Quasi un braccio di ferro, durato due anni: da un lato, il giovane parroco, pronto ad attaccare con denunce dal pulpito i comportamenti illeciti; dall’altro la mafia a tentare ogni tipo di intimidazione per scoraggiare prediche e comportamenti che potevano turbare affari poco puliti e violenza criminale.

Alla fine, o almeno per ora, come spesso càpita dove anche le istituzioni sono deboli, ha vinto la mafia perché il sacerdote non tornerà a celebrare messa dopo che, per l’ennesima volta, gli hanno fatto capire - sparandogli due fucilate contro - che era meglio cambiare aria.7 L’arcidiocesi di Reggio Calabria giustifica il provvedimento adottato, sostenendo la necessità di avere «un bravo sacerdote vivo piuttosto che {…} un eroe morto».

Sono gli anni in cui la ‘ndrangheta comincia ad essere percepita anche al Nord. Nel 1991 don Aldo Salussoglia, parroco di San Dalmazzo, in Piemonte, denuncia apertamente che a Cuorgnè, in provincia di Torino, si vive in un continuo stato di tensione. «La mafia qui c’è per davvero» dice, riferendosi alla ‘ndrangheta. Nel 2005, il consiglio comunale di questa cittadina verrà sciolto per infiltrazioni mafiose, come era già successo nel 1995 con il comune di Bardonecchia.

Nel maggio 1994, in Calabria, viene preso di mira don Mimmo Caruso, parroco della chiesa di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Gli danneggiano l’auto, lanciano pietre contro l’abitazione e lo minacciano ripetutamente al telefono.

Uno stretto collaboratore di don Mimmo riceve da un tipografo una telefonata con la quale si chiedono chiarimenti sul testo, consegnatogli per la stampa di un manifesto funebre che annuncia la morte del parroco. Anche il sindaco del comune, Vincenzo Sacca, riceve una telefonata simile da un’impresa di pompe funebri di Palmi per avere informazioni su come e quando allestire in municipio la camera ardente per il parroco.

«Acquaviva», il mensile della diocesi di Oppido-Palmi, prende posizione e spiega le ragioni dell’accanimento nei confronti di don Mimmo: «È lo scotto che silenziosamente si deve pagare» scrive «quando la Chiesa si sveglia e incomincia a non fare più certificati per i sacramenti, ma vuole adempiere in totalità alla sua missione. Guai poi a toccare i Comitati feste dove spesso si annidano, coperte da devozioni varie, posizioni di potere ed interessi economici inconfessabili».8 Il 29 agosto 2001 esplode una bomba carta sotto le finestre dell’abitazione di don Edoardo Scordio, parroco della chiesa dell’Assunta di Isola Capo Rizzuto. Don Scordio, noto per le sue coraggiose omelie ai funerali di alcuni mafiosi della zona, è un prete che riesce ad attrarre attorno a sé moltissimi giovani, con i quali fonda importanti movimenti di volontariato. Sono don Scordio e i suoi giovani a ispirare il film Il coraggio di parlare di Leandro Castellani, tratto dall’omonimo romanzo di Gina Basso.

Nel 2011 viene data alle fiamme l’auto di don Tonino Vattiata, parroco di Pannaconi di Cessaniti, nel Vibonese, da anni impegnato contro la ‘ndrangheta e molto attivo sul territorio. Nel 2013 prima viene preso di mira don Giuseppe Lo Presti, parroco di Scaliti, frazione di Filandari, sempre nel Vibonese, contro la cui auto vengono esplosi alcuni colpi di pistola, e poi don Rigobert Elangui, parroco di Benestare, piccolo centro della Locride, diviso tra lo Ionio e l’Aspromonte. La vettura di Elangui, origini congolesi, viene incendiata e le fiamme si propagano anche all’esterno della canonica.

«Più di una volta, siamo stati visti da qualche vescovo come una seccatura, come se, approfittando dell’antimafia, ci volessimo dare un tono o sentirci più importanti» racconta don Ennio Stamile, parroco di Cetraro, più volte minacciato, l’ultima volta con una testa di maiale mozzata, fatta trovare sul pianerottolo di casa con un pezzo di stoffa in bocca. Un messaggio esplicito, dopo le appassionate omelie nella chiesa di San Benedetto a Cetraro contro la delinquenza spicciola e organizzata.

 

Dal male bisogna sempre trarre il maggior bene possibile.

Dopo i due attentati subiti nel gennaio del 2012, sono stato invitato in molte scuole a parlare della mia esperienza. Da mesi a Cetraro bande di criminali avevano preso di mira anziani e disabili. Un giorno, spacciandosi per il vescovo, alcuni balordi erano entrati nella casa di uno psicolabile che il tribunale aveva affidato alla mia tutela. Lo hanno riempito di botte per portargli via un paio di scarpe. In chiesa ho gridato tutto il mio sdegno per questa gente che pensa di arricchirsi con rapine, furti e spaccio di droga. «Solo gli animali si comportano così» dissi in chiesa. È stato allora che ho subìto le prime minacce, a cui la gente di Cetraro ha risposto compatta, manifestandomi solidarietà e affetto. In poco tempo, prima uno e poi altri due giovani si sono costituiti.

Sono venuti anche a chiedermi scusa.9 Il giornalista Arcangelo Badolati, studioso attento della ‘ndrangheta, la definisce «stagione della resistenza».

 

La società civile cetrarese non arretra d’un passo di fronte alle intimidazioni criminali. E d’un passo non arretra la Chiesa cattolica, che in questa città ferita in passato quasi a morte dalla ‘ndrangheta, è diventata motore di rinnovamento spirituale e culturale.10 Don Giacomo Panizza che a Lamezia Terme ha riempito di disabili una casa confiscata al clan Torcasio, parte da lontano, con la solita chiarezza che rifugge la retorica e i discorsi vuoti:

 

Nella Chiesa calabrese vi sono persone e gruppi che trattano queste problematiche scottanti, ma cattolici e clero li lasciano spesso da soli, confortandoli di tanto in tanto con documenti in cui si definisce «cancro» la criminalità organizzata rappresentata dalle mafie, e si riconosce che «le analisi sono lucide ma non efficaci». Si è consapevoli ma non protagonisti.11 Ricorda che negli incontri mensili dei preti a cui partecipava, la parola mafia non veniva mai pronunciata.

 

Io ci provavo, ma mi si ribatteva: «La mafia non esiste» e «Si vuol dare alla mafia più colpe di quanto ne abbia».

Sequestri e uccisioni erano cronaca ordinaria, eppure i fatti non scalfivano le convinzioni. Quando vi accennavo, il discorso deviava sui battesimi, gli orari delle messe, le norme per funerali, matrimoni, processioni. Solo una decina di anni fa, allorquando un prete che aveva passato la notte sballottato tra le famiglie di due giovani freddati in un agguato è giunto alla riunione sconfortato sbottando: «Sono stufo di fare funerali ai giovani ammazzati!», ne abbiamo parlato per un quarto d’ora. Finalmente! Successivamente, quando la ‘ndrangheta ha appiccato il fuoco al magazzino della ditta Godino avvolgendo di fiamme anche l’abitazione, divorando pareti, tetti, mobili, suppellettili, ricordi, per la prima volta insieme come parroci di Lamezia Terme abbiamo stilato una lettera aperta alla cittadinanza e avviato una raccolta di fondi per le prime necessità.

 

Don Panizza non usa il «clerichese» neanche quando parla del santuario di Polsi e dell’omicidio di don Giovinazzo, avvenuto nel 1989 ed ancora insoluto:

 

Ci sono voluti i filmati della polizia per sbatterci in faccia che la Chiesa non ha in mano tutti i suoi santuari e luoghi sacri, che la ‘ndrangheta penetra, prende, strumentalizza senza rispetto cose o persone o divinità. In Aspromonte, nel 1989, venne ucciso un coadiutore del priore del santuario di Polsi. Circolava l’ipotesi che don Peppino Giovinazzo fosse stato ammazzato perché aveva visto persone che non doveva vedere; altri dichiaravano che stesse mediando per il rilascio di un sequestrato; altre voci disincantate sostenevano che fare il prete al santuario di Polsi obbligava a mostrarsi un po’ amico dei mafiosi e un po’ amico degli sbirri.12 «Ormai tutti hanno capito che mafia e Vangelo non possono andare d’accordo» conviene don Pino Demasi, vicario episcopale della diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, referente di Libera e fondatore della cooperativa Valle del Marro.

Sulle terre confiscate ai clan della piana di Gioia Tauro si coltiva e si produce. «Ogni tanto ci tagliano le piante, ci minacciano, ma noi andiamo avanti».

Se a Lamezia Terme le cose sono cambiate a séguito dell’attentato ai Godino, nel resto del paese la svolta si è avuta dopo le stragi in cui sono morti i magistrati-simbolo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nel maggio e nel luglio 1992, l’acuto, solenne e terribile anatema lanciato ad Agrigento da Giovanni Paolo II nel 1993 («Nel nome di Cristo, crocifisso e risorto, di Cristo che è via, verità e vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi, un giorno arriverà il giudizio di Dio!»), gli omicidi mafiosi di don Pino Puglisi a Palermo nel settembre 1993 e di don Peppino Diana a Casal di Principe nel marzo 1994.

«Da allora» spiega il professor Fulvio De Giorgi «la Chiesa meridionale, nel suo complesso, si schierò decisamente nel campo dell’antimafia. Non solo a livello di vertici episcopali: sono via via aumentati, per esempio, i casi di sacerdoti che non collaborano a feste religiose “gestite” da mafiosi».13<continua>

 

Capitolo quattordicesimo: Le pastorali che non incidono.

 

È lungo e faticoso il cammino della Chiesa che oggi avverte, sempre più, la necessità di un cambio di passo nella sua pastorale, come indica il documento della CEI del 2010, molto fermo nella condanna delle mafie, meno incisivo sulle applicazioni pratiche, lasciate come sempre alla discrezione dei singoli sacerdoti o dei singoli vescovi, indice forse di una più generale incertezza. Ma facciamo un passo indietro. Dopo la riflessione di monsignor Montalbetti sull’onore, l’intero episcopato meridionale, adottando una lettera scritta dall’arcivescovo di Reggio Calabria, monsignor Antonio Lanza, il 25 gennaio 1948 denuncia i problemi del Mezzogiorno. «La carenza di moralità è coerente conseguenza di un deficit di spiritualità» scrivono, indicando il contesto nel quale da lì a poco sarebbe riesploso il fenomeno della criminalità organizzata. Mafia, ‘ndrangheta e camorra non vengono menzionate nel documento che attribuisce «l’arretratezza culturale» del Mezzogiorno, «non {…} tanto alle deficienze della scuola quanto a fenomeni {…} come il clientelismo, l’individualismo esasperato ed il disinteresse per il bene comune e per la cosa pubblica».

I vescovi puntano il dito anche contro lo «scarso spirito di intraprendenza e di rischio, il rifuggire da impegni e responsabilità troppo gravose, la tendenza a tutto attendere dallo Stato, ad addossare a esso anche colpe e responsabilità che non sono sue, uno spirito di fatalistica rassegnazione, una certa tendenza al parassitismo sociale».

Per l’episcopato meridionale «questi fenomeni sono in gran parte reazioni di difesa contro le angherie, i soprusi, gli inganni, e lo sfruttamento cui sono state sottoposte per secoli le popolazioni del Sud e, nello stesso tempo, sono il frutto dello stato di passività, di inerzia e di abbandono in cui il Mezzogiorno è stato tenuto da tutti coloro che avrebbero dovuto adoperarsi per crearvi condizioni di crescita culturale ed umana».

Nel documento vengono segnalati anche i pericoli legati «all’insidia e alla violenza d’ideologie sovvertitrici o comunque in contrasto con la concezione cristiana del mondo e della vita». Una sfida da affrontare con la stessa determinazione con cui sono stati «rovesciati gli idoli del liberalismo».

Per i vescovi del Mezzogiorno, non si può essere buoni cattolici e al tempo stesso socialisti, giacché il socialismo religioso e quello cristiano sono «termini contraddittori».

La loro, oltre che una chiusura, è una condanna esplicita e inequivocabile sia del comunismo che del socialismo.

Sono questi i nemici dichiarati dei preti, di Dio, della Chiesa e dell’ordine costituito e non i mafiosi che vengono considerati un male sopportabile, uomini d’ordine, difensori di valori tradizionali, come la famiglia, il rispetto, l’onore. Sono anni in cui i boss sviluppano un modello di devozione fondato sull’invocazione e sull’attesa del miracolo.

«Eu non mi movu di ccà, si sta grazia non mi fa», non mi muovo da qui, se prima non ricevo la grazia richiesta, cantano a squarciagola i fedeli che affollano le processioni in ogni angolo del Mezzogiorno. Stesse scene si ripetono all’estero, in Canada, negli Stati Uniti, in Argentina, in Australia, in Germania, in Svizzera, dove gli emigrati ripropongono le stesse feste, gli stessi momenti devozionali. Anche lontano dall’Italia, le processioni e le feste patronali vengono monopolizzate dai mafiosi, da quei ceffi che taglieggiano i connazionali e per farsi notare si «annacano», cioè camminano dondolando come le statue portate a spalla nelle Little Italy delle grandi città americane.

Piero Fantozzi, docente di Sociologia politica dell’Università della Calabria, sostiene che la reazione della Chiesa nei confronti della ‘ndrangheta segue fasi diverse. «Se leggiamo le descrizioni delle inchieste parlamentari (quella “Sulle condizioni dei contadini nel Mezzogiorno 1905-1911”) si nota che vi sono state per lo più forme di compenetrazione, in pochi casi si sono registrati conflitti e, comunque, nel secolo scorso, all’inizio del Novecento, il problema era delegato esclusivamente alle Chiese locali».1 Per Fantozzi, la svolta si registra nel periodo postconciliare, con le molte denunce dell’episcopato italiano.

Nel 1975, i vescovi calabresi, questa volta da soli, come abbiamo già detto, levano la loro voce contro la ‘ndrangheta definita «disonorante piaga della società, segno di arretratezza socioeconomica e culturale, e di involuzione morale e civica, che ormai si estende sempre più audace con collegamenti e collaborazione multiforme tra gruppi di perfidi avventurieri del Meridione ed esponenti della più spregiudicata delinquenza del Nord». Per l’episcopato calabrese, «purtroppo, nessun ambiente si sottrae all’avidità sfrenata di questa intollerabile piovra: dallo sfruttamento e taglieggiamento di ogni attività produttiva, al contrabbando; dalle rapine abilmente organizzate, alle estorsioni e ai sequestri di persona; dalla corruzione di pubblici funzionari, alla sopraffazione sui privati cittadini; dalla subdola azione per creare un clima di omertà e di paura idoneo a proteggerne l’impunità, agli addentellati politici, che ne favoriscono la diffusione ed il prestigio».

Nel documento, la Conferenza episcopale calabra invita «quanti sventuratamente fanno parte delle oscure associazioni mafiose {…} ad abbandonare le squallide ed avvilenti vie del male, considerando le terribili sofferenze ed angosce di tante famiglie e di innocenti creature».

Il 1975 è un anno terribile. Nel Reggino è in corso la prima guerra di mafia e, proprio in quell’anno, a Siderno, viene ucciso Antonio Macrì, uno dei boss più potenti, mentre a Lamezia Terme viene ammazzato Francesco Ferlaino, avvocato generale dello Stato, una delle poche vittime eccellenti della ‘ndrangheta.

Un anno dopo, i vescovi calabresi tornano a denunciare «il persistere {…} delle aggressioni alla vita: quelle brutali e purtroppo crescenti degli omicidi, quelle limitative del sano sviluppo dell’azione soffocatrice della mafia» e «si appellano ai responsabili del Governo nazionale e regionale, delle forze politiche, sindacali ed imprenditoriali per un’azione concreta e pianificata agli urgenti e seri problemi della Calabria».

Sono documenti che, purtroppo, si limitano a denunciare ed a sollecitare cambiamenti improbabili, senza tenere conto del contesto sociale in cui la ‘ndrangheta cresce e si rafforza, anche grazie a uomini di Chiesa che non fanno ciò che potrebbero per combatterla. Nonostante la parola ‘ndrangheta sia nota già dalla fine degli anni Venti, e sia stata più volte utilizzata anche su quotidiani a diffusione nazionale dagli anni Cinquanta, non compare in nessun documento ufficiale. Si continua a parlare di mafia, di malavita e di criminalità organizzata.

Il 25 novembre 1979, in occasione della festa di Cristo Re, i vescovi della Calabria rinnovano la condanna, «chiara ed esplicita, ad ogni forma di mafia, cancro esiziale e soprastruttura parassitaria che rode la nostra compagine sociale; succhia con i taglieggiamenti il frutto di onesto lavoro; dissolve i gangli della vita civile; con sequestri, che non risparmiano neppure le donne ed i bambini e con uccisioni cinicamente consumate, irride e calpesta i valori più alti degli affetti più sacri della vita». Si dicono favorevoli alla militarizzazione della Calabria, sostenendo che «una maggiore e più efficiente presenza delle forze dell’ordine, almeno nelle zone più duramente minate da tanta piaga, potrebbe riuscire se non altro a contenere l’espansione del fenomeno». E

auspicano, rivolgendosi anche alla classe imprenditoriale e politica, la salvaguardia dei posti di lavoro esistenti nelle poche industrie della regione e la creazione «di nuovi {posti}

e in misura adeguata, tenendo fede alle ripetute promesse fatte alla nostra gente». Le mafie non vengono viste come un problema esclusivo del Sud, ma come «arretratezza socioeconomica e culturale, e di involuzione morale e civica, che ormai si estende sempre più audace con collegamenti e collaborazioni multiformi tra gruppi di perfidi avventurieri del Meridione ed esponenti della più “spregiudicata”

delinquenza del Nord». Un concetto già espresso nel 1975.

Il 22 e 23 settembre 1989, i vescovi calabresi, scelgono il santuario di Polsi per condannare la piaga dei sequestri. Dal 1984 al 1989 si registrano ottantadue sequestri, ventitré dei quali in Calabria. Qualche mese prima, la madre di Cesare Casella, il giovane rapito a Pavia, si era incatenata nella piazza di Locri, richiamando l’attenzione dell’intero paese sul barbaro fenomeno dei sequestri di persona.

Scrivono i vescovi calabresi:

 

Un pensiero affettuoso e commosso ai fratelli tenuti in stato di sequestro - alcuni dei quali tanto giovani e desiderosi di libertà; per loro pregano intensamente nel santuario della Madonna, considerando che anche a lei, dolorante, fu strappato il figlio nel mistero della passione. {I vescovi} sentono il dovere di chiedere, convintamente, ai sequestratori di non rimanere insensibili alle sofferenze delle loro vittime, mostrandosi schiavi del denaro e dell’orgoglio, ma di aprire il loro cuore all’umanità, ricordando che anch’essi sono portatori dello spirito di Dio che li cerca e li invita - amorevolmente ma convintamente - a conversione.

 

La ‘ndrangheta qualche anno dopo «chiude» l’industria dei sequestri di persona per dedicarsi con maggiore profitto al traffico di cocaina. Ma non mette da parte la violenza. Nel 1990 un consigliere comunale di Fiumara, Vincenzo Reitano, viene ucciso in ospedale, dopo essere stato ferito in un agguato e dopo aver partecipato a una messa del perdono.2 Nell’ottobre 2002, dopo vari interventi a livello diocesano, i vescovi calabresi firmano un’altra pastorale comune, riprendendo il tema trattato dai loro predecessori nel 1916. «Le feste popolari» denunciano «restano un momento troppo vuoto di sfarzo paesano. Spesso di compensazione.

C’è in loro un forte bisogno di identità collettiva, che rispettiamo e comprendiamo. Ma non ne condividiamo certe espressioni che sanno di paganesimo e di spreco, senza solidarietà e prive di intelligenza».

Nel documento parlano anche della ‘ndrangheta, senza chiamarla per nome. E fanno autocritica sull’inefficacia dell’analisi.

 

La mafia sta prepotentemente rialzando la testa. E di fronte a questo pericolo, si sta purtroppo abbassando l’attenzione.

Il male viene ingoiato. Non si reagisce. La società civile fa fatica a scuotersi. È chiaro per tutti il giogo che ci opprime.

Le analisi sono lucide ma non efficaci. Si è consapevoli, ma non protagonisti! La mafiosità, poi, è ancora più pericolosa della mafia stessa. Perché si insinua tra le pieghe delle istituzioni, diventa facile accomodamento, addirittura in certi casi si trasforma in comoda autogiustificazione (poiché c’è la mafia, è inutile operare, investire, inutile cambiare e vano è restare per cambiare la nostra terra!).

 

Nel 2007, dopo un importante convegno organizzato dalla Caritas a Falerna, viene elaborato un nuovo documento della Conferenza episcopale calabra dal titolo Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo, in cui viene ribadita la necessità di

 

individuare i passi da compiere per costruire una società più giusta e solidale, tale proprio perché finalmente sciolta dalle catene del peccato e del male imposte dalle organizzazioni criminali. {…} Le mafie, di cui la ‘ndrangheta è oggi la faccia più visibile e pericolosa, costituiscono un nemico per il presente e l’avvenire della nostra Calabria. Noi dobbiamo contrastarle, perché nemiche del Vangelo e della comunità umana.

 

La svolta arriva nel 2010, quando la Conferenza episcopale italiana definisce le mafie «strutture di peccato».

 

{…} in un contesto come quello meridionale, le mafie sono la configurazione più drammatica del «male» e del «peccato».

In questa prospettiva, non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione: le mafie sono strutture di peccato. Solo la decisione di convertirsi e di rifiutare una mentalità mafiosa permette di uscirne veramente e, se necessario, subire violenza e immolarsi. Si deve riconoscere che le Chiese debbono ancora recepire sino in fondo la lezione profetica di Giovanni Paolo II e l’esempio dei testimoni morti per la giustizia. Tanti sembrano cedere alla tentazione di non parlare più del problema o di limitarsi a parlarne come di un male antico e invincibile. La testimonianza di quanti hanno sacrificato la vita nella lotta o nella resistenza alla malavita organizzata rischia così di rimanere un esempio isolato. Solo l’annuncio evangelico di pentimento e di conversione, in riferimento al peccato-mafia, è veramente la buona notizia di Cristo (cfr. Marco 1,15), che non può limitarsi alla denuncia, perché è costitutivamente destinato a incarnarsi nella vita del credente.3 Lo storico Giuseppe Carlo Marino riprende e rilancia la necessità di introdurre il peccato di mafia, convinto com’è che la Chiesa potrebbe fare molto, anzi moltissimo contro la ‘ndrangheta, così come contro le altre organizzazioni criminali.

Spiega:

 

In altri termini, la Chiesa dovrà farsi carico di insegnare che il solo fatto di essere un mafioso o uno ‘ndranghetista è - a prescindere dall’avere ancora compiuto un qualsiasi reato di sangue - di per se stesso un peccato, un «peccato mortale» contro lo Spirito Santo. E dovrebbe utilizzare i suoi specifici strumenti di prevenzione e di sanzione, compreso quello della scomunica ovvero dell’esclusione dalla comunità del popolo di Dio. In questo modo la Chiesa, invertendo una sua antica tendenza ad un mero adattamento agli assetti socioantropologici consolidati dalle tradizioni (di norma segnati dall’arretratezza e da un’organica anti-modernità), potrà riconquistare il suo ruolo «profetico» sulla linea di una permanente attualizzazione del messaggio evangelico.4<continua>

 

Capitolo quindicesimo: Il dietrofront sulla scomunica.

 

Scomunica sì, scomunica no. È un vecchio refrain. In molti strati della Chiesa è ancora forte la delusione per il dietrofront della Commissione episcopale italiana sulla scomunica ai mafiosi, dopo l’apertura dell’arcivescovo di Napoli, il cardinale Michele Giordano.

«Basta con gli interventi isolati di presuli coraggiosi» dice nel maggio 1989 il porporato napoletano all’assemblea dei vescovi italiani, in corso in quei giorni nell’aula del Sinodo, in Vaticano. Il tema emerge durante la discussione di un documento su «Chiesa e Mezzogiorno», in fase di preparazione.

«È tempo che la Chiesa intera, con tutto il peso della sua autorità morale, si schieri a fianco di chi combatte la malavita organizzata con una condanna chiara e inequivocabile»

ribadisce il cardinale Giordano, sottolineando che tempi e modi di questa presa di posizione storica non sono ancora stati decisi.

L’arcivescovo di Napoli spiega anche che l’obiettivo è di «emarginare, mettere al bando il fenomeno mafioso, e rafforzare la coscienza di chi lo combatte». Riferisce che nell’assemblea si è discusso della possibilità di introdurre varie sanzioni canoniche per escludere dai sacramenti gli appartenenti alle organizzazioni mafiose. In pratica, chi lavora o è connivente con la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra verrebbe colpito «autonomamente» dalla scomunica Mae sententiae che non ha bisogno di un pronunciamento specifico.

Il cardinale Giordano, inoltre, ai giornalisti dice di aver raccomandato ai parroci della sua diocesi di escludere dai sacramenti tutte quelle persone che notoriamente fanno parte di organizzazioni criminali.1 I giornali, in prima pagina, titolano: «I mafiosi saranno scomunicati».

Il giorno dopo, il cardinale Ugo Poletti, chiudendo l’assemblea della CEI, corregge il tiro:

 

Non ci sarà nessuna scomunica della mafia da parte dei vescovi, per il semplice fatto che questa sanzione è già prevista nel codice di diritto canonico.

 

Poi spiega:

 

La scomunica della mafia non era all’ordine del giorno e non è stata trattata dall’assemblea della cei. La questione è stata posta solo da alcuni vescovi nel gruppo di studio sul Meridione. Ma tutto è finito lì. Non è prevista e non è prevedibile nessuna sanzione di questo tipo. Escludo anche che il documento sul Meridione, atteso per settembre, possa contenere qualche accenno alla condanna della mafia: la Chiesa nella sua legislazione generale, che è contenuta nel codice di diritto canonico, già prevede sanzioni che valgono per tutti gli stati di violenza. Quindi basta attenersi a queste.

La condanna della violenza da parte della Chiesa è sempre chiara e inequivocabile. Ma non è compito della Chiesa varare provvedimenti particolari, anche perché le stesse autorità civili e giudiziarie sono perplesse quando devono individuare i responsabili di atti criminosi.2 Per molti cardinali e vescovi è una doccia fredda. Nicola Fiorita, docente di Diritto ecclesiastico presso l’Università della Calabria, obietta:

 

La scomunica dei mafiosi da parte della Chiesa cattolica è una decisione non solo praticabile ma anche opportuna per una Chiesa che voglia definitivamente spazzare via le ombre che ancora offuscano la propria azione di contrasto al fenomeno criminale.

 

Spiega:

 

Per essere veramente efficace anche sul piano simbolico la condanna espressa dalla Chiesa deve colpire tutti gli aderenti, simpatizzanti, fiancheggiatori e sostenitori delle mafie, indipendentemente dalla commissione di un qualche fatto specifico, traendo così le doverose conclusioni dalla definizione di mafie come «strutture di peccato» contenuta nel documento sul Mezzogiorno approvato dalla Conferenza episcopale nel 2010.

 

Per Fiorita «la scomunica è l’unico strumento che consente di raggiungere questo obiettivo e, d’altra parte, la Chiesa ha già sperimentato nel passato soluzioni di questo genere, con la scomunica della massoneria e del comunismo».

La scomunica sarebbe una pena Mae sententiae, come tale inflitta al reo per il solo fatto di aver commesso il comportamento condannato, indipendentemente dal suo accertamento pubblico e giudiziale. Da essa deriverebbe l’esclusione totale dai sacramenti e da ogni diritto dei fedeli. Una condanna immediata che reciderebbe per sempre i legami rituali e simbolici che ancora vengono intessuti, grazie a preti compiacenti o pavidi, tra comunità religiosa e associazioni criminali.

Dalla vicenda del 1989, emerge chiaramente una frattura sul tema della scomunica che Fiorita individua nella sostanziale marginalità del clero meridionale nella vita della Chiesa italiana lungo tutti i decenni che vanno dall’Unità agli anni Ottanta del secolo scorso.

 

La leadership della Chiesa italiana, e finanche del dissenso o dell’opposizione ad essa, è stata prevalentemente centro-settentrionale, e questo spiega la maturazione di una

speciale attenzione verso temi e problemi propri della parte avanzata del paese ed il contestuale ritardo con cui è emersa la consapevolezza di fenomeni considerati, per lungo tempo, come esclusivamente meridionali. A parte casi isolati e marginali, sarà l’azione di alcuni uomini della Chiesa palermitana a determinare un’inversione di rotta, concorrendo alla nascita di una stagione fruttuosa di rifiuto e contrasto della mafia, a dimostrazione che quando si accende la Chiesa si accende l’intera società.3 Nonostante la precisazione della CEI la scomunica continua ad essere evocata come strumento per combattere le mafie. Monsignor Giancarlo Bregantini, nel 2006, con una lettera inviata a tutti i parroci della diocesi di Locri-Gerace, non lascia spazio a dubbi.

 

Condanno, nel più forte dei modi, questa ripetuta violazione della santità della vita nella Locride. La condanno con la scomunica. Quella stessa scomunica che la Chiesa lancia contro chi pratica l’aborto, è ora doveroso, purtroppo, lanciarla contro coloro che fanno abortire la vita dei nostri giovani, uccidendo e sparando, e delle nostre terre, avvelenando i nostri campi, in applicazione estensiva del Canone 1398 qc, sentendo che questa grave sanzione giuridica ci aiuterà di certo a prendere sempre più coscienza del tanto male che ci avvolge, per poi saper reagire con fermezza e ulteriore impegno nel bene, nella difesa della vita, nella preghiera sempre più intensa per chi fa il male, nella formazione in parrocchia, seminando speranza nelle scuole, negli oratori, nei gruppi ecclesiali.4 Riflette monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Santa Severina, voce autentica all’interno della Chiesa.

La coscienza ecclesiastica e teologica è cambiata quando nel 1992 il ministro della Giustizia Claudio Martelli sollecitò la scomunica per i mafiosi. Il cardinale Pappalardo, assieme ai vescovi siciliani riuniti, ricordò che per tre volte la Chiesa aveva comminato la scomunica non solo ai mafiosi che si fossero macchiati di delitti, ma a chiunque, anche indirettamente, collaborasse con Cosa Nostra. Si tratta di scomunica latae sententiae, dunque automatica. Fu osservato che in questo caso non c’era bisogno di un annuncio formale o di una sentenza esterna, ma piuttosto, di un’azione spirituale, prima che giuridica, che ponesse fuori dalla comunione con Dio e con la Chiesa chiunque partecipasse alle attività della mafia e non ne facesse confessione al presbitero e alla comunità.

I vescovi siciliani chiarirono questo aspetto all’indomani dell’omicidio del generale Dalla Chiesa, dichiarando che non sono certamente ammessi alla comunione ecclesiale ed ai sacramenti tutti coloro che in qualche modo contribuiscono a togliere la vita e a privare della libertà umana, secondo quanto già stabilito dal Codice di diritto canonico.

Altrettanto chiara è la chiusa del suo ragionamento: La mafia è una forma di ateismo: chi ha scelto di appartenere ad essa ha rifiutato il cristianesimo e, di conseguenza, la Chiesa, i suoi insegnamenti e le sue regole. Chi sceglie di essere mafioso, dunque, ha scelto di vivere fuori dalla grazia del vero Dio. Ma ha scelto anche di morire fuori di essa? E

se si concorda sulla scomunica latae sententiae in vita, si può poi dissentire dal diniego dei funerali ai religiosi?5<continua>

 

Capitolo sedicesimo: La conversione.

 

È un tema scottante, quello della conversione. «Preghiamo perché questi mafiosi e queste mafiose si convertano a Dio»

dice il papa, inserendo ampie frasi a braccio nel suo ricordo di don Pino Puglisi pronunciato dopo l’Angelus del 26 maggio 2013. «Io penso a tanti dolori di uomini e donne, anche bambini, che sono sfruttati da tante mafie, {…} facendogli fare il lavoro che li rende schiavi, con la prostituzione, con tante pressioni sociali. Dietro a questi sfruttamenti, a queste schiavitù, ci sono le mafie» aggiunge. Come Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, anche papa Francesco lancia un appello affinché i mafiosi si convertano.

«La Chiesa perdona tutti, anche i mafiosi, ma la conversione deve essere autentica» dice il vescovo della diocesi di Locri-Gerace, Giuseppe Fiorini Morosini, il 2 settembre 2012, alla festa della Madonna di Polsi.1 Un anno dopo, promosso arcivescovo di Reggio Calabria, precisa: «Un mafioso non è tale fino all’ultimo grado di giudizio, ma anche dopo è bene fare molta attenzione nel giudicare…».

Nonostante la cautela di monsignor Morosini, il nodo ruota attorno alla valutazione del danno sociale, all’assoluzione che non può prescindere dalla riconciliazione con lo Stato e con la collettività.

«Tutti siamo d’accordo che la Chiesa debba essere luogo del dialogo con il peccatore, per la sua conversione» spiega padre Francesco Stabile, storico della Chiesa, in una intervista concessa a Salvo Palazzolo e pubblicata sul mensile «Jesus». «Ma è importante intendersi sul metodo: le iniziative strettamente individuali dei sacerdoti rischiano di creare una situazione di equivoco all’occhio del mafioso.

La conversione non può diventare un fatto privato ma deve esternarsi con segni chiari, anche perché rilevante è stato il male fatto dal mafioso alla comunità».2 Il punto, insomma, è la concezione del peccato inteso come offesa a Dio, come rottura del rapporto di fiducia con Dio.

Per Isaia Sales, storico delle mafie ed autore del libro I preti e i mafiosi, «la colpa {…} non è mai {…} verso gli altri, verso la società, la collettività, lo Stato e le sue leggi, ma innanzitutto è colpa verso Dio; deve essere riparato il peccato verso il Signore, non verso le persone in carne ed ossa, oggetto del torto».

E aggiunge: «Colui che ha subìto l’ingiustizia resta un estraneo, un non partecipe al rito della confessione e della espiazione. Così concepita, la confessione diventa una “deresponsabilizzazione etica” che salta in blocco la dimensione pubblica del peccatore».3 Come dire che l’indulgenza nei confronti del peccatore rischia di mortificare il dolore delle vittime, senza tenere conto del danno provocato alla società.

Per Sales, sarebbe importante che il rapporto con Dio e il rapporto con la società avessero lo stesso effetto, la stessa portata. «Bisogna avere il coraggio di dire: voi mafiosi non avrete l’assoluzione se non vi riconcilierete con lo Stato, con la collettività».4 Un gruppo di teologi, comprendente Salvatore Privitera, docente di Teologia morale, Cosimo Scordato, docente di Teologia sacramentaria, Domenico Mogavero, docente di Diritto canonico, e Vincenzo Murgano, assistente di Diritto canonico, chiamato a fornire un parere all’arcivescovo di Palermo, sulla radicale incompatibilità tra mafia e Vangelo e sulle linee di una specifica pastorale per i mafiosi, sulla conversione, molto tempo prima, arriva alle stesse conclusioni: La conversione non può essere ridotta a fatto intimistico, ma ha sempre una proiezione storica ed esige comunque la riparazione. Nel caso del mafioso, la conversione non potrà certo ridare la vita agli uccisi, ma comporta comunque un impegno attivo affinché sia debellata la struttura organizzativa della mafia, fonte costante di ingiustizie e violenza; anche con l’indicazione all’autorità giudiziaria di situazioni e uomini, che, se non fermati in tempo, potrebbero continuare a provocare ingiustizie. La mancanza di tale indicazione da parte del mafioso convertito, oltre a configurarsi come atto di omertà, sembra ignorare il dovere della riparazione. Su questa tematica e sui delicati problemi connessi ci sembrano assai opportune le riflessioni formulate quasi a caldo proprio sul caso del sacerdote {Mario} Frittitta da Giuseppe Savagnone nel quotidiano «Avvenire»: «{è} un equivoco {…}

che deve essere chiaramente denunziato. Quello, cioè, per cui il problema di “salvare le anime” si pone a prescindere dalle situazioni storiche, sociali, culturali, in cui gli individui di fatto sono situati. In realtà le “anime” sono sempre di uomini in carne ed ossa, inseriti in un mondo concreto di rapporti, di situazione nei cui confronti il pastore - più in generale, il cristiano - non è né indifferente né neutrale.

Il messaggio di salvezza che il Vangelo ci propone non riguarda spiriti disincarnati e isolati, ma uomini e donne che fanno parte di una comunità {…}. L’impegno per il bene comune non è una formalità legalistica {…} ma un elemento essenziale della coerenza cristiana {Il caso Frittitta. Quei molti confini non rispettati, in “Avvenire”, 11 novembre 1997}».5 Dall’altra parte dello Stretto, esprime lo stesso concetto padre Giovanni Ladiana, un gesuita che, con il movimento Reggio non tace, nato a sostegno dei magistrati minacciati dalla ‘ndrangheta, sta svegliando molte coscienze.

Dall’esame dei documenti finora prodotti dall’episcopato calabrese e siciliano, emergono chiaramente sia l’«inconciliabilità tra mafie e Vangelo», sia l’«esclusione dalla comunione ecclesiale» mediante la «scomunica». Già questa prima osservazione dice chiaramente che non si può chiamare in causa il «perdono evangelico» come lo si pone quando si parla del peccatore che ha commesso un’azione peccaminosa, e anche un delitto. Nel caso di coloro che appartengono - in qualsiasi modo - alla ‘ndrangheta, è implicita l’adesione idolatrica ad un’altra fede: in un dio della violenza e dell’affermazione assoluta del potere, non solo economico.

La scomunica di costoro, secondo il linguaggio utilizzato negli stessi documenti, non è necessario che sia sanzionata esplicitamente, avendo efficacia intrinseca nella sola appartenenza; questo, secondo la dottrina più tradizionale e consolidata della morale cattolica, implica che se costoro dovessero accostarsi ai sacramenti incorrerebbero nel peccato di «sacrilegio».

Dunque, il perdono agli appartenenti alle organizzazioni criminali, oltre a essere riservato a coloro che ne hanno facoltà (e dunque non può essere dato lecitamente e validamente da chiunque), comporta la necessità della rottura con l’organizzazione criminale, con tutte le ovvie conseguenze, in termini di denuncia, non solo dei propri delitti, ma anche del sistema criminale stesso, in quanto «struttura di peccato».6 Se parlassero tutti come padre Ladiana, forse il messaggio arriverebbe nitido e inequivocabile anche alle orecchie di boss e picciotti. La ‘ndrangheta dovrebbe essere confusa dalla chiarezza della politica, della magistratura, della Chiesa, delle forze dell’ordine, dei media, della società che troppo spesso si vanta di essere civile, ma qualche volta non lo è.

 

<continua>

 

Capitolo diciassettesimo: Una Chiesa più forte: riflessioni e prospettive.

 

«Certi suoi amici dicono che lei è religiosissimo».

«Vado in chiesa, mando denaro agli orfanotrofi…»

«Crede che basti?»

«Certo che basta: la Chiesa è grande perché ognuno ci sta dentro a modo proprio».

«Non ha mai letto il Vangelo?»

«Lo sento leggere ogni domenica».

«Che gliene pare?»

«Belle parole: la Chiesa è tutta una bellezza».

«Per lei, vedo, la bellezza non ha niente a che fare con la verità».

«La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità».

È un dialogo illuminante quello tra il capitano Bellodi e don Mariano Arena ne Il giorno della Civetta di Leonardo Sciascia. Un dialogo che fotografa l’ambiguità di certi comportamenti mafiosi, luci e ombre di un rapporto che ha radici lontane. Come fare a selezionare gli uomini che meritano di stare nella Chiesa, distinguendoli da coloro che strumentalizzano la religiosità popolare ed in particolare le sue feste «come momento per trovare legittimazione sociale, ma spesso anche per sancire vincoli, formalizzare spartizioni, stabilire gerarchie, decretare ed eseguire sentenze mafiose?».1 Per Ercole Giap Parmi, sociologo dell’Università della Calabria, bisogna partire dalla decostruzione del mito, rimuovendo tanti pericolosi luoghi comuni:

 

Bisogna guardare sotto la coltre di stereotipi che ne adornano i tratti di implacabili organizzazioni criminali, descrivendole come «onorate società». Si tratta di immagini false, costruite ad arte, ma che hanno la funzione di rendere le mafie in qualche misura sopportabili se non addirittura accettabili agli occhi delle persone, nascondendone il carico di viltà sanguinaria che le caratterizza.

 

Quella di Parmi è un’analisi lucida:

 

Bisogna prendere coscienza che la storia del nostro paese si intreccia con quella delle mafie e che queste non possono essere liquidate con l’immagine dei corpi estranei che attaccano un sistema potenzialmente sano. La forza delle mafie viene piuttosto dal loro inserimento nei gangli del potere, legittimate in questo dai continui patti che pezzi delle classi dirigenti, dell’economia e della politica di questo paese hanno stretto con esse nel corso della storia repubblicana e ancor prima. Pertanto, se la mafia si incunea nella politica, nell’economia e, più in generale, nel sociale è necessario «sporcarsi le mani» e attivare tutte le forme di partecipazione orientate al continuo monitoraggio dello stato della democrazia (in un modo che sia di mònito agli intessitori di trame occulte); è necessario altresì costruire reti di protezione sociale capaci di stringersi intorno alle vittime di mafia salvandole da un destino di solitudine; è necessario attivarsi dal basso per costruire strumenti di legge incisivi. Come accaduto, per esempio, con la Legge 109 del 1996 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Una legge di iniziativa popolare che ha visto in prima linea don Luigi Ciotti e Libera, i quali hanno colto anzitempo la necessità di incidere sui patrimoni dei mafiosi completando un percorso intrapreso nei primi anni Ottanta con la legge 646, meglio nota come Rognoni-La Torre.2 La Chiesa, nonostante i colpevoli silenzi del passato, nella sua interna pluralità di approcci e di sensibilità, può esprimere una capacità di resistenza alle mafie. E questo non è soltanto dimostrato dal martirio di uomini di Chiesa come padre Pino Puglisi o don Giuseppe Diana ma anche dalla testimonianza di parroci, soprattutto di nuova generazione, che quotidianamente denunciano le mafie e si adoperano per sottrarre, con la loro attività, i più giovani al fascino della mafiosità. Don Tommaso Scicchitano, parroco della chiesa di San Michele Arcangelo a Dormici Inferiore, nel Cosentino, è uno di questi. Trentasei anni, prete da quando ne aveva ventisei, è uno dei sacerdoti più seguiