’altro per mettere le mani sui contanti.

Ma devono avere delle ampie riserve...

Ovvio, ma la Turadup Arabia Saudita non le ha. Forse per questo mese non mi pagano.

Ma ti pagheranno?

Prima o poi. Stiamo aspettando che ci mandino dei soldi da Riad.

Sembrava preoccupato, depresso. Ha detto, non credo che vedrò mai l’edificio finito. È esattamente come nel resto del mondo, ha detto, hai un sogno ma non te lo lasciano realizzare. Io sognavo questo edificio ancora prima di vedere il progetto dell’architetto, e ancora prima di sentir parlare della Turadup. Ma per loro è solo uno dei tanti investimenti a lungo termine.

L’ho visto riprendere il controllo di sé, grazie a mesi di sforzi compiuti nel silenzio. Non dobbiamo far altro che aspettare, ha detto, far passare il tempo, ma quello che penso, che penso davvero, è che mi hanno fregato. Mi hanno promesso il falso.

Ho infilato le donnine californiane nel cassetto della mia scrivania. Sembravano imperturbabili anche da mutilate. Adesso Andrew comincerà a pensare all’edificio giorno e notte e se ci sarà qualcos’altro su cui arrovellarsi il cervello toccherà a me.

«Devo chiederti una cosa», disse Frances ad Andrew. «Sull’appartamento vuoto. Anche se mi rendo conto che l’argomento potrebbe annoiarti».

«Non ho scoperto niente di nuovo, se è a questo che ti riferisci».

«Pensavo solo che le persone che sanno sembrano molte. La voce, anche se in versioni diverse, è arrivata a tutti i khawaj. E allora questa coppia, quello che fa, non è pericoloso?».

«Lo è, sì», rispose Andrew, «ma forse è un rischio che sono pronti a correre. In questa città non c’è modo di far passare le cose sotto silenzio».

«Vero? Senti, il tizio non ha bisogno di venire qui al Capolinea. Perché lo fa? Lo hai detto anche tu che a Gedda ci sono centinaia di ville vuote e interi caseggiati sfitti».

«Ma metti che posteggi davanti a una casa che dovrebbe essere disabitata, o davanti a una villa vuota ed entri, e magari più di una volta. La gente potrebbe notarlo e cominciare a insospettirsi».

«Questo è giusto. Quindi, venendo qui, potrebbe sembrare che vada a trovare qualcuno».

«In effetti».

«Ma se i nostri vicini lo vedono, o vedono la donna? Ne sono a parte, lo sanno?».

«Yasmin e Samira non gironzolano sulle scale aspettando di attaccare bottone con gli sconosciuti, giusto?».

«Ma Raji? E Abdul Nasr?».

«Magari loro ne sono a parte. Qui si parla di un VIP, non vorranno contrariarlo, no?».

«Ma noi?», chiese Frances. «Come possono contare sulla nostra discrezione?».

«Forse pensano che io tenga troppo al mio stipendio per creare dei problemi».

«E il padrone di casa lo sa?».

«Non credo che esistano delle speciali ricevute d’affitto per gli adulteri».

«Ascolta, Andrew, qui però c’è qualcosa che non va, perché se i khawaj lo sanno e parlano, ci ricamano sopra e ci scherzano, allora vuol dire che lo sanno anche i sauditi, no? Quindi secondo te sarebbe una specie di piccolo complotto a fin di bene: tutti sanno ma chiudono un occhio?».

«Non lo so». Era esasperato; Frances non aveva dubbi che i nervi gli sarebbero saltati nel giro di poco. «Non capisco come ti aspetti che io entri nel cervello di un principino che si fa l’amante. Che c’è, Fran, non hai più polizieschi da leggere? Vuoi andare in biblioteca stasera?».

«Sì, potremmo benissimo. Però mi annoiano, i moventi non mi lasciano mai soddisfatta: nei libri non li approfondiscono abbastanza. Parlano solo di impronte in giardino e del calibro dell’arma dell’assassino ma quello che sarebbe interessante sapere non viene mai alla luce».

«Forse», azzardò Andrew, «è l’appartamento vuoto che non dovrebbe sembrarti tanto interessante».

«Certe volte mi chiedo se non si siano inventato tutto».

