Perché non si decideva a cambiare? Quello era forse un sottile legame che la teneva unita alla sua famiglia, alla sua vita precedente? Forse non era ancora sicura del loro matrimonio? Sciocchezze! Nils non ne parlava mai, non ricordava che avesse mai toccato quel punto. Tuttavia lei provava sempre un certo rimorso. Teneva il passaporto in regola, figurando così straniera residente in Danimarca, e una volta all'anno un sorridente agente della polizia criminale ne prolungava la validità con un timbro. Forse era la faccenda della polizia criminale che la disturbava? No, quello non era che un organismo governativo come gli altri: non c'entrava affatto. Ora all'ambasciata americana volevano sapere qualche particolare sul suo passaporto, e lei stava appunto andandoci. Ma non l'aveva detto a Nils.
L'ora di punta era terminata e il traffico era scarso, così arrivò all'ambasciata prima delle dieci. Non c'era alcun parcheggio vicino, e dovette lasciare l'auto due isolati più in su. La pioggia si era fatta leggera e insistente, la classica pioggerellina danese capace di durare parecchi giorni senza interruzione. Martha si infilò le soprascarpe di plastica che teneva sempre pronte nell'auto, e aprì l'ombrello.
L'ingresso, come al solito, era deserto e la ragazza che stava dietro la scrivania la guardò col freddo distacco delle impiegate, mentre lei chiudeva l'ombrello gocciolante e cercava il foglietto di carta nella borsetta.
— Ho un appuntamento — disse, spiegando il foglio e scuotendone via le briciole di tabacco. — Con un certo Baxter, per le dieci.
— Da quella porta, allora. Poi a sinistra, stanza centodiciassette. Quasi in fondo al corridoio.
— Grazie.
Martha scosse con cura l'ombrello sopra lo zerbino, ma si lasciò ancora dietro una scia di goccioline sul pavimento di marmo. La porta della stanza 117 era spalancata, e un uomo con gli occhiali dalla pesante montatura nera stava chino sopra la scrivania, osservando un foglio con profonda concentrazione.
— Signor Baxter?
— Sì, venite, prego. Permettetemi di prendere il vostro ombrello e il cappotto. Che giornate! A volte mi sembra che tutta quanta!a Danimarca sia sul punto di andarsene alla deriva sull'oceano. — Infilò l'ombrello nel cestino della carta straccia e appese il soprabito all'attaccapanni. Poi chiuse la porta. — Allora, voi siete...?
— Martha Hansen.
— Naturalmente. Vi aspettavo. Sedete, prego.
— È per il mio passaporto — disse lei, sedendo e posando in grembo la borsetta.
— Se potessi vederlo...
Lei glielo porse e rimase a guardare l'uomo che voltava le pagine aggrottando la fronte per lo sforzo di interpretare alcuni dei visti macchiati e dei timbri posti dalla dogana. Poi Baxter annotò qualcosa sopra un blocco giallo.
— A quanto sembra, vi piace viaggiare, signora.
— È per via di mio marito: è pilota su aerei di linea. I biglietti sono praticamente gratis, così giriamo parecchio.
— Siete una donna fortunata. — Baxter chiuse il passaporto e guardò Martha inarcando le sopracciglia al di sopra della montatura degli occhiali. — Ma... vostro marito non è forse Nils Hansen, il pilota danese? Quello di cui abbiamo letto nei giornali?
— Sì. C'è qualcosa che non va, nel passaporto?
— No, niente affatto. Voi siete davvero fortunata, con un marito simile! Quel ciondolo che portate al collo, viene dalla Luna? È quello di cui parlavano i giornali?
— Sì. Volete vederlo? — Si sfilò la catena e gliela porse. Era un comune pezzo di roccia vulcanica cristallina, montata così, al naturale, in una reticella d'argento. Una pietra venuta da un altro mondo.
— Ho sentito dire che vi hanno offerto una cifra con molti zeri, per questa. È meglio che stiate attenta. — Le rese il ciondolo e soggiunse: — Volevo semplicemente controllare il passaporto. Ci sono state alcune complicazioni con un altro che ha quasi lo stesso numero del vostro. Dobbiamo accertarci, sapete. Spero che non vi sia seccato troppo.
— No, certo.
— Perdonate, ma sapete come succede. Cose del genere non capiterebbero mai, a casa nostra. Invece un americano che vive all'estero... Ci vogliono sempre una quantità di documenti. — Batté il passaporto due o tre volte sulla carta assorbente, ma non accennò affatto a renderlo.
— La mia patria è qui, ora — disse lei, schermendosi.
— Naturalmente. Dopo tutto vostro marito è danese, anche se voi restate sempre cittadina americana.
Le sorrise, poi guardò la pioggia, fuori dalla finestra. Lei contrasse le mani sulla borsetta e non rispose. Quando l'uomo si voltò, Martha si accorse che aveva un sorriso vuoto, per nulla cordiale, che non diceva nulla: se ne stava lì, con quei grossi occhiali che gli davano un'aria da gufo intellettuale.
— Dovete essere una fedele cittadina americana — continuò Baxter — se non avete mai pensato di rinunciare alla vostra cittadinanza, pur essendo sposata... da sette anni, vero?... a un cittadino di un paese straniero. Non vi sembra?
— Io... io non ho mai dato molta importanza a queste cose — rispose Martha, con un filo di voce. Intanto pensava... Perché non gli dico di badare ai fatti suoi, prendo il passaporto e me ne vado di qui? Forse perché quello le aveva detto forte ciò che lei aveva sempre segretamente saputo.
— Non c'è di che vergognarsi. — Il sorriso riaffiorò. — La fedeltà verso il proprio paese sarà forse fuori moda, ma ha ancora qualcosa di bello. Non lasciate che nessuno vi convinca del contrario. Non c'è niente di male nell'amare il proprio marito come lo amate voi è nell'essere sua moglie, pur mantenendo la cittadinanza americana che Dio vi ha dato. Nessuno potrà mai strapparvela, non rinunciateci mai! — E sottolineò il suo punto di vista severamente, battendo il passaporto contro la scrivania.
Martha non sapeva che cosa rispondere e rimase zitta. L'altro annuì, come se il silenzio di lei equivalesse a un consenso.
— Ho letto sui giornali che è stato praticamente vostro marito a condurre la nave a propulsione Daleth sulla Luna. Dev'essere un uomo coraggioso.
Martha non poté fare a meno di annuire.
— Ora tutto il mondo guarda alla Danimarca, in testa nella gara spaziale. È un po'... buffo che questa piccola nazione abbia superato gli Stati Uniti. Con tutti i miliardi che abbiamo speso e gli uomini che sono morti! Molti americani pensano che non è giusto: in fin dei conti è stata l'America a liberare la Danimarca dai tedeschi, e sono il denaro, gli uomini e le attrezzature americane che mantengono forte la NATO e difendono questo paese dall'invasione russa! Forse quei nostri concittadini non hanno tutti i torti. La gara spaziale è un'impresa gigantesca e la piccola Danimarca non può affrontarla da sola; non siete d'accordo?
— A dire la verità non saprei... Suppongo che possano farlo...
— Ah, sì? — Il sorriso era sparito. — La propulsione Daleth è qualcosa di più di una propulsione spaziale. È una forza d'importanza mondiale. E la Russia potrebbe allungare un braccio di alcuni chilometri e impadronirsene tranquillamente. Voi non volete che ciò accada, vero?
— Ma no!
— Bene. Voi siete americana. Una buona americana. Quando l'America avrà la propulsione Daleth, ci sarà la pace nel mondo. Ora vi dirò una cosa in confidenza, non ripetetela a nessuno. I danesi non la pensano allo stesso modo. Alcune fazioni di sinistra del governo di qui (dopotutto sono socialisti!) ci nascondono i dati riguardanti la propulsione Daleth. E possiamo facilmente immaginare perché, non vi pare?
— No — disse lei, schermendosi. — La Danimarca non è come dite voi. Il governo non ha affatto simpatia per i russi. Non è il caso di preoccuparsi.
— Siete un po' ingenua, come la maggior parte della gente, quando si tratta del comunismo internazionale. Penetra dappertutto. Strapperà la propulsione Daleth al mondo libero, se prima non ci mettiamo le mani noi. E voi potete aiutarci, Martha.
— Posso parlarne a mio marito — replicò lei, in fretta, sentendosi invadere da un sentimento di paura. — Non che serva a molto. Lui, le sue decisioni le prende da sé. E poi dubito che sia in grado di influenzare qualcuno... — Si interruppe, vedendo Baxter che scuoteva negativamente la testa.
— Non intendevo questo. Voi conoscete tutte le persone coinvolte in questa faccenda. Le andate a trovare. Avete perfino visitato l'Istituto Atomico...
— E questo, chi ve l'ha detto?
— ... dunque ne sapete assai più su ciò che sta accadendo di chiunque altro che non sia ufficialmente legato al progetto. Ci sono alcune cose che vorrei chiedervi...
— No — disse lei, senza fiatò, balzando in piedi. — Non posso fare quello che mi domandate. Non sarebbe onesto! Datemi il mio passaporto, per favore. Ora devo andarmene.
Senza sorridere, Baxter lasciò cadere il documento in un cassetto che chiuse a chiave. — Devo trattenerlo. È una pura formalità. Per controllare il numero. Tornate da me la settimana prossima. L'impiegata vi darà un appuntamento. — La precedette alla porta e posò la mano sulla maniglia. — Siamo in guerra, Martha, in tutto il mondo. E tutti noi siamo come soldati al fronte. Ad alcuni si chiede più che ad altri, ma in guerra succede appunto così. Voi siete americana, Martha... non dovete scordarvelo mai, in nessun momento. Non potete dimenticare la vostra patria e i doveri che avete verso di essa.
14
C'era un non so che di definitivo che deprimeva Nils, in quell'atto di vuotare il suo armadietto. Il numero 121, all'aeroporto di Kastrup, era sempre stato suo e di nessun altro. Quando avevano ingrandito quell'ala e messo i nuovi armadietti, lui, in qualità di pilota senior, aveva avuto il diritto di scelta. E ora, invece, stava ritirando la sua roba. Nessuno gliel'aveva ordinato, ma quando si era fermato per prendere la tuta che ci aveva riposto, si era accorto di non avere più il diritto di tenerselo. Onestamente, doveva permettere a qualcun altro di usufruirne. Detto fatto, pigiò nella borsa da viaggio tutte le cianfrusaglie più disparate accumulate là dentro in tanti anni e chiuse la cerniera lampo. Al diavolo! Si sbatté la porta alle spalle e uscì.
Nel corridoio, si accorse all'improvviso che qualcuno gridava il suo nome e guardò intorno.
— Inger!
— E chi altri vuoi che sia, grosso scimmione? Hai volato troppo senza di me. Non è ora di noleggiare una brava hostess per i tuoi viaggi sulla Luna?
La ragazza avanzò verso di lui col suo passo flessuoso. Era davvero una buona hostess, una pubblicità ambulante per la SAS. Gonna corta, giacchettino aderente, berretto posato con un'inclinazione sbarazzina sopra i capelli biondo cenere... proprio il tipo sognato dal viaggiatore stanco! Alta quasi quanto Nils, sembrava uscita da un film svedese. E, guarda caso, era anche la hostess migliore e più esperta delle linee aeree.
La ragazza afferrò le mani di Nils e le strinse fra le sue, facendoglisi vicina.
— Non è vero, eh? — domandò — che non voli più?
— Non volo più con la SAS, almeno per ora. Ho altri incarichi.
— Lo so: roba grossa, segretissima. La propulsione Daleth. Ne parlano tutti i giornali. Ma non riesco a credere che noi due non voleremo più insieme!
Mentre diceva questo, gli si fece ancora più vicina e Nils sentì il tepore di lei contro il fianco. Poi la ragazza si ritrasse: era troppo abile per mostrare qualcosa di più, in pubblico.
— Lo vorrei tanto! — sbottò Nils. E tutti e due risero forte per l'impeto improvviso della sua voce.
— La prima volta che vai all'estero, fammelo sapere. — Inger guardò l'orologio e gli lasciò andare la mano. — Devo scappare, ora. L'aereo parte tra un'ora.
Salutò con un gesto e sparì. Lui si allontanò nella direzione opposta, portando con sé il ricordo della ragazza. In quanti paesi era successo? In sedici, o giù di lì. La prima volta che lei aveva fatto parte del suo equipaggio erano finiti a letto insieme, come per una decisione reciproca, istintiva.
Era successo a New York, d'estate. Oltre il vetro della finestra d'albergo si stendeva un inferno fuligginoso. Ma la tapparella era abbassata, e loro due si erano abbandonati l'uno all'altra senza riserve. Nessun senso di colpa; solo una piacevole accettazione del passato e del futuro. Lui difficilmente pensava a Inger quando lei non era presente, né era geloso degli altri. Ma quando si incontravano, erano un cuore solo.
E dopo una notte particolarmente divertente, trascorsa sopra un morbido materasso di Karachi, si erano messi a contare le città dove avevano fatto all'amore. Senza fiato dal ridere, Nils aveva comprato un album di foto di bassorilievi erotici tolti dai templi e avevano anche cercato di scimmiottare qualche scena, ma ridevano troppo per concludere qualcosa. Poi erano rimasti lì, a discutere sul numero delle città in cui avevano sostato. Da allora in poi ne avevano sempre tenuto nota. Nils approfittava dei suoi diritti di anzianità per scegliere tra i diversi voli, in modo che potessero trovarsi insieme e aggiungere nuovi nomi all'elenco sempre più lungo. Ma Copenaghen, no... E neppure in Scandinavia. Mai a casa. C'era un intero mondo, fuori, che potevano godersi insieme. Là era diverso. Un accordo implicito, di cui entrambi sapevano ma di cui non parlavano mai.
Nils spalancò la porta del terminal principale e si schiarì la gola. Una voce femminile annunciava all'altoparlante in una dozzina di lingue i voli in partenza. Danese e inglese, più la lingua del paese dove l'aereo era diretto: francese per il volo con destinazione Parigi, greco per quello con destinazione Atene e perfino giapponese per il volo di Tokio. Nils si fece strada tra la folla fino alla più vicina tabella degli arrivi e delle partenze. C'era un aereo di collegamento che partiva presto per Malmö sull'altra sponda del Sound, in Svezia, e che faceva al caso suo. Skou trovava sempre nuovi modi per eludere ogni eventuale tentativo di seguirli, e questo era il suo ultimo espediente. Ottimo, bisognava ammetterlo.
Nils rimase nella sala d'attesa principale fino a due minuti prima della partenza. Poi attraversò la sezione amministrativa dell'edificio, dove i passeggeri non potevano entrare. Ciò avrebbe stroncato definitivamente le manovre di eventuali pedinatori. Alcune persone lo salutarono e infine si ritrovò fuori, sulla pista di decollo, proprio mentre gli ultimissimi viaggiatori stavano salendo sull'aereo per Malmö. Salì dietro a tutti, e lo sportello si chiuse alle sue spalle. La hostess lo conosceva, e quindi non dovette neppure mostrarle il passaporto: così andò a sedersi sul sedile dell'ufficiale di rotta e si fece una chiacchierata coi piloti durante il brevissimo tragitto. Quando atterrarono, la ragazza lo fece uscire per primo e lui andò direttamente al parcheggio. Là c'era ad attenderlo Skou, al volante di una Humber nuova, intento a leggere un giornale sportivo.
— Che cosa è successo a quella gamie raslekasse che guidate abitualmente? — domandò Nils, sistemandosi accanto a lui.
— Quel vecchio macinino rumoroso! Ha sul gobbo migliaia di chilometri. È finito in un'officina per qualche riparazione di poco conto.
— Hanno tenuto buono il volante per costruirci sotto un'auto nuova?
Skou arricciò il naso con aria di disprezzo e uscì dall'aeroporto, dirigendosi a nord.
Una volta fuori dalla città, la strada costiera saliva e scendeva serpeggiando tra i paesetti, rivelando a sinistra rapidi scorci del Sound, che faceva capolino fra gli alberi. Skou era concentrato nella guida e Nils aveva ben poco da dire. Pensava a Inger, e i ricordi riaffioravano uno dopo l'altro. Lui di solito viveva i vari momenti della sua esistenza così, come venivano, facendo progetti futuri solo per lo stretto necessario e dimenticando il passato come qualcosa di ormai lontano e inalterabile. Sentiva la mancanza del volo, questo era indubbio, e si rendeva conto che quello era stato l'elemento principale della sua vita, intorno al quale aveva ruotato ogni altra cosa. Non pilotava un aereo da... quando? Da prima del viaggio sulla Luna. Gli sembrava di essere sepolto da anni negli uffici di quel lurido cantiere. La breve gita da Kastrup lo aveva semplicemente stuzzicato... Un passeggero!
— Ehi! — sbottò all'improvviso. — Fatemi guidare un po', Skou. Intanto vi guardate il panorama.
— Ma questa è un'auto del governo!
— E io sono uno schiavo del governo. Su! Altrimenti vi denuncio ai vostri superiori per ubriachezza nelle ore di servizio.
— Ho bevuto una birra a pranzo... Una birra svedese a bassissima gradazione alcolica, per essere precisi. Dovrei denunciare io voi, per ricatto ed estorsione.
Comunque frenò e i due si scambiarono il posto. Skou non fece commenti quando l'altro premette con forza il pedale dell'acceleratore, facendo salire bruscamente di giri il motore.
C'era pochissimo traffico e la visibilità era buona; il sole prossimo al tramonto cercava di farsi strada tra le nubi. La Humber si comportava come una macchina sportiva e Nils era un pilota eccellente, che andava forte, ma senza correre rischi.
Era quasi buio quando arrivarono a Hälsingborg. Attraversarono sobbalzando i binari della ferrovia per raggiungere più in fretta il terminal della nave traghetto, imboccarono un vicolo e furono i primi a salire con l'auto a bordo, fermandosi proprio dietro il cancello pieghevole, sulla prua. Skou si mise in coda per comprare durante la breve traversata un pacchetto di sigarette senza il sovrapprezzo della dogana, ma Nils rimase nell'auto. La corsa in macchina, per quanto breve, gli aveva fatto bene. Guardò le luci del castello e del porto di Helsingør che si avvicinavano e pensò che i lavori sulla Galatea erano quasi terminati.
Il guardiano che stava all'entrata del cantiere navale riconobbe Skou e li lasciò entrare senza difficoltà.
— Come vanno le misure di sicurezza? — domandò Nils.
— La segretezza è la maggiore misura di sicurezza. Finora le spie non hanno messo in relazione con il segretissimo progetto Daleth l'hovercraft a cui si è fatto tanta pubblicità. Perciò le guardie dislocate qua e là sono travestite. Ne avete visto una anche voi, che vendeva panini con salsicce sull'altro lato della strada.
— Perbacco! E si tiene i guadagni?
— Ma no! Riceve già un salario.
Parcheggiarono nel solito punto dietro gli edici, E Nils si appartò nell'ufficio per infilarsi la tuta. Il cantiere era silenzioso: si udiva rumore solo intorno alla Galatea, dove si lavorava senza interruzione, ventiquattro ore su ventiquattro. Erano state accese le lampade ad arco per illuminare lo scafo ancora arrugginito e incompleto, ma quello era uno stratagemma: la sabbiatura e la verniciatura venivano rimandate all'ultimo momento.
Dentro... era un'altra cosa. Salirono la scaletta ed entrarono attraverso la camera stagna di coperta. Quando la porta esterna fu chiusa, si accesero le luci, illuminando un corridoio bianco, con pavimento di linoleum e pannelli di teak alle pareti. L'illuminazione era indiretta, discreta. Fotografie della Luna incorniciate stavano appese alle pareti.
— Davvero lussuosa — disse Nils. — L'ultima volta che ci sono stato, il corridoio era ancora d'acciaio dipinto di rosso.
— Non si discosta molto dal piano originale — disse Ove Rasmussen, entrando non visto. — L'interno andava bene così. Naturalmente sono stati fatti dei cambiamenti, ma in quasi tutte le cabine e le parti che non hanno una funzione specifica riguardo alla nuova propulsione, le trasformazioni sono state minime. Hanno fatto sparire le foto dei castelli e delle casette dal tetto di paglia, e ci hanno messo invece quelle della Luna mandate dai sovietici in segno di gratitudine. Venite con me, ho una lieta sorpresa per voi.
Percorsero un corridoio con un lungo tappeto e due file di porte ai lati. Ove indicò l'ultima porta e disse: — Prima voi, Nils. — Sopra c'era una targhetta di ottone con la scritta Capitano. Nils spalancò l'uscio.
Era una cabina grande, adibita in parte a ufficio e in gran parte a soggiorno, con una camera da letto che si apriva sul fondo. Il tappeto blu era tempestato di piccole stelle lucenti e sulla scrivania ultramoderna, di palissandro con parti cromate, erano montati un pannello di strumenti e una fila di citofoni.
— Un po' diverso dagli aerei dalla SAS — disse Ove, sorridendo all'espressione incantata di Nils. — E anche da quelli delle Forze Aeree. E là c'è la foto della vostra prima nave, secondo una classica tradizione marinara.
Sopra la cuccetta stava una grande fotografia a colori del piccolo sottomarino Blaeksprutten, posato sulla pianura lunare. La Terra spiccava chiaramente sullo sfondo.
— Un altro dono dei russi? — domandò Nils.
— Un dono personale del maggiore Shavkun. Ha scattato la fotografia prima della partenza, ricordate? Guardate, l'hanno firmata tutti e tre.
— Una mano di vernice all'esterno, e Galatea è pronta a salpare, no? E come va il settore della propulsione?
— Il generatore a fusione è a bordo, ed è stato provato. Mancano ancora alcune cose di poca importanza. E la propulsione Daleth, naturalmente. È stata costruita e sperimentata nel laboratorio dell'istituto. Verrà installata per ultima.
— Proprio per ultima — sottolineò Skou. — Vogliamo evitare al massimo di mettere in tentazione le nostre spie. Comunque l'università è sorvegliata da un buon numero di militari; immagino quindi che dovrebbero rivolgere là la loro attenzione. — Sorrise. — Tutti gli alberghi sono pieni, e abbiamo un notevole afflusso di valute straniere. È una nuova industria turistica.
— E voi siete nel paradiso della sicurezza! — osservò Nils. — Ora capisco perché guidate una Humber nuova. Dov'è Arnie Klein?
— Vive a bordo da due giorni — disse Ove. — Da quando sono state completate le prove al banco della propulsione Daleth. Lavora al mio generatore a fusione e vi assicuro che ha già apportato almeno cinque miglioramenti brevettabili.
— Andiamo da basso. Voglio vedere la mia sala macchine. — Nils si guardò attorno un'ultima volta con ammirazione, prima di decidersi a richiudere la porta. — Ci vuole un po' ad abituarsi a tutto questo. Sta diventando un compito assai più imponente di quanto pensassi.
— Non spaventatevi — disse Ove. — Per ora è una nave, ma subito dopo il decollo sarà una macchina volante. Una specie di super settecentoquarantasette che avete già pilotato. Dovete convenire che è assai più facile per voi che non per un capitano della marina imparare a far volare una nave.
— Che cosa succede?
Skou si era fermato di botto, con le narici dilatate per l'ira.
— La guardia! Dovrebbe trovarsi lì, davanti alla sala macchine. Ventiquattro ore su ventiquattro. — Si mise a correre pesantemente, zoppicando un poco, e si lanciò contro la porta. Era chiusa.
— Chiusa dall'interno — disse Nils. — C'è un'altra chiave, da qualche parte?
Skou non perse tempo a cercare una chiave. Estrasse una piccola pistola da una fondina nascosta nella cintura dei pantaloni e la puntò contro la serratura. Si udì un'esplosione e l'atma gli sobbalzò in mano. Dalla toppa uscì una nuvoletta di fumo, gonfiandosi tutta, e la porta si aprì. Ma solo di pochi centimetri, perché qualcosa, dietro, la bloccava. Comunque dalla fessura si scorsero i pantaloni azzurri della guardia caduta sul pavimento, contro il battente. Quando spinsero più forte, il corpo si spostò, inerte.
— Professor Klein! — chiamò Skou, passando con un balzo sopra l'uomo disteso. Si udirono altri tre rapidi spari, e lui continuò ad avanzare, gettandosi a terra. Teneva puntata la pistola, ma non rispose al fuoco. — State indietro! — gridò agli altri due, poi si levò in piedi.
Ove esitò, ma Nils si lanciò in avanti, rotolando sopra la guardia. Si rialzò giusto in tempo per cogliere il guizzo di un movimento, mentre la grande camera stagna della sala macchine si chiudeva e si precipitò contro la porta, ma questa non si mosse.
— Chiusa dall'altra parte. Dov'è Arnie?
