6

Si era coricata da nemmeno un quarto d’ora eppure la stanza era già impregnata di lei. Vero è che era una cameretta angusta, appena sufficiente a contenere un lettino di ferro, una bacinella per lavarsi e un attaccapanni a tre ganci che bastava per i vestiti di Babette, compresa la biancheria che si era tolta.

Lei era tornata a letto rabbrividendo e si era tirata le coperte fino al mento. I suoi occhi, che quella sera avevano riflessi dorati, scrutavano l’alta figura di Charles che sfiorava con la testa il soffitto spiovente.

«Non vieni a letto?» disse in un bisbiglio, dato che Jules dormiva proprio sotto di loro.

Charles ebbe un attimo di esitazione. Entrando nella stanza illuminata aveva scorto, in trasparenza, il corpo di Babette sotto la camicia da notte. Adesso, sentendo l’odore del suo sapone, della sua biancheria, aveva voglia di strapparsi i vestiti di dosso e infilarsi con foga in quel lettino troppo stretto e corto per lui, come aveva già fatto altre due volte, specialmente la prima, con Babette che lo fissava.

«È meglio che ti parli» le sussurrò con la fronte aggrottata, sedendosi piano sulla sponda del letto per non farlo cigolare.

A Babette non piaceva fare l’amore. Non le piaceva, o forse non ancora. Charles non lo sapeva e non se ne crucciava. Provava a sua volta un certo imbarazzo a farlo con lei e gli sarebbe sembrato del tutto naturale andare da una donna come Emma quando ne avesse avvertito il bisogno.

Cercò la mano di Babette sotto le coperte.

«Devo dirti che cosa ho scoperto, che cosa ho fatto... Magari puoi darmi un consiglio...».

Sopra il lucernario il cielo era nero, e si sentiva soffiare il vento.

«Sarà meglio spegnere...» osservò Babette.

Charles girò l’interruttore di ceramica e la lampada, priva di paralume, si spense.

«Vieni più vicino, così parlo piano...».

I capelli di lei gli solleticavano la guancia e avvertiva il sudore scorrergli lungo il collo.

«Allora... Per cominciare, ho incontrato Paumelle...».

Parlava con lentezza, cercando le parole, cercando soprattutto di mettere ordine fra i pensieri. Voleva raccontare tutto, spiegare cose che nella sua testa erano ancora confuse.

Gli stava salendo un po’ di febbre, come spesso gli capitava la sera. Gli bruciavano le guance, aveva le mani sudate; Babette se n’era accorta, ma non osava dirglielo. Data la corporatura, Charles le stava praticamente addosso e lei era così scomoda che a un certo punto non ascoltò nemmeno più, pensando solo a come liberare la spalla indolenzita.

«Quando ho visto che si tratteneva tanto a lungo con la fiamminga, ho pensato...».

Era la prima volta che parlava di come si era mosso, e poter descrivere a parole le sue iniziative gliele faceva sembrare più importanti, quasi eroiche.

«Scansati un po’, Charles!».

«La cosa più interessante, capisci, è aver scoperto dove dorme, perché...».

Lei gli diede un pizzicotto sulla mano, ma lui non capì. Di colpo lei fece:

«Ssst!...».

Tutti e due tesero l’orecchio, avvertendo uno scricchiolio sulle scale, come se qualcuno stesse salendo a passi felpati, a sua volta con le orecchie tese.

«È Jules?» domandò Charles.

Babette fece un cenno con la testa, ma al buio Charles non capì se era un sì o un no.

«C’è qualcuno?» domandò una voce bassa sul pianerottolo, proprio dietro la porta.

Silenzio.

«Rispondi, Babette! Chi c’è con te, svergognata?».

«Che succede?» biascicò Babette fingendosi insonnolita.

La porta non era chiusa a chiave. Jules la spalancò e accese la luce senza dare a Charles il tempo di tirare fuori dal letto il suo lungo corpo vestito di tutto punto.

Si era infilato i pantaloni sulla camicia da notte. Gli occhi sembravano più sporgenti del solito e aveva le palpebre gonfie.

«Ah, sei tu!» constatò senza eccessivo stupore.

A stupirlo era più che altro il fatto di trovare Charles a letto vestito e con gli abiti in ordine. Probabilmente, se gli avesse giurato di non aver mai toccato Babette, avrebbe risposto:

«Saresti capacissimo!».

Nel frattempo, erano l’uno più imbarazzato dell’altro. Babette si era rimessa a letto, Charles si era alzato e ora la stanzetta era completamente occupata dai due uomini, entrambi di notevole statura.

«Potresti evitare di venire qui» brontolò Jules, più seccato che arrabbiato. «Capisci, se permetto che succedano cose del genere a casa mia, come faccio poi a...».

«Siamo fidanzati!» ribatté Charles.

«A maggior ragione!».

«Dovevo assolutamente parlare con Babette. Lei sa benissimo che durante la giornata è impossibile...».

«Che le stavi dicendo?... Ma non restiamo qui... Buonanotte, Babette!... E se ti becco un’altra volta...».

Fece passare Charles per primo, richiuse la porta e accese la luce delle scale. Al piano di sotto, la porta della sua camera era rimasta aperta e per un attimo sembrò che volesse riceverlo lì. Invece continuarono a scendere, e quando furono nel caffè Jules accese una sola lampada, il che cambiava l’aspetto e persino le dimensioni dell’ambiente.

«Lo capisci, vero, che non posso tollerare una cosa simile? Finisce sempre che si sparge la voce e allora i clienti non hanno più rispetto...».

Jules si sedette accanto alla stufa, che era ancora calda. Non sembrava ansioso di mandare via il giovane, forse perché soffriva di insonnia.

Charles non sapeva che pesci pigliare. Non aveva nulla contro Jules, ma con lui si sentiva a disagio. Forse perché zia Louise e il resto della famiglia consideravano il gestore di un bistrot come un essere a parte, un intermediario tra le persone perbene e quelle che perbene non erano. Jules, per giunta, ci provava gusto a essere volgare e lui non sopportava la volgarità.

E poi Jules aveva cinquantacinque o sessant’anni e Charles apparteneva a un’altra generazione.

«Siediti un momento... Dopotutto, non mi dispiace vederti...».

C’era chi rimproverava a Jules di essere stato in prigione, ma si era trattato di una storia di alcolici adulterati, cosa che i suoi clienti non giudicavano infamante.

«Vieni più vicino, non farmi alzare la voce... Me l’immagino cos’avevi da raccontare, lassù, alla Babette, perché le ho notate le tue manovre durante tutta la serata...».

Pur tenendosi sulla difensiva, Charles sapeva che non ci sarebbe voluto molto a fargli sputare il rospo. Di fronte a Jules si sentiva come uno scolaretto davanti al maestro, e quando si mise a tossire, quello lo rimbrottò:

«Bravo, eh!».

«Ho avuto troppo caldo, lassù...».

«Per forza, ti sei infilato a letto tutto vestito! Avanti, vieni a sederti qui vicino alla stufa... No, aspetta! Prendi la terza bottiglia a destra, sul ripiano in alto... E porta due bicchieri...».

«Grazie, ma...».

«Bevi un goccio, ti farà bene...».

Continuava a fissarlo con un’espressione accigliata, burbera, l’espressione di chi è incerto se compiere o meno un certo passo.

«Paumelle ci ha detto che lo hai seguito per tutto il giorno...».

«No, non tutto il giorno, tutto il pomeriggio...».

«Credi che sia stato lui?».

Charles si turbò. Non era come davanti al giudice. Era pronto a confidarsi, ma bisognava insistere ancora un po’.

«Non ho detto questo...».

«Però lo pensi!... Rimetti la bottiglia sul bancone. Siediti. Mi urta i nervi parlare con uno che sta in piedi. Ovviamente non credi che tuo fratello abbia fatto la pelle al vecchio...».

Perché si esprimeva così? «Fare la pelle»: la crudezza di quelle parole, la loro cinica precisione infastidì Charles.

«Nessuno lo crede!» ribatté.

«È possibile, non dico di no. Per quanto...».

«Per quanto cosa?».

«Niente! Non è il momento di discutere... Insomma, ti sei messo in testa che potrebbe essere stato il giovane Paumelle, perché è un buono a nulla...».

«L’ho trovato da Emma...».

«E allora?».

«L’osteria è di fianco alla villa...».

«E con questo?».

«A mezzanotte doveva essere ancora aperta...».

Quel particolare colpì Jules, che rimase per un po’ soprappensiero. Charles si chiese se fosse il caso di tirar fuori anche l’ultimo argomento. Ma prima che avesse il tempo di aprire bocca, l’altro cacciò un sospiro e appoggiò i gomiti sullo schienale della sedia con l’aria di chi si è deciso a parlare.

«Nessuno può sapere come andrà a finire. Tuo fratello è un bravo ragazzo. È una disgrazia che abbiano messo in prigione uno come lui, soprattutto se non ha fatto niente. Ciò non toglie che forse hai torto a incaponirti sul giovane Paumelle...».

Dal tono con cui aveva pronunciato le ultime parole si capiva che non la pensava come Charles sul conto del ragazzo.

«Non c’è dubbio che sia un perdigiorno, ma non è colpa sua. Se non ci fosse stata vostra zia a badare a te e a tuo fratello...».

Charles cominciava ad agitarsi. Stai a vedere che Jules lo avrebbe smontato, dimostrandogli che i suoi sospetti erano infondati, che tutta quella fatica era stata vana...

«Sia ben chiaro, non lo sto difendendo. Se ha accoppato Février, peggio per lui, gliela faranno pagare cara, più cara che a chiunque altro...».

Con gli scuri chiusi e una sola lampada accesa, l’ambiente aveva l’aspetto di un palcoscenico dopo lo spettacolo. Probabilmente, di sopra, Babette non era riuscita a riaddormentarsi e stava con le orecchie tese, stupita di non sentire il padrone risalire.

«Tu sei troppo giovane per sapere certe cose, ma te le posso dire io. Dopodiché, regolati come meglio credi. La cosa non mi riguarda. Non hai mai conosciuto Georgette Robin, vero?».

«No!».

«Io sì invece, l’ho conosciuta quando lei era cameriera in un albergo e suo fratello muratore... Apri bene le orecchie: è più importante di quanto immagini... Georgette era una bella ragazza, la più bella ragazza di Fécamp, secondo me. In confronto, la tua Babette è una sciacquetta... Non scaldarti!... Sarebbe uno sbaglio, e domattina te ne pentiresti... So quello che dico e parlo a ragion veduta... Vai pure a letto con Babette, se ne hai voglia, ma non sotto il mio tetto... Sposala, se ti va, più in là saprai se hai fatto la cosa giusta... Io volevo sposare Georgette e c’è mancato poco...».

Charles restò di stucco e lo guardò a occhi sbarrati. Si rendeva conto, ancora una volta, che fino allora aveva vissuto senza sapere niente di quello che gli succedeva intorno, senza sforzarsi minimamente di capire l’esistenza altrui.

In fondo era naturale che anche gli uomini della generazione precedente avessero avuto i loro amori. Jules poteva benissimo essersi innamorato di una Babette, che nel suo caso si chiamava Georgette. Che magari andava a trovare di nascosto in camera sua... Difatti Jules continuò:

«Facevo come te... Mi toglievo le scarpe per salire le scale, ma una volta in camera sua mi toglievo ben altro... Te l’ho detto, non era mica come quella là, aveva sangue nelle vene, lei... Io lavoravo al caffè della stazione... Ero cameriere, se vuoi saperlo... A un bel momento, il fratello di Georgette ha minacciato di spaccarmi la faccia se non lasciavo in pace sua sorella e ce le siamo date di santa ragione a un angolo della strada... Tempo una settimana e Georgette si è messa con un altro... Sei mesi dopo è partita per l’America con una famiglia che aveva passato le vacanze a Étretat... All’epoca tuo padre faceva il servizio militare...».

Charles ascoltava con il fiato sospeso, presagendo che il suo interlocutore stava per rivelargli uno straordinario intreccio di eventi.

«In quel periodo mi è capitato di servire da bere a Février, che aveva qualche anno più di me. Mai avrei immaginato che un giorno, in non so quale paese del Sudamerica, avrebbe sposato Georgette e avrebbero vissuto insieme per un pezzo... Cominci a vedere un po’ più in là del tuo naso, ragazzo mio?».

Nel vano della porta Charles scorse la figura spaurita di Babette, con il cappotto verdastro infilato sulla camicia da notte. Il suo sguardo lo tradì. Jules si voltò e tuonò:

«Tornatene a letto, tu! Abbiamo cose importanti di cui parlare!».

E osservò:

«Non ti sei nemmeno messa le pantofole! Ma brava! Fila, altrimenti mi alzo e ti faccio vedere io!».

Babette si dileguò, rassicurata.

«Già non scoppia di salute, in più se ne va in giro a piedi nudi in pieno inverno... Proprio come te che... Lasciamo perdere!... Cosa stavo dicendo?... Ma poi, perché ti sto raccontando tutte queste cose?... Vabbe’!... A un certo punto Georgette e Février si sono stufati l’uno dell’altro e si sono lasciati... Forse hanno addirittura divorziato?... Non lo so... Ti dico solo una cosa: una quindicina di giorni fa, e cioè prima del 2 febbraio, qualcuno ha riconosciuto Georgette a Le Havre. Era con un uomo, forse il nuovo marito, forse un amante...».

Stavolta Charles restò a bocca aperta, stupefatto dalle possibilità che lasciava intravedere quella rivelazione.

«Posso anche dirti che è ancora lì, o almeno c’era ieri, dato che l’hanno vista di nuovo in un caffè di place Gambetta, e stavolta insieme al fratello...».

Più le sue informazioni erano preziose, più Jules si indisponeva, come se pensasse:

«Non meriti che ti racconti tutte queste cose! Insomma, arrangiati...».

Intanto Charles stava già ricollegando quell’anello alla catena che aveva ricostruito: l’osteria di Emma, vicino alla casa di Février, Paumelle, che era amico della fiamminga e dormiva in una baracca nel cantiere di Clovis Robin...

... Clovis Robin, la cui sorella era stata la moglie di Février...

Si era alzato come se avesse intenzione di precipitarsi a Le Havre senza ascoltare una parola di più.

«Ma che fai?... Passami la bottiglia, va’!... Non sto neanche a raccomandarti di non dire da chi hai saputo queste cose, tanto lo dirai lo stesso...».

«Le giuro...».

«Non giurare!... Bevi!... Coraggio, bevi!... Scommetto che adesso prenderai il primo treno per Le Havre...».

«Ma...».

«E come farai a trovarli?... Eh?... Dimmelo!... Batterai tutti gli alberghi?... E credi che i portieri ti risponderanno?... E anche se ti rispondono, metti che Georgette si sia risposata e porti un altro cognome...».

«Già!».

«Se non avessi tanta fretta ti avrei già detto che alloggia all’Hôtel des Deux Couronnes...».

Scoppiò a ridere, come per sminuire con lo scherno quello che aveva appena fatto. Ma la risata si trasformò in una smorfia, giacché gli aveva preso una delle solite fitte che partivano dal centro del petto fino a raggiungere il braccio sinistro, costringendolo a rimanere immobile per un bel po’, piegato in due, né seduto né in piedi. In genere, quando gli succedeva, si nascondeva da qualche parte.

«Che cos’ha?».

Jules gli fece segno di tacere e aspettò, sapendo per esperienza che lo spasmo non sarebbe durato a lungo. Alla fine si rialzò e abbozzò un sorriso.

«Niente di grave... È passato... E ora fila!... Hai fatto bene a salire da Babette, altrimenti forse non ti avrei mai detto niente...».

Sbuffò, si scosse, si trascinò in pantofole fino alla porta e tirò il chiavistello.

«Che aspetti?».

«Niente... Io...».

Charles era commosso. Avrebbe voluto ringraziare Jules e dirgli che gli dispiaceva per le sue crisi e per quello che gli aveva detto il medico. Provava pena per lui, ora che sapeva che un tempo quel Jules che faceva il cameriere si intrufolava di nascosto in camera di Georgette...

«Bada che tutto questo può anche non significare niente... Buonanotte!...».

L’aria umida della notte li investì. Charles strinse per la prima volta la manona molle di Jules e si allontanò a passo svelto mentre la porta del caffè si richiudeva alle sue spalle.

 

 

Se almeno lo avessero lasciato pensare in pace! Era entrato in casa cercando di non fare rumore. Aveva scavalcato il gradino che scricchiolava e usato la torcia per non rischiare di svegliare la madre accendendo la luce.

Ciononostante, non fece in tempo ad arrivare sul pianerottolo che la porta della camera si aprì e gli si parò davanti la cugina, con gli occhi pesti, i capelli arruffati e indosso un vecchissimo vestito che si era messa apposta per passare la notte sul divano.

Si richiuse la porta alle spalle, entrò in camera di Charles e sussurrò:

«Come mai rientri così tardi?».

Aveva l’alito pesante di chi ha dormito male.

«Mamma?».

«Dorme... Ha avuto un po’ di febbre... È stata agitata per tutto il giorno...».

Poi Berthe mormorò tra sé, a mezza voce:

«Dove l’ho messa?».

«Che cosa?».

«La lettera... Aspetta...».

La tirò fuori, tutta spiegazzata, dal corpetto. Berthe era grassa, con la pelle lattea. In quel momento aveva il viso lucido, e i capelli pettinati all’indietro le lasciavano scoperta la fronte alta e bombata. Bisbigliavano, come nella stanza di Babette.

«È arrivata stasera...».

Era una lettera ufficiale, in parte prestampata, in parte manoscritta, nella quale si informava la signora Canut che il giudice istruttore sarebbe andato a interrogarla a domicilio l’indomani mattina alle dieci.

«Che ne pensi?» domandò Berthe preoccupata. «Mamma dice che il dottore potrebbe rilasciare un certificato per attestare che tua madre è malata...».

Ce n’era sempre una! Proprio quando Charles aveva bisogno di tutta la calma e di tutto il tempo a sua disposizione!

«C’è anche una lettera delle Ferrovie...».

Questa gli comunicava che gli era stato concesso il permesso, ma soltanto per quattro giorni, perché c’era un collega indisposto.

«Cattive notizie?».

«No! Non lo so...».

Erano le due di notte. Tutta la città dormiva e loro se ne stavano lì, senza sapere che cosa fare, senza azzardarsi a parlare in un tono di voce normale, e senza nessuna voglia di coricarsi.

«Dove sei stato?».

«Sarebbe troppo lungo da spiegare...».

«Mia madre ha paura che tu commetta qualche imprudenza. Dice che sei molto nervoso e non ti comporti come dovresti...».

«E come dovrei comportarmi?» fece Charles improvvisamente ostile.

«Che ne so io? Forse ci sono cose che dovresti dire alla polizia... Se non è stato Pierre, bisognerà pur che...».

Charles distolse lo sguardo. Persino in famiglia non erano sicuri dell’innocenza di suo fratello.

«Che cosa?».

«L’inchiesta...» balbettò la cugina incrociandosi lo scialle sul petto.

Charles si rese conto di disprezzarla. La madre avrebbe voluto che si sposassero, ma Charles sapeva che lei era sempre stata innamorata di Pierre, sin da piccola. Di sicuro pregava per lui a ogni messa e a ogni benedizione! Probabile che gli dedicasse intere novene!

«Va’ a dormire...».

«E se tornassi a casa?».

«Non è il caso che tu esca a quest’ora. E poi piove...».

Preferiva che lei restasse a occuparsi della madre se ce ne fosse stato bisogno, lui non se la sentiva.

«Sei strano, Charles...».

«Ho bisogno di pensare... Lasciami stare...».

Inizialmente aveva deciso di andare a Le Havre con il treno delle sei e dodici. Adesso, però, era incerto sul da farsi. Non era meglio che ci fosse anche lui quando sarebbe arrivato il giudice?

S’immaginava già lo scompiglio: il giudice con al seguito il cancelliere, e magari anche l’avvocato Abeille, che ficcava il naso negli affari loro, la madre, spaventata, in preda a una delle sue crisi, e la folla che si assembrava per la strada.

Poi però il pensiero di Pierre rinchiuso in prigione gli provocò un dolore fisico, al punto da strappargli una smorfia.

«Torna a dormire, Berthe! Io vado a riposare».

Non sapeva più se doveva riposarsi o riflettere. Non sapeva più chi era lui, in quella vicenda che gli rivelava un mondo ignoto, ancora confuso, ma nel quale presagiva concatenazioni drammatiche.

«Buonanotte, Charles!».

Si baciarono sulle guance, come al solito. Al buio, senza fare rumore, Berthe tornò a stendersi sul divano nella camera accanto, da dove proveniva il respiro regolare della vedova Canut.

«Non dirò niente!» decise Charles mentre si spogliava.

Il gesto di togliersi i vestiti lo riportò alla camera di Babette e lo assalì il vago rimpianto di non aver approfittato dell’occasione. A seccargli era soprattutto il pensiero che anche Jules, ai suoi tempi, andava a trovare una cameriera... Babette ne usciva ridimensionata, si riduceva a una servetta qualunque! E per di più senza una gran salute, aveva aggiunto l’altro!

Jules non aveva sposato Georgette...

E lui invece...?

Non riusciva a prendere sonno. Il letto era gelido, e lui aveva i piedi ghiacciati. Avrebbe passato un’altra notte a tossire.

Certo, sarebbe stato più semplice, come diceva sua cugina, spiegare tutto al giudice, o magari al commissario, che forse avrebbe capito meglio. Si sarebbero occupati loro di indagare a Le Havre. E chissà che non scoprissero la verità...

Ma poi pensava a Pierre, al Pierre incurante di opporsi che aveva visto nell’ufficio del giudice istruttore...

Non era possibile! Solo lui poteva salvare Pierre! Doveva salvarlo a tutti i costi!

Continuava a rigirarsi nel letto, disperdendo così anche quel poco di tepore che si era accumulato.

La verità era che nessuno lo aveva mai aiutato! La sorte gli si accaniva contro! Gli altri, da piccoli, hanno un padre e una madre a proteggerli e possono commettere imprudenze senza correre rischi, tanto c’è sempre qualcuno pronto a rimediare.

Lui, invece, sin da bambino si era sentito ripetere:

«Devi essere un uomo, Charles! Pensa alla tua mamma, che ha bisogno di te...».

Perché la vera bambina era sua madre! E zia Louise rimarcava:

«Sei più ragionevole di tuo fratello. Devi avere criterio per entrambi...».

E lui si era adeguato! Aveva sempre voluto essere un uomo! Non aveva mai avuto dodici, quindici o diciotto anni e adesso, a trentatré suonati, Babette era praticamente il suo primo amore!

Ci sarebbe mai stato qualcuno che gli dicesse:

«Rilassati... Fai quello che vuoi... Ci sono io... Penserò io a tutto...».

Macché! Toccava sempre a lui prendere una decisione! Lo aspettavano al varco, a notte fonda, morto di fatica, per consegnargli quella lurida lettera!

Forse Jules?... Jules era stato il primo a parlargli in un tono burbero, ma protettivo, un po’ come si fa con i bambini...

Ciò non toglieva che avesse concluso:

«E adesso arrangiati! Sbrigatela da solo!».

Era in preda a una strana spossatezza, che gli indolenziva le membra, penetrandogli fin nelle ossa, eppure non riusciva a chiudere occhio, si sforzava di scacciare l’immagine di Georgette, che non aveva mai visto ma si raffigurava come una Babette più vecchia e più grassa, una via di mezzo tra Babette ed Emma... E al suo fianco si immaginava, chissà perché, un uomo con dei baffoni scuri...

Che cosa ci facevano quei due a Le Havre? E perché Clovis Robin, che a Fécamp non era benvisto, li aveva raggiunti?

A un certo punto gli venne quasi da piangere e in quel momento si addormentò, per poi scattare di soprassalto sentendo una voce che gli diceva:

«Sbrigati, Charles! La macchina è qua sotto...».

Quale macchina? Era giorno fatto. Dalla strada arrivavano i rumori familiari del mattino. Zia Louise si era messa l’abito di seta nera e sfoggiava sul petto il medaglione d’oro, come per una festa o un matrimonio.

«Eccoli! Suonano... Vado ad aprire...».

Mentre la zia scendeva le scale, Charles guardò fuori dalla finestra e vide dapprima l’odioso Abeille e poi il giudice Laroche, con indosso un impermeabile che gli toglieva un po’ di solennità.

Si voltò perché la porta della camera si era aperta di nuovo ed era comparsa sua madre, composta, perfettamente calma, vestita anche lei come per una cerimonia, con i capelli ben pettinati e l’espressione da bambina triste che aveva sempre quando non la prendeva una delle sue crisi.

«Sbrigati» disse anche lei. «Stavolta sono certa che rilasceranno Pierre! Mettiti il vestito buono. Zia Louise li ha fatti accomodare in salotto...».

Era appunto quando era così che faceva paura.