«Se lo sia inventato chi?».

«Oh, un espatriato che per noia cerca di movimentarsi un po’ la vita. In fin dei conti questa storia corrisponde a quello che ci piace pensare dei sauditi, che sono degli ipocriti e fanno sempre tutto di nascosto».

«Ad annoiarti però saresti tu, se non ci fosse niente di vero. Chissà se il tizio di sopra ha idea di quanto tempo passiamo a parlare di lui».

«Non riesco a immaginarlo». Ma tentò. Frances tentò di farsi un’idea dell’uomo che un giorno sapeva avrebbe incontrato sulle scale, sempre che le voci fossero vere. Ma riusciva a vedere soltanto un thobe bianco, rigido e a due dimensioni come quelli che il lavandaio guardava contro la luce dei lampioni e delle macchine di Al-Suror Street; e un ghutra che non incorniciava niente, con un vuoto al posto del viso. L’uomo nella mente non si muoveva, non girava la chiave nella toppa, non saliva le scale: quello che non riesco a immaginare, disse, non può accadere e di sicuro al Capolinea non accadrà niente che io non sappia. «Supponi che...», continuò, ma Andrew non mostrava più alcun interesse per quel discorso. Frances aveva abusato della sua pazienza: lui aveva l’edificio a cui pensare, il vasto mondo al di là del muro.

«Secondo me», disse Andrew, «stai troppo tempo da sola».

E lei: «Mi piace stare in compagnia di me stessa».

Il tempo aveva rinfrescato; non troppo, ma a sufficienza. Nel periodo morto fra Natale e Capodanno Frances aveva pensato che poteva prendere il sole sul tetto. Era circondato da edifici più alti ma non vi si affacciava mai nessuno; e lei sentiva la voce di Clare provenire dall’estate ventura che diceva, ma Frances, sei bianca come quando sei andata via.

Con le mani poggiate sul parapetto guardava la città. Su Medina Road scorreva un fiume ininterrotto di traffico. Si sentiva il ringhiare distante dei motori, animalesco ma attutito come se in città fosse arrivato un circo nascosto. C’era la solita nebbiolina di polvere attraversata dalle costole degli edifici non finiti, dalle impalcature e dalle gru. Nelle ultime settimane erano avvenuti dei cambiamenti: sul lotto non edificato dall’altra parte di Ghazzah Street si aggiravano i macchinari per il movimento terra e a lato della strada avevano scavato un profondo canale; mentre Frances guardava, un cane scappò attraverso la distesa desolata accovacciato su se stesso.

Andata dall’altra parte del tetto, in fondo all’edificio, abbassò lo sguardo sulle stradine strette dietro il Capolinea. Si ricordò il motivo per cui all’inizio il tetto le era piaciuto: per la vista privata e privilegiata. Avrebbe potuto essere un’altra città; era una scena familiare e in scala ridotta di vicoli e cortili sul retro, di porte di servizio e fili per stendere. Una domestica di colore, con la testa avvolta in un panno scarlatto, girò l’angolo della traversa successiva; in mano aveva un fagotto avvolto nella carta di giornale e si avvicinava silenziosa, con i sandali aperti e i calcagni grigi e polverosi, al bidone della spazzatura. Le guide spirituali implorano i fedeli perché stiano attenti in che cosa avvolgono i rifiuti. Non dovrebbero mettere gli scarti delle verdure nella «Saudi Gazette» e poi buttarli nella spazzatura; non dovrebbero strappare un pezzo di «Al-Riyadh» e appenderlo in gabinetto. Sul giornale infatti potrebbe esserci stampato il sacro nome di Allah.

Frances aprì la sedia a sdraio, si sedette, si spalmò la crema sulle gambe e prese il libro. Intorno alla testa le girava una mosca; la scacciò con la mano. Il rumore del traffico la assillava. Era più caldo di quanto avesse pensato e c’era vento; sulla pagina soffiò della sabbietta. Dopo cinque minuti i caratteri stampati le ballavano davanti agli occhi. Si alzò e un dolore le trapassò il cranio. Ripiegò la sdraio, s’infilò il libro sotto il braccio; scese le scale a passo un po’ incerto entrando nel silenzio fresco.