— Con loro. L'ho visto. Due uomini lo portavano via. Erano armati. — Skou aveva estratto la sua radio portatile, ma da quella non provenivano che scariche.
— La radio non può funzionare qui dentro — gli ricordò Ove, chinandosi sulla guardia. — Siamo circondati da metallo. Correte in coperta! Quest'uomo è solo svenuto, l'hanno colpito con qualcosa.
Skou e Nils gli passarono davanti, rapidi come il baleno. Poiché per la guardia non poteva far nulla in quel momento, Ove balzò in piedi e seguì gli altri due.
Entrambe le porte della camera stagna erano aperte, e Skou, sul ponte scoperto, gridava qualcosa nella sua radio. I risultati furono immediati; perché anche quel caso di emergenza era stato previsto.
Tutte le luci del cantiere si accesero contemporaneamente, compresi i riflettori montati sui muri e le lampade ad arco installate sulle gru e sulle navi in costruzione. Era chiaro come in pieno giorno. Le sirene ulularono nel porto e i fari sferzavano l'acqua nera, mentre due lance della polizia bloccavano anche quello sbocco. Nils gattaiolò giù per la scala, a pochi metri dal suolo balzò a terra e partì a razzo, girando intorno allo scafo in direzione della poppa, dove c'era la camera stagna. La porta esterna era aperta, e lui intravide rapidamente due figure. Subito afferrò per il braccio un poliziotto che arrivava ansando.
— Avete una radio? Bene. Chiamate Skou. Ditegli che si sono diretti verso l'acqua. Probabilmente hanno una barca. Non sparate! Sono in due e si trascinano via il professor Klein. Non possiamo rischiare di ferirlo. — Il poliziotto annuì, si attaccò alla radio e Nils continuò a correre.
Nel cantiere era scoppiato il finimondo. Gli operai scappavano a nascondersi, mentre le auto della polizia entravano a velocità pazza dai cancelli, a sirene spiegate.
Skou trasmise a tutti il messaggio di Nils, con voce rotta, senza smettere di correre. Davanti a lui, alcuni agenti convergevano verso la banchina e l'invasatura, dove l'intelaiatura di una nave in costruzione si protendeva rugginosa verso il cielo.
Ad un tratto, una fiammata rossa partì da dietro una pila di lamiere. Un agente sì piegò su se stesso, premendosi le mani sull'addome, e crollò. Gli altri due si misero al riparo, puntando le rivoltelle.
— Non sparate! — ordinò Skou, avanzando solo. — Illuminate quel punto lassù.
Qualcuno spostò una pesante lampada ad arco nella direzione indicata dal faro di un'auto della polizia. La sua luce brillava, bianca come quella del giorno. Skou corse avanti, zoppicando, sempre solo.
Allora si vide un uomo tutto vestito di nero balzare in piedi, riparandosi gli occhi con la mano, e puntare una pistola a canna lunga. Sparò una, due volte, e un proiettile andò a conficcarsi vicinissimo a Skou, mentre l'altro gli sfiorava la giacca. Il capo dei servizi di sicurezza si fermò; alzò la propria rivoltella, poi l'abbassò lentamente per prendere di mira il bersaglio. Era calmissimo, come se stesse esercitandosi al tiro a segno. Lo sconosciuto sparò di nuovo, ma dall'arma di Skou partì un colpo quasi nel medesimo istante.
L'uomo barcollò, girò su se stesso e cadde sulle lamiere d'acciaio, mentre la pistola gli sfuggiva di mano.
Skou fece cenno a due agenti di esaminare il corpo, e riprese a correre. Un cordone di guardie e poliziotti avanzava dietro di lui, e una motolancia della polizia si avvicinò alla riva, col motore rombante e il faro che frugava nelle ombre profonde dello scalo di costruzione.
— Eccoli là! — gridò qualcuno mentre il faro smetteva di cercare e si fermava in un punto preciso. Anche Skou si fermò e bloccò gli altri con un segnale convenuto. Davanti a lui, le lastre piene di bulloni della chiglia formavano una specie di palcoscenico. La scena era bene illuminata e il dramma che vi si recitava parlava di vita e di morte. Un uomo completamente vestito di un nero luccicante dalla testa ai piedi, si inginocchiò dietro la forma abbandonata di Arnie Klein. Con un braccio lo sosteneva, facendosene scudo, e nell'altra mano stringeva una pistola con la canna appoggiata alla tempia del professore. Le sirene, terminato il loro compito, tacquero. Ormai l'allarme era dato. Cadde un silenzio improvviso e pesante. La voce dell'uomo risuonò alta e aspra, scandendo chiaramente le parole.
— Non avvicinatevi... o lo uccido!
Si era espresso in un inglese dal forte accento straniero, ma comprensibile. Nessuno degli spettatori si mosse, e l'uomo cominciò a trascinare la figura inerte di Arnie lungo la chiglia, verso il bordo dell'acqua.
In quel momento Nils Hansen sbucò dalle tenebre alle spalle dello sconosciuto e protese una mano poderosa che immobilizzò il polso dell'altro, torcendolo, cosicché la canna della rivoltella si rivolse in alto, verso il cielo, lontano dalla tempia di Arnie. L'uomo vestito di nero urlò per il dolore e per la sorpresa, e dalla pistola partì un proiettile che andò a perdersi nel buio.
Con la mano libera, Nils strappò Arnie alla stretta del rapitore e si chinò lentamente per stenderlo sulla lastra d'acciaio sottostante.
Lo sconosciuto si divincolò inutilmente, poi cominciò a tempestare di pugni Nils che ignorò quella gragnuola fino a che non si fu raddrizzato di nuovo. Soltanto allora allungò l'altra mano, strappò l'arma al prigioniero e la lanciò lontano. Poi colpì lo sconosciuto con un poderoso ceffone. L'uomo girò su se stesso e rimase lì, penzoloni, sostenuto solo dal solido braccio del pilota.
— Voglio parlargli! — gridò Skou precipitandosi verso di loro.
Nils ora teneva il prigioniero con tutte e due le mani, scuotendolo come una grossa bambola, e protendendolo verso Skou. L'uomo indossava uno scafandro da subacqueo, e un paio di baffi sottili come una linea di matita correvano lungo il labbro superiore. Sopra una guancia spiccava, rossa, l'impronta di cinque grosse dita.
Per un istante il rapitore si divincolò nella stretta spietata di Nils, guardando il poliziotto che si avvicinava. Poi desisté, accorgendosi forse che non c'era scampo. Ogni resistenza cessò. Improvvisamente portò una mano alla bocca e spezzò con i denti l'unghia del pollice in un gesto apparentemente infantile.
— Fermatelo! — urlò Skou, cercando di fare ancora più in fretta.
Troppo tardi. Un'espressione di pena passò sulla faccia dello sconosciuto. Gli occhi si dilatarono, la bocca si spalancò in un grido senza suono. L'uomo si contorse tra le braccia di Nils, il suo dorso si inarcò sempre più, terribilmente, fino a che il suo corpo si abbandonò inerte.
— Lasciatelo andare — disse Skou, sollevandogli una palpebra. — È morto. Veleno sotto l'unghia.
— Anche l'altro è morto — disse un agente. — L'avete colpito...
— So dove l'ho colpito.
Nils si chinò sopra Arnie, che cominciava ad agitarsi, muovendo la testa, ma ancora con gli occhi chiusi. Aveva una grossa contusione dietro l'orecchio.
— Mi sembra in buono stato — disse il pilota, alzando gli occhi. Poi vide sui pantaloni e sulla scarpa di Skou del sangue che gocciolava fin sulla lastra di metallo. — Ma voi siete ferito!
— È la solita gamba — rispose Skou. — La gamba bersaglio, che colpiscono sempre. Non è niente. Portate subito il professore all'ospedale. Che baraonda! Non riesco a capire come ci abbiano scoperto. Sarà tutto più difficile, d'ora in poi.
15
Seduto al buio sul ponte di comando, nella sua poltroncina, Nils Hansen cercava di immaginare se stesso che azionava i comandi della Galatea. Abitualmente non era dotato di molta fantasia, ma all'occorrenza sapeva raffigurarsi il veicolo che avrebbe dovuto pilotare e ne prevedeva il probabile comportamento... Aveva collaudato quasi tutti i nuovi reattori acquistati dalla SAS e gli apparecchi sperimentali delle Forze Aeree. Prima di salire su un aereo, ne studiava attentamente la pianta e le caratteristiche costruttive, entrava in un simulatore di volo e parlava a lungo coi tecnici. Cercava di conoscere nei minimi particolari il veicolo che gli veniva affidato, di apprendere tutto il possibile prima di trovarsi a tu per tu con lui, nel cielo. Non si stancava mai, non aveva fretta. Gli altri trovavano esasperante la sua pignoleria, ma Nils li lasciava dire.. Una volta staccato da terra, avrebbe potuto contare solo su se stesso. Più ne sapeva, più probabilità aveva di fare un volo fortunato e di tornarsene vivo.
Ora le sue facoltà erano tese al massimo. Quel veicolo era così incredibilmente grande, i principii su cui si basava così nuovi... Tuttavia aveva già pilotato il Blaeksprutten, e quell'esperienza gli era preziosa. Ricordandosi delle difficoltà incontrate, aveva collaborato con i tecnici nella progettazione dei comandi e della strumentazione di bordo. Allungò una mano e sfiorò lievemente la leva, la stessa leva standard di un Boeing 707. Si sentì quasi a suo agio. Quella era collegata attraverso il computer alla propulsione Daleth e sarebbe stata usata per le manovre di precisione come il decollo e l'atterraggio. E poi l'altimetro, l'indicatore della velocità rispetto all'aria, quello della velocità effettiva, e molti altri dispositivi... I suoi occhi andavano dall'uno all'altro strumento senza mai sbagliare, nonostante l'oscurità.
Un grosso oblò di vetro, inserito nella parete d'acciaio davanti a lui, permetteva di vedere buona parte del cantiere e del porto. Anche se erano passate le due del mattino ed Helsingør dormiva da un pezzo, la zona intorno al cantiere era piena di movimento. Le auto della polizia incrociavano lentamente lungo la banchina e scrutavano coi loro fari nelle piccole strade laterali. Un plotone di soldati si muoveva in formazione sparsa tra gli edifici. Alcuni riflettori supplementari erano stati montati sopra le normali lampade stradali, e l'intera zona era illuminata a giorno. La motosilurante Hejren se ne stava ancorata trasversalmente nella parte più vicina del porto, con le torrette pronte a sparare.
La porta si aprì, lasciando passare il ronzìo dei motori, ed entrò il radiotelegrafista, che si diresse al suo posto. Dietro di lui veniva Skou, che saltellava appoggiandosi a una stampella. Rimase un attimo ritto accanto a Nils, lanciando un'occhiata all'imponente spiegamento di forze visibile all'esterno, poi, con una specie di grugnito di approvazione, si lasciò cadere nella poltroncina del secondo pilota.
— Lo sanno che siamo qui — disse — ma non sapranno altro. Dunque, a che punto è questa vecchia carcassa?
— Controlli su controlli... Ho fatto del mio meglio, e tecnici e ispettori hanno esaminato minuziosamente ogni parte dell'attrezzatura. Ecco qui i rapporti firmati. — Gli allungò una grossa cartelletta piena di fogli e aggiunse: — Niente di nuovo su quei figuri della settimana scorsa?
— Niente nel modo più assoluto. Equipaggiamento da sub acquistato qui a Copenaghen. Nessun segno, nessun documento. Le pistole erano tedesche, della seconda guerra mondiale. Speravamo di trovare una traccia esaminando le impronte digitali, ma ci siamo sbagliati. Ho controllato personalmente. Due esseri invisibili spuntati dal nulla.
— Allora, non saprete mai da che paese venivano?
— In fondo, non mi importa. Dopo quel putiferio, tutto il mondo sa che qui sta accadendo qualcosa. Ma che cosa, con precisione, nessuno lo sa, e io ho tenuto lontano tutti quanto basta per impedir loro di saperne di più. — Si protese per leggere il quadrante luminoso dell'orologio. — Non manca molto alla partenza. Tutto pronto?
— Tutti ai loro posti, pronti a partire quando riceveranno l'ordine. Tranne Henning Wilhelmsen. Se n'è andato a dormire, in attesa di essere chiamato.
— Meglio svegliarlo adesso.
Nils prese il ricevitore del telefono e formò il numero di Henning, che rispose subito.
— Comandante Wilhelmsen, qui.
— Ponte di comando. Per favore, presentatevi ora.
— Immediatamente.
— Là — disse Skou, indicando la strada in fondo al porto, dove erano apparsi mezza dozzina di soldati in motocicletta. — Funziona tutto come un orologio, e anche meglio! Guardate! Si trovava al castello Fredensborg, a venti minuti di distanza da qui.
Dietro le moto venivano due camion, carichi di militari, che facevano da battistrada a una Rolls Royce nera, lunghissima e lucentissima. Seguivano altri soldati. Come se quell'apparizione fosse un segnale, ed effettivamente lo era, altri camion carichi di truppe uscirono dalla caserma del castello Kronborg, dove stavano pronti in attesa. Quando il convoglio ebbe raggiunto l'ingresso del cantiere, un solido cordone di truppe lo circondò.
— E le luci di bordo? — domandò Nils.
— Potete farle accendere. Ora tutta la città sa con certezza che sta accadendo qualcosa.
Nils girò l'interruttore del quadro di comando, che si illuminò di una luce fredda. Skou si stropicciò le mani e sorrise. — Tutto come un orologio! E notate che io non do ordini a nessuno. Tutto è stato previsto. I «turisti-spie» presenti in città ora staranno cercando di scoprire che cosa succede, ma non possono avvicinarsi. Tra un po' cercheranno d'inviare messaggi e di partire, e ci riusciranno ancor meno. A quest'ora i buoni danesi sono a letto, e non si lasciano disturbare. Ma tutte le strade sono bloccate, i treni non partono, i telefoni non funzionano. Perfino le corsie delle biciclette sono chiuse. Ogni strada e ogni sentiero, anche quelli che attraversano i boschi, sono sorvegliati.
— E non avete liberato dei falchi, per acchiappare eventuali piccioni viaggiatori? — domandò Nils, con aria innocente.
— No! Perbacco, dovevo forse farlo? — Skou sembrava preoccupato e si morse il labbro. Poi scorse il sorriso di Nils. — State solo scherzando! Non dovreste... Sono un povero vecchio e chissà... il mio orologio interno potrebbe anche fermarsi per una scossa improvvisa!
— Voi ci metterete sottoterra tutti quanti — dichiarò Henning Wilhelmsen, arrivando sul ponte. Indossava la sua uniforme migliore. — Eccomi, signore — disse salutando Nils.
— Già, naturalmente... — fece il comandante, cercando a tentoni il proprio berretto sotto il pannello. — Sedetevi al vostro posto e iniziamo il controllo prelancio.
Finalmente trovò il copricapo e se lo calcò in testa. Si sentiva a disagio, con quello. Allora se lo tolse e guardò l'emblema ricamato sulla parte anteriore: il nuovo simbolo Daleth in campo stellato. Poi, con un rapido movimento, ficcò di nuovo il berretto sotto il quadro dei comandi.
— Scopritevi — ordinò con fermezza. — Nessuno deve portare il berretto, sul ponte.
Skou si fermò sulla porta. — E così nacque la prima grande tradizione delle Forze Spaziali... — osservò, ghignando.
— E non voglio civili sul ponte di comando!!! — gridò Nils, mentre la figura zoppicante si ritirava.
Terminato il controllo, Henning attivò il sistema di comunicazione interna, e la sua voce rimbombò in ogni compartimento della nave, ordinando all'equipaggio di prendere i rispettivi posti. Poi Nils guardò di nuovo fuori dell'oblò, e la sua attenzione fu attratta da un improvviso movimento. Un montacarichi tappezzato alla bell'e meglio di bandiere stava alzandosi da una piattaforma di legno prefabbricata. Si fermò alla curva della prua e venne assicurato in quella posizione: allora alcuni uomini, che trascinavano dei cavi, si arrampicarono su per la scala fino alla parte posteriore del montacarichi. Tutto si svolgeva con la massima regolarità. Il telefono squillò ed Henning rispose.
— I microfoni sono a posto — disse a Nils.
— Bene. Collegateli al sistema di comunicazione interna. Ma prima date il segnale di all'erta a tutti.
L'equipaggio attendeva, ogni uomo al proprio posto. I componenti furono chiamati, uno per uno, mentre Nils guardava la folla dei funzionari che si facevano avanti. Era comparsa anche una banda militare, che suonava vigorosamente, e un sottile filo di musica giungeva attraverso lo scafo sigillato. Poi, presso la piattaforma, la folla si divise e una donna alta e bruna salì per prima la scala.
— La principessa ereditaria Margrethe — disse Nils. — Meglio che ci colleghiamo anche noi.
In un attimo la piccola piattaforma si riempì, e il sistema di comunicazione interna diffuse in tutta la nave un discorso ufficiale. Il discorso fu di una brevità sorprendente: probabilmente era stato Skou a ordinarlo per ragioni di sicurezza. La banda riattaccò e Sua Altezza Reale venne avanti. Un membro dell'equipaggio calò dal ponte della nave una gomena con una bottiglia di champagne appesa all'estremità. La voce della principessa era limpida, le parole semplici.
— Io ti battezzo Galatea.
Il brusco schianto della bottiglia che si spezzava contro lo scafo si udì nitidamente. A differenza dai soliti battesimi, Galatea non fu varata all'istante. I funzionari si ritirarono prima in un punto prestabilito e la piattaforma rimase libera. Soltanto allora venne dato l'ordine di varare. I cunei furono tolti, e un brivido improvviso percorse le strutture possenti.
— A tutti i compartimenti! — disse Nils al microfono. — Controllare che le attrezzature libere siano assicurate, come da istruzioni date. E ora tutti facciano attenzione, perché presto avvertiremo una forte scossa.
Avanzavano sempre più in fretta verso l'acqua scura. Un tremito, che ricordava più il fremito del decollo che non un impatto, fece vibrare la nave quando questa venne a contatto con l'acqua. La sua corsa fu rallentata e infine fermata dalla resistenza delle catene; poi ci fu un notevole rollìo. I rimorchiatori e le scialuppe della manutenzione le si fecero attorno.
— Fatto! — esclamò Nils, staccando le mani dal bordo del pannello dei comandi, a cui si era tenuto ben stretto. — Sempre così emozionante, un varo?
— Macché! — rispose Henning. — Le navi, in genere, sono solo finite a metà quando vengono varate. Mai sentito di una che sia già pronta a salpare, e per di più, con l'equipaggio a bordo. Davvero sconcertante.
— Tempi eccezionali, circostanze eccezionali — sentenziò Nils, calmo, ora che la tensione si era scaricata. — Prendete voi il comando. Fino a quando saremo in mare, l'avrete voi. Però non mandatela a fondo come fareste con uno dei vostri sottomarini!
— Si naviga in superficie quasi sempre! — rispose Henning, orgoglioso delle sue abilità marinare. — Inseriscimi nel circuito di comando — ordinò al radiotelegrafista.
Mentre Henning si assicurava che i supporti fossero stati tolti dai rimorchiatori e che questi ultimi si trovassero nella posizione giusta, Nils controllò tutti i compartimenti. Non si erano avuti danni, l'unità non imbarcava acqua ed era pronta a partire.
Avrebbero potuto usare i loro mezzi, ma era stato deciso che si facessero rimorchiare fuori del porto. Nessuno sapeva come si sarebbe comportata quella nave tanto singolare, ed era meglio mettere in funzione le macchine solo quando sarebbero stati nelle acque libere del Sound. Dopo un breve scambio di acuti fischi, i rimorchiatori partirono. Mentre si muovevano lentamente, seguendo la motosilurante che li precedeva, Nils poté vedere distintamente per la prima volta la scena che si presentava alle loro spalle.
— Un varo segreto... — commentò Henning, indicando la folla che gremiva la banchina. Tutti applaudivano, agitando le mani in segno di saluto, e le chiazze colorate delle bandiere danesi spiccavano ovunque.
— In città sapevano tutti che qui stava accadendo qualcosa. E, una volta in acqua, mica si poteva impedire che venissero a vederci.
I rimorchiatori disegnarono un lungo arco e puntarono verso l'entrata del porto. Il molo e la barriera frangiflutti erano neri di gente, e altra ancora stava accorrendo. Molti erano in pigiama, sotto il cappotto, e mostravano un pittoresco assortimento di berretti di pelliccia, impermeabili e altri capi di emergenza. Nils resisté a fatica all'impulso di rispondere al loro saluto. Finalmente furono fuori, nelle acque dell'Øresund: le prime onde si fransero contro i ponti inferiori, lavando gli stivali degli uomini che tenevano tese le gomene.
Quando furono ben lontani dalla riva, i rimorchiatori fischiarono il loro addio e fecero dietrofront.
— Mollate — disse Henning. — Ponti liberi e boccaporti chiusi.
— Possiamo procedere, allora — disse Nils.
Al posto del secondo pilota erano sistemati dei comandi separati che servivano solo per la navigazione sulla superficie del mare. Due grandi motori elettrici erano montati su cuscinetti assicurati allo scafo della nave. E solo cavi elettrici penetravano lo scafo resistente alla pressione, assicurando così la continuità della tenuta stagna. Ciascun motore muoveva una grande elica a sei pale. Non c'era timone: i cambiamenti di direzione venivano ottenuti variando la velocità relativa delle eliche, che potevano perfino girare in sensi opposti per le rapide virate. Le leve comando spinta e le manovre di sterzo erano controllate solo dal posto del secondo pilota, e la precisione e scioltezza delle manovre erano garantite dal calcolatore, che sovrintendeva all'intera operazione.
Henning spinse in avanti entrambe le leve e Galatea si animò. Non più legata alla riva, non più a rimorchio, era una nave autonoma. Le onde si frangevano contro la prua e spruzzavano il ponte mentre la velocità aumentava. Le luci di Helsingør cominciarono a sparire. Uno schizzo di schiuma colpì l'oblò.
— A che velocità filiamo? — domandò Nils.
— Sei nodi. Stupendo. Lo scafo ha tutte le belle caratteristiche marinare di una salsiera!
— Questa sarà la sua prima ed ultima crociera sull'oceano, dunque calmatevi. — Poi eseguì un rapido calcolo. — Rallentate a cinque, così arriveremo in porto all'alba.
— Bene, signore.
Il primo viaggio stava andando più liscio di quanto si fossero aspettati. Era stata riscontrata solo una piccola infiltrazione d'acqua da uno dei boccaporti, causata da una guarnizione di dimensioni sbagliate, che avrebbero potuto sostituire con una di ricambio appena arrivati. Nella semioscurità del ponte, Nils toccò ferro: c'era da sperare che durasse sempre così.
— Volete un caffè, capitano? — domandò Henning. — Ne ho fatto fare un poco e l'ho messo nei thermos prima che chiudessero la cucina.
— Buona idea Fatelo portare. Alcuni minuti dopo, un marinaio alto, con basette sportive e due baffi imponenti, arrivò col caffè, salutando cordialmente.
— Chi diavolo siete voi? — domandò Nils. Non l'aveva mai visto prima.
— È uno dei mozzi in più che mi avete ordinato di ingaggiare — spiegò Henning. — Abbiamo dovuto cercarli e chiedere informazioni, così sono saliti a bordo solo questo pomeriggio. Jens chiedeva da mesi di essere accettato sulla Galatea. Dice che ha già esperienza di propulsione Daleth.
— Cosa?
— Signorsì. Aiutai a saldare la prima unità sperimentale. Per poco non spezzò la schiena alla nave... Il capitano Hougaard sta ancora cercando qualcuno da denunciare.
— Lieto di avervi a bordo, Jens — disse Nils, provando un certo imbarazzo nell'usare termini nautici, anche se nessuno ci faceva caso.
Il lento viaggio continuava. Ci avrebbero messo di più a percorrere trenta chilometri via mare da Helsingør a Copenaghen, che non le migliaia di chilometri che li separavano dalla Luna. Ma non c'erano alternative. Fino a che la propulsione Daleth non fosse stata installata, la Galatea era soltanto una barcaccia elettrica che andava come una lumaca.
A oriente l'orizzonte mostrava già le strisce d'oro dell'aurora, quando arrivarono all'ingresso del porto franco di Copenaghen, dov'erano in attesa due rimorchiatori che agganciarono la nave, e tornarono indietro, trascinandola delicatamente dentro il Frihavn, verso lo scalo di attesa di Vestbassin.
