Mary Joyce

Mary Joyce non è una hacker, quantomeno nel significato classico del termine. Attivista digitale e politica, è molto nota per aver contribuito a organizzare, con successo, la campagna elettorale su internet e sui social network del presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama. Oggi insegna a gruppi di attivisti quali siano le modalità e le tecniche migliori per “combattere” utilizzando le nuove tecnologie. La sua “filosofia” prevede una particolare attenzione al metodo e alle strategie, più che ai singoli strumenti software, dal momento che questi ultimi cambiano con una rapidità sorprendente. Lo scopo della sua azione è quello di formare le menti dei nuovi attivisti digitali, di “piantare semi” che poi, nel contesto concreto, soprattutto in territori ostili, daranno i loro frutti. Ho dialogato a lungo con Mary Joyce per cercare di comprendere quali siano le modalità migliori per usare le tecnologie attuali a fini di attivismo e per condurre una buona strategia politica nella fase d’avvio d’iniziative in tal senso.

«La strategia di cercare, scegliere e utilizzare tool, strumenti che “funzionino”» – mi fa notare Mary Joyce – «è un approccio sbagliato sin dall’inizio e che si rivelerà perdente sul lungo periodo. Io sono del parere che sia errato ex se suggerire strumenti o tattiche specifiche. Anche in questo libro, e nella tua attività quotidiana, dovresti farlo il meno possibile: ben presto molte delle nozioni tecniche fornite saranno obsolete, e alcune rischiano di essere già superate nel momento stesso in cui il volume sarà pubblicato. Anche se può apparire strano, nel nostro ambito il seguire delle best practices, dei metodi ben definiti nello svolgimento delle azioni di attivismo digitale, è una idea dannosa e sbagliata. Il motivo è semplice: se una prassi ha già funzionato prima, sarà anche molto facile da riprodurre dopo. Ciò significa che molti attivisti riprodurranno quella pratica, eliminando il fattore più importante: un vantaggio tattico competitivo. Il secondo caso che può capitare è che la prassi sia troppo difficile da riprodurre su larga scala: ciò significherà che, al contrario, tutti gli altri attivisti saranno impossibilitati a replicarla anche se lo volessero. Si aggiunga che una best practice non mantiene il valore per molto tempo, nell’ambito dell’attivismo digitale, perché la potenzialità delle applicazioni e dei device per i media cambia assai rapidamente. Il primo problema che può riguardare e condizionare una best practice è che la stessa sia troppo facile, troppo semplice: può sembrare strano e contraddittorio, ma la ragione più valida per non replicare una best practice è perché è facile farlo. Se anche l’utente comune è in grado di creare una pagina su Facebook, o generare un feed su Twitter, o recapitare messaggi a una lista di e-mail, allora lo potrà fare chiunque. Se si riceve una sola richiesta ogni mese per unirsi a un gruppo correlato all’attivismo su Facebook, potrebbe essere ragionevole e interessante farlo, perché la cosa nuova e originale attrae e viene naturale pensare che può essere un modo efficace per fare del bene. Tuttavia, se cominciano a pervenire cento richieste ogni giorno, l’effetto novità sfuma e non appena si realizza che i gruppi contro le violenze domestiche e a favore del verde cui ci si è uniti non sembrano molto attivi in nessuno di questi ambiti, allora viene naturale pensare che anche l’efficacia complessiva dell’attivismo su Facebook svanisca. Ciò non vuol dire, sia chiaro, che l’attivismo su Facebook sia inutile ma, piuttosto, che ciò che è migliore, che è più efficace, si è spostato probabilmente in direzione di una nuova prassi. Questo è anche il motivo per cui di solito s’ignorano le newsletter inviate via e-mail dalle NGO e sono oggi totalmente superate dalla comunicazione attraverso i feed di Twitter. È facile farlo, così tutti lo fanno, e la pratica cessa di avere un vantaggio competitivo, di separare una causa dalle altre perché meritevole di maggiore attenzione e supporto. Tuttavia, i gruppi di attivisti non solo sono in costante competizione gli uni con gli altri per guadagnare tempo e attenzione da parte dei potenziali supporter, ma sono