Al Numero 1 si stese sul divano, il libro aperto sopra la gabbia toracica; si teneva dei cubetti di ghiaccio avvolti in un fazzoletto di Andrew contro la fronte. Sul tetto, pensava, ci andrò la mattina o la sera, a spiare intorno per cinque minuti, visto che mi fa piacere e le cose che mi fanno piacere adesso sono ben poche; ma stare lassù con la calura del giorno è un castigo e non avrei dovuto essere tanto ingenua. Con gli occhi chiusi s’immaginò degli alberi: la corteccia delle betulle argentate, l’intenso verde scuro delle conifere, la schiuma delle alghe sugli stagni inglesi. A luglio torneremo a casa per le ferie, pensò, torneremo alla pioggia estiva dell’Inghilterra, sottile come aghi, alle umide e poco incoraggianti mattinate dello Yorkshire e agli alberi che cominciano a ingiallire a settembre.

Era l’ultimo dell’anno. Si alzarono alla solita ora; Andrew fece doccia e colazione e poco prima delle sette uscì per andare al cantiere. Alzarsi presto a Frances dava il senso di avere uno scopo anche se per esperienza sapeva che si sarebbe dissolto presto; non aveva nessuna cosa in tutta la giornata su cui concentrare le sue energie. Alle otto saliva già i gradini per andare sul tetto, come se le fosse imprescindibile vedere la luce per convincersi che era cominciata un’altra giornata.

Aprì la porta in cima alle scale e uscì nel sole del primo mattino con una mano a schermare gli occhi. Nell’angolo più lontano del tetto vide una sottile figura avvolta in un’abaya. Ebbe un tuffo al cuore. «Yasmin?», fece. Si avvicinò e vide le spalle nere irrigidirsi per lo sconcerto; poi Yasmin si voltò e tirò indietro il velo, gli occhi erano spalancati e l’espressione colpevole; si portò una mano alla gola recitando la pantomima della costernazione e della paura.

Frances si fermò a qualche passo da lei. «Pensavi che fossi tua suocera?».

«Non mi aspettavo nessuno». Nonostante l’ora si era truccata, ripassando la forma allungata degli occhi con il kohl e rinfoltendo le ciglia. Ma del resto, era mai senza maschera? Senza quegli stati d’animo guardinghi, fitti di giudizi affrettati? La loro amica Samira trascorreva le sue mattinate oziose davanti al televisore a guardare le soap opere egiziane; l’obiettivo si attardava sui visi di donne sofferenti, truccatissimi e più grandi delle proporzioni reali, sulle loro espressioni teatrali provate e riprovate. Anche Yasmin guardava quegli sceneggiati? I tratti del suo viso stavano già sciogliendosi in un’espressione scaltra. «Non sapevo che salissi quassù, Frances».

«Vengo a prendere una boccata d’aria fresca». Già alle otto e mezzo dai marciapiedi di Ghazzah Street si alzava un miasma di pollo fritto e fogna, un cocktail di sudore e gas di scarico dei diesel.

«Anch’io, tanto per togliermi dai piedi».

«E tua suocera come sta?».

Yasmin tracciò un gesto aggraziato. Tutto quello che faceva aveva il sapore della messinscena; Frances la vedeva con occhi diversi. «Uh, che dire...».

«Immagino che dorma ancora». Ma Frances pensò, tu menti, non stai prendendo una boccata d’aria. Stai aspettando qualcuno. Un giovane prestante? Quanti tasselli tornano al loro posto. «Hanno degli scontri». Raji con il suo sorrisone mondano, con la sua carriera che avanzava senza intoppi. Perché al Capolinea? Perché la signora non deve fare molta strada. Solamente una rampa di scale.

Dentro le si alzarono grida di protesta: no tu no, tu no, tu no.

Quella sera davano una festa. Frances s’infilò il vestito bianco più bello. Notò che stava dimagrendo. Durante il giorno non pensava mai a mangiare finché Andrew non tornava a casa. Era in bagno davanti allo specchio a spazzolarsi i capelli cercando di dar loro volume e s’accorse che il poco sole che vedevano li aveva schiariti, che erano come stoppa, un disastro irrimediabile. Perse tempo con il trucco, ma sembrava restarle sulla superficie della pelle, quasi si rifiutasse di prendere parte a quella farsa.