— Puntualissimo — disse Nils, indicando il convoglio che si fermava in quel momento sulla banchina. — Devono averci seguito continuamente. Skou mi ha detto che c'era poco meno di una divisione di soldati, dislocata qui. Lungo la strada che porta all'Istituto non c'è un metro che non sia sorvegliato. Vorrei che fosse già tutto finito. — Stringeva i pugni, di quando in quando, e quello era l'unico segno esterno di tensione.
— Non può andar storto niente. Troppe precauzioni, comunque...
— Comunque tutte le nostre uova sono nello stesso paniere. Ecco la nostra propulsione! — Indicò la forma coperta di plastica che veniva scaricata da un autocarro aperto, presso una gru. — E certo i professori sono lì anche loro. Tutte in un solo cesto... Ma non preoccupatevi: sembra proprio che ci sia l'intero esercito danese. Solo una bomba atomica potrebbe aver ragione di un simile spiegamento di forze!
— E chi mi dice che non ricorrano a quella? — Henning era bianco come un panno lavato. — Ce ne sono molte nel mondo, no? Chi può impedire a un paese, che non riesce a mettere le mani sulla propulsione, di fare in modo che non se ne serva più nessuno? Equilibrio delle forze...
— Chiudete il becco! Avete troppa fantasia. — Involontariamente, la voce di Nils aveva preso un'asprezza inaspettata. Tutt'e due alzarono gli occhi e trasalirono leggermente quando una formazione di reattori, lucenti nel sole che si stava levando, passarono rombando sopra la loro testa.
— Nostri! — disse Nils, sorridendo.
— Vorrei che si sbrigassero — rispose Henning, per nulla rasserenato.
Era necessario un lavoro di precisione per issare la gigantesca attrezzatura della propulsione Daleth a bordo e montarla; così, nonostante tutti i preparativi precedenti, l'operazione procedeva con lentezza esasperante. Mentre Galatea veniva solidamente ormeggiata alla banchina e si trafficava per aprire il grande boccaporto sul ponte di poppa, l'immensa gru se ne stava china su di esso col lungo collo metallico, pronta a sollevare il portello al momento opportuno. Quel boccaporto sarebbe servito una sola volta, poi l'avrebbero sigillato con una saldatura. Finalmente la grande lastra d'acciaio fu sollevata in aria, girò lentamente e venne deposta a riva. Nell'attimo in cui l'apertura rimase libera, l'altra gru si protese stringendo l'oscillante forma tubolare dell'attrezzatura Daleth. Con movimenti precisi, questa scomparve subito dentro il boccaporto.
Squillò il telefono, e Nils staccò il ricevitore. Ascoltò, annuendo. — Va bene. Nella mia cabina, lo ricevo là. — Poi riappese, ignorando lo sguardo interrogativo di Henning. — Prendete voi il mio posto. Torno subito — disse.
Un ufficiale nell'uniforme della Guardia del Corpo Reale era là ad attenderlo. L'uomo salutò e gli porse una grossa busta color crema, sigillata con ceralacca rossa. Nils riconobbe lo stemma, impresso nella ceralacca.
— Devo attendere la risposta — disse l'ufficiale.
Nils annuì e aprì la busta. Lesse il breve messaggio, poi andò alla scrivania. In un cassetto c'era la carta da lettere intestata col nome della nave, messa lì da qualche solerte ufficiale e che fino a quel momento era passata inosservata. Ne prese un foglio, scrisse poche parole. Chiuse il tutto in una busta e la consegnò all'ufficiale.
— Suppongo che non sia necessario l'indirizzo, vero? — domandò.
— No, signore. — L'uomo sorrise. — Permettete che da parte mia, da parte di tutti, vi faccia i miei migliori auguri. Non avete idea di che cosa provi il Paese, oggi.
— Credo di cominciare a capirlo. — E si salutarono con una stretta di mano.
Di ritorno sul ponte, Nils pensò alla lettera che se ne stava al sicuro nella sua cassaforte.
— Naturalmente, non mi direte nulla, vero? — domandò Henning.
— E perché dovrei? — Ammiccò, poi chiamò a sé il radiotelegrafista, l'unica persona che stava sul ponte in quel momento. — Neergaard, prendetevi un po' di riposo — disse. — Tornate fra quindici minuti.
Ci fu silenzio fino a che la porta non si fu richiusa.
— Veniva dal Re — disse allora Nils. — La cerimonia pubblica di questo pomeriggio non è che una commedia. Una finta. Stanno per annunciarla e diranno che noi attraccheremo presso il castello Amalienborg... ma non ci andremo affatto. Appena pronti, usciamo di qui e partiamo. Ci augura buona fortuna. Spiacente di non poter venire. Appena fuori del porto, la prima tappa sarà...
— La Luna! — disse Henning, guardando i saldatori intenti al lavoro in coperta.
16
Martha Hansen aveva dormito male. Non che le desse noia trovarsi sola nella casa vuota... Era sempre così quando Nils partiva. Ma forse da un po' di tempo a quella parte si era abituata ad averlo con sé troppo spesso, e per questo il grande letto matrimoniale le sembrava deserto.
No, non si trattava neppure di questo. In realtà stava accadendo qualcosa di molto importante, forse di pericoloso, di cui Nils non le aveva potuto parlare. Ormai lo conosceva abbastanza bene da capire subito quando aveva un segreto. Dovrò rimanere fuori una notte, forse alcuni giorni, aveva detto. Poi si era voltato e aveva acceso il televisore. Si trattava di una cosa importante, ne era certa, e quel pensiero la teneva sveglia. Aveva sonnecchiato un po', si era svegliata di soprassalto, e non era più riuscita a riaddormentarsi. Troppo stanca per leggere e troppo tesa per dormire, non aveva fatto che girare e rigirare il guanciale fino all'alba. Poi si era alzata, e dopo aver preparato la macchinetta per il caffè aveva fatto la doccia.
Mentre sorseggiava la bevanda bollente, aprì la radio per ascoltare le notizie, ma non c'era niente. Passò allora sulle onde corte e incappò in un incomprensibile discorso tenuto in una strana lingua gutturale; sorvolò sopra un programma arabo di musica leggera, e finalmente captò il giornale radio della trasmissione per stranieri mandato in onda dalla BBC. C era un servizio riguardante la stasi dei colloqui sul sud-est asiatico. Si versò altro caffè, ma per poco la tazzina non le sfuggì di mano quando sentì pronunciare la parola Copenaghen.
... rapporto incompleto, sebbene finora non sia stata fatta alcuna dichiarazione ufficiale. Tuttavia, testimoni oculari affermano che la città trabocca di soldati e che c'è molto movimento sulla banchina. Voci non ufficiali fanno il nome dell'Istituto Nils Bohr, e pare che siano in corso altri esperimenti sulla propulsione Daleth.
Martha alzò il volume al massimo per non perdere una parola mentre si vestiva. Che cosa stava accadendo? E soprattutto, c'era pericolo? Dal giorno in cui erano state uccise le spie e ferito Arnie, lei viveva nel terrore del peggio.
Ormai era completamente vestita, coi guanti e le chiavi dell'auto già in mano. Ma sulla soglia si fermò. Dove andava? E a fare che cosa? Tutta quella fretta di uscire la colpì come una manifestazione di isterismo estremamente sciocca. Non poteva aiutare Nils. Allora si lasciò cadere su una sedia dell'ingresso e lottò per non scoppiare in lacrime. La radio, intanto, continuava a trasmettere.
... e un dispaccio arrivato in questo momento informa che la nave sperimentale, chiamata anche hovercraft, non è più nei cantieri di Elsinore. Si può forse trovare un nesso tra questa notizia e gli avvenimenti precedenti verificatisi a Copenaghen...
Martha uscì sbattendosi la porta alle spalle, e aprì il garage. Non poteva fare niente, questo lo sapeva, ma non era necessario che rimanesse in casa. E mentre si dirigeva a sud, sulla Strandvejen semideserta a quell'ora, sentiva di avere preso una decisione giusta.
Però non si sentì più tanto sicura quando arrivò a Copenaghen, un labirinto di strade bloccate, piene di soldati col fucile in mano. Erano tutti molto cortesi, ma non la lasciavano passare. Tuttavia lei non si arrese. Curiosò qua e là, nel traffico che andava facendosi sempre più intenso, e si accorse che era stato creato un grande anello intorno alla zona del Porto Franco. Allora fece un ampio giro, percorrendo vicoli secondari, e puntò di nuovo verso la banchina al di là del Kastellet, il castello a pianta pentagonale e cinto da un fossato, sul fianco meridionale del porto. Poco prima di giungere alla banchina, trovò un posto per l'auto. La gente le passava accanto a piedi, e c'erano altre persone più avanti, vicino all'acqua.
Il vento freddo che tirava dal Sound la sferzava e lei non aveva modo di difendersi. La folla aumentava e tutti scrutavano l'Øresund per scoprire qualche segno di attività insolita. Alcuni degli spettatori si erano portati la radio, ma nessun bollettino accennava ai misteriosi avvenimenti del Frihavn.
Passò un'ora, poi un'altra, e Martha cominciò a domandarsi che cosa stesse lì a fare. Era completamente gelata e le radioline trapassavano i timpani. All'improvviso, un coro di «Ssss!» si levò da un gruppo di persone in ascolto. Martha cercò di avvicinarsi, ma inutilmente. Riuscì però a captare le frasi centrali del notiziario danese.
La Galatea... un varo ufficiale... cerimonia... castello Amalienborg nel pomeriggio... C'era dell'altro, ma bastava così. Stanca e intirizzita, si voltò per ritornare all'auto. Era certa che l'avrebbero invitata alla cerimonia. Probabilmente stavano cercando di telefonarle ora. Meglio fare un pisolino, poi chiamare Ulla Rasmussen per decidere che abito mettersi.
Un uomo le si parò davanti, sbarrandole la strada. Era Bob Baxter.
— Siete mattiniera, Martha — disse. — Questo dev'essere un gran giorno per voi. — Sorrideva, ma né le parole né il sorriso erano sinceri.
Lei si accorse che non poteva trattarsi di una coincidenza. — Mi avete seguita! — disse. — Avete sorvegliato la mia casa!
— La strada non è un posto adatto per discutere... e voi avete l'aria infreddolita. Perché non entriamo in quel bar? Prendiamo un caffè, qualcosa da mangiare.
— Me ne torno a casa — disse Martha, facendo l'atto di allontanarsi.
Lui la fermò con un braccio.
— Perché non siete venuta a quell'appuntamento? Quando si tratta di passaporti, i guai possono farsi seri. Volete che parliamo ora, alla buona, bevendoci una tazza di caffè? C'è forse qualcosa di male?
— No. — All'improvviso Martha si sentì molto stanca. Era inutile irritare quel tipo. Una tazza di caffè bollente le avrebbe fatto bene. Così gli permise di offrirle il braccio e di tenerle aperta la porta del bar.
Sedettero accanto alla finestra, davanti al panorama del Sound che si stendeva oltre i tetti delle auto parcheggiate. Il caldo rianimò Martha, che però non si tolse il cappotto. Baxter invece ripiegò il suo sullo schienale della sedia e ordinò due caffè a una cameriera che capiva l'inglese. Poi non parlò più fino a che la cameriera non portò i caffè e si allontanò.
— Avete pensato a quello che vi ho detto? — chiese Baxter, senza preamboli.
Martha guardò dentro la sua tazzina. — A dire il vero, no — rispose. — Non posso fare proprio niente per aiutarvi.
— Tocca a me giudicarlo. Ma voi sareste disposta a collaborare, vero. Martha?
— Sarei lieta, certo, ma...
— Ora diventate più ragionevole!
Lei si sentì intrappolata dalle sue stesse parole: un'ammissione generica veniva trasformata in una promessa.
— Non c'è «ma» che tenga — continuò Baxter — e non c'è niente di troppo difficile o strano da fare. Recentemente siete diventata amica della moglie del professor Rasmussen, Ulla. Coltivate questa amicizia.
— Ma insomma, voi mi spiate?
Baxter eluse la domanda, come se non fosse degna di risposta. — E conoscete anche Arnie Klein. È stato a casa vostra parecchie volte. Dovete approfondire la sua conoscenza, ora. È un uomo chiave, in tutta questa faccenda.
— Cosa volete, che vada a letto con lui? — sbottò Martha, in un'improvvisa esplosione di collera contro se stessa, quell'uomo e le cose che le stavano accadendo. Baxter non si turbò, ma il suo viso prese un'aria severa, piena di disapprovazione.
— C'è gente che ha fatto assai di più, per il proprio paese, che ha addirittura sacrificato la vita. Io ho dedicato la mia a questo lavoro, e ho visto molte persone morire. Così, vi prego, tenete per voi le vostre banali battute di spirito. Ve la sentite di scherzare sui ragazzi torturati e uccisi mentre combattevano contro i giapponesi, i coreani, i vietnamiti? Sono morti per rendere il mondo sicuro, perché voi poteste essere un'americana libera, vivere dove vi pare e fare ciò che più vi piace. Libera. Voi credete nell'America, vero?
Le aveva lanciato in faccia quella domanda con la solennità di una sfida.
— Certo — disse lei infine — ma...
— La fedeltà non ammette «ma». Come l'onore, è tutta d'un pezzo. Sapete che la vostra patria ha bisogno di voi e operate una libera scelta. Non è necessario ritirarvi il passaporto o servirsi d'altri mezzi di coercizione...
Ah, no? pensò lei, con cattiveria. E allora, perché li tira in ballo?
— ... poiché voi siete una donna intelligente. Voi non farete niente di disonorevole, ve lo posso garantire. Contribuirete a riparare un torto.
La sua voce fu coperta dal rombo di uno stormo di aerei che sfrecciarono bassi sopra la città, e Baxter alzò la testa di scatto, per guardarli. Li indicò col dito, ed ebbe un sorriso contratto.
— Nostri — disse. — Lo sapete quanto costa un reattore? Li abbiamo dati noi alla Danimarca. E cannoni, carri armati, navi e tutto il resto. Lo sapete che il nostro paese ha pagato ben il cinquanta per cento delle spese di riarmo della Danimarca, dopo la guerra? Proprio così, anche se ora i danesi l'hanno dimenticato. Non che ci aspettassimo gratitudine, ma un briciolo di lealtà non avrebbe fatto male. Temo, invece, che per noi ci sia in serbo solo una buona dose di egoismo. Che cosa può fare la piccola Danimarca nel mondo moderno? — Strascicò le parole con notevole disprezzo. — Un paese ingordo, che non tiene conto delle proprie responsabilità e dimentica che niente può rimanere segreto a lungo, in questi tempi. Ricordate le spie rosse e la bomba atomica? I comunisti sono al lavoro anche qui, adesso. Si impadroniranno della propulsione Daleth. E poi... sarà la fine del mondo. Moriremo o saremo ridotti in catene...
— Non accadrà necessariamente tutto questo!
— No, perché voi collaborerete. L'America è già stata altre volte l'unico bastione difensivo del mondo libero, e ora le spetta lo stesso ruolo. Noi possiamo garantire la pace.
Come in Vietnam, nel Laos, in Guatemala pensò lei, ma non ebbe il coraggio di dirlo forte.
I reattori passarono di nuovo, compiendo poi un'ampia virata lontano, sul Sound. Baxter sorseggiò il suo caffè e lanciò un'occhiata al suo orologio.
— Suppongo che ora vorrete tornare a casa e prepararvi. Sarete certo invitata alla grande cerimonia del pomeriggio in onore della Galatea. Vostro marito deve avere a che fare con questo progetto. Che compito ha?
Quella era una domanda a cui poteva rispondere, e lui doveva averlo capito dall'espressione della sua faccia. Il silenzio si prolungò.
— Andiamo, Martha — disse — non sarete mica dalla parte di questa gente!
Aveva parlato in tono divertito, più che sprezzante, come se quel pensiero fosse addirittura assurdo: tenere dalla parte del demonio invece che da quella di Dio!
— È il comandante della nave — disse lei, quasi senza pensare, scegliendo la soluzione migliore. Solo in seguito si disse che presto l'avrebbero saputo tutti, ma per il momento era ancora un segreto. E lei ormai aveva assunto un atteggiamento ben definito.
Baxter non ne approfittò; si limitò ad annuire col capo, come se ciò che gli aveva confidato fosse giusto e naturale. Poi guardò fuori della finestra e Martha lo vide trasalire. Era il primo segno di emozione genuina che avesse mai mostrato. Si voltò per seguire il suo sguardo e all'improvviso si sentì gelare.
— Quella è la Galatea — disse Baxter, indicando la forma tozza apparsa sul Sound. Lei annuì. — Bene, non è più necessario che mentiate, ora. Anche noi sappiamo qualcosa. Abbiamo foto di quella nave singolare scattate da un aereo ad alta quota. Ieri sera era a Elsinore. È venuta qui per qualche motivo, probabilmente per la propulsione Daleth, e ora va ad ormeggiarsi vicino al castello. La vedrete più da vicino tra un po'. Probabilmente salirete a bordo. — Girò la testa e guardò Martha diritto negli occhi, come per dire: Sapete come dovete comportarvi, se andrà così! Fu lei a distogliere lo sguardo. Ormai si era compromessa e lo capiva; aveva il suo tallone d'Achille.
Non sapeva con certezza come fosse accaduto.
I reattori passarono di nuovo a bassa quota. Si vedevano anche le motosiluranti che scortavano la Galatea, mentre questa avanzava, pesante, sulle onde basse. Goffamente.
— Si ferma — disse Baxter. — Chissà perché! Qualche guasto... — Poi sgranò gli occhi e si alzò a metà sulla sedia. — No! Impossibile!
E invece sì. Le motosiluranti si allontanarono, i reattori rombarono lontano.
E, leggera come un palloncino, la Galatea si sollevò dall'acqua. Per un attimo rimase sospesa così, staccata dal mare, poi si alzò sempre più in alto, sempre più in fretta, accelerando; una macchia confusa che scomparve quasi istantaneamente tra le nubi.
Martha tirò fuori il fazzoletto, incerta se ridere o piangere, e lo appallottolò con le mani convulse.
— Lo vedete! — disse Baxter con voce piena di disprezzo. — Mentono perfino a voi... L'intera faccenda del Re è una menzogna. Quelli fuggono, provano dei trucchi.
Lei si alzò di scatto e se ne andò, decisa a non ascoltare altro.
17
— Insomma, io non ne sono capace — disse Arnie. — Ci sono altre persone in grado di farlo bene quanto me, anzi molto meglio. Il professor Rasmussen, per esempio. Lui sa tutto su questa faccenda.
Ove Rasmussen scosse la testa. — Lo farei, se potessi, Arnie. Ma tu sei l'unico che può dire ciò che va detto. Anzi, sono stato proprio io a suggerire che fossi tu a parlare.
Arnie rimase sorpreso a quella dichiarazione, e i suoi occhi parvero accusare Ove di tradimento. Ma non disse nulla. Si rivolse, invece, all'efficiente funzionario del ministero degli interni venuto sulla Luna per sistemare tutti i particolari.
— Non ho mai parlato in televisione — dichiarò. — E neanche sono il tipo da mentire in pubblico.
— Nessuno oserebbe mai chiedervi di mentire, professore — rispose il giovanotto, aprendo la sua valigia ed estraendone una cartelletta. — Vi preghiamo soltanto di dire la verità. Qualcun altro discuterà poi la situazione verificatasi quassù, e riferirà i particolari, senza mentire affatto. Al massimo, taceremo qualcosa: sarà un peccato di omissione. I lavori, qui a Manebasen, non sono completamente finiti, ma non mi sembra un delitto lasciar credere il contrario. Questa nave fa parte della base, ora; esistono depositi esterni per le attrezzature e si lavora ventiquattro ore su ventiquattro.
— Ha ragione — disse tranquillamente Ove. — La situazione in Danimarca continua a peggiorare. L'altra notte hanno assaltato l'Istituto Atomico. Un gruppo di uomini travestiti da poliziotti sono scesi da un'auto e sono penetrati nell'edificio: c'è stato un conflitto a fuoco con i soldati, quando sono stati scoperti. Quattordici morti.
— Come in Israele... incursioni terroristiche — disse Arnie, tra sé. Nei suoi occhi si rifletteva una pena che durava da lungo tempo.
— Non è proprio la stessa cosa — osservò Ove, in fretta. — E non devi sentirti in colpa per quanto è successo. Però puoi contribuire a impedire altri disordini. Capito?
Arnie annuì, in silenzio, guardando fuori della grande finestra. La butterata pianura lunare si stendeva tutt'attorno alla nave, ma la vista della maggior parte del cielo era nascosta dall'orlo ripido di un cratere. Lì accanto, un grande trattore diesel stava scavando un'immensa buca nel suolo. E la nuvola blu che usciva dallo scappamento svaniva nel vuoto quasi nel medesimo istante in cui appariva. Sei grosse bombole di ossigeno erano fissate con cinghie dietro al guidatore.
— Va bene, lo farò — disse lo scienziato. E, presa la decisione, si affrettò a scacciare dalla mente quel pensiero spiacevole. — Si sono verificate altre perdite dagli scafandri? — domandò, indicando il pilota del trattore che ne indossava uno giallo e nero, con un casco tondo in testa. Intanto il funzionario del ministero degli interni filava via, soddisfatto.
— Qualcuna, ma piccolissima. Stiamo attenti e li ripariamo subito. Li teniamo pressurizzati a valori piuttosto bassi, così non c'è un vero pericolo. Comunque, dobbiamo considerarci fortunati di essere riusciti ad avere queste tute. Non so proprio che cosa avremmo fatto, se non avessimo potuto acquistare dagli inglesi quelle in sovrappiù, l'avanzo del loro programma spaziale non realizzato. Quando le cose saranno sistemate, gli americani e i sovietici faranno a gara per fornirci scafandri per... come si dice?
— Per il gran finale.
— Giusto. Presto la base sarà terminata e completamente ricoperta da una cupola, e trasformeremo tutto in modo che possa funzionare con l'energia elettrica, così non dovremo più trasportare i cilindri d'ossigeno dalla Terra.
Si interruppe mentre la troupe televisiva entrava nella stanza, spingendo i carrelli con le attrezzature. Lampade e telecamere vennero montate rapidamente e i cavi del microfono serpeggiavano sul pavimento. Il regista, un tipo con la barba a punta e gli occhiali scuri e agitatissimo, gridava istruzioni a tutti.
— Vi spiace spostarvi? — disse rivolto a Ove e Arnie, facendo segno ai suoi uomini di avvicinarsi. I mobili furono tirati in disparte e al loro posto venne messo un lungo tavolo.
Il regista osservava la scena incorniciandola con le mani.
— Inquadrate quella finestra, là di lato. Gli oratori, davanti... I microfoni sul tavolo. Portate una caraffa d'acqua e dei bicchieri! E adesso trovate qualcosa per quel muro vuoto... — Girò sui tacchi e indicò. — Ecco, quella foto della Luna. Portatela lì.
— È fissata alla parete — protestò qualcuno.
— Be', staccatela! Siete qui per questo, perbacco! — Si allontanò in fretta e guardò nel mirino della telecamera.
Leif Holm entrò con passo pesante nella stanza; era grande e grosso con lo stesso vestito di taglio sorpassato che indossava nel suo ufficio di Helsingør.
— Ho fatto un bel volo, in quel piccolo Blaeksprutten! — disse, dando una vigorosa stretta di mano ai due fisici. — Se fossi cattolico, mi sarei segnato senza interruzione per tutto il viaggio. Non potevo neppure fumare. Nils aveva paura che intasassi l'impianto di condizionamento dell'aria o qualcosa del genere. — E in memoria della forzata astinenza, sfilò una grande scatola di sigari da una tasca interna.
— Nils è qui, adesso? — domandò Arnie.
— Appena decollato — disse Ove. — Usano la nave come «ponte» televisivo e deve restare sospesa sopra l'orizzonte.
— Sul «retro» della Luna, per essere precisi — spiegò Leif Holm, decapitando il suo sigaro con una piccola lama appesa alla catena dell'orologio. — Così non potranno guardarci con i loro enormi telescopi.
— Non ho avuto ancora occasione di congratularmi con voi — disse Ove.
— Molto gentile, da parte vostra! Ministro dello spazio! Suona davvero bene. E poi non devo preoccuparmi di quello che hanno fatto i miei predecessori, perché non ce ne sono stati.
— Se non vi spiace prendere i vostri posti, ora vi darò le istruzioni necessarie — interruppe il funzionario del ministero degli interni, entrando frettolosamente. Cominciava a sudare. Amie e Leif Holm sedettero al tavolo," e qualcuno si precipitò a cercare un portacenere. — Ecco qui i principali punti che dovranno essere toccati. — Il giovanotto posò i fogli preparati davanti a loro. — So che sapete già che cosa dire, ma questi vi saranno comunque d'aiuto. Ministro Holm, a voi l'introduzione. Poi i giornalisti, dalla Terra, faranno le domande. A quelle tecniche, risponderà il professor Klein.