coinvolti, cosa molto più importante, in una costante lotta di potere con gli obiettivi della loro azione: una corporation, un corpo governativo, un gruppo di interesse del quale si vogliono riformare azioni ingiuste. Le best practice facili perdono il loro interesse anche perché gli opponenti si abituano alle stesse, o le valutano senza valore. Questo è stato il triste destino della petizione online, la e-petition, che ha iniziato ad apparire come uno strumento estremamente potente alla fine degli anni novanta. L’organizzazione per l’attivismo digitale MoveOn.org, ad esempio, iniziò la sua attività nella forma di una e-petition, domandando che il Congresso intervenisse nei confronti dell’impeachment del presidente Clinton perché si procedesse con la questione più importante di mantenere una guida per il paese. Dal momento che fu così facile iniziare una e-petition, molti gruppi di attivisti decisero di approfittarne e un cittadino, oggi, può crearla gratuitamente sul sito ThePetitionSite.com, ora posseduto da Care2. In origine, gli obiettivi (multinazionali, uomini politici) presi di mira da questi attivisti rimasero impressionati dal numero di firme digitali (nell’ordine di decine di migliaia); poi però iniziarono a dedicare uno sguardo più ravvicinato al fenomeno. Se una tattica digitale è facile, e diventa molto diffusa, è anche molto probabile che sia analizzata nel dettaglio e controllata dal target; spesso ciò non è una buona cosa. I soggetti nei confronti dei quali erano rivolte queste e-petition scoprirono che era veramente facile aggiungere una firma, anche di un soggetto terzo e inconsapevole: ciò non rendeva implicito un coinvolgimento della persona che firmava nella causa della petizione. Con il segreto degli alti numeri di firme nelle e-petition svelato, la tattica cessò di essere convincente e, quindi, smise di diventare una best practice. Sia il perdere vantaggio competitivo, sia essere “sotto il microscopio” e controllati dagli opponenti, fanno sì che presto l’efficacia di una strategia di azione possa essere neutralizzata; è per questo che gli attivisti digitali saggi dovrebbero evitarlo».

Nota Mary Joyce come possa sorgere anche il problema contrario: le best practice utilizzate con successo in molti casi possono risultare, per il cittadino comune o per le piccole organizzazioni, troppo complesse (o costose) da implementare. «Il secondo problema delle best practice è che possono essere troppo difficili. Quando il creare una pagina di Facebook, un gruppo o un blog non ha più l’effetto desiderato, i gruppi di attivisti più sofisticati non abbandonano necessariamente tali strumenti, ma li utilizzano in modalità molto più avanzate. Faccio un esempio: le liste di e-mail erano già uno strumento comunemente utilizzato, e al massimo del loro potenziale, nel 2008, quando la campagna di Obama le ha usate; il New Media Team di cui io ero Direttore delle Operazioni era però molto più sofisticato nel loro utilizzo, indirizzando i messaggi con molta cura verso gli obiettivi che ci proponevamo grazie a un sofisticato database che tracciava ogni pregressa interazione di un supporter con l’organizzazione della campagna, di modo che si potesse chiedergli, a cadenza regolare, di fare sempre qualcosa in più. C’era un intero team di analisi con il compito di trarre da questo database più suggerimenti possibili. La lista era diventata estremamente efficace, mobilitando milioni di supporter e raccogliendo milioni di dollari. Ci sono, di certo, un buon numero di best practices che si possa trarre dal lavoro che ho fatto per Obama nel caso delle e-mail, ma la maggior parte di queste sono difficili da riprodurre: costruire e mantenere un database di alta qualità, pagare un team di persone che lo gestisca e retribuire molte persone che scrivano le e-mail non sono attività alla portata di tutti i gruppi di attivisti. Se le best practice sono facili da riprodurre, perdono il loro vantaggio competitivo. Se sono troppo semplici, possono essere troppo difficili. Nel primo caso non dovresti riprodurle, nel secondo caso non puoi: le risorse e le competenze di cui ci sarebbe bisogno sono semplicemente al di là delle capacità di gran parte dei gruppi».

Un terzo ostacolo tipico nell’ambiente, nota l’attivista statunitense, è quello della rapida obsolescenza delle tecniche. «Il terzo problema delle best practice è che possono essere già troppo vecchie. Ciò, naturalmente, presuppone che simili tattiche più difficili siano ancora efficaci: tuttavia, così come le tattiche facili perdono la loro novità, azioni più sofisticate diventano sempre meno efficaci man mano che passa il tempo. Basta domandare allo staff che ha lavorato alacremente su Organizing for America, l’organizzazione che ha promosso l’attività di continuazione della campagna elettorale del 2008 e che sta utilizzando le best pratice precedenti: hanno grande difficoltà a mobilitare supporter attorno a importanti riforme, quali quella della tutela della salute. Bevi una tazzina di caffè una volta e ti tiene sveglio; bevi una tazzina di caffè ogni giorno e l’effetto è molto minore. Questo è un problema per il tradizionale attivismo offline, così come lo è per l’attivismo digitale, ma l’attivismo digitale aggiunge uno svantaggio ulteriore: le infrastrutture per l’attivismo digitale, le piattaforme per i social media e gli strumenti cambiano troppo frequentemente. Anche se un domani sarà sviluppato un mezzo efficace per mobilitare supporter su Twitter, in sei mesi Twitter potrebbe non essere più lo strumento preferito se ci saranno nuovi prodotti prediletti dagli utenti. Questo è il motivo per cui è pericoloso concentrarsi sul miglioramento della pratica dell’attivismo confidando sull’incremento dell’efficacia degli strumenti che si utilizzano. Il “valore di attivismo” di ogni tool diminuisce col tempo, o per il troppo utilizzo (questo è il problema più facile da comprendere) o per un minore utilizzo quando perde quote di mercato e viene sostituito da qualcosa di nuovo (questo è l’annoso problema)».

La soluzione, spiega la Joyce, risiede in un concetto molto semplice, ma altrettanto difficile da implementare correttamente: una buona strategia. «Qual è allora la soluzione per le best practice? Strategia! Il quadro, per come l’ho dipinto sinora, può apparire deprimente. Sbagli se usi una best practice facile, perché anche tutti gli altri la utilizzeranno. Non hai le risorse per riprodurre una strategia di attivismo complessa e costosa. Hai le risorse, gli strumenti e le tattiche su cui erano basate le best practice più sofisticate, ma sono diventate obsolete. Quindi, se il problema è riprodurre delle best practice, qual è la soluzione? Innovazione. Provare qualcosa che non è ancora stato fatto; che non è mai stato pensato prima. Con, alla base, una buona strategia. A differenza delle best practices, che definiamo “conoscenza tattica”, la “conoscenza strategica” è un set di strumenti analitici che sono rilevanti al di là di contesti specifici. Per assumere una decisione strategica su un investimento, ci sono strumenti analitici quali profitto, rischio e liquidità che possono essere applicati sia che uno sia interessato a investire in un fondo, in una nuova casa o in una società di patatine. Quali sono gli strumenti analitici disponibili per l’attivista che ha la mente predisposta alla strategia e che si sta chiedendo se investire tempo in posta elettronica, mobile o social media? Ci sono molte strategie pre-digitali – organizzare una community, attività di comunicazione strategica e marketing, azioni di resistenza civile non violenta – che offrono strumenti di analisi che possono essere utili, anche se non c’è ancora un corpo di regole, di prassi e di conoscenza strategica unico per l’attivismo digitale».

Mary Joyce, oltre alle tecniche e alle tattiche più strettamente correlate alle azioni di attivismo, è molto interessata all’uso delle tecnologie per “scardinare” il sistema, per portare una sorta di hacking del sistema politico e della società attuale. «Penso che la tecnologia digitale possa portare all’hacking del sistema politico, ma solo in un numero limitato di modi. Non è in grado di risolvere direttamente problemi politici ma, essenzialmente, può risolvere questioni di comunicazione. Penso siano sei le funzioni di attivismo che le tecnologie digitali possano agevolare, nonostante ogni giorno sembra che sia inventato un nuovo device elettronico per fare attivismo: possono aiutare gli attivisti a registrare, processare i dati, rivelare, creare in cooperazione, richiedere e aggregare. Tutti gli strumenti, anche se diversi tra loro, osservati avendo riguardo soltanto alla loro funzione si possono far rientrare agevolmente in queste sei categorie. Ovviamente le migliori campagne e tattiche le combinano, ad esempio svelando e aggregando: queste possono anche essere suddivise in funzioni molto più specifiche, ma il fine di un simile elenco è quello di creare un quadro che aiuti gli attivisti ad assumere buone decisioni strategiche. Prima hai la necessità di sapere che cosa vuoi che la tecnologia faccia per la tua campagna di attivismo, poi puoi individuare lo strumento per farlo».

Una capillare attività di registrazione (Record) è vista, dalla politica nordamericana, come la prima, più potente arma in mano agli attivisti. «Il passo iniziale per trattare un’ingiustizia è di sapere, e far sapere, che la stessa esista: registrare le prove di una violazione dei diritti umani, o di un episodio di abuso di potere, è qualcosa che le tecnologie digitali sono in grado di fare molto bene. Una delle prime organizzazioni a riconoscere, e a sfruttare, l’abilità delle tecnologie per registrare informazioni attinenti ad ingiustizie fu la Benetech, un’organizzazione non profit fondata nel 1989 per sviluppare tecnologie con valore sociale. Il loro database, Martus, presentato nel 2003, permette agli attivisti per i diritti umani di registrare informazioni dettagliate sugli abusi dei diritti umani in località remote: contemporaneamente li protegge dall’evenienza di essere catturati con simili record addosso, o archiviati nei locali dell’organizzazione. Oggi, è chiaro, la possibilità per l’attivista di registrare è qualcosa di più rispetto all’immissione di un testo in un database. Con molti telefoni mobili dotati di videocamera, che può catturare sia immagini sia video, il compito di registrare abusi è stato delegato a ciascun cittadino cui capiti di essere nel posto giusto al momento sbagliato. La registrazione è ancora il punto di partenza per gran parte degli attivisti e dell’attivismo: in un periodo storico di aumento delle persecuzioni e quando le forme di protesta più visibili sono anche le più pericolose, la registrazione clandestina può essere tutto ciò che un movimento si propone di diffondere in buona sicurezza. Anche le registrazioni audio possono essere usate per finalità di attivismo: nel 2004 il presidente delle Filippine Gloria Macapagal-Arroyo ha cospirato segretamente con il commissario elettorale Virgilio Garcillano per sovvertire l’esito delle elezioni in suo favore, e fu fatta una registrazione analogica mentre discutevano dei loro piani eversivi. Nel 2005 questa registrazione fu resa pubblica e ne furono fatte copie digitali, di cui una incorporata, ad opera dalla Computer Professionals’ Union (un’organizzazione locale per l’attivismo digitale) in una serie di suonerie scaricabili tramite internet, aumentando così ulteriormente l’attenzione sulle azioni del presidente e le relative implicazioni. Troppo spesso, però, confondiamo la registrazione di simili contenuti con la loro trasmissione. Ma la trasmissione, la rivelazione di una nuova informazione, è una funzione differente consentita della tecnologia digitale».

Non sempre la registrazione dell’informazione è, ex se, pronta per essere utilizzata a fini politici o di attivismo. A volte occorre sottoporre il dato a un processo (Process) finalizzato a una maggiore efficacia della fonte di prova acquisita. «Alcune registrazioni digitali hanno, già insito in loro, un potenziale talmente elevato che sono perfette nella loro forma grezza: raw. Tuttavia, molta informazione, come le notizie sulla violazione dei diritti umani raccolte dagli attivisti birmani, assume una certa importanza e rivela i fatti, solo dopo che è stata elaborata, trattata. La tecnologia digitale, e in particolare i database, permettono un trattamento dei dati complesso che aggrega i dati più rapidamente e in maniera più economica, come mai era possibile fare sino ad ora. Anche nel campo dell’attivismo alcune delle campagne più sofisticate usano sistemi di elaborazione del dato digitale per comprendere al meglio gli stessi dati e per farne un uso più efficace. Uno degli esempi più noti è il database dei costituenti sviluppato per la campagna di Obama del 2008. Creato e gestito dall’Analytics Team del New Media Department, includeva informazioni precise sui supporter iscritti e firmatari sia tramite il sito web sia offline: comprendeva la loro localizzazione geografica, l’indirizzo e-mail, le somme di denaro donate e il gruppo di costituenti di cui facevano parte. In questo modo, se gli organizzatori in Pennsylvania stavano cercando di mobilitare persone in quell’area, l’Analytics Team poteva creare una lista di supporter in quello stato. La possibilità di indirizzare messaggi politici in base a un simile, grande numero di parametri permetteva di raggiungere direttamente lo specifico interesse di ogni supporter. Oltre alla possibilità di lavorare con set di dati ampi e complessi, la tecnologia digitale può collegare diversi set di dati tra loro. Questo è il lato più interessante di progetti che mescolano diversi tipi di dati per rivelare come gli stessi siano correlati. Uno dei più noti è il già citato Ushahidi, che “mappa” gli sms provenienti da telefoni mobili correlandoli al luogo dal quale quei messaggi sono stati inviati. La possibilità di visualizzare la fonte dei messaggi è essenziale per mappare le crisi: il proposito originario per cui Ushahidi è stato sviluppato. In altri esempi di mash-up, gli attivisti tunisini hanno geo-taggato dei video di YouTube contenenti testimonianze di prigionieri politici, affinchè questi video apparissero disposti sopra al palazzo presidenziale nelle mappe di Google Earth dando vita a una sorta di sit-in virtuale».