In macchina taceva. «Stai bene?», le chiese Andrew.

«Stamattina», disse, «ho visto Yasmin sul tetto».

«Pensavo che l’avessi tutto per te».

«Anch’io».

Lui non disse, notò Frances, cosa diamine ci fa Yasmin lassù, non espresse la minima sorpresa. E già dubitava di se stessa. Non posso fidarmi delle mie deduzioni, pensò, da un lampo di paura non si può dedurre niente: le intuizioni fulminee a volte equivalgono a errori fulminei. C’è qualcosa che non va ma forse non è niente di particolare; forse è soltanto la corrente della mia vita che ha deviato e mi ha trasportato su qualche secca dove sono sola con me stessa. Scorrono le insegne al neon: Ristorante Gioca e Mangia, Lavanderia elettrica, Supermercato Singapore.

La festa era all’aperto e le donne si tamponavano le gambe con l’acqua di colonia per tenere lontane le zanzare. La padrona di casa passava con il punch alla frutta nei bicchieri di polistirolo e le solite pietanze di Gedda per le feste, servite su vassoi di acciaio inossidabile. Frances portò il suo bicchiere sotto la luce. Sulla superficie nuotavano dei pezzetti di mela e di banana ricoperti di bollicine grigie. La bevanda aveva un odore nauseabondo, di stantio. Afferrò il braccio di Andrew perché le parlasse. «Devo andare in giro, a chiacchierare un po’ con tutti», le disse.

Quella sera sembrava che mancasse qualcosa al clima festaiolo di Gedda: era un incontro tranquillo, quasi sobrio. Ne avevano tutti fin sopra ai capelli di festeggiamenti; durante il periodo di Natale avevano incontrato la stessa gente cinque o sei volte, a casa dell’uno o dell’altro, e ormai erano rimasti a corto di chiacchiere e convenevoli e nessuno aveva voglia di giochi di società; in loro si era spenta ogni convivialità. Gli uomini erano raggruppati insieme a parlare del prezzo del petrolio al ribasso. Le donne lasciarono il giardino e si accalcarono in cucina a parlare di dentizione e forni a microonde, e a mostrarsi l’una l’altra i gioielli d’oro che avevano ricevuto in regalo. Frances rimase un po’ in disparte; le spalle girate delle altre parevano escluderla. Non ci provo forse? si chiese con rabbia. Ci provava sempre a essere educata e scambiare quattro chiacchiere, a interessarsi; ma le altre sembravano sapere che aveva la testa da un’altra parte.

Quando finalmente il punch e il siddiqui pigliarono slancio, la conversazione divenne più generale: divenne il solito chiacchiericcio delle feste. «Hai sentito della ragazza neozelandese che hanno condannato a novanta frustate?», disse qualcuna. «Venti per aver bevuto alcol e settanta perché era in macchina con un uomo che non era il marito».

«L’anno scorso», disse Marion, «alla festa a casa degli Smith abbiamo fatto un gioco. Bendavamo gli uomini e le donne si mettevano in piedi sulle sedie, gli uomini si dovevano avvicinare e a tastoni cercavano di indovinare di chi fossero le gambe che toccavano. Quanto ridere. Tu, Frances, non ci giocheresti, vero?».

«Preferirei morire», rispose lei.

«Che strazio è Frances», disse Marion sotto voce, «non ha la minima apertura mentale. Sta dietro a quelle tizie saudite che abitano da lei».

A un quarto a mezzanotte furono distribuiti i cappellini di carta e le stelle filanti. L’allegria ebbe una recrudescenza; uscirono tutti in giardino lasciando le chiacchiere private o la propria combriccola per dare l’assalto finale allo spirito delle festività. Indossarono i cappelli, srotolarono le stelle; si formò un ampio circolo e in parecchi dissero di non ricordarsi mai le parole del Valzer delle candele. Qualcuno chiese che ora era; i minuti sembrarono prolungarsi. Consultarono gli orologi: le donne alzarono il polsino della camicia al marito e sbirciarono i quadranti alla luce delle lampadine colorate con cui i padroni di casa avevano decorato il muro esterno. Le conversazioni s’infiacchirono e morirono, gli ospiti si poggiavano ora su un piede ora sull’altro, con il viso solcato dalla stanchezza; non sembravano aspettare la mezzanotte ma un autobus che non sarebbe mai arrivato. Finalmente, alle undici e cinquantasette, fu proclamato il Nuovo Anno al trillare di risate forzate e alle note metalliche dei flauti a fischietto. Si scambiarono dei baci e dondolando avanti e indietro cantarono in modo scomposto. Raccolte le stelle filanti da terra sciamarono tutti dentro, portando doverosamente in cucina i vassoi pieni di avanzi, e si misero a ballare sui Beach Boys e i primi Rolling Stones. All’una la festa si concluse.

Gli Shore furono tra i primi ad andarsene. Tornarono a casa in un silenzio stanco, amichevole; appena scesero dalla macchina le tracce della festa si cancellarono dalle loro vite; Frances si strofinò via il trucco. In cucina tolse degli asciugamani bagnati dalla lavatrice.

«Spero che tu non abbia fatto propositi per il nuovo anno», le disse Andrew in piedi sulla porta.

«Perché? Non vuoi che cambi qualcosa?».

«Quello che voglio è andare avanti con una certa stabilità».

«Perché te la prendi con me?», chiese lei sbattendo gli asciugamani. «E i tuoi propositi?».

«Quelli di quasi tutti gli altri non avrebbero importanza. Li fanno sapendo di non mantenerli: si può contare sulla loro inutilità». Si fermò. «Ma con te non è così».

«Che ne sarà di noi l’anno prossimo?».

«Voglio seguire l’edificio fino alla fine, lo sai».

«Non c’è scampo», ribatté Frances. Lanciò gli asciugamani su una sedia. Le uscì un torrente di parole. «In questo paese non c’è vita, ci sono solo persone, autostrade, rettilinei senza fine, spazzatura e polvere: niente che ti dia sollievo, che ti faccia sentire libera dentro. Ti senti ridotta alla fame. Per forza hanno questa cavolo di religione orribile. Per forza quando diventano ricchi e vanno in Europa non pensano ad altro che a bere, drogarsi e giocare d’azzardo, come farebbero a sapere in che modo vivere la loro vita? Hanno comprato delle ville meravigliose, le hanno svuotate e riempite di locali notturni e Louis Farouk, hanno distrutto i giardini e messo delle piscine, non vogliono altro che prostitute di pelle chiara e cocaina».

«O mamma mia», fece Andrew, «non è del tutto vero».

«È del tutto vero», disse lei con più calma. «Ma non è tutta la verità».

«Dici che Jeff è razzista ma tu non sei meglio».

«Io non sono razzista, Andrew, sono una xenofoba. Vedi: ho guardato nel vocabolario per scoprire cosa ho che non va. Ci sono la Francia e l’Inghilterra e tutto il resto è da uscire pazzi».

«Vuoi tornare a casa?», le chiese.

«No. Ormai è troppo tardi».

Quella notte Andrew fece l’amore con lei. Quando le entrò dentro, Frances si sentì come se fosse precipitata, all’improvviso e senza speranza, dentro un lungo tunnel nero, quasi fosse una lotta, con il corpo irrigidito, per raggiungere centimetro dopo centimetro l’acme, mentre le pareti del tunnel le si richiudevano dietro e a lei restava soltanto una direzione senza però il baluginare della luce in fondo. Si sentì sprofondare, lo spirito che arrancava sotto terra e l’oscurità che nascondeva l’oscurità; era stata cancellata, aveva dimenticato come si chiamava. Andrew mandò un grugnito e le rimase sopra a peso morto. Lei all’improvviso si rese conto dell’odore di sapone che aveva la pelle del marito, della fastidiosa contrattura alle gambe; del ronzio crepitante dell’aria condizionata. Era tornata dentro il suo corpo. Per Andrew non c’era da arrancare sotto terra: era facile come attraversare la strada. O magari, essendo a Gedda, era ancora più facile.

Appena lui la lasciò andare, lei sprofondò subito il viso nel cuscino. Si sarebbe addormentata. Si sarebbe addormentata presto. Si sarebbe addormentata fra un secondo. L’ultima cosa che le passò per la mente fu l’uomo armato di fucile appostato lungo il marciapiede.