— Chi sono i giornalisti? — domandò Arnie. — Di quali paesi?
— Gente importante. Un gruppo agguerrito. Sovietici e americani, naturalmente, e poi di tutti i principali paesi d'Europa. Le altre nazioni si sono unite e hanno eletto i propri rappresentanti. Sono venticinque in tutto.
— Israele?
— Ha insistito per avere un rappresentante particolare. Tutto considerato, abbiamo acconsentito.
— Il collegamento è aperto — gridò il regista. — State pronti. Tre minuti. Siamo collegati in Eurovisione, e, via satellite, con l'America e con l'Asia. Guardate il monitor e saprete quando sarà il momento.
Un apparecchio televisivo con un grande schermo era sistemato sotto la telecamera numero uno. Le immagini erano chiare e il pubblico appariva teso. L'annunciatore danese stava terminando la presentazione in inglese, la lingua che sarebbe stata usata in quella trasmissione.
— ... da tutto il mondo, riuniti qui a Copenaghen, oggi, per parlare a loro, sulla Luna. Bisogna ricordare che le onde radio impiegano circa due secondi a raggiungere la Luna, e la stessa quantità di tempo per tornare indietro. Avremo quindi un intervallo di due secondi tra domanda e risposta nella seconda metà di questa conferenza stampa. Ora ci collegheremo con la stazione lunare danese, dove si trova il signor Leif Holm, ministro dello spazio.
La luce rossa si accese sulla telecamera numero due, e sullo schermo del monitor apparve la base lunare. Leif Holm fece cadere accuratamente la cenere nell'apposito piattino e aspirò dal sigaro, cosicché le sue prime parole furono accompagnate da una generosa nube di fumo.
— Parlo dalla Luna, dove la Danimarca ha stabilito una base per ricerche scientifiche e per lo sfruttamento commerciale della propulsione Daleth, che ha permesso questi voli. Il progetto è ancora agli inizi, e infatti potete vedere alle mie spalle, attraverso la finestra, i lavori in corso, e continuerà fino a che qui non sarà sorta una piccola città. Dapprima ci dedicheremo unicamente allo studio della propulsione Daleth e dei suoi sviluppi. In un certo senso, questa parte del progetto è già stata realizzata, perché tutto — si protese, fissando severamente la telecamera — proprio tutto quanto riguarda detta propulsione è ormai quassù. Il professor Klein, seduto alla mia destra, è qui per dirigere le ricerche. Ha portato con sé i suoi assistenti, le sue attrezzature, i suoi appunti, tutto quanto ha a che fare con i suoi studi, insomma. — Si appoggiò all'indietro e aspirò ancora dal suo sigaro prima di continuare.
— Perdonate se insisto su questo punto, ma voglio chiarirlo perfettamente. Negli scorsi mesi, la Danimarca ha subito molti atti di violenza contro le sue frontiere. Sono stati commessi delitti. Sono state uccise persone. Triste a dirsi, ma sulla Terra esistono potenze nazionali pronte a qualsiasi cosa pur di ottenere informazioni sulla propulsione Daleth. Mi rivolgo proprio a loro, in questo momento, scusandomi in anticipo con tutti i paesi del mondo che invece amano la pace, e che costituiscono la stragrande maggioranza. Basta con la prepotenza, ora: andatevene! Non c'è più niente da rubare. Noi danesi vogliamo approfondire la conoscenza dell'effetto Daleth per il bene dell'umanità, non per fomentare la violenza.
Si fermò, fissando con un'occhiata di fuoco la scena, poi si appoggiò allo schienale. Arnie guardava innanzi a sé, senza espressione, come aveva fatto durante l'intero discorso.
— E adesso, signori, risponderemo alle domande specifiche che vorrete farci.
La scena sul monitor cambiò. Ora si vedeva l'auditorio di Copenaghen dove aspettavano i rappresentanti della stampa. Sedevano sulle loro sedie, in file ordinate, in atteggiamento di attenzione silenziosa, e i secondi scorrevano lentamente. Davvero sconcertante constatare come le onde radio, pur viaggiando alla velocità della luce, impiegassero secondi misurabili a percorrere l'immensa distanza tra la Luna e la Terra... Poi, all'improvviso, la scena cambiò bruscamente e un certo numero di giornalisti balzò in piedi, gridando per attrarre l'attenzione. Le telecamere inquadrarono uno di essi, un uomo corpulento, con una gran massa di capelli. Sullo schermo, sotto di lui, apparve, in lettere bianche, la scritta: STATI UNITI D'AMERICA.
— Potete precisare chi sarebbe responsabile dei sunnominati «atti di violenza» in Danimarca? La definizione di «potenze nazionali», per usare le vostre stesse parole, potrebbe essere applicata a qualsiasi nazione. Perciò, implicitamente, tutte le nazioni si sentono condannate. E questo è estremamente spiacevole... — concluse, fissando ferocemente la telecamera.
— Dolente che la prendiate così — replicò Holm, con calma — ma questa è la verità. Sono state compiute aggressioni, sono morte diverse persone. Ritengo che sia inutile entrare in dettagli. La stampa mondiale avrà certo domande più importanti di questa da farmi.
Prima che il cronista furente potesse ribattere, fu inquadrato un altro tipo, il rappresentante dell'Unione Sovietica. Se era lui pure irritato, riuscì a nasconderlo bene.
— Naturalmente, l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche si schiera con le nazioni amanti della pace nel condannare le aggressioni verificatesi in Danimarca! — dichiarò, lanciando uno sguardo carico d'odio al cronista americano, che lo ricambiò. Poi continuò: — Ecco una domanda più importante: che cosa intende farne il vostro paese, della propulsione Daleth?
— Intendiamo sfruttarla commercialmente — rispose Holm, quando furono trascorsi i secondi necessari — seguendo l'esempio delle navi danesi che resero possibili gli scambi commerciali con l'Asia orientale durante il secolo scorso. È stata formata un'apposita società, la Det Forenede Rumskibsselskab, società delle navi spaziali unite, tra il governo e l'industria privata. Intendiamo aprire all'uomo la strada della Luna e di altri mondi. Per il momento, naturalmente, non ci sono ancora progetti specifici, ma siamo certi di avere davanti grandi possibilità. Materie prime, ricerche, turismo... chissà dove si finirà? In Danimarca tutti ne siamo entusiasti, perché ci sembra di poterne trarre vantaggi a non finire.
— Per la Danimarca! — disse il russo prima che venisse inquadrato un altro collega. — Questo monopolio non significa forse che voi impedirete al mondo di trarre la sua giusta parte di profitto da questa avventura? Non dovreste voi, in quanto paese socialista, dividere con gli altri la vostra scoperta... secondo il vero spirito socialista?
Leif Holm annuì, solennemente. — Molte delle nostre istituzioni pubbliche sono socialiste, ma ne abbiamo anche un notevole numero di private e tanto capitaliste da impedirci di rinunciare a quello che voi chiamate «monopolio»... È un monopolio solo nel senso che saremo noi a far funzionare, con un equo profitto, le navi a propulsione Daleth, che apriranno il sistema solare ai paesi della Terra. Cercheremo di non essere troppo avidi, e abbiamo già stipulato un accordo con i paesi scandinavi per la costruzione di tali navi. Siamo certi che questa invenzione andrà a beneficio del genere umano, e consideriamo nostro dovere mettere in pratica tale convinzione.
Il rappresentante della stampa israeliana fu inquadrato nel mezzo di una folla di colleghi eccitati e gesticolanti, e si volse verso la telecamera. Aveva un atteggiamento distaccato, da studioso, con la tendenza a sbirciare al di sopra degli occhiali senza montatura, ma Arnie lo riconobbe come uno dei commentatori più acuti del paese.
— Se questa scoperta è di tale vantaggio per il genere umano, perché non è stata resa accessibile al mondo intero? La mia domanda è rivolta al professor Klein.
Arnie ebbe solo pochi secondi per prepararsi alla risposta, ma si era già aspettato una domanda del genere. Guardò deciso la telecamera e parlò, lentamente, con chiarezza.
— L'effetto Daleth è qualcosa di più di un sistema di propulsione: potrebbe essere sfruttato facilmente per distruggere. Un paese che si proponesse di conquistare il mondo intero, potrebbe riuscirci in poco tempo, utilizzando questo effetto. E magari annientare il nostro pianeta durante tale tentativo.
— Volete precisare meglio? Sono ansioso di sapere come questa specie di motore a razzo possa fare tutto ciò che dite.
Il cronista sorrise, ma Arnie non si lasciò ingannare. Tutti e due ne sapevano assai più sull'effetto Daleth di quanto volessero ammettere.
— Le sue possibilità sono incalcolabili, perché non è affatto una «specie di motore a razzo». Si tratta di un principio nuovo. Può servire a sollevare una nave, piccola... o grande. E magari anche un'intera fortezza in cemento armato e acciaio, con pesantissimi cannoni. E a trasportare poi questa in una parte qualsiasi del mondo in pochi minuti. E la fortezza potrebbe restarsene sospesa nello spazio in cima al pozzo di gravità, al sicuro da qualsiasi rappresaglia, persino da un attacco con missili dotati di armi nucleari, e distruggere qualsiasi obiettivo con semplici granate. O, se questo non vi sembra sufficientemente atroce, vi dirò che, grazie all'effetto Daleth, sarebbe possibile sollevare enormi masse e perfino piccole montagne, trasportarle sulla Luna o lasciarle cadere sulla Terra: le sue possibilità di distruzione sono illimitate.
— E credete che gli altri paesi del mondo userebbero l'effetto Daleth solo per distruggere, se lo possedessero? — Gli altri cronisti rimasero un attimo in silenzio, avvertendo il duello nascosto nel dialogo fra i due uomini.
— Sapete benissimo che lo farebbero — replicò Arnie, secco. — Da quando in qua l'orribile potenza di un'arma ha distolto qualcuno dal farne uso? Chi è stato capace di compiere un genocidio con i gas velenosi e le bombe atomiche durante una guerra, non si fermerà davanti a nulla.
— E credete che Israele si comporterebbe così? Ho sentito dire che l'effetto Daleth l'avete scoperto in Israele e l'avete poi sottratto a quella nazione.
Arnie si era aspettato la domanda, ma tremò ugualmente sotto il colpo. Quando ricominciò a parlare, la sua voce era tanto debole che i tecnici dovettero alzare il volume audio.
— Non volevo obbligare Israele a scegliere tra la propria sopravvivenza e la necessità di scatenare una tragedia nel mondo. Dapprima pensai di distruggere i miei appunti, ma poi mi accorsi che esistevano buone probabilità che qualcun altro giungesse alle mie medesime conclusioni e scoprisse ciò che avevo scoperto io. Dovevo per forza prendere una decisione... e la presi. — Era irritato, ora, e le sue parole avevano un tono di sfida. — Sono certo di avere agito giustamente, e tornerei a comportarmi così, se venissi a trovarmi nella medesima situazione. Ho portato la mia scoperta in Danimarca, perché, per quanto io ami Israele, è pur sempre un paese eternamente in guerra e potrebbe servirsi dell'effetto Daleth per scopi bellici. E poi ero convinto che, se avessi trovato il modo di fare del bene col mio lavoro a tutta l'umanità, ne avrebbe approfittato anche Israele, e per primo, visto tutto ciò di cui gli sono debitore. Ma la Danimarca, che conosco bene perché vi sono nato, non si trova sotto la minaccia di un'aggressione che possa spingerla a scatenare una guerra. È il paese che per due volte ha votato in favore del proprio disarmo unilaterale. In un mondo pieno di belve, voleva camminare disarmato! La Danimarca ha fiducia. E io ho fede in lei. Può anche darsi che mi sia sbagliato, ma Dio sa che ho fatto del mio meglio...
La sua voce tremò per l'emozione, e lui distolse lo sguardo dalla telecamera. Immediatamente il regista diede la parola alla Terra. Dopo i soliti secondi di attesa, venne inquadrato un cronista indiano, che rappresentava un gruppo di giornalisti asiatici.
— Il ministro dello spazio vuol essere tanto cortese da spiegare più dettagliatamente i vantaggi che deriverebbero dall'impiego di questa scoperta e da enumerare quelli che riguarderebbero in particolare i paesi dell'Asia meridionale?
— Sì, lo farò — disse Holm. E guardò il suo sigaro. Se l'era completamente dimenticato, e si era spento.
18
— È una giornata splendida, proprio quello che ci vuole — disse Martha Hansen, schiacciando la sigaretta nel portacenere e intrecciando poi le dita, per nascondere la sua eccitazione.
— Ma certo, ma certo — disse Skou. E allargò le narici, annusando l'aria quasi per accertarsi che non ci fosse odore di guai. — Vi prego di scusarmi un momento.
E, prima che Martha potesse rispondere, sparì, con le sue due fedeli ombre alle calcagna. Lei prese un'altra sigaretta e l'accese; se andava avanti così, ne avrebbe fumato un intero pacchetto prima di mezzogiorno. Allungò le gambe sul divano, e si lisciò la gonna. Aveva scelto il vestito giusto? L'abito di maglia era quello che Nils preferiva. Quanto tempo era trascorso? Udì il rumore di un'auto e si girò di scatto... ma era soltanto il traffico che passava su Strandvejen. Il sole brillava sull'erba verde, sugli alberi alti e sulle azzurre acque del Sound. Le vele bianche si inclinavano per sfuggire al vento e una barca a motore ronzava come un calabrone, tracciando una pallida e lunga scia verso la Svezia. In una domenica di giugno sfavillante di sole... anche la Danimarca poteva trasformarsi in un paradiso, e Nils stava per tornare! Quanti mesi erano passati...
Tre grosse auto nere imboccarono il vialetto di accesso e si fermarono davanti alla casa. Un'auto della polizia e un'altra non meglio identificabile parcheggiarono davanti al marciapiede. Erano arrivati!
Martha si precipitò, precedendo Skou, e spalancò la porta.
— Martha! — gridò Nils, mollando la borsa e stringendo a sé la moglie. E la baciò con tanta foga da toglierle il respiro, proprio lì, sotto il portico. Quando lei riuscì a svincolarsi ridendo, si accorse che un piccolo circolo di uomini stava aspettando pazientemente la fine delle loro effusioni.
— Scusate! Entrate, prego — disse. Aveva i capelli in disordine e probabilmente delle sbavature di rossetto sul mento, ma se ne infischiava allegramente. — Arnie, che piacere vedervi! Entrate, per favore! — Si ritrovarono nel soggiorno, loro tre soltanto, mentre il rumore di passi pesanti risuonava per tutto il resto della casa.
— Mi spiace per la guardia d'onore — disse Nils. — Ma era l'unico modo di riportare Arnie sulla Terra per una vacanza. Avevamo bisogno tutti di un po' di riposo, e lui più degli altri. Il mastino Skou si è lasciato commuovere solo a patto che Arnie venisse a stare da noi, e lui potesse prendere tutte le misure di sicurezza che riteneva opportune.
— Grazie per l'ospitalità — disse lo scienziato, abbandonandosi stancamente contro lo schienale di una poltroncina imbottita. Aveva l'aria tesa e aveva perso molti chili. — Mi spiace di imporvi...
— Non fate lo sciocco! Se dite un'altra parola vi caccio fuori e vi mando all'albergo della missione, dove, lo sapete, non si vendono alcolici. Ecco qui i bicchieri. Brindiamo. Che cosa preferite? — Si alzò e andò al bar.
— Ho le braccia pesanti come il piombo — disse Nils alzandole e abbassandole, scocciato. — Mi resta appena forza sufficiente per portare un bicchiere alla bocca. La gravità lunare, un sesto di quella terrestre, rovina i muscoli.
— Povero tesoro! Devo darti il poppatoio?
— Lo sai che cosa devi fare, per ridarmi energie!
— Mi sembri troppo stanco. Meglio bere qualcosa, prima. Ho preparato dei martini. Vanno bene?
— Benissimo. E ricordami che ho una bottiglia di gin di Bombay in valigia per te. Si possono acquistare senza sovrapprezzo, sulla Luna, perché è stato deciso di considerarla porto franco finché a qualcuno non verrà un'idea migliore. I doganieri, molto generosi, ci permettono di portarne un litro sulla Terra. Una gita di andata e ritorno di ottocentomila chiometri, per risparmiare venticinque kroner di dogana! Il mondo è impazzito. — Mandò giù una sorsata del liquido gelato e sospirò soddisfatto.
Arnie bevve qualche sorso. — Spero che mi perdonerete per la presenza di tutte queste guardie e per la confusione, ma mi trattano come un tesoro nazionale...
— E lo siete davvero! — esclamò Nils. — Ora che tutta l'attrezzatura Daleth è sulla Luna, valete un miliardo di kroner per qualsiasi paese che abbia tanto denaro da comprarvi. Vorrei non essere così patriota: vi venderei al miglior offerente, poi mi ritirerei a Bali per il resto della mia vita!
Arnie sorrise, più rilassato, e, rivolto a Martha, disse: — Hanno ordito una congiura. I dottori, Skou, vostro marito, tutti quanti. Hanno pensato che trasformando la vostra casa in un fortino armato io sarei potuto venire. Comunque, il tempo non poteva essere migliore.
— Tempo da vela — disse Nils, scolando il bicchiere. — Dov'è la barca?
— In acqua, come volevi tu, ormeggiata nel lato sud del porto.
— Che giornata, per una gita! Perché non ce ne andiamo tutti insieme laggiù... Ah, no, accidenti! Arnie deve restarsene in casa!
— Andate voi due. Io starò benissimo qui — insisté lo scienziato. — Prenderò il sole in giardino.
— Niente affatto! — replicò Martha. — Andrà Nils al porto e se ne tornerà indietro tutto accaldato e incatramato. Lui non esce mai con la barca, si limita a calafatare le fessure e a verniciare. Lasciamo che vada a distendersi i nervi, mentre noi ce ne stiamo qui a crogiolarci al sole.
— Be'... se non vi spiace... — Nils era già alla porta.
— Va' pure — rise Martha. — Ma torna in tempo per la cena.
— Vado a cercare Skou per dirgli che cosa ho intenzione di fare. Non che quelli si preoccupino molto di me... Io della propulsione Daleth so soltanto premere i pulsanti.
Martha gli portò i pantaloni da lavoro, la camicia macchiata di vernice e i calzoncini da bagno. Appena pronto, Nils uscì sbattendo la porta. Arnie era andato in camera sua a cambiarsi e, alla vista di quel sole delizioso, anche Martha si mise in costume da bagno. Tutti i danesi si trasformano in adoratori del sole, in giornate simili.
Poi Arnie si allungò su una sdraio, nel patio, e Martha ne spostò un'altra accanto alla sua.
— Magnifico — disse lo scienziato. — Non mi rendevo conto di quanto ci mancassero i colori e l'aria aperta. — L'ombra di un gabbiano scivolò sull'erba e si arrampicò sullo steccato di legno. Tutto era tranquillo. Qualcuno rideva, lontano, e si udiva distintamente il toc toc di una palla da tennis.
— Come va il lavoro? Per lo meno quel tanto di cui potete parlarmi?
— L'unico segreto è la propulsione. Per il resto, è come dirigere una compagnia di navi a vapore e aprire le porte del West selvaggio. Avete letto della nostra visita a Marte?
— Sì. E vi ho invidiato. Quando comincerete a vendere biglietti per passeggeri?
— Prestissimo. E voi avrete il primo. Si stanno già facendo molti progetti in quel senso. Comunque, quelle vene superficiali di uranio su Marte hanno fatto alzare tremendamente le azioni della DFRS sui mercati mondiali. Tutti versano denaro a palate nel super transatlantico che gli svedesi stanno costruendo, principalmente per trasporto merci, ma anche con molte cabine passeggeri per i turisti che verranno poi. Lo rimorchieremo fino sulla Luna, e là inseriremo la propulsione. La base è diventata quasi una città, ormai, con officine e catene di montaggio. Quasi tutti i pezzi delle unità Daleth sono costruiti là, tranne gli elementi elettronici standard, che vengono dalla Terra. Procede tutto a meraviglia e nessuno trova da lamentarsi. — Si guardò intorno per toccare ferro, ma le sedie in plastica del giardino non ne avevano.
— Devo portarvi una pentola? — domandò Martha. Ed entrambi scoppiarono a ridere. — Forse preferite una bibita ghiacciata? Il cortile, così chiuso, ripara dalla brezza. Sentirete molto caldo, immagino.
— Grazie. Ma dovete farmi compagnia.
— Cercate di impedirmelo, se ce la fate. Gin e acqua tonica, dato che abbiamo cominciato col gin.
Martha si alzò e tornò con i bicchieri sopra un vassoio. Camminava senza far rumore, a piedi nudi, e Arnie trasalì quando la vide.
— Non volevo spaventarvi — disse lei, porgendogli un bicchiere.
— Voi non ne avete colpa: sono io lo sciocco. Ho avuto un periodo di grande lavoro e di tensione. E mi fa veramente bene starmene qui. Fa quasi caldo come in Israele.
— Ne sentite la mancanza, vero? — disse Martha. Poi soggiunse, in fretta: — Scusate, non sono fatti miei.
Il sorriso era sparito, la faccia di Arnie era inespressiva, ora. — Sì, sento la mancanza del mio paese e dei miei amici di là. Ma credo che mi comporterei ancora così, se mi si ripresentasse l'occasione.
— Non voglio ficcare il naso...
— No, Martha, è perfettamente vero. Ce l'ho quasi sempre in mente. Traditore o eroe? Preferirei morire che danneggiare Israele. Eppure ho ricevuto una lettera, in ebraico, senza firma. Che cos'avrebbe pensato Esther Bar-Giora? diceva.
— Vostra moglie?
— Sì. Vi assomiglia molto. Gli stessi capelli... — Lanciò un'occhiata alla figuretta di Martha, più carne che stoffa nel succinto costume da bagno, poi distolse lo sguardo e tossì. — La stessa corporatura. Ma lei era scura, sempre abbronzata dal sole. Una vera israeliana, nata e cresciuta in Israele. Era stata mia allieva; soleva dire che aveva sposato il professore. — Gli occhi di Arnie avevano ora un'espressione triste, lontana. — È stata uccisa durante un'incursione di terroristi. — Sorseggiò il suo gin. Nel silenzio che seguì, si udirono le allegre grida lontane dei bambini.
— Ma non lasciatemi cadere nella tristezza, Martha. È un pomeriggio troppo bello. Però vor rei sapere chi ha mandato quella lettera... Vorrei dire, a chiunque l'ha scritta, che Esther si sarebbe forse inquietata con me, ma certo poi avrebbe capito. E infine mi avrebbe dato ragione. Verrà il giorno in cui il bene del genere umano dovrà essere anteposto a quello della patria. Voi sapete che cosa intendo dire: siete americana per nascita e danese di adozione; una vera cittadina del mondo.
— No, non proprio. — Martha rise per mascherare la sua confusione. — Cioè sono sposata a un danese, ma sono ancora cittadina americana, con tanto di passaporto. — Perché gli aveva detto questo?
— Carte — disse lui, alzando la mano in un gesto di disprezzo — tutte cose senza senso. Noi siamo ciò che pensiamo di essere. Le nostre azioni riflettono la nostra moralità. Non mi esprimo bene, perché in filosofia non valgo niente... Io non sono mai riuscito in niente, tranne in fisica e in matematica. Una volta sono stato perfino bocciato in chimica: avevo dimenticato una storta sul. fornello, facendola così esplodere. E non mi sono mai preoccupato d'altro che del mio lavoro. E di Esther, naturalmente, dopo sposato. La gente mi definiva «orso» e aveva ragione. Non giocavo mai a carte, a cose del genere. Ma sapevo osservare e pensare. E vedevo i tentativi fatti per distruggere Israele. E quando l'idea della propulsione Daleth si fece sempre più prossima alla realizzazione, ho pensato con intensità sempre maggiore all'uso che dovevo farne. Ricordai Nobel e i suoi premi assegnati a individui dalla coscienza sporca. Ripensai agli scienziati atomici impazziti o che si erano suicidati. «Perché» mi ripetevo di continuo «perché non fare qualcosa prima di rivelare la scoperta? Non potrei destinarla al bene dell'umanità, invece che alla sua distruzione?» Quel pensiero mi perseguitava e non riuscivo a liberarmene. Infine dovetti decidermi ad agire di conseguenza. Sapevo che non sarebbe stato facile, ma non pensavo che fosse così arduo...
Arnie si interruppe e bevve qualche sorso. — Perdonatemi. Parlo troppo. È che sono stato molto tempo tra uomini. Basta una donna, un orecchio pietoso, e vedete che cosa succede?... Un bello scherzo. — E la sua faccia si contrasse in un sorriso doloroso.
— No! — Martha si protese d'impulso e gli afferrò una mano. — Una donna impazzirebbe se non potesse raccontare i suoi guai a nessuno. Credo che sia questo il guaio di voi uomini: vi tenete tutto dentro finché non esplodete e ammazzate qualcuno.
— Sì, certo. Grazie. Grazie infinite. — Le batté sulla mano, goffamente, poi si sdraiò, ad occhi chiusi. Un grosso calabrone ronzava affaccendato intorno all'altea rosata che si arrampicava sul muro della casa. Era l'unico rumore in quel pomeriggio tranquillo.
Den er fin med kompasset,
Slå rommen i glasset...
Nils cantarellava allegramente raschiando le bolle di vernice sul tetto dell'abitacolo. Il porto era deserto: in un pomeriggio di domenica come quello, tutte le barche erano fuori, sul Sound. Ci sarebbe andato anche lui, appena finito, ma non voleva vedere imperfezioni sulla sua Måge e così finì per passare quasi tutto il tempo a verniciare e lucidare, invece che a navigare. Be', era divertente anche quello. Aveva buoni muscoli e gli piaceva usarli; anche se l'indomani sarebbero stati indolenziti, dopo tanti mesi di gravità lunare. Era lì a piedi nudi, in calzoncini da bagno, tutto sudato, e si divertiva straordinariamente. Cantava tanto forte che non udì neppure i passi sul ponte alle sue spalle.
— Accidenti, che baccano! — disse la voce.
— Inger! — Si sollevò a sedere e si asciugò le mani nello straccio. — Hai proprio preso l'abitudine di sorprendermi all'improvviso? E che diavolo fai qui?
— Un caso, se così si può dire. Sono qui con amici del Malmö Yacht Club, solo fino a stasera. — Indicò un grosso cruiser dall'altra parte del porto. — L'abbiamo ormeggiato là per pranzare e bere qualcosa, naturalmente. Lo sai che noi svedesi abbiamo sempre sete. Sono andati tutti nel kro. Devo raggiungerli.
— Non prima che t'abbia offerto qualcosa da bere! Ho qualche bottiglia di birra in un secchiello di ghiaccio. Santo cielo, come sei bella!
Era vero. Inger Ahlqvist: un metro e ottanta di bionda abbronzata, con un bikini così ridotto da vedersi appena.
— Non dovresti andartene intorno così — disse Nils, sentendosi contrarre involontariamente i muscoli. — Sei perfida a torturare un poveraccio che gioca all'Uomo sulla Luna da tanto tempo che si è dimenticato di com'è fatta una ragazza!
— Esattamente come me — replicò lei, ridendo. — Va bene, dammi quella birra, così poi me ne vado a mangiare. La vela mette appetito. Com'è la Luna?
— Indescrivibile. Ma ci andrai presto. La DFRS ha bisogno di hostess, e io ti strapperò alla SAS col miraggio di uno stipendio più alto. — Saltò dentro l'abitacolo, atterrando più pesantemente di quanto si aspettasse perché non si era ancora riabituato al cambiamento di gravità. E aprì la porta della cabina. — Ne prendo una anche per me. Che tempo splendido! Che cosa hai fatto, ultimamente?
Andò in fondo al locale, dove teneva le bottigliette verdi in un secchio d'acqua con pezzetti di ghiaccio. Lei lo seguì nell'abitacolo.
— La solita vita. Sempre divertente, ma non credere che non ti abbia invidiato per i viaggi sulla Luna e su Marte. Dicevi davvero, per la faccenda delle hostess?
— Certo. — Nils fece saltare i tappi con un aggeggio fissato alla parete. — Non posso ancora dirti i particolari, per via del segreto, eccetera, eccetera, ma esistono piani precisi per un servizio passeggeri, in futuro. Deve essere così. Ti rendi conto che possiamo raggiungere la base lunare impiegando meno tempo di quanto ci impiega un aereo di linea a volare da Kastrup a New York? Ecco qui.
Le allungò la bottiglia e lei fece un passo avanti per afferrarla.
— Skal.
La ragazza bevve avidamente, poi staccò la bottiglia dalle labbra umide, con un sorriso soddisfatto. Era a pochi centimetri da lui, ora.
Nils lasciò cadere la sua bottiglia, che rotolò sul ponte rovesciando un pallido ruscello di schiuma. Afferrò la ragazza alla vita e sentì sotto le mani il calore della pelle... Il corpo di Inger fu contro il suo.
Anche la bottiglia della ragazza cadde a terra e rotolò, fermandosi rumorosamente contro le altre.
Ma loro non se ne accorsero.
Arnie riposava con la bocca aperta e la testa ripiegata di lato; il respiro era profondo e regolare. Martha si alzò piano per non disturbarlo. Se fosse rimasta lì ancora, nel calore pesante del giardino, si sarebbe addormentata anche lei, e non voleva. Entrò in casa, si infilò una leggera giacca da spiaggia e bussò alla porta di Skou.
Lui venne ad aprire con un paio di auricolari in testa e le fece cenno di entrare. Aveva trasformato la camera da letto in un posto di comando, e c'era un tavolo pieno di dispositivi per comunicare con i suoi uomini. Impartì degli ordini, poi tolse il collegamento.
— Faccio una corsa fino al porto — disse Martha. — Il professor Klein dorme in giardino, dietro la casa, e non voglio disturbarlo.
— Ci pensiamo noi a sorvegliarlo. Gli dirò dove siete andata, se si sveglia.
Era una passeggiata di soli cinque minuti. Martha camminò lungo la spiaggia, tenendo in mano i sandali. La sabbia calda le accarezzava piacevolmente i piedi. Si tenne lontana dall'acqua che, lo sapeva, era sempre troppo fredda per poterci nuotare. L'aria era immobile, e non si udiva nulla tranne il pulsare di un elicottero, in alto. Probabilmente apparteneva al servizio di sorveglianza per Arnie. Nei dintorni erano parcheggiate parecchie auto e molti autocarri che venivano da fuori, e lei sapeva che alcuni vicini avevano ospiti inattesi. Quel povero ometto stanco veniva sorvegliato come un tesoro nazionale! Be', probabilmente lo era. Salutò con la mano un gruppo di amici che pigliavano il sole sulla spiaggia, e salì i gradini di pietra fino sulla sommità dei frangiflutti. Nel porto c'erano pochissime imbarcazioni e scorse subito la Måge. Ma Nils non si vedeva.
Era forse andato al kro, oltre la strada, a bere qualcosa? No, di solito si fermava durante l'andata per comprare la birra. Dove diavolo poteva essere finito? Sotto coperta, probabilmente.
Stava per chiamarlo, quando vide la bottiglietta sul pavimento dell'abitacolo. Poco distante, sulla soglia dell'uscio semiaperto, notò una striscia di stoffa azzurra: la parte superiore di un bikini.
Nel medesimo istante, con chiarezza agghiacciante, capì che cosa avrebbe visto nella cabina. Era come se avesse già vissuto quell'istante prima, chissà quando, e ne avesse poi sepolto il ricordo che ora riaffiorava. Con calma, pur essendo sconvolta, si avvicinò all'estremità del pontile e si sporse, tenendosi aggrappata al palo d'ormeggio. Attraverso l'uscio socchiuso vedeva ora la cuccetta di tribordo, l'ampio dorso di Nils, le due mani che accarezzavano quel dorso e le gambe abbronzate...
Si rizzò, soffocando un singhiozzo, mentre un'ondata d'ira la travolgeva. Lì, nella loro barca, dopo essere stato via tanto tempo, e non ancora definitivamente a casa!
Stava per balzare dentro l'imbarcazione, per ferire, mordere, lacerare... Non aveva nessuna intenzione di dominarsi. Ma in quel momento esplosero delle grida.
— La vela è bloccata! — urlò qualcuno, in danese, dal panfilo a un solo albero che puntava veloce verso il pontile, dove stava lei.
Intravide un uomo che lottava con il sartiame aggrovigliato, una donna che spingeva la barra del timone e gridava qualcosa al compagno, e dei bambini che cercavano di afferrarsi alle gomene e cadevano uno sopra l'altro. In un altro momento, sarebbe stata una scena buffa. Il panfilo avanzava, ancora troppo veloce, ma la donna riuscì a manovrare il timone.
Invece di finire contro il timone con la prua, l'imbarcazione virò, investendo di striscio i pali di sostegno e rimbalzando lontano. Uno dei bambini cadde dal tetto della cabina e finì sul ponte, strillando per lo spavento. La vela scese, tutta aggrovigliata, e l'uomo si diede da fare con quella.
Poi il panfilo perse velocità e finì per fermarsi. La tragedia era scongiurata. Qualcuno cominciò a ridere. Tutto era avvenuto in pochi secondi. Martha fece di nuovo un passo avanti... poi esitò. In quei brevi istanti tutto era cambiato. Quei due, certo, si erano messi a sedere e stavano vestendosi, ridendo magari. Si sentì imbarazzata a quel pensiero e indugiò. Era ancora furente, anche se l'ira era come soffocata ora, dentro di lei. Il piccolo panfilo si era ormeggiato qualche metro più in là. E lei poteva adesso, a mente fredda, entrare nella cabina della Måge e fare una scenata, mentre quella gente era lì a sentire? Un ragazzo le passò accanto urtandola e si scusò mentre assicurava una delle gomene.
Con un singulto carico di odio e di dolore, si voltò di scatto e scappò via, di corsa. La rabbia, una rabbia terribile la bruciava. Come aveva potuto Nils comportarsi così? Sospirò di nuovo.
Solo quando si ritrovò davanti all'ingresso principale della sua casa si accorse che aveva ancora i sandali in mano e che le piante dei piedi le dolevano per la corsa sul marciapiede di cemento. Se li infilò, tremante, e ricordò che non aveva la chiave. Allora alzò il pugno per bussare, ma Skou la precedette aprendole la porta.
— Vigilanza è la nostra parola d'ordine — disse, facendola entrare e richiudendo a chiave l'uscio dietro di lei.
Martha annuì e se ne andò, senza badare a nulla. Vigilanza!... Avrebbe dovuto essere anche la sua parola d'ordine. Non voleva parlargli, né vedere nessuno. Attraversò rapidamente la casa e si chiuse in bagno. L'ira la consumava, prendendola alla gola; la rabbia impotente di non poter far niente. Non avrebbe dovuto fuggire! Ma che altro avrebbe potuto fare? Con un singhiozzo, aprì il rubinetto dell'acqua fredda e tuffò le braccia nel getto, spruzzandosi la faccia che scottava. Non riusciva neppure a piangere, tanto la rabbia era terribile. Nils! Come aveva potuto!
Si passò le dita nei capelli, senza avere il coraggio di guardarsi allo specchio. Se lui non si vergognava, lei sì. Si spazzolò i capelli con violenza. Molti uomini sposati facevano cose del genere, in Danimarca. Ma Nils, no. E perché no? Adesso sapeva. L'aveva già fatto altre volte? Come doveva comportarsi, ora? Come poteva punirlo?
Le sembrò improvvisamente di vederlo tornare, lì, nella loro casa, e cercare di abbracciarla come se niente fosse accaduto. Già... ma come si sarebbe comportata lei? Poteva rinfacciargli le sue colpe? Ma sentiva poi il bisogno di lui? Sì. No! Voleva solo vendicarsi. Ciò che aveva fatto era imperdonabile.
Aveva un nodo alla gola, stava per scoppiare in lacrime. Ma no, non doveva! Perché piangere? C era di che infuriarsi, invece, questo sì.
Si rizzò di scatto, per non vedere più la propria immagine riflessa. Così facendo, notò un piccolo taccuino sopra il contenitore della biancheria sporca e lo raccolse perché quello non era il suo posto. Lo aprì distrattamente, domandandosi che cosa potesse farne, e vide che i fogli erano coperti da file di calcoli e da simboli strani piuttosto che da numeri. Allora lo chiuse di scatto, corse in camera sua e si appoggiò alla porta, tenendo il taccuino stretto al petto.
Se si può dire che a volte l'emozione si sostituisce ai processi logici del raziocinio, quella fu certo una di tali occasioni. Baxter l'aveva seccata raramente, negli ultimi tempi, ma lei non pensava affatto a lui. E neanche all'America o alla Danimarca, alla lealtà o al patriottismo... Pensava a Nils e a ciò che aveva visto sulla barca e, forse inconsciamente, decise di ferirlo come aveva fatto lui.
Fu estremamente facile. Chiusa a chiave la porta della camera, andò alla scrivania e prese la macchina fotografica dal cassetto. Ci aveva messo una pellicola il giorno avanti, in previsione del ritorno di Nils: una pellicola a colori per immortalare quella vacanza tanto attesa! Sul tappeto, accanto al letto, c'era una chiazza di sole che entrava dalla finestra aperta. Posò il taccuino proprio al centro e lo aprì alla prima pagina. Poi sedette sul bordo del letto e guardò nel mirino della macchina: giusto. Proprio un metro di distanza, la più breve da cui potesse fotografare senza che i contorni risultassero confusi. La scrittura risaltava chiaramente, e la macchina regolò automaticamente l'esposizione.
Clic.
Martha girò il rullino di uno scatto, si chinò a voltare la pagina, poi puntò di nuovo i gomiti sulle ginocchia.
Restavano ancora dieci scatti quando ebbe voltato l'ultimo foglio. Fotografò anche la copertina davanti e dietro, perché non voleva sprecare la pellicola. Ma, rendendosi conto che si stava comportando scioccamente, rimise la macchina nell'astuccio e la ripose nel cassetto. Poi prese il taccuino e uscì. Incontrò Arnie che saliva le scale.
— Martha — disse questi, aguzzando gli occhi nella penombra, abituato com'era alla luce di fuori. — Mi sono svegliato di soprassalto e mi sono accorto di avere lasciato il mio taccuino non so dove.
Lei trasalì leggermente, e la sua mano strinse più forte il blocchetto.
— Eccolo qui! — disse, porgendoglielo.
Lui sorrise. — Grazie!
— Stavo portandolo in camera vostra — disse lei con voce stranamente acuta. Ma Arnie non sembrò farci caso.
— Avete fatto bene a darmelo — continuò. — Se Skou l'avesse trovato in giro, probabilmente mi avrebbe rimandato subito sulla Luna. Grazie. Lo chiudo in valigia perché non càpiti più una cosa simile. Perdonate se mi sono addormentato così... Ma ora mi sento molto meglio. È stata una giornata meravigliosa.
Lei annuì, mentre lui entrava in camera sua.
19
La Jaguar sfrecciava verso nord, lungo la costa, senza però superare il limite di velocità. Nils Hansen guidava disinvolto con una mano sola, mentre cori l'altra cercava un programma di musica alla radio.
— Siamo partiti un po' tardi — disse. — Devi fermarti a Helsingør?
— Devo passare dall'ufficio postale. Ci metto un minuto — rispose Martha.
— Che c'è di tanto importante? — Aveva trovato una stazione svedese che trasmetteva una piacevole polka.
— Devo spedire una pellicola per farla sviluppare.
— E perché non vai dal fotografo, in Rungsted?
— Sono troppo lenti. Questo è un posto speciale, a Copenaghen. Se hai paura che ti faccia far tardi, lasciami giù vicino al traghetto e va per conto tuo.
Lui le lanciò un'occhiata con la coda dell'occhio, ma Martha fissava dritto davanti a sé, senza espressione.
— Ehi! Ma questa è una vacanza... certo che ti aspetto! Solo, non vorrei che perdessimo il varo... o l'ascensione, o che altro diavolo vuoi chiamarlo. Ti piacerà. Quei rimorchiatori si abbasseranno, agganceranno l'astronave e la solleveranno dallo scafo di costruzione. La propulsione verrà installata sulla Luna.
Dovettero aspettare davanti allo scivolo del traghetto, perché una locomotiva a vapore attraversava la strada sbuffando e tirandosi dietro una fila di vagoni merci chiusi.
— Guarda un po' quel somaro da cantiere! — disse Nils. — Perde vapore e olio da tutte le giunture... eppure è ancora capace di far sbarcare i convogli dalla nave traghetto. Lo sai quanti anni ha? — Martha evidentemente non lo sapeva, e neanche sembrava che la cosa la interessasse molto. — Te lo dico io. Sta scritto sulla targhetta, di fianco. Quella veterana è stata costruita nel milleottocentonovantadue!! E lavora ancora. Noi danesi non eliminiamo niente che sia in grado di lavorare. Siamo gente molto pratica.
— Al contrario di noi americani, che costruiamo auto e cose da rompere subito e gettar via, vero?
Nils non rispose, ma passò davanti alla stazione e svoltò in Jernbanevej, proseguendo fino all'ufficio postale, sul retro del terminal. Parcheggiò, e Martha scese portando con sé il pacchetto. Una pellicola. Nils si domandò da quanto tempo l'avesse nella macchina fotografica. Non aveva mai fatto fotografie da quando lui era tornato. Che vacanza... Pensò che Martha era stata insopportabile durante tutto il suo periodo di licenza. Chissà che cosa diavolo aveva... Proprio non riusciva a capirlo. Si accorse di essersi fermato vicino alla bancarella dei panini imbottiti e il suo stomaco cominciò a gorgogliare, interessato, a quella vista. Avrebbero certamente pranzato tardi, ed era meglio provvedere. Scese e ordinò due tartine, senza cipolla cruda, ricordandosi che doveva assistere al varo in compagnia di uomini politici e pezzi grossi. Comunque, era un posticino da tener presente, quello. Oltre alle tartine, prese una bottiglietta di birra.
Che diavolo aveva Martha? Non che fosse insensibile, ma c'era qualcosa che la teneva lontana da lui, nel letto, la notte. Forse era la tensione nervosa causata dai suoi voli sulla Luna, dal sabotaggio e da tutto il resto. Erano difficili da capire, le donne. Creature maledettamente strane. Di umore balzano. La vide uscire dall'ufficio postale e si affrettò a finire la birra...
Nils non dubitò mai, neppure un istante... Dopo quel pomeriggio di domenica, non aveva mai più ripensato, neppure una volta, alla biondissima Inger.
20
Era quasi mezzogiorno, cosicché all'equatore, a metà dell'estate, la temperatura aveva raggiunto i trenta gradi sotto lo zero. La collina, che in realtà era il fianco di un grande cratere circolare, si levava bruscamente sulla pianura marziana, e un sole rattrappito guardava giù sul paesaggio gelato, dal cielo nero, dove si potevano scorgere distintamente le stelle più lucenti. Solo all'orizzonte l'atmosfera era tanto densa da tracciare una sottile linea azzurra contro il cielo. L'aria era immobile in un silenzio senza tempo, e così rarefatta, ridotta ad anidride carbonica pura, da non essere quasi più aria del tutto. E molto, molto fredda.
I due uomini che salivano il ripido pendìo avanzavano faticosamente, nonostante la bassa gravità. Le loro tute, pesantemente isolate e scaldate elettricamente, li impacciavano nei movimenti; e gli accumulatori e i serbatoi dell'ossigeno li appesantivano molto. Quando ebbero raggiunto la cresta, si fermarono a riposare. Il loro viso era nascosto dalla maschera e dagli occhiali.
— È... una bella salita — disse Arnie, ansando.
La maschera impediva di scorgere l'espressione di Nils, ma la voce risuonò ansiosa. — Spero che non sia stata troppo faticosa — disse. — Forse non avrei dovuto condurvi!
— Ma no. Sono semplicemente senza fiato. E giù di forma. È molto tempo che non faccio niente del genere. Però ne valeva la pena: è una vista superba!
Poi il paesaggio silenzioso trascinò anche loro in un silenzio pesante. Freddo, buio, inospitale, quel pianeta non era mai morto solo perché non era mai nato. La piccola colonia, là sotto, brillava come una luce amica alla finestra, unico tocco di calore nel gelo eterno di Marte. Arnie si guardò intorno, poi si tirò bruscamente in disparte, chiamando a sé Nils con un gesto.
— Qualcosa che non va? — domandò il pilota.
— No, no affatto. È che facevamo ombra a quel Marshål. Comincia a chiudersi: crede che sia di nuovo sera.
Infatti le braccia solitamente allungate della pianta-animale, lunghe trenta centimetri e simili a quelle della stella marina, erano ripiegate a metà e mostravano la parte inferiore, ruvida e grigiastra. Quando erano completamente chiuse, formavano come una palla isolata dall'ambiente ostile, e tenevano stretta la minuscola quantità di calore ed energia che avevano immagazzinato in attesa di un nuovo ritorno del sole. All'alba, le braccia si aprivano completamente, esponendo le piastre interne, di un nero brillante, che catturavano e trattenevano le radiazioni provenienti dall'astro lontano.
Quella rozza escrescenza era l'unica forma di vita scoperta su Marte fino a quel momento; e, sebbene la denominazione di «cavolo di Marte» fosse ormai ufficialmente riconosciuta, la pianta-animale veniva considerata da tutti con rispetto, se non proprio con reverenza. Era l'unico abitante del pianeta! I due uomini si spostarono per lasciare che il sole la illuminasse.
— Mi ricorda alcune piante del deserto in Israele — disse Arnie.
— Sentite la mancanza di Israele, vero? — domandò Nils.
— Sì, certo. Inutile domandarmelo. — A causa dell'atmosfera rarefatta, la sua voce giungeva come un sussurro lontano.
— Lo credo bene. Conosco molti paesi, e parecchi mi sembrano assai più interessanti del mio, quando ci scendo con l'aereo. Eppure non vorrei vivere in nessuno di essi: sceglierei, potendo, ancora la Danimarca. Non la lascerei. A volte mi domando come abbiate fatto a prendere le valigie e ad abbandonare Israele solo per una questione di principio. Non credo che riuscirei a fare una cosa simile. Non ne avrei il coraggio. — Poi, cambiando discorso, disse: — Guardate, eccola là, proprio come vi avevo detto. Da quassù si vede l'intera zona. Ci sono gli edifici nuovi che stanno appunto sorgendo, il campo di atterraggio, dietro Galatea. Quando sarà necessario, si potranno costruire altri edifici lungo il lato orientale. Qui si formerà una colonia completa... una città, un giorno o l'altro. La strada ferrata si spingerà fino alle montagne, dove ci sono le miniere.
— Un progetto molto ottimista. Comunque non vedo perché non debba riuscire. — Ma Arnie pensava a ciò che aveva detto Nils. A Israele. Era qualcosa che lo tormentava come un mal di denti e che non riusciva a dimenticare, anche se raramente ne parlava con altri. — Che cosa intendevate dire esattamente, affermando che per fare quel che ho fatto io ci vuole del coraggio? Ho compiuto semplicemente il mio dovere. Credete che abbia sbagliato e che avessi degli obblighi verso Israele, prima che verso il genere umano?
— Diamine, no! — esclamò il gigantesco pilota. E la sua voce vibrò di un impeto pieno di ardore. — Io sono dalla vostra parte, non dimenticatelo. Voglio dire che ammiro quello che avete fatto e che non vi ritengo un venduto! Se ciò che temete è vero, restare sarebbe stato un grosso tradimento: lo stesso che hanno compiuto tutti gli scienziati, da quando è stata inventata la parola scienza. Bombe, gas velenosi e morte per amore della terra natale! Questo è tradimento diretto. Inventare la bomba atomica, lamentarsi per l'uso che ne viene fatto, senza però prendere alcuna iniziativa, è invece tradimento indiretto. E poi c'è il tradimento «con fette di salame sugli occhi»: compio ricerche sui gas che agiscono sul sistema nervoso, sulla guerra biologica, su bombe sempre più potenti, ma tutto questo non verrà mai usato... E infine il tradimento tipo «il mondo è troppo grande per me», quello che scelgono tutti. La Dow Chemical produce il napalm per arrostire la gente; ma io non posso smettere di comprare i prodotti della Dow: non servirebbe a niente. Il Sud Africa ha il migliore regime poliziesco del mondo e un paese pieno di schiavi negri legalmente riconosciuti; ma io compro ancora le sue arance. Che posso farci? È colpa vostra, se mi sento così, Arnie!
— Che diavolo intendete dire? — domandò il professore, pestando i piedi perché il freddo cominciava a filtrare attraverso le suole degli stivali.
— Dico che voi avete fatto quello che io non avrei avuto il coraggio di fare. Siete rimasto fedele alle vostre convinzioni, senza curarvi del prezzo che dovevate pagare personalmente. Il Sud Africa e la Dow sono stati boicottati in diversi modi, in Danimarca, ma io ho fatto orecchio da mercante. Oppure ci ho riso sopra. Che potevo farci, io? Volavo, me la passavo bene e mi divertivo. Ma voi siete riuscito a penetrare la mia pellaccia, mi avete mostrato qualcosa di diverso...