Dopo una buona attività di registrazione e trattamento dell’informazione, la terza azione è quella che connota in maniera più entusiasmante l’attivismo: lo svelare segreti o situazioni compromettenti (Reveal). Già si è visto che questa fase è particolarmente cara anche agli hacker. «Lo svelare è la funzione delle nuove tecnologie, che più conosciamo, è sotto gli occhi di tutti: significa rendere qualcosa conosciuto al pubblico. La più nota forma di rivelazione è di fornire informazioni che prima erano sconosciute con il fine di attirare attenzione su una ingiustizia, o far mutare opinione su un tema che è già noto ma che si ritiene sia stato riferito non correttamente. Forse il primo esempio di rivelazione importante si è avuto quando Matt Drudge ha rivelato l’affaire del presidente Clinton con Monica Lewinski sul suo blog Drudge Report nel 1998. Un esempio più recente è il video “collateral murder”, pubblicato su Wikileaks nel 2010, che descrive l’uccisione di civili da parte di militari statunitensi in Iraq. Tuttavia, la maggior parte delle rivelazioni digitali sono meno clamorose e più numerose: gran parte del potenziale democratico del citizen journalism, ad esempio, sta proprio nella sua abilità di basare sulla folla l’affidabilità della democrazia. L’intento del participatory media è quello di fornire informazione indipendente, affidabile, accurata, su larga scala e rilevante: proprio il tipo d’informazione che la democrazia richiede. Un esempio di questo tipo è TortureinEgypt.net, un blog che identifica i membri delle forze di sicurezza egiziane che hanno torturato cittadini detenuti. Il governo egiziano non ha mai ufficialmente ammesso simili abusi, ma il blog vanta ventimila visualizzazioni al mese: senza il potere della rivelazione digitale, sarebbe impossibile per l’informazione raggiungere un’audience così vasta. Nel 2006 la diffusione di un citizen video di un Senatore degli Stati Uniti che ha utilizzato un’espressione razzista è stato parzialmente responsabile della sconfitta elettorale del politico stesso. Il tema della rivelazione dei dati riguarda anche le istituzioni. Con l’aumento di popolarità della trasparenza e del gov 2.0 in molte democrazie occidentali, la possibilità di rivelare non è limitata agli attivisti indipendenti. Il sito data.gov.uk, ad esempio, è un progetto inglese pensato per rendere pubblici tutti i dati acquisiti per fini ufficiali, consentendone un riutilizzo libero. Negli Stati Uniti c’è un progetto simile che si chiama data.gov. Nonostante lo scopo di entrambi i progetti sia quello di stimolare capacità di analisi al di fuori dell’ambito governativo, rivelare simili dati permetterà anche ai cittadini di identificare e svelare abusi. Ad esempio, l’analisi di set di dati presi dal sito recovery.gov che consente ai cittadini di fare il tracking di fondi destinati dal governo per vari fini, ha permesso ad alcuni citizen journalists affiliati con il Franklin Center for Government and Public Integrity di rivelare che 6,4 miliardi di dollari erano stati destinati a 440 distretti del Congresso non esistenti. Una rivelazione porta, poi, a un’altra: anche le cosiddette personal preference, le preferenze personali, stanno assumendo interesse. L’esempio precedente di rivelazioni da parte di attivisti e istituzioni è finalizzato a presentare nuove informazioni che avranno effetti sulla vita politica. Tuttavia, una forma di rivelazione più diffusa, anche se qualitativamente differente, è quella delle preferenze personali. L’esempio più conosciuto è il greening di icone su Twitter in solidarietà con chi protestava pro-democrazia in Iran nel 2009. Queste piccole azioni rivelavano un po’ più d’informazioni del semplice messaggio “anche io sono con chi sta protestando”. Questa attività è stata ampiamente derisa come “arm chair activism” o slacktivism dai commentatori, che hanno notato che aveva un modesto (o nessun effetto) sulla situazione in Iran. Tuttavia, l’unico difetto in una simile tattica era che questi supporter non si erano mobilitati per intraprendere un’azione concreta, come fare azione di lobbying sui loro governi perché intraprendessero un’azione più decisa con l’Iran o fornissero aiuto materiale a chi protestava. Il fallimento fu strategico, non tattico: migliaia s’identificarono come volonterosi di iniziare un’azione, ma nessuno di loro si è realmente mobilitato. D’altro canto, molto attivismo digitale che è considerato correntemente come slacktivism inefficace è una rivelazione di preferenze personali che ha portato ad alcune piccole azioni per identificare queste persone come supporter di una causa, o firmatari di petizioni elettroniche, o appartenenti a un gruppo su Facebook. Il rivelare le proprie preferenze, però, è il primo, ma non l’ultimo, passo per mobilitarsi a supporto di una campagna, quindi non vi è da stupirsi che simili manifestazioni falliscano ancor prima di raggiungere l’obiettivo».

Le rivelazioni sono certamente la forma più visibile di attivismo digitale, ma alcune applicazioni digitali operano più efficacemente, all’interno di una campagna, quando sono usate da un piccolo gruppo di collaboratori congiuntamente (Co-Create). «Definisco le funzioni di questi strumenti, nel loro insieme, come co-creation: creare qualcosa insieme, in cooperazione. Lo strumento più naturale per la creazione, con riferimento alle informazioni testuali, è la tecnologia wiki, che permette agli attivisti di redigere in maniera collaborativa comunicati stampa, piani d’azione e manifesti. Il draft di documenti è strategico, e d’importanza fondamentale, all’interno di qualsiasi gruppo, anche per una gestione corretta delle risorse. Durante la campagna del 2008, i membri del field team del presidente Obama in Pennsylvanya usarono le funzioni wiki di Google Sites per caricare e condividere file, discutere le best practice e rimanere aggiornati sulle ultime novità. Si pensi anche alla creazione collaborativa di video correlati ad alcune cause. Un altro prodotto del lavoro collaborativo può essere non un semplice documento ma un piano, un understanding dei membri del gruppo su cosa faranno, quando e perché. La posta elettronica è probabilmente il miglior modo per pianificare discussioni che permettano a molti di partecipare e di creare un archivio automatico delle conversazioni. Le chat e i software per IRC, soprattutto quelli cifrati, sono ottimi mezzi, per piccoli gruppi, per condividere informazioni e programmare le attività future. La comunicazione vocale gratuita resa possibile da Skype è anch’essa molto efficace a tali fini, e permette una assunzione di decisioni molto rapida rispetto all’invio asincrono di posta elettronica. Soprattutto in ambienti repressivi, la co-creazione di piani non scritti usando tecnologia digitale cifrata può essere la più efficace».

Un’azione più mirata, ma altrettanto importante, sulla quale si può basare il successo o meno di un’intera campagna, è la necessità di formulare richieste d’azione (Request) concrete e specifiche ai potenziali attivisti. «Molti attivisti non si rendono conto che rivelare una terribile verità su, ad esempio, un abuso di potere non porta automaticamente le persone a intraprendere un’azione, ad agire. Anche se agiscono spontaneamente, questo tipo di azione può essere inutile dal punto di vista strategico. Le rivelazioni continue circa le azioni irresponsabili della BP nel Golfo del Messico non hanno portato a una campagna efficace per limitare, ad esempio, la trivellazione nel mare profondo, per spingere gli Stati Uniti verso fonti di energia sostenibili o per ritenere la BP responsabile di danni, al di là della istituzione di un fondo volontario per le vittime. L’azione che ne è derivata – gruppi di Facebook che chiedevano di boicottare l’azienda, il defacing delle stazioni di benzina BP e le marce di protesta a New Orleans – non hanno avuto alcun effetto particolare. Dopo che si è verificata un’ingiustizia, la tecnologia digitale non aiuta gli attivisti a rispondere alla domanda“ora cosa bisogna fare?”. Per dare risposta a un simile quesito, si devono analizzare gli obiettivi preferiti e i loro supporter e decidere quale tipo di azioni, e quali tattiche, hanno la maggiore probabilità di avere successo. Una volta che questa importante decisione strategica è presa, gli strumenti digitali possono aiutare gli attivisti a mobilitare supporter trasmettendo richieste di intraprendere una particolare azione. Non c’è praticamente alcun limite alle applicazioni che possono essere utilizzate per inviare tali richieste: sms, video, blog, e-mail, podcast. C’è, tuttavia, un caveat: io ho definito questo punto request e non mobilize perché la prima non porta sempre alla seconda. Puoi domandare alle persone di intraprendere un’azione, ma non li mobiliterai con successo fino a quando non accedono alla tua richiesta e non si attivano per portare avanti l’azione che hai chiesto. Una richiesta che abbia successo ha come obiettivo la giusta azione con il corretto messaggio, domandando a un gruppo di supporto di fare qualcosa che vogliono e possono fare e che sentono che farà la differenza. Ancora: determinante è indicare con precisione quale è questa azione, e il contenuto della richiesta. Si tratta di una questione strategica cui non può rispondere la tecnologia digitale, ma solo gli attivisti».

Nella grande tradizione dell’attivismo in tutto il mondo, nota Mary Joyce, probabilmente la capacità più affascinante dei movimenti è quella di aggregare (Aggregate) persone, di unire menti e competenze in direzione di eventi o progetti comuni. «Le campagne di attivismo a volte richiedono aggregazione, e che cosa internet può contribuire ad aggregare? Be’, tutto: contenuti, somme di denaro, capacità, persone online e offline. La “madre” di tutti gli aggregatori è quella dei blog. Quando le blogosfere nazionali stavano cominciando a operare in tutto il mondo, gli aggregatori erano fondamentali nell’aiutare nuovi blogger ad avere una audience e a formare una community ad hoc dove potevano reperire aiuto tecnico e motivazioni. Alaa e Manal’s Bit Bucket, in Egitto, è dedicato alla promozione della libertà di manifestazione del pensiero. L’aggregatore di Blog in Kenya KenyaUnlimited fu la chiave nel generare il movimento del blogging in quel paese: i blogger sono, in quella nazione, tra gli attivisti digitali più produttivi. Internet può aiutare con l’aggregazione di tutti i tipi di contenuti: il tagging e altre forme di definizione di contenuti sono la chiave. Su Flickr si aggregano immagini, gli hashtag su Twitter permettono di aggregare gli argomenti di conversazione in un forum pubblico che, altrimenti, non sarebbe disponibile; siti come StumbleUpon e del.icio.us permettono alle persone di raccomandarsi, l’una con l’altra, siti e contenuti. Questo può essere un buon modo per gli attivisti per mantenersi informati su una causa, specialmente se non è regolarmente “coperta” dai media. Il sito CrowdVoice è disegnato specificamente affinché gli attivisti possano aggregare informazioni sulle cause di loro interesse. Noto è anche quanto internet possa permettere di raccogliere grosse somme di denaro attraverso le micro-donazioni. Un altro modo di interpretare le micro-donazioni può essere la raccolta di beni per zone disagiate. Come accennato sopra, il richiedere denaro non significa, poi, riceverlo: si applicano le stesse regole di credibilità, di efficacia e costanza. Donare è anche una forma passiva di attivismo per tutti coloro che sono coinvolti; tuttavia, la capacità di raccogliere denaro da un gran numero di persone con redditi bassi, più che da un piccolo numero di persone con redditi alti, trasforma il tipo di cause che possono attirare denaro. Circa le capacità che si possono condividere, pochi attivisti hanno tutte le capacità, gli skill, che servono per dar vita a una completa campagna digitale. Anche l’ostacolo basilare di creare un sito web per presentare al pubblico la campagna può essere al di là delle capacità (o della disponibilità di tempo) di un singolo attivista. Quando ho lavorato con un team di attivisti per creare un sito di protesta contro la reclusione del blogger egiziano Ebdel Monem Mahmoud, un attivista si è offerto volontario concedendo l’uso del suo server mentre io operavo sulla revisione della versione inglese del sito. Come con un wiki, eravamo tutti in grado di accedere al contenuto sul server remoto nonostante fossimo sparpagliati in differenti luoghi nel mondo. Anche l’aggregazione di persone online è un’altra forma di attivismo estremamente visibile. Il gruppo su Facebook è la forma più comune, e gli esempi sono decine di migliaia. Dal momento che gran parte di questi gruppi non raggiungono l’obiettivo prefissato, si registra una forte critica (e cinismo) circa il valore di un simile tipo di aggregazione, come nel caso delle petizioni elettroniche, che hanno perso valore col tempo. Tuttavia, come con i greening delle icone di Twitter, il fallimento di questi gruppi su Facebook nel raggiungere il loro fine è strategico, e non tattico. Alcuni gruppi su Facebook, ad esempio, hanno raggiunto il loro obiettivo: in India, la campagna Pink Chaddi mobilitata tramite un gruppo su Facebook ha, con successo, attirato attenzione e azione governativa contro attacchi misogini da parte del gruppo conservatore Sri Ram Sena. Data la novità dell’uso di Facebook in quel paese, e i fini umoristici della campagna (spedire braghette rosa ai membri di Sri Ram Sena) il gruppo su Facebook ha generato un’ampia partecipazione (56.000 membri) e grande attenzione da parte dei media. Facebook aveva fornito una piattaforma per aggregare i supporter, ma fu la decisione strategica presa dagli organizzatori che rese la campagna un successo».

L’aggregazione può essere, pur utilizzando le tecnologie, anche “fisica”, mirata alla presenza in loco delle persone. «Circa le persone offline, ho lasciato intenzionalmente per ultima la funzione più nota consentita dalla tecnologia digitale. Come tutti abbiamo appreso dalle proteste post-elezione in Iran e Moldavia del 2009, le mobilitazioni pre-elezioni in Spagna nel 2004 e ciò che accadde nelle Filippine nel 2001, la tecnologia digitale può aggregare le persone anche offline. I telefoni cellulari sono i mezzi di comunicazione preferiti a causa della grande capacità di penetrazione degli stessi nella popolazione, anche quando pochi soggetti hanno accesso a internet. Queste aggregazioni di protesta offline non sono solo le più visibili perché avvengono nelle strade, ma anche perché le immagini (migliaia di persone che riempiono vie e piazze come un’onda, esponendo striscioni) sono di grande attrattiva per i media tradizionali. Simili proteste drammatiche possono essere di successo, ma spesso non lo sono. Sfortunatamente, il valore dell’attivismo digitale in sé è spesso definito dal successo della protesta digitale più recente. Questa è una visione a corto raggio e, come con le altre funzioni, il successo di una tattica è, in definitiva, una questione di capacità strategiche degli organizzatori. Il regime risponderà alle richieste supportate da una protesta pacifica? La protesta aiuterà la causa o, semplicemente, permetterà al regime di identificare meglio gli attivisti da attaccare? Ci sono domande cui la tecnologia non può rispondere».

Il quadro che è stato disegnato dall’attivista nordamericana è molto chiaro. Appare però che, ottime regole strategiche a parte, la passione sia ancora il motore principale che debba muovere azioni di successo. «Attraverso questi esempi ho cercato di rendere chiaro che la tecnologia digitale fornisce funzioni utili tatticamente per gli attivisti, ma non devono essere considerate un sostituto di una buona strategia. Gli attivisti che spediscono una mail isolata, e si fermano per attendere il successo, non sono meno ingenui di coloro che gettano alcuni volantini al di là del terrazzo di un palazzo e aspettano che inizi, come per miracolo, la rivoluzione. La tecnologia digitale abbassa la barriera necessaria per entrare nell’attivismo, rendendolo più economico e facile nel registrare, processare, rivelare, co-creare, richiedere e aggregare su una scala ampia informazioni o attività. Queste funzioni sono di una utilità essenziale per l’attivismo, ma non sono ciò che fanno un attivista; grazie a questa facilità di accesso alla tecnologia, vedremo, probabilmente, più attivisti e più campagne, ma la maggior parte falliranno per mancanza di conoscenza strategica. È solo attraverso lo sviluppo di strategie digitali che gli attivisti saranno capaci di usare questi elementi a loro vantaggio. E trionfare».