— Smettetela! — sbottò Arnie, scosso. — Non sapete che cosa state dicendo. Mi sono comportato spregevolmente, tradendo la mia patria e la sua fiducia in me, e privandola dei risultati delle ricerche che le appartenevano di diritto. Mi sono messo al di là della legge. Se si può dire che uno scienziato ha una parola, io ho certamente mancato alla mia.
— Non capisco...
— Lo credo bene! Il vostro punto di vista è unilaterale, irriflessivo, ancora più prevenuto del mio. Io, almeno, ammetto la mia colpa. Invece voi, con la massima disinvoltura, incolpate tutti gli scienziati di tutti i delitti del mondo! Parlate di bombe atomiche; ma... tacete sulle centrali per l'energia atomica e sulle medicine radioattive! Rinfacciate agli scienziati di aver inventato gli esplosivi, ma non accennate alle materie plastiche, che derivano dagli stessi principi chimici fondamentali... Tirate in ballo la guerra biologica, ma non pensate alle medicine che uccidono i virus e che sono state scoperte grazie alle medesime ricerche... Tentate pure di accusare la scienza e gli scienziati di tutti i mali del mondo: non ci riuscirete. Noi fisici abbiamo forse inventato la bomba atomica, ma è stato il governo a finanziarne la costruzione e ad eleggere gli uomini politici che hanno deciso di lanciarla. E la gente, in genere, sembrava approvare quella decisione. Non sono gli scienziati a fare la guerra, ma la gente! Quando incolpate i fisici della situazione mondiale, voi cercate semplicemente di usarli come capri espiatori. È molto più facile accusare un altro, che ammettere la propria colpa. Devono esserci un buon numero di africani soddisfatti di poter possedere legalmente schiavi, altrimenti il loro governo cadrebbe: Machiavelli ha detto che un principe non può governare a dispetto dell'opposizione attiva del popolo. Non sono stati i nazisti a sterminare gli ebrei, ma il popolo tedesco. La gente ha la responsabilità delle proprie azioni, ma non le piace il peso di questa responsabilità. Allora preferisce dare la colpa agli altri. Dicono che gli scienziati, che inventarono bombe, aerei e cannoni, sono i responsabili dello stato di cose attuale. Dunque, gli elettori che scelgono gli uomini politici che fanno le guerre sono senza macchia. La pensate così anche voi?
Nils era rimasto scosso da quell'esplosione d'ira improvvisa.
— Non intendevo questo. Ho detto solo che ammiravo...
— Non ammirate un uomo che ha tradito la fiducia che il suo paese riponeva in lui! Anche se la mia decisione si dimostrerà giusta, avrò sempre commesso un delitto imperdonabile.
— Ma se la pensavate così, perché avete abbandonato Israele e siete venuto in Danimarca? So che siete nato e cresciuto da noi. È forse per questo?
Il silenzio di Marte pesò per parecchi secondi, prima che Arnie parlasse di nuovo.
— Forse. O forse per un atto di fede... o di speranza. O forse perché sono ebreo. In Israele, ero un israeliano, ma in qualsiasi altro posto del mondo sono un ebreo. Tranne che in Danimarca. Non esistono ebrei, in Danimarca; esistono solo molti danesi di varie confessioni religiose. Voi avevate tre o quattro anni, quando i nazisti marciarono sull'Europa, e quindi per voi si tratta soltanto di storia; di un capitolo di un libro già assai voluminoso. Quelli erano mostri, demoni, perché riuscivano a scatenare il male nel cuore degli altri, oltre che nel proprio. Gli abitanti dei paesi da loro conquistati li «aiutavano» ad alimentare i forni crematori. La polizia francese andò in giro ad arrestare gli ebrei per conto loro e gli ucraini costruivano allegramente le fornaci. I polacchi si precipitavano a veder arrostire i loro vicini ebrei, e per ricompensa venivano uccisi. Tutti i paesi che subirono l'invasione aiutarono i tedeschi. Tutti, eccetto uno. In Danimarca la polizia rimase scossa dalla notizia dell'epurazione che si andava avvicinando, e ne fece parola ad altri, che rimasero ugualmente inorriditi. Gli autisti dei tassì percorsero le strade, elenchi telefonici alla mano, in cerca di persone con nomi ebrei. I Giovani Esploratori fecero circolare l'allarme. Tutti gli ospedali aprirono le porte agli israeliti e li nascosero. In pochi giorni, tutti gli ebrei che poterono essere raggiunti furono fatti uscire dal paese di nascosto e messi in salvo. Sapete perché i danesi si comportarono così?
— Certo! — Nils strinse i grossi pugni. — Anche quelli erano esseri umani, danesi come gli altri. Cose del genere non si fanno e basta!
— Vedere... vi siete risposto da solo. Potevo scegliere, e ho scelto. E spero di avere scelto giustamente.
Arnie cominciò a scendere dall'altura, poi si fermò un momento.
— Io ero tra le persone fatte fuggire segretamente in Svezia. Così, forse, sto pagando un debito.
Poi scesero, uno accanto all'altro, verso la luce e il calore della base.
21
— Inutile prendere tutt'e due le auto — disse Martha al telefono. — D'accordo, discuteremo dopo su quale delle due scegliere... Sì, Ove... È pronta Ulla?... Bene. Sarò lì tra un'oretta, credo... Sì, così avremo tutto il tempo. I nostri posti sono riservati, e non dovrebbero esserci difficoltà. Vado, perché suonano alla porta. Tutto a posto?... Arrivederci, allora.
Riappese in fretta e andò a mettersi la vestaglia, mentre il campanello tornava a suonare: non poteva andare ad aprire in sottoveste.
— Ja, nu kommer jeg — gridò, mentre si precipitava in anticamera. Ma, socchiusa la porta, si fermò interdetta vedendo il carico di spazzole e piumini di un venditore ambulante.
— Nej tak, ingen pensler idag.
— Lasciatemi entrare — disse l'uomo. — Devo parlarvi.
Quell'improvvisa richiesta in inglese la sorprese, e Martha alzò lo sguardo dal vestito sciupato dell'uomo alla sua faccia, agli occhi acquosi e ammiccanti, con l'orlo delle palpebre infiammato.
— Signor Baxter! Non vi avevo riconosciuto... — Senza gli occhiali cerchiati di scuro, l'americano sembrava una persona completamente diversa.
— Mica posso starmene qui sull'uscio, così! — rispose Baxter, stizzito. — Fatemi entrare!
La urtò perché lo lasciasse passare; lei si tirò in disparte e richiuse la porta.
— Ho cercato molte volte di mettermi in contatto con voi — disse Baxter lottando per districarsi da! groviglio di scopini, piumini, spazzolini e lasciarli cadere per terra. — Avete ricevuto le lettere, i messaggi?
— Non voglio più vedervi! Ho fatto quello che volevate, e vi ho mandato la pellicola. Dunque smettetela di scocciarmi. — Si voltò e posò la mano sulla maniglia.
— No! — gridò Baxter, mandando l'ultima spazzola a sbattere contro il muro. Cercò affannosamente in una tasca interna e trovò gli occhiali. Quando se li fu infilati, si sentì più calmo. — Le negative non servono a niente.
— Volete dire che non sono riuscite? Sono sicura di avere fatto tutto come si deve.
— Dal punto di vista tecnico, sì. Ma non intendevo questo. Il taccuino... le equazioni... non avevano niente a che fare con l'effetto Daleth! Riguardano tutte il generatore a fusione del professor Rasmussen e non ciò che serve a noi.
Martha si trattenne dal sorridere, ma in fondo si rallegrò. Aveva fatto quello che le avevano detto di fare, e il colpo era andato a vuoto. Non era colpa sua.
— Non potreste rubare il generatore a fusione? Non è di valore anche quello?
— Non si tratta di valore commerciale — replicò Baxter freddamente, riprendendo il suo solito modo di fare. — Comunque, per il generatore stanno chiedendo il brevetto, e noi potremmo anche acquistarlo. Ciò che ci interessa... riguarda la sicurezza nazionale.
Le lanciò un'occhiata di fuoco e lei si strinse addosso la vestaglia.
— Non posso fare altro per voi. Ora è tutto sulla Luna, lo sapete. Anche Arnie se n'è andato...
— Ve lo dirò io che cosa potete fare... e non c'è tempo da perdere! Credete che me ne andrei in giro conciato così e con tutta questa mercanzia addosso, se le cose non fossero d'importanza vitale?
— Mi sembrate un po' matto — disse lei, cercando di non scoppiare a ridere.
Baxter le lanciò uno sguardo carico d'odio, e gli ci volle un mo: mento perché riuscisse a dominarsi. — Adesso ascoltatemi — disse, infine. — Oggi andrete alla cerimonia, e girerete per tutta la nave. Noi abbiamo bisogno di conoscere alcuni particolari su di essa. Voglio che voi...
— Io non farò più niente. Andatevene.
Martha allungò la mano verso il pomo della porta, ma Baxter le afferrò il braccio, stringendolo con dita d'acciaio. Lei trattenne il respiro per il dolore, mentre l'uomo la strappava via dall'uscio e le si avvicinava sempre più. Ha il fiato che puzza d'alcol pensò Martha sul punto di mettersi a piangere, tanto il braccio le doleva.
— E adesso ascoltatemi — sibilò Baxter. — Voi farete quello che voglio io. E se avete bisogno di un motivo diverso dall'amor di patria, ricordatevi che io ho una pellicola che viene dalla vostra macchina fotografica, con le vostre impronte digitali sparse dappertutto e le istantanee del vostro pavimento. Ai danesi piacerebbe molto vedere tutto questo, no?
Il suo sorriso ricordò a Martha la smorfia di un individuo che muore tra sofferenze atroci. Si svincolò dalla stretta e fece un passo indietro. Sarebbe stata una perdita di tempo dire a quell'uomo che cosa pensava di lui.
— Che cosa volete che faccia? — domandò infine, fissando il pavimento.
— Così va meglio. Voi siete un'esperta fotografa, dunque prendete questa spilla. Appuntatela sulla borsa prima di uscire.
Lei la tenne nel palmo della mano. Non era brutta e non avrebbe stonato con la borsetta di coccodrillo nera. Era formata da una grossa pietra centrale, circondata da un cerchio di schegge di diamante e di altre pietre che avevano l'aria di piccoli rubini. E il bordo era in oro sbalzato, ornato di volute complicate.
— Appuntatela con quella sulla borsetta — ripeté Baxter, indicando la voluta più lunga. — È a obiettivo grandangolare, e l'apertura è prestabilita. Lavora quasi con qualsiasi luce. Ci sono più di cento scatti: dunque non fate economia. Voglio foto del ponte e della sala macchine, se ci andate; e i primi piani dei comandi, istantanee dei corridoi, scale, compartimenti, camere stagne. Tutto. Poi io vi mostrerò le foto stampate e dovrete dirmi di che si tratta; perciò fate molta attenzione a tutto, anche all'ordine in cui si svolge la visita attraverso la nave.
— Non sono pratica di questo lavoro. Non potete incaricare qualcun altro? Vi prego. Ci saranno centinaia di persone là...
— Se avessimo qualcun altro, credete che verremmo a cercare proprio voi? — L'ultima parola, pronunciata con freddo disprezzo, gliela gettò in faccia mentre si chinava a raccogliere le spazzole. Poi Baxter, agitando minacciosamente una spugnetta lavapiatti, aggiunse: — E che non succedano incidenti... come la macchina che cade e si rompe, oppure la pellicola esposta alla luce per dare poi la colpa a noi! Conosco tutti i trucchi. Non avete scelta. Scatterete le foto come vi ho ordinato. Ecco, questo è per voi. — E le porse uno scopino, ridendo freddamente, sicuro di sé. Poi aprì la porta e scomparve.
Martha guardò l'oggetto che teneva in mano e lo gettò lontano. Ecco che cosa pensava di lei... Uno scopino da gabinetto! E, tremando di rabbia, se ne andò in camera sua per terminare di vestirsi.
— Guardate che folla! — disse Ove, sterzando bruscamente per evitare un torpedone carico di studenti che applaudivano e agitavano bandierine dai finestrini.
— Naturale — disse Ulla, seduta in fondo all'auto con Martha. — È una giornata eccezionale.
— Anche il tempo è splendido. — Ove guardò il cielo. — Molte nubi, ma niente pioggia. Il sole non c'è... ma non si può avere tutto.
Martha rimase in silenzio, le dita contratte sulla borsetta con la grossa spilla d'oro che sporgeva dal risvolto. Ulla l'aveva subito notata e lei aveva dovuto inventare in fretta una bugia.
Sarebbe stato impossibile avvicinarsi alla banchina, senza invito ufficiale. Così passarono attraverso le barriere e si diressero al castello Amalienborg, il cui immenso cortile era stato adibito a parcheggio alle macchine. Di là dal bordo dell'acqua, c'era solo una breve camminata attraverso Larsens Plads. C'era aria di vacanza anche lì, e una banda suonava allegramente, mentre le bandiere sventolavano sui palchi eretti lungo la banchina e gli invitati prendevano posto, chiacchierando.
— Dieci minuti — disse Ove, lanciando un'occhiata al suo orologio. — Meglio affrettarsi. A meno che Martha pensi che suo marito sarà in ritardo...
— Nils!
Ove e sua moglie scoppiarono a ridere a quell'idea, e Martha con loro. Per alcuni secondi si sentì a suo agio in quel posto, a pochi passi dal Re e dalla famiglia reale e in allegra compagnia. Poi il ricordo di Baxter le si riaffacciò alla mente, causandole una stretta al cuore, e lei afferrò con le dita contratte la borsetta, sicura che tutti stessero guardandola. La banda attaccò Re Cristian, l'inno nazionale, e si sentì un immenso scalpiccio mentre tutti si alzavano in piedi. Dopo l'inno nazionale venne C'è un paese delizioso, che terminò con gran rullare di tamburi. Quando le ultime note si spensero, tutti sedettero e, quasi nel medesimo istante, si udì una specie di fischio lontano. La gente guardò in su, riparandosi gli occhi con la mano, per cercare di vedere. Il suono si fece più profondo, si trasformò in un rombo, e un punto scuro uscì dallo strato di nubi che si stendeva alto nel cielo.
— Puntualissimo, al secondo! — esclamò Ove, eccitato.
Il punto si ingrandì, velocissimo, assunse proporzioni gigantesche e sembrò scendere direttamente sulla folla, che trattenne il respiro lasciandosi sfuggire qualche grido soffocato.
Poi la velocità cominciò a diminuire, e la grande forma scese dolcemente come una foglia che cade dall'albero, abbassandosi verso le acque tranquille dell'Yderhavn. Molti trattennero il respiro, mentre il veicolo si mostrava ora nelle sue reali dimensioni. Lo scafo bianco e nero era grande come quello delle navi oceaniche; migliaia di tonnellate di metallo. Era un immenso disco con la base e la sommità appiattite e la protuberanza sporgente del ponte di comando, tutta a vetri. E se ne stava lì, assurdamente sospesa, senza mezzi di propulsione visibili: non si udivano altri rumori, tranne il fruscìo dell'aria contro i fianchi.
Un silenzio assoluto calò sugli astanti: un gabbiano gridò. La grande nave si fermò completamente, a pochi metri dalla superficie dell'acqua. Poi, con infinita precisione, scese ancora, posandosi con tale delicatezza che solo una piccola onda andò a frangersi contro la banchina. Poi, mentre la nave si avvicinava, si aprirono i boccaporti sui ponti superiori, e gli uomini uscirono con le gomene per l'ormeggio.
Un applauso spontaneo esplose dalla folla, e tutti i presenti balzarono in piedi, gridando con quanto fiato avevano in gola, battendo le mani, soffocando il fracasso gioioso della banda con il loro rumoroso entusiasmo. Anche Martha appaludiva con gli altri, dimenticando tutto nell'esaltazione sfrenata di quel momento.
Sullo scafo si leggeva un nome, scritto in lettere nere su fondo bianco. Holger Danske. Il nome più fiero della Danimarca.
Prima ancora che le gomene fossero assicurate, una rampa fu spinta fuori dal portello aperto. Un gruppetto di funzionari si avvicinò per dare il benvenuto agli ufficiali che scendevano dalla scaletta. Anche da quella distanza la gigantesca figura di Nils spiccava distintamente tra le altre. Gli ufficiali salutarono, ricambiarono la stretta di mano e si diressero verso il palco reale. Nils passò poco lontano da Martha e le sorrise quando lei agitò una mano.
Poi ci furono onori, ricompense, un breve discorso del Re, alcuni discorsi più lunghi tenuti da uomini politici. Fu il primo ministro a tenere il discorso ufficiale. Rimase eretto per un istante, col vento che gli scompigliava i capelli, a guardare la nave che gli stava davanti. Quando parlò, c'era una commozione sincera nella sua voce.
— Secondo l'antica leggenda, Holger Danske giace addormentato, pronto a svegliarsi e a correre in aiuto della Danimarca, quando questa si trovi in difficoltà. Durante la guerra, il movimento partigiano di resistenza scelse per sé appunto il nome di Holger Danske, e lo portò con onore. Ora abbiamo una nave che si chiama allo stesso modo, la prima di molte altre che seguiranno, ed essa sarà di aiuto alla nostra patria in modo impensato. Stiamo per aprire le porte del sistema solare all'umanità. È un'impresa tanto grande da sorpassare i limiti dell'immaginazione... Le distese dello spazio mi sembrano un immenso oceano che aspetti di essere attraversato da noi, come nel diciannovesimo secolo fu attraversato l'Atlantico dai navigatori danesi in cerca di terre nuove e fantastiche sull'altra sponda. La scienza trarrà vantaggio dall'osservazione e dai laboratori che si stanno costruendo sulla Luna; 1' industria trarrà vantaggio dalle nuove fonti di materie prime che attendono lassù; l'umanità pure sarà avvantaggiata, perché questa è un'impresa collettiva di tutte le nazioni del mondo. Noi speriamo con tutto il cuore che la causa della pace ne risulterà rafforzata, perché lassù, nello spazio, il nostro mondo appare piccolo, velato, lontano. La Danimarca è un paese troppo piccolo anche solo per tentare di sfruttare un intero sistema solare... se pur desiderassimo farlo. Ma non è questo che vogliamo. Noi cerchiamo con tutte le forze la collaborazione mondiale. Fra due giorni la Holger Danske partirà per il suo primo viaggio su Marte, con a bordo rappresentanti di molte nazioni. Là si stanno costruendo laboratori per ricerche scientifiche, e scienziati di moltissimi paesi resteranno sul pianeta rosso per iniziare i loro lavori. I rappresentanti politici, invece, torneranno per raccontare ai rispettivi concittadini che cosa riserva loro l'avvenire. Un futuro certamente lieto. E noi, come danesi, siamo orgogliosi di poterne causare l'avvento.
Sedette tra il fragore degli applausi, e la banda riattaccò. Le telecamere ripresero la scena, mentre veniva annunciato che gli invitati potevano ora visitare la nave.
— Vedrete — disse Ove. — La prima unità costruita appositamente per questo... e senza risparmio di spese. È fondamentalmente una nave mercantile, ma la cosa è stata abilmente mascherata. L'intera sezione interna è costituita di stive per le merci, e i compartimenti riservati ai servizi sono soltanto nella parte anteriore. Resta dunque tutta la fascia esterna per le cabine, ciascuna col suo oblò. Lussuose, vi assicuro. Venite, prima che arrivino troppi giornalisti.
Per salire sulla nave bisognava attraversare la sala della dogana che serviva per gli arrivi del traghetto di Oslo, che attraccava normalmente a quel pontile. E i funzionari della dogana se ne stavano lì, svolgendo il solito lavoro. Non era permesso salire a bordo portando pacchi; cartelle e borse venivano accuratamente ispezionate. Con estrema cortesia veniva chiesto agli uomini di rovesciare le tasche, alle donne di aprire la borsetta. In caso di rimostranze, c'erano lì pronti funzionari di polizia e alti ufficiali dell'esercito, che avrebbero sistemato la faccenda con calma. In una stanzetta laterale c'erano perfino un ammiraglio e un generale, che chiacchieravano con un ministro e un ambasciatore. Evidentemente si voleva aver sottomano persone di grado uguale o superiore a quello degli invitati, per risolvere ogni eventuale controversia.
Ma non ce ne furono. Qualche paio di sopracciglia inarcate e qualche sguardo freddo, da principio... Poi il primo ministro diede l'esempio, vuotando le tasche e mostrando che cosa conteneva il portafoglio. Certamente era una messinscena, ma aveva la sua ragione d'essere. Non bisognava compromettere la sicurezza della Holger Danske.
Mentre la fila avanzava lentamente, Martha Hansen si sentiva paralizzare dalla paura. Sarebbe stata scoperta e svergognata... Se avesse potuto scappare via, lontano, chissà dove, l'avrebbe subito fatto. Ma poteva solo seguire gli altri, inciampando. Ulla le disse qualcosa e lei si limitò ad annuire, senza capire. Quando arrivò davanti al banco, si trovò di fronte un funzionario della dogana dall' aria severa, che lentamente allungò una mano.
— Un gran giorno per vostro marito, signora Hansen — disse. — Permettete? — E indicò la borsetta.
Lei gliela porse.
— Vi dispiace aprirla? — disse l'uomo.
Martha l'accontentò, e lui vi frugò dentro.
— Il portacipria, prego.
Martha glielo diede. L'altro lo aprì, lo richiuse e glielo restituì.
L'occhio luccicante della spilla-macchina-fotografica era puntato direttamente su di lui. Per un istante il funzionario lo guardò sorridendo.
— Basta così, grazie — dichiarò poi. E si voltò verso un altro invitato.
I Rasmussen aspettavano, e Nils salutava con la mano dal ponte soprastante. Martha rispose al saluto. Poi tutti salirono a bordo.
Martha teneva stretta la borsetta, un dito sulla spilla, domandandosi che cosa avrebbe detto a Nils, se l'avesse notata. Normalmente lui era il più calmo degli uomini, in servizio, ma quel giorno non era così. Le mani che teneva dietro la schiena apparivano contratte, e gli occhi brillavano di eccitazione.
— Martha, questo è il gran giorno! — esclamò, abbracciandola, e sollevandola completamente da terra per un attimo, mentre la baciava appassionatamente. Quando la mise giù, lei aveva le vertigini.
— Santo cielo... — disse.
— Vedi? Non è un sogno? Mai visto niente di simile, dall'inizio del mondo. Potremmo portarci dietro il povero piccolo Blaeksprutten come scialuppa, te lo garantisco io! E la cosa più splendida è che non si tratta di un veicolo adattato alla bell'e meglio, ma di una nave appositamente progettata per essere usata con la propulsione Daleth. Il ponte di comando è sistemato in modo da favorire gli spostamenti laterali, come in un aereo, ma permette piena visibilità anche sopra e sotto, per l'accelerazione e la decelerazione. Vieni, che ti mostro tutto. Tutto, tranne la sala macchine, che è chiusa a chiave mentre i visitatori sono a bordo. E se ne avremo il tempo, vorrei mostrarti la mia camera da letto e la mia cabina. — La cinse con un braccio, mentre camminavano. — Martha, dopo aver pilotato questa meraviglia, tutto è cambiato. Adesso mi sembra che guidare il più grande degli aerei sarebbe... non so, come pedalare su un'auto da bambini. Vieni!
Mentre attraversavano la camera stagna aperta, Martha sfiorò col dito la voluta dorata della spilla. Sentendola cedere leggermente, detestò se stessa.
22
— Ma non sono ancora tutti a bordo? — domandò Arnie, guardando la banchina dal punto d'osservazione del ponte di comando. Due uomini uscirono dall'edificio della dogana; camminavano curvi, tenendo fermo con una mano il cappello floscio che il vento del Baltico minacciava di far volar via. Dietro a loro venivano i facchini con le valigie.
— Non ancora, ma dovremmo essere a buon punto — rispose Nils. — Ora m'informo dal commissario di bordo. — Formò il numero dell'ufficio che stava nel corridoio d'ingresso, e il piccolo schermo del telefono si illuminò con l'immagine a colori della persona desiderata.
— Signore?
— A che punto siamo?
Il commissario consultò i suoi elenchi, spuntando i nomi con una matita. — Mancano ancora sei passeggeri — disse. — Poi siamo al completo.
— Grazie. — Riappese. — Non c'è male. Tenuto conto che a quei disgraziati fanno proprio di tutto, tranne una radiografia e l'esame delle otturazioni dei denti. Suppongo che riceverò una quantità di lamentele. I capitani delle navi compaiono in mezzo ai passeggeri solo il secondo giorno dalla partenza. Credo che farò anch'io così.
— Col nuovo sistema di calcolatori penso che non dobbiate preoccuparvi se il decollo non avverrà all'ora esatta.
— Per questo, non importa. — Nils diede un colpetto affettuoso con la mano all'armadietto grigio accanto al posto del pilota. — Dico a questo dispositivo quando voglio partire, e lui mi rimanda la risposta prima ancora che io abbia finito di battere. Mentre siamo attraccati, è in collegamento diretto via terra con Mosca. Dopo il decollo, sarà il nostro computer a parlare con il loro e verranno eseguiti costanti controlli di rotta e di velocità.
Osservarono un altro ritardatario che attraversava di corsa la banchina.
— Gli americani si sono scocciati perché ci siamo serviti del computer sovietico? — chiese Arnie.
— Credo di sì, ma non potevano protestare perché non avevamo collegamenti diretti con loro. Comunque, usiamo soltanto tute spaziali statunitensi, e così pareggiamo il conto. L'abbiamo fatto di proposito, ne sono certo. Come stava Ove, quando l'avete salutato?
Arnie si strinse nelle spalle. — Ancora a letto. Tossiva come una foca, e aveva la febbre. L'ho salutato sulla porta, perché non mi ha lasciato entrare. Ci ha fatto un mucchio di auguri. L'influenza l'ha colpito ai bronchi.
— Sono contento che siate potuto venire voi al suo posto, anche se mi spiace di avervi disturbato... Quando tutti i dispositivi saranno a punto, non avremo più bisogno di fisici in sala macchine.
— Per me va bene. Anzi, è un diversivo. La ricerca e l'insegnamento mi sembreranno molto monotoni, dopo alcuni di questi voli. Ricordate quello sulla Luna, col Blaeksprutten...?
— E la cassetta del telefono saldata sullo scafo! Perbacco, quelli erano bei tempi! Guardate un po' dove siamo già arrivati. — E indicò con un gesto della mano il ponte spazioso e gli uomini in uniforme impeccabile: il radiotelegrafista che parlava col controllo a terra, il navigatore, il secondo pilota, l'ufficiale addetto al computer, l'operatore addetto alla strumentazione. Una vista esaltante. Il telefono suonò e lui rispose.
— Tutti i passeggeri a bordo, capitano.
— Bene. Prepararsi al decollo, che avverrà fra dieci minuti.
Arnie era in sala macchine al momento del decollo, ma, per essere sinceri, trovò ben poco da fare. I tecnici erano rispettosi, ma conoscevano bene il loro lavoro. La propulsione Daleth era stata completamente automatizzata e veniva controllata dal computer, tanto che le attenzioni dell'uomo erano ormai superflue. E lo stesso poteva dirsi del generatore a fusione.
Quando ebbe fame, Arnie si fece mandare giù il cibo. Era stato invitato al primo banchetto di bordo, ma aveva fatto il possibile per non andarci, perché detestava quel genere di cose. Era contentissimo di avere fatto un favore a Ove prendendo il suo posto, ma non si poteva dire che fosse entusiasta di quel viaggio. Il laboratorio della Månebasen, le nuove ricerche appena iniziate e le lezioni tecniche sulla propulsione Daleth che teneva ai tecnici, lo interessavano assai di più.
E poi c'erano i passeggeri... Ne aveva un lungo elenco, e in coscienza doveva ammettere che quella era la vera ragione per cui se ne stava lì dentro rinchiuso. Non aveva trovato amici o colleghi, tra gli scienziati: erano quasi tutti studiosi di secondo piano, provenienti da ogni parte del mondo. Be', forse dire di «secondo piano» non era molto cortese, ma si trattava comunque solo di assistenti di professori famosi. Sembrava che le università non avessero voluto rischiare i loro uomini più preziosi in quell'esperimento così poco ortodosso. Be', non importava. Anche i giovani potevano prendere appunti; e i dati, le cifre non cui sarebbero tornati avrebbero indotto i capi a fare fuoco e fiamme per ottenere un posto nella prossima missione. L'importante era cominciare.
Quanto agli uomini politici, Arnie non sapeva niente su di loro. Erano pochissimi i nomi che non gli tornassero completamente nuovi. Però lui non si interessava certo di politica. Probabilmente quelle erano controfigure mandate avanti a misurare la temperatura dell'acqua in quella prima escursione; i pezzi grossi si sarebbero tuffati in seguito.
Ne conosceva uno, tuttavia... Ed era soprattutto per causa sua che se ne stava alla larga dalla sezione riservata ai passeggeri. Ma... a che sarebbe servito? Se il generale Avri Gev era a bordo, avrebbe dovuto incontrarlo, prima o poi. Arnie lanciò un'occhiata all'orologio. E perché non adesso? Ormai gli ospiti sarebbero stati pieni di ottimo cibo e di liquori. E forse... avrebbe sorpreso Avri di buon umore! No, questo era impossibile, lo sapeva. Però ci avrebbero impiegato due giorni ad arrivare su Marte... e lui non poteva starsene lì rinchiuso tutto quel tempo.
Controllò il lavoro dei tecnici. Tutto andava bene per il momento, e se fossero sorte difficoltà lo avrebbero chiamato. Poi andò nella sua cabina a prendere la giacca e si avviò verso la porta a tenuta stagna che dava nella sezione passeggeri.
— Bel volo, signore — disse il commissario di bordo, salutando. Era un vecchio soldato, un sergente, evidentemente trasferito dall'esercito, con relative decorazioni. L'uomo guardò lo schermo televisivo che Arnie gli mostrava, poi premette il pulsante che apriva il battente. C'erano porte a tenuta stagna in tutta la Holger Danske, ma quella era l'unica che poteva essere aperta da un solo lato. Arnie annuì, passò e trovò il generale Gev ad aspettarlo dietro la prima curva del corridoio.
— Speravo che usciste da solo — disse Gev. — Altrimenti vi avrei telefonato.
— Buona sera, Avri.
— Venite nella mia cabina? Ho dello scotch da farvi assaggiare.
— Non sono un gran bevitore...
— Venite ugualmente. Me l'ha dato il signor Sakana.
Arnie guardò il generale cercando di leggere qualcosa su quei lineamenti impassibili, abbronzati. Avevano parlato in inglese, e non c'era nessuno a bordo che si chiamasse Sakana. Quella era una parola ebrea che significava «pericolo».
— Be', se proprio insistete...
Gev entrò, seguito da Arnie, poi chiuse a chiave l'uscio.
— Che cosa c'è? — domandò il professore.
— Un attimo. Prima i doveri dell'ospitalità. Accomodatevi, prego. Prendete quella sedia.
Come tutte le cabine, anche quella era lussuosa. L'oblò, con la sua copertura di metallo che si era automaticamente ritirata dopo l'attraversamento delle fasce di Van Alien, si apriva sulle stelle dello spazio. Sul pavimento c'era un tappeto fatto a mano. Le pareti erano coperte da pannelli di teak e decorate con stampe di Sikker Hansen. Il mobilio era di stile scandinavo moderno.
— E c'è la televisione a colori in tutte le cabine — disse Gev, indicando il grande schermo, dove un cannone tuonava silenziosamente in una scena di guerra tolta dal film Da Atlanta al mare. Poi prese una bottiglia dal bar.
— È molto pratica — disse Arnie. — E lo è anche il sistema di divertire con programmi registrati. Mi avete condotto qui per chiacchierare sull'arredamento dell'interno?
— Non proprio. Ecco, assaggiate questo. È vecchio di dodici anni. Mi ci sono abituato quando combattevo con gli inglesi. C'è qualcosa che non va, sulla nave. Lehaym.
— Che volete dire? — Arnie rimase lì, col bicchiere in mano, perplesso.
— Assaggiatelo. È mille volte meglio di quello schifoso slivoviz che servivate voi. Intendo dire quello che ho detto. Qualcosa non va. Ho riconosciuto almeno due membri della delegazione orientale: due duri e noti agenti, due criminali.
— Ne siete certo?
— Naturalmente. Dimenticate che sono incaricato della sicurezza interna? Ho letto tutti i rapporti dell'Interpol.
— E che ci farebbero qui? — domandò Arnie: e mandò giù un sorso troppo abbondante, cominciando a tossire.
— Piano... Gustatelo come il latte di mamma. Non so che cosa siano venuti a fare, ma posso indovinarlo. Inseguono la propulsione Daleth.
— Impossibile!
— Ah, sì? — Gev prese un'aria quasi divertita, e al tempo stesso depressa. — Posso domandarvi quali misure di sicurezza sono state prese?
Arnie non rispose, e l'altro scoppiò a ridere.
— E allora non ditemelo. Non vi critico per i vostri sospetti. Ma io, da solo, non valgo un esercito, e l'unico israeliano a bordo, oltre me, è quello shlub di un biologo. È considerato un genio, ma non certo un guerriero.
— Non eravate così cordiale, l'ultima volta che ci siamo visti.
— E c'era di che, lo sapete bene. Ma i tempi sono cambiati e Israele ha fatto di necessità virtù. Non possediamo la vostra propulsione Daleth, anche se ha un bel nome ebreo, ma i danesi si sono dimostrati assai più accomodanti di quanto ci eravamo aspettati. Riconoscono che gran parte della teoria Daleth è stata elaborata in Israele, e ci danno sempre una priorità assoluta nel settore scientifico e commerciale: avremo anche una nostra base sulla Luna. Per il momento non possiamo lamentarci. Ci interessa sempre la propulsione Dàleth, ma per ora non intendiamo far fuori nessuno, per impossessarcene. Voglio parlare col capitano Hansen.
Arnie, assorto nei suoi pensieri, si morse un labbro, e finì ciò che restava del whisky, senza neppure accorgersene. — Aspettatemi qui — disse, infine. — Gli riferirò ciò che avete visto.
— Fate in fretta, Arnie — raccomandò Gev, pacato. Parlava molto seriamente.
Nils aveva fatto un breve discorso durante il banchetto, poi si era ritirato sul ponte di comando con la scusa che aveva da fare. E ora se ne stava lì seduto, con una gamba sopra il bracciolo della sedia, contemplando le stelle. Quando Arnie gli riferì le parole di Gev, si girò di scatto.
— Impossibile!
— Può darsi. Ma io gli credo.
— Non potrebbe essere un trucco, per venire sul ponte?
— Non so. Penso di no. È un uomo d'onore... e gli credo.
— Spero che voi abbiate ragione... e che lui si sbagli. Non posso comunque ignorare le sue accuse. Lo farò venire qui, ma il commissario di bordo gli starà continuamente dietro le spalle. — E formò un numero sul telefono.
Il generale venne subito. Il sergente lo seguiva a due passi di distanza, pistola automatica in pugno. La teneva all'altezza della vita, dove non avrebbero potuto strappargliela, e sembrava pronto a servirsene.
— Posso vedere l'elenco dei passeggeri? — domandò Gev. Poi lo scorse attentamente.
— Questo e quest'altro — disse, sottolineando due nomi. — Hanno nomi diversi, in archivio, ma sono le stesse persone. Uno è ricercato per sabotaggio, l'altro è accusato di aver partecipato alla preparazione di un assalto a mano armata. Due tipacci.
— Non riesco a crederci — fece Nils. — Sono i rappresentanti ufficiali di questi paesi...
— Che fanno esattamente ciò che Madre Russia pretende da loro. Non siate ingenuo, capitano Hansen. «Satellite», significa appunto questo. Sono stati comprati e pagati appositamente, e se ne stanno lì pronti a danzare, quando qualcuno suona la melodia giusta.
Il telefono squillò, e Nils staccò distrattamente il ricevitore.
Sullo schermo apparve la faccia terrorizzata di un uomo dalla faccia rigata di sangue.
— Aiuto! — urlò l'individuo.
Poi si udì un gran fracasso, e lo schermo si spense.
23
— Che compartimento era? — gridò Nils, allungando la mano verso il disco del telefono. — Avete riconosciuto quell'uomo?
Gev gli afferrò il braccio, impedendogli di formare il numero. Il sergente alzò la pistola e la puntò sul dorso di Gev.
— Aspettate — disse il generale. — Riflettete prima. Sapete che sta accadendo qualcosa; è abbastanza per il momento. Mettete subito in allarme le vostre difese, se ne avete. Poi appurate qual è la zona minacciata. Ho visto porte a tenuta stagna in tutta la nave. Si possono chiudere da qui?
— Sì...
— E chiudetele, allora. Cercate di ostacolare in ogni modo ciò che sta succedendo.
Nils esitò un istante. — È una buona idea, signore — disse il sergente. Nils annuì.
— Chiudete tutte le porte interne — ordinò Nils. L'ufficiale addetto alla strumentazione sollevò un foglio di plastica protettivo e armeggiò con una fila di interruttori.
— Ma ci sono dei comandi, localmente, che permettono di aprirle — disse il sergente.
— Quelli possono essere bloccati, in caso di emergenza — rispose l'ufficiale addetto alla strumentazione.
— Questo è un caso di emergenza — dichiarò Nils. — Procedete.
Gev si avvicinò alla parete, per non impicciare. Il sergente abbassò la pistola.
— Non intendo interferire con la vostra autorità, capitano — disse Gev. — Ma ho una certa esperienza in cose del genere.
— Sono lieto che siate qui — rispose Nils. — Può darsi che dobbiamo valerci di questa esperienza. — Formò il numero della sala macchine, e un tecnico rispose subito alla chiamata.
— Qualcosa che non funziona, signore. Le porte di uscita sono bloccate e non riusciamo ad aprirle.
— Siamo in allarme. Succede qualcosa a bordo, e non sappiamo ancora con esattezza che cosa. State lontani dalle porte, e non lasciate entrare nessuno. Avvisatemi subito, se capita qualcosa.
— Credo di avere riconosciuto quell'uomo — disse il radiotelegrafista, esitante. — Era un cuoco... O perlomeno qualcuno che ha a che fare con la cucina.
— Bene. — Nils chiamò le cucine, ma nessuno rispose. — Ecco dove sono! Ma che diavolo possono volere laggiù?
— Armi, forse — suggerì Gev. — Coltelli, mannaie, devono essercene molte. O forse qualcos'altro... Posso vedere una pianta della nave?
Nils si rivolse ad Arnie e disse: — Rispondetemi in fretta! Quest'uomo è dalla nostra parte?
Arnie annuì lentamente. — Credo di sì, adesso.
— Va bene. Sergente, tornate al vostro posto. Neergaard, portatemi la mappa della nave.
La stesero sul tavolo e Gev puntò il dito. — Qui. Che cosa vuol dire køkken?
— Cucina.
— Capisco, allora. Guardate. La si può raggiungere dalla sala da pranzo, a differenza di qualsiasi altra parte della nave riservata ai servizi. E poi... ha una parete in comune con la sala macchine. Che, se non sbaglio, dev'essere questa.
Nils annuì.
— Allora non tenteranno di forzare le porte. Apriranno un passaggio nella parete. Avete modo di raggiungere rapidamente la sala macchine, per dare man forte ai tecnici che sono là dentro, nel caso...
Il telefono squillò e l'ufficiale tecnico comparve sullo schermo.
— Stanno forando una paratìa con un cannello ossidrico, signore. Che facciamo?
— Che cosa ha detto? — domandò Gev, sentendo il tono preoccupato dell'uomo. Non capiva il danese. Arnie glielo spiegò rapidamente, e il generale toccò il braccio di Nils. — Ditegli di trascinare un banco o un tavolo contro la parete, in quel punto, e di ammucchiarvi contro tutto quello che trovano di più pesante. Che cerchino di ostacolarli al massimo.
Nils diede ordini, poi rimase lì, teso. — Non possiamo impedire loro di entrare!
— Non si potrebbero inviare rinforzi?
Nils sorrise mestamente. — Abbiamo una sola pistola a bordo: quella del sergente.
— Mandate lui in sala macchine. A meno che non si possa contrattaccare dalla cucina. Colpite forte, è l'unico modo.
— Fate venire il sergente — disse Nils. — Devo chiedergli di offrirsi volontario. È quasi un suicidio.
Quando gli dissero che cosa stava accadendo, l'uomo acconsentì.
— Sono contento di correre questo rischio, capitano. Può darsi che la cosa funzioni, se quelli non sono armati fino ai denti. Ho un altro caricatore pieno di proiettili, ma non lo porterò con me: non potrò certo ricaricare l'arma. Manderò a segno questi. Entrerò dalla porta del magazzino di poppa. Se si aprirà, riuscirò a sorprenderli.
Poi, levatosi rispettosamente il berretto, si rivolse al generale Gev e si batté la fila di decorazioni sul petto. Non parlava più in danese, ora, ma in inglese.
— Ho visto che guardavate queste decorazioni, generale. È vero, sono stato in Palestina, con l'esercito britannico, a combattere i barbari. Ma quando gli inglesi hanno cominciato a impedire l'ingresso alle vostre navi di profughi, ho tagliato la corda. Ho disertato e sono tornato in Danimarca. Non era pane per i miei denti, quello.
— Vi credo, sergente. Grazie per avermelo detto.
Le porte furono aperte l'una dopo l'altra, per permettergli di passare.
— Dovrebbe essere arrivato, ormai — disse Nils dopo un po'. — Chiamate la sala macchine.
Il tecnico era molto agitato. — Capitano, abbiamo sentito degli spari! Al di là della parete. Moltissimi! E il cannello non fa più rumore.
— Bene — disse Gev quando gli riferirono che cosa era successo. — Forse non li avranno fermati, ma almeno ne hanno rallentato l'azione.
— Il sergente non è tornato — disse Nils.
— Non lo sperava neppure — osservò, impassibile, il generale: le emozioni, in battaglia, erano un lusso che non poteva permettersi. — Ora bisogna lanciare un secondo contrattacco. Ci vogliono altri uomini, possibilmente volontari. Armateli con qualsiasi cosa. Abbiamo un attimo di respiro e dobbiamo approfittarne. Li guiderò io, se permettete...
— Il telefono, capitano — disse il radiotelegrafista. — È un membro della delegazione americana.
— Non posso, ora.
— Dice che sa dell'aggressione e che vuole aiutare.
Nils afferrò il ricevitore e l'immagine di un uomo con gli occhiali dalla montatura pesante lo guardò con espressione compunta.
— Ho sentito che i rossi vi hanno assalito, capitano. Vogliamo darvi una mano. Veniamo subito sul ponte di comando.
— E chi siete, voi? Come fate a saperlo?
— Mi chiamo Baxter. Sono un funzionario dei servizi di sicurezza. Mi hanno mandato su questa nave proprio nel caso dovesse accadere qualcosa del genere. Ho con me alcuni uomini armati. Siamo subito da voi.
Il generale scosse la testa in senso di diniego, ma Nils non aveva bisogno del suo consiglio, per prendere una decisione.
— Avete detto uomini armati? Non era permesso portare armi a bordo.
— Volevamo difendere voi, capitano. E ora ne avete bisogno.
— Niente affatto. State dove siete. Manderò qualcuno a ritirarle.
— Siamo già sul piede di partenza. Non è la prima volta che il nostro paese interferisce in una guerra, ricordatelo. E la NATO...
— Al diavolo la NATO e al diavolo voi! Se fate un solo passo verso il ponte, non sarete considerati diversamente dagli altri.
— Siamo abituati a trattare coi traditori, capitano — disse Baxter, severo. — Il vostro governo saprà apprezzare ciò che noi facciamo, anche se voi non capite. — E interruppe il collegamente.
Gev stava già correndo verso l'uscita che dava nella sezione passeggeri. — È chiusa — gridò. — Non c'è modo di rinforzare questa porta?
Gli altri, guidati da Nils, lo raggiunsero subito. Ma restarono allibiti a fissare lo schermo televisivo. Una decina di uomini erano spuntati dalla svolta del corridoio che stava oltre la porta chiusa, e si precipitava contro questa. Baxter veniva in testa, e dietro a lui correvano uno dei delegati di Formosa, alcuni sudamericani e un vietnamita.
Qualcuno alzò la gamba spezzata di una sedia e la scagliò contro la telecamera. Lo schermo si spense.
— Le cose si complicano — disse Gev con calma, guardando la porta. — Ora dovremo combattere su due fronti, e non siamo attrezzati neppure per lottare su uno.
— Capitano — chiamò dal ponte il radiotelegrafista. — La sala macchine dice che hanno ricominciato a tagliare.
All'improvviso il boato di un'esplosione rimbombò con violenza assordante nello stretto corridoio, e la porta si contorse, mentre una gran nube di fumo entrava dalle fessure, ribollendo. Qualcuno cadde, altri rimasero lì, intontiti. Poi la porta tremò, si piegò ancor di più, e un uomo che impugnava una pistola fece l'atto di introdursi nella stretta breccia.
Gev balzò in avanti, afferrò il polso dell'uomo e lo torse, cosicché la canna della pistola si rivolse verso il soffitto. L'arma sparò una volta, ma le orecchie assordate dei presenti quasi non avvertirono il rumore dello sparo. Allora Gev col taglio della mano colpì al collo l'uomo, che cadde senza vita. Poi il generale armeggiò un istante con l'insolito meccanismo della pistola, infilò l'arma nell'apertura, sopra il corpo del morto, e sparò fino a che il caricatore fu vuoto.
Gli aggressori si fermarono un attimo, ma subito la breccia fu allargata, e due altri uomini vi passarono attraverso, scavalcando il cadavere. Nils ne colpì uno in pieno viso, con un pugno, e lo fece ricadere all'indietro.
Ma gli avversari, superiori per numero e in possesso di diverse armi, ebbero la meglio. Comunque, i difensori si batterono come leoni. Il generale cedette solo dopo essere stato colpito da almeno tre proiettili. Nils non rimase ferito, ma gli aggressori gli si aggrapparono addosso immobilizzandogli le braccia, mentre uno gli dava una mazzata in testa. Arnie non sapeva certo combattere, e fece solo qualche timido tentativo di difendersi, con ben poco successo. Poi tutti vennero trascinati sul ponte. Il radiotelegrafista, l'unico rimasto lassù, parlava alla radio.
— Zitto! — urlò Baxter. — Con chi parlate?
L'operatore, bianco come un panno lavato, tenne stretto il microfono. — Con la nostra base lunare. Hanno inoltrato la nostra chiamata a Copenaghen. Quei diavoli hanno fatto irruzione nella sala macchine, l'hanno occupata.
Baxter rifletté un istante, poi abbassò la pistola e sorrise.
— Avete fatto bene. Continuate il rapporto. Dite che avete trovato aiuto. I comunisti non se la caveranno. E adesso... come posso mettermi in contatto con la sala macchine?
Il radiotelegrafista indicò, in silenzio, lo schermo del telefono, da dove fissava una faccia impassibile. Baxter si avvicinò all'apparecchio con altrettanta freddezza.
— Siete un traditore, Schmidt — disse. — L'ho capito subito, quando ho visto che facevate parte della delegazione della Germania orientale. Non vi siete comportato con saggezza. — Baxter si rivolse a Nils, che, abbandonato su una sedia, stava tornando in sé lentamente. — Conosco quest'uomo, capitano. È un informatore prezzolato. Siete fortunato ad avere qui me.
Il generale Gev se ne stava semidisteso sul pavimento, appoggiato alla parete, e ascoltava in silenzio, senza preoccuparsi della gamba che gli sanguinava abbondantemente. Anche il braccio destro era ferito, e lui teneva la mano infilata nella camicia aperta. Arnie aveva perso gli occhiali, che erano andati in mille pezzi, e si guardava intorno socchiudendo gli occhi miopi, cercando di capire che cosa stesse accadendo.
Baxter guardò con disgusto l'immagine di Schmidt. — Non mi va di trattare con i traditori...
— Tutti dobbiamo fare dei piccoli sacrifici. — Le parole di Schmidt erano piene d'ironia.
Baxter avvampò d'ira, ma continuò, ignorandole.
— Mi sembra che siamo giunti a un punto morto. Noi presidiamo il ponte e abbiamo il quadro dei romandi.
— Mentre io e i miei uomini ci occupiamo della sala macchine e dell'unità della propulsione. Le mie forze non sono come dovrebbero essere, ma siamo bene armati. Credo che vi sarà impossibile sconfiggerci. Di qui non usciremo. Che cosa intendete fare, dunque, signor Baxter?
— Il dottor Nikitin è con voi?
— Naturalmente! E perché mai saremmo qui, altrimenti?
Baxter interruppe il collegamento e si rivolse a Nils: — Una gran brutta faccenda, capitano.
— Che dite? — fece Nils, che cominciava a riprendersi. — Chi è questo Nikitin?
— Uno dei loro migliori fisici — disse Arnie. — Con l'aiuto dei diagrammi e dei collegamenti elettrici, ormai dovrebbe avere già appreso i principii fondamentali della propulsione Daleth.
— Esatto — disse Baxter, riponendo la sua pistola. — Però se presidiano la sala macchine non possono impossessarsi del ponte; dunque, non è tutto perduto. Riferitelo ai vostri superiori — ordinò al radiotelegrafista. — Siamo giunti a un punto morto, per il momento. Ma se noi non fossimo arrivati fin qui, quelli si sarebbero impossessati dell'intera nave. Vedete, capitano, che vi siete sbagliato sul nostro conto?
— Come avete portato a bordo le pistole? — domandò Nils. — E quell'esplosivo?
— Che importa? Canne di pistola che avevano l'aria di stilografiche, munizioni ingerite, esplosivo al plastico in tubetti di dentifricio. La solita storia. Non è importante.
— Per me, sì — disse Nils, con maggiore vivacità. — E cosa proponete di fare, ora, signor Baxter?
— Difficile dirlo. Prima di tutto medicherò i vostri uomini. E poi cercherò di avviare un negoziato con quel doppio agente. Escogiteremo qualcosa. Dobbiamo tornarcene indietro, penso, e impedire altre uccisioni. Ormai sanno tutto sulla propulsione, il segreto è svelato. Niente più reticenza tra alleati, eh? I vostri, a Copenaghen, capiranno. Immagino che l'America sistemerà la cosa attraverso la NATO, ma questo non è il mio settore. Sono un uomo d'azione, io. Ma potete essere certo di una cosa... — Si eresse orgogliosamente. — I russi non potranno mai valersi di ciò che hanno scoperto questi loro sicari.
Nils si alzò lentamente, penosamente, e si trascinò incespicando fino alla sua poltroncina, davanti al quadro dei comandi. — Con chi parlate? — domandò al radiotelegrafista.
— Sono in collegamento con Copenaghen, con uno degli aiutanti del ministro. Là sono in piena notte, e gli altri dormivano quando ho chiamato. Il Re e il primo ministro stanno arrivando.
— Temo che non potremo aspettarli — disse Nils in inglese, perché anche Baxter capisse; poi rivolgendosi all'americano aggiunse: — Vorrei spiegare che cosa è accaduto.
— Ma certo, è indispensabile.
Sempre in inglese, con lentezza e precisione, Nils espose gli avvenimenti recenti. Dopo un lungo intervallo, mentre il segnale inviato alla Terra e la risposta tornavano indietro, l'uomo all'altro capo del filo disse qualcosa in danese, e Nils rispose nella medesima lingua. Quando ebbe finito, ci fu un silenzio teso sul ponte.
— Be' — fece Baxter. — Che cosa hanno detto?
— Sono d'accordo con me — rispose Nils. — La situazione è disperata.
— Giusto.
— Ci siamo trovati d'accordo anche sui provvedimenti da prendere. Ci ha ringraziato.
— Di che diavolo state parlando?
All'improvviso, Nils si strappò la maschera fatta di pazienza e cortesia. E sputò le parole con una rabbia trattenuta che finalmente si era fatta strada dentro di lui.
— Della decisione di fermare voi, omiciattolo! Violenza, morte, uccisioni... non conoscete altro. Non vedo la minima differenza tra voi, i vostri sicari pagati che sono qui con voi, e quel porco che si è impadronito ora della sala macchine! In nome del bene, voi fate il male. Per un insano patriottismo distruggereste il genere umano. Quando vi deciderete a riconoscere che tutti gli uomini sono fratelli... e a smetterla di accoppare i vostri fratelli? Il vostro paese possiede un numero di bombe atomiche sufficiente a far saltare in aria il mondo quattro volte! Dunque, perché aggiungere a tutto questo l'ulteriore forza distruttiva dell'effetto Daleth?
— I russi...
— Sono proprio come voi. Dal punto in cui mi trovo, qui, nello spazio, vicino a morire, non ci vedo nessuna differenza.
— Vicino a... morire? — Baxter alzò di nuovo la pistola, spaventato.
— Sì. Credevate che vi avremmo semplicemente consegnato la nostra propulsione Daleth? Avevamo tentato di tenervi lontani da essa senza uccidere, ma voi ci avete obbligati a farlo. Ci sono almeno cinque tonnellate di esplosivo distribuite lungo lo scafo della nave. E le faranno esplodere a mezzo di un radio-segnale lanciato dalla Terra...
Una serie di rapide note musicali risuonò dall'altoparlante e Baxter si voltò di scatto, con un urlo selvaggio. Sparò contro i comandi, colpì il radiotelegrafista e vuotò il caricatore sui pannelli degli strumenti.
— Un radiosegnale che non può venire interrotto da qui!
Nils si volse verso Arnie, che se ne stava immobile. Gli prese una mano e cominciò a dire qualcosa. Il generale Gev rideva, divertendosi sinceramente a quella beffa cosmica. La giustezza di quella decisione lo esaltava. Baxter gridò ancora.
In una sola, immensa esplosione fiammeggiante, tutto finì.
24
Per Martha Hansen, gli avvenimenti avevano una certa parvenza di sogno che glieli rendeva sopportabili. Tutto era cominciato quando Ove l'aveva chiamata al telefono quella notte, alle quattro e diciassette. Il ricordo più preciso di quella telefonata era la posizione delle lancette fosforescenti nel buio, mentre la voce di Ove ronzava al suo orecchio.
Le 4,17. Quei numeri dovevano avere un significato importante, perché continuavano a tornarle a galla nella mente. A che ora aveva cessato di esistere il suo mondo? No, lei era ancora perfettamente viva. Ma Nils era lontano, per uno dei suoi viaggi. Era sempre tornato dai suoi voli, prima di questo...
Ma a quel punto i suoi pensieri scivolavano via per fissarsi su qualcos'altro. Le 4,17. La gente che le aveva telefonato, parlato. Anche il primo ministro in persona e la famiglia reale... Le 4.17. Aveva cercato di essere gentile con tutti. Certo che lo era stata. Aveva imparato ad essere educata andando a scuola, se non altro.
Ma avrebbe dovuto osservare di più, durante quel viaggio sulla Luna. Tuttavia, anche allora il torpore aveva prevalso. Avevano volato su una delle nuove navi lunari; «autobus spaziali», li chiamavano. Press'a poco come viaggiare su un jet, ma con molto più spazio intorno. Una lunga cabina, file di sedili, panini imbottiti e liquori. Perfino una hostess. Una ragazza alta e bionda, che le era stata molto vicina per la maggior parte del viaggio, che le aveva perfino rivolto qualche parola con il caratteristico accento svedese che gli uomini adoravano. Ma era anche lei triste, ora, come tutti. Da quanto tempo non vedeva sorridere?
La cerimonia del funerale le era sembrata squallida. C'era quel monumento, è vero, sul suolo senz'aria appena oltre le finestre, avvolto in bandiere. E una tromba aveva lanciato uno squillo doloroso che straziava il cuore. Ma lì non c'era seppellito nessuno. Nessuno ci sarebbe mai stato sepolto. Un'esplosione, le avevano detto. Morto istantaneamente, senza soffrire. E così lontano. Alcuni giorni dopo, Ove Rasmussen le aveva raccontato la vera storia che stava dietro a quell'esplosione. Sembrava una pazzia. No, la gente, in realtà, non poteva fare cose del genere agli altri... Eppure sì. E Nils era il tipo di uomo capace di fare ciò che aveva fatto. Non era un suicidio. Martha non riusciva a immaginarsi Nils che si suicidava. Era stata la vittoria di una causa che lui riteneva giusta. E se questa richiedeva il sacrificio della vita, Martha sapeva che lui l'avrebbe considerato un particolare secondario, e non ci avrebbe pensato su gran che. Morendo, le aveva insegnato cose che in lui vivo non avrebbe mai sospettato.
— Un goccetto di cherry? — domandò Ulla chinandosi su di lei con un bicchiere in mano. Erano in una sala d'aspetto: la cerimonia era terminata. Sarebbero tornate presto a Copenaghen.
— Sì, grazie.
Martha sorseggiò il liquore e cercò di osservare gli altri. Sapeva di non averlo fatto, ultimamente, e sapeva anche che gli altri glielo perdonavano. Ma a lei non andava. Quell'atteggiamento assomigliava troppo da vicino alla pietà. Sorseggiò ancora e si guardò intorno. Al loro tavolo c'era un alto ufficiale dell'esercito, e un funzionario del ministero dello spazio, di cui non ricordava il nome.
— Non capiterà mai più — disse Ove, rabbioso. — Abbiamo trattato le altre nazioni come se fossero paesi civili e non mostri di... di ingordigia nazionalistica. Questa è l'unica definizione. Armi introdotte di nascosto, assassini prezzolati, pirateria dello spazio... Incredibile. Non avranno occasione di ritentare. E noi non ci suicideremo mai più. Ammazzeremo loro, se proprio lo vogliono.
— Senti, senti! — disse l'ufficiale dell'esercito.
— Le nuove navi Daleth verranno costruite con una perfetta divisione interna. E lo diremo chiaramente. Equipaggio da una parte, passeggeri dall'altra, senza neppure una paratìa in mezzo. Se necessario, imbarcheremo una squadra di soldati armati di fucili, di gas...
— Non esageriamo, mio caro...
— Sì, certo. Ma sapete benissimo che cosa intendo dire. Non deve capitare mai più.
— Quelli non la smetteranno di tentare — disse, cupo, il funzionario del ministero. — Così è probabile che prima o poi riescano a carpirci il segreto della propulsione, se pure non ci arriveranno per conto proprio.
— Può darsi — disse Ove. — Però rimanderemo quel giorno il più possibile. Che altro possiamo fare?
L'unica risposta era il silenzio. Che altro c'era da fare?
— Scusate — disse Martha. E gli uomini si levarono in piedi, mentre lei se ne andava. Sapeva dove trovare il comandante della base, e questi fu molto comprensivo.
— Naturalmente, signora Hansen — disse. — Non c'è nessuna ragione di rifiutare una richiesta simile. Avremo cura di rimandarvi gli effetti personali del capitano. Ma se c'è qualcosa che desiderate prendere ora...
— No, non è per questo, Vorrei soltanto sapere dove viveva quando era qui. L'ho visto così di rado, quest'ultimo anno!
— Comprensibilissimo. Se permettete, vi accompagnerò io stesso.
Era una piccola stanza, senza lusso, in una delle sezioni costruite per prime. Martha fu lasciata sola. Le pareti, sotto la crosta della vernice che le ricopriva, mostravano ancora le venature dello stampo di legno dove era stato versato il cemento. Il letto era di metallo e molto duro, l'armadio e i cassetti incorporati erano funzionali. L'unica nota di ricercatezza veniva da una finestra che dava sulla pianura lunare. Era stata ottenuta con mezzi di fortuna: due comuni oblò per navi saldati insieme, che formavano un vetro di spessore doppio. Martha guardò le distese e le colline prive d'aria, nitidamente stagliate oltre il vetro, e si immaginò lui in piedi, al suo posto. Le uniformi di ricambio erano appese con ordine nell'armadio, e lei sentì disperatamente la sua mancanza. Le restava ancora qualche lacrima, non molte, e si asciugò gli occhi col fazzoletto. Aveva sbagliato, a venire lì; ormai lui era morto e non sarebbe più tornato. Era ora di partire. Mentre si voltava per andarsene, vide la propria foto incorniciata sulla scrivania. Piccola, a colori, in costume da bagno, sorridente in un attimo di felicità. Chissà perché, non si fermò a guardarla. Nils l'aveva amata, lo sapeva. Avrebbe dovuto saperlo sempre. Malgrado tutto.
Martha fece l'atto di infilare la foto nella borsetta, poi aprì invece il primo cassetto e la ficcò sotto il pigiama. La sua mano sfiorò qualcosa di duro, e tirò fuori un libretto rilegato in cartone. Elementaer Vedligeholdelse og Drift af Daleth Maskinkomponenter af Model LV stava scritto in copertina. Mentre traduceva mentalmente i complessi termini danesi, sfogliò in fretta il libretto. Diagrammi, disegni ed equazioni le passarono rapidamente sotto gli occhi, mentre il senso del titolo le si imprimeva nel cervello.
Nozioni fondamentali per la Manutenzione e il Funzionamento delle Unità di Propulsione Daleth Mark LV.
Evidentemente Nils stava studiandolo; voleva sempre conoscere nei minimi particolari gli aerei che pilotava. Le nuove navi non facevano eccezione. Aveva nascosto e dimenticato lì quel libriccino.
Erano morti in molti per impadronirsi di ciò che lei teneva in mano in quel momento... Altri erano morti per impedirglielo...
Allungò una mano per rimettere l'opuscolo nel cassetto, poi esitò e lo guardò di nuovo.
Anche Baxter era saltato in aria, gliel'avevano detto, col resto della nave. All'ambasciata c'era ora un nuovo funzionario che aveva cercato di mettersi in contatto con lei. Ormai avevano il suo nome scritto da qualche parte.
Se gli avesse dato quel libretto, l'avrebbero lasciata in pace. Tutto sarebbe stato sistemato per sempre.
Martha lo lasciò cadere nella borsetta e la chiuse di scatto. Poi richiuse il cassetto della scrivania, lanciò un'ultima occhiata alla stanza e uscì.
Quando raggiunse gli altri, vide che molti erano già pronti a partire. Si guardò attorno nella sala, cercando un viso noto. Lo trovò. La persona era addossata alla parete, e guardava fuori della finestra.
— Skou — chiamò.
Lui si girò. — Ah, signora Hansen! Vi avevo visto, ma non ho avuto occasione di parlarvi. Tutto, tutto...
Pareva perseguitato dai ricordi, e Martha si domandò se non si rimproverasse quello che era successo.
— Ecco — disse lei, aprendo la borsetta e porgendogli l'opuscolo. — L'ho trovato tra le cose di mio marito. Non credo che a voi faccia piacere sapere che questo è in giro.
— Santo cielo, no! — esclamò Skou, leggendo il titolo. — Grazie, siete stata molto gentile, molto utile. La gente, di solito, non ci pensa, e questo non aiuta il mio lavoro, vi assicuro. Copie numerate. Credevamo che fosse rimasta a bordo della Holger Danske... Non me n'ero accorto. — Si eresse, poi fece un breve, cerimonioso inchino.
— Grazie, signora. Non sapete quanto il vostro gesto sia stato prezioso.
Lei sorrise. — Ma lo so benissimo, Skou. Mio marito e molti altri sono morti per tenere segreto ciò che sta scritto in quel libro. Era il minimo che potessi fare. Ed è vero il contrario: fino ad ora non mi ero resa conto di quanto mi siete stati d'aiuto tutti voi!
Era ormai ora di partire per la Terra.
25
I freni della Sprite agirono energicamente, mentre l'auto svoltava per imboccare il vialetto d'accesso, con grande stridore di pneumatici. Ove Rasmussen balzò a terra, scavalcando la portiera senza aprirla, e si precipitò su per gli scalini, suonando poi energicamente il campanello. Mentre il suono riecheggiava con insistenza all'interno, provò ad abbassare la maniglia. La porta non era chiusa a chiave e si spalancò.
— Martha... dove siete? — gridò. — Siete qui?
Richiuse la porta e tese l'orecchio. Si udiva soltanto il ticchettare di un orologio. Poi sentì dei singhiozzi soffocati provenire dal soggiorno. Martha era sdraiata sul divano, e le sue spalle si scuotevano in un pianto disperato, incontrollato. Un giornale giaceva sul pavimento, lì accanto.
— Mi ha chiamato Ulla. Ero rimasto in laboratorio tutta la notte — disse Ove. — Avevate una voce così disperata al telefono, che Ulla ha perso la testa. Sono venuto subito. Che succede?
Poi vide la prima pagina del giornale e capì. Si chinò a raccoglierla e guardò la foto che riempiva quasi completamente il foglio. Mostrava un veicolo di forma ovale, grande quanto una piccola auto, che se ne stava sospeso alcuni metri sopra una folla di gente intenta a guardare a bocca aperta. Una ragazza sorridente salutava agitando la mano dal piccolo abitacolo; e davanti, tra i due fari, spiccava chiaramente la parola Honda. Il veicolo non mostrava mezzi di propulsione evidenti. Il titolo diceva: I GIAPPONESI ANNUNCIANO LA SCOPERTA DELLO SCOOTER A GRAVITÀ, e più SOTTO: IL NUOVO PRINCIPIO RIVOLUZIONERÀ I SISTEMI DI TRASPORTO.
Martha si era levata a sedere, ora, e si tamponava gli occhi col fazzoletto bagnato. La faccia era gonfia e arrossata; i capelli spettinati.
— Avevo preso un sonnifero — disse, mentre le parole le uscivano a fatica di bocca. — Ho dormito per dodici ore, senza sentire la radio, niente. Mentre mi preparavo la colazione, ho dato un'occhiata al giornale. E lì... — La voce le si spezzò e poté solo indicare col dito. Ove annuì stancamente e si lasciò cadere su una poltrona.
— È vero? — domandò lei. — I giapponesi hanno la propulsione Daleth?
Lui annuì di nuovo.
Martha portò le mani al viso, affondando le unghie nella carne, e gridò:
— Sprecati! Tutti morti per niente! I giapponesi sapevano già tutto sull'effetto Daleth. L'avevano rubato! Nils e gli altri sono morti per niente!
— Calmatevi! — disse Ove, protendendosi e afferrandola per le spalle, mentre lei tremava tutta, in un'agonia di dolore. — Le lacrime non possono farlo tornare, né lui né gli altri.
— Tutte quelle misure di sicurezza... inutili... Il segreto è trapelato...
— Sono state le misure di sicurezza a ucciderli — disse Ove, con voce squallida come una notte d'inverno. — Uno spreco stupido, infinitamente stupido!
L'amarezza delle sue parole fece quello che la compassione non riusciva a fare: raggiunse Martha, la scosse. — Che cosa volete dire? — gridò, asciugandosi gli occhi col dorso della mano.
— Quello che ho detto. — Ove guardò il giornale con odio profondo, poi lo calpestò. — Non avevamo alcun segreto eterno, solo eravamo in anticipo sugli altri. Arnie e io cercammo di farlo capire a quelli del servizio di sicurezza, ma loro non hanno voluto sentire ragione. Evidentemente soltanto Nils e i suoi ufficiali sapevano delle cariche di esplosivo sulla nave. Se Arnie o io avessimo saputo, avremmo sollevato un putiferio e ci saremmo rifiutati di partire. È stato uno spreco di vite, una stupidità criminale!
— Che dite? — Martha era agghiacciata dalle sue parole.
— Soltanto questo. Solo gli uomini politici e gli agenti dei servizi di sicurezza credono nei Segreti con la S maiuscola. E forse i lettori di romanzi di spionaggio che parlano di immaginarie formule rubate. Ma madre natura non ha segreti. Tutto è lì, all'aperto, e lo si può vedere. Anche se a volte la risposta è complessa, oppure se bisogna saper dove cercare, per trovarla. Arnie se ne rendeva conto, e questa è una delle ragioni per cui aveva affidato la sua scoperta alla Danimarca. Qui poteva essere sviluppata più rapidamente perché noi possediamo il macchinario industriale pesante necessario a costruire la propulsione Daleth. Ma era solo questione di tempo; poi tutti ci avrebbero raggiunto. Una volta sentito che esisteva un effetto Daleth, avrebbero saputo esattamente ciò che dovevano cercare. Avevamo due cose in nostro favore. Parecchi scienziati di diverse parti del mondo sapevano che Arnie stava compiendo ricerche sulla gravità, erano in corrispondenza con lui e leggevano ciò che pubblicava nelle riviste scientifiche sui risultati dei suoi studi. Ma non sapevano un particolare: che esisteva un errore di impostazione. Lui se n'era accorto, ma non ha mai avuto il tempo di pubblicarlo. La vera scoperta dell'effetto Daleth è stata fatta attraverso i rilevamenti telemetrici del brillamento solare. I dati ottenuti erano stati distribuiti a tutti i paesi che collaboravano, ed era solo questione di tempo perché il nesso venisse notato. Noi quel tempo l'abbiamo avuto, quasi due anni, e ci ha dato il vantaggio di cui avevamo bisogno.
— Allora gli assassini, le spie...
— Tutto inutile. Il segreto dei servizi di sicurezza è di non lasciare mai sapere alla destra che cosa fa la sinistra. Un'organizzazione segreta cerca di carpire il segreto, mentre laboratori, pure segreti, cercano di elaborarlo. E una volta che tutti questi organismi segretissimi si mettono in movimento, è molto difficile fermarli. Ci sarebbe da ridere, se la cosa non fosse tanto tragica. Ho saputo finalmente l'intera storia... sono rimasto alzato tutta la notte con quelli dei servizi di sicurezza, che me l'hanno raccontata. Lo sapete quanti erano i paesi già avviati alla scoperta della natura dell'effetto Daleth, quando la nave è stata fatta esplodere? Ve lo dico io: cinque! I giapponesi credevano di essere i primi, e hanno chiesto il brevetto internazionale. La loro richiesta è stata respinta da quattro nazioni, perché precedenti richieste di brevetto erano state registrate in quei paesi e tenute segrete dai governi. Due di tali paesi erano la Germania e l'India.
— E gli altri due? — chiese Martha in un soffio, come se già conoscesse la risposta.
— L'America e l'Unione Sovietica.
— No!
— Mi spiace. Mi fa male dirlo, quanto a voi sentirlo. Vostro marito, Arnie, i miei amici e colleghi sono morti nell'esplosione... inutilmente. Perché i paesi che ne hanno causato la morte conoscevano la risposta. Ma poiché quell'informazione era top secret, essi non hanno potuto avvisare le altre organizzazioni o gli uomini di quel settore. Però io non me la sento di biasimarli più di quanto non biasimi il nostro servizio di sicurezza, che ha messo l'esplosivo sulla nave. E neppure ce l'ho con le altre nazioni coinvolte in questo brutto guaio. Si tratta semplicemente di paranoia istituzionalizzata. Tutti gli agenti dei servizi segreti sono uguali, legati al proprio lavoro dalla propria insicurezza e dalle proprie paure. Può darsi che siano patrioti sinceri, ma è la loro malattia che li induce a dimostrare in quel modo il loro patriottismo. Questo tipo di individuo non capirà mai che quando è il tempo delle imbarcazioni a vapore si costruiscono navi a vapore, e quando è giunto il tempo degli aeroplani si costruiscono aerei.
— Non vi capisco. — Martha avrebbe voluto gridare, ma non poteva. Era al di là delle lacrime.
— La storia continua a ripetersi. Durante la seconda guerra mondiale, non appena i giapponesi «sentirono» del radar americano, si misero al lavoro. E svilupparono il magnetron e altre parti vitali, quasi con la stessa rapidità degli americani. Solo i dissidi interni e la mancanza di impianti per la produzione impedirono di realizzarle su un piano pratico. Era l'epoca del radar. E ora... ora è l'epoca del Daleth.
Seguì un lungo silenzio. Una nube passò davanti al sole e la stanza si oscurò. Finalmente Martha parlò. Doveva fare quella domanda.
— E allora, è stato tutto inutile? La loro morte. Completamente inutile?
— No! — Ove esitò e cercò di sorridere, ma non ci riuscì. — Almeno lo spero. Nell'esplosione sono morti uomini di molti paesi. Questa scossa potrebbe risvegliare un po' di buonsenso nella testa della gente, magari in quella degli uomini politici. Chissà che non decidano di sfruttare la nuova scoperta per il bene comune dell'umanità. Di fare una cosa giusta, una volta tanto, senza litigare e senza trasformare la scoperta in un'arma distruttiva ancora più terribile. Applicato correttamente, l'effetto Daleth potrebbe mutare il mondo in un paradiso. I giapponesi sono andati anche più avanti di noi: hanno eliminato la fonte di potenza separata. Hanno scrutato nella legge di conservazione dell'energia e scoperto che potevano usare l'effetto Daleth come autopropellente. Così, ora viviamo tutti alla periferia della stessa città mondiale. Qualcuno farà fatica ad abituarsi all'idea. Ma il mondo deve unirsi e affrontare la realtà. Chiunque, individuo o nazione, cerchi di usare questa forza in male o per la guerra, dovrà essere immediatamente fermato, per il bene comune. Considerate sotto questo aspetto, quelle morti non sono state inutili. Se riusciremo a imparare qualcosa da un tale sacrificio, forse valeva anche la pena di farlo.
— Riusciremo? — domandò Martha. — Riusciremo davvero a costruire quel mondo che diciamo sempre di volere, ma che sembriamo incapaci di ottenere?
— Dovremo riuscirci, per forza — disse Ove Rasmussen, protendendosi e afferrandole le mani. — Altrimenti moriremo nel tentativo.
Martha rise mestamente.
— Un mondo solo, o niente. Mi sembra di averlo già sentito dire prima d'ora.
La nube passò e il sole splendette di nuovo. Ma in quella casa, nella stanza dove sedevano due persone, c'era un'ombra che non si dissipò.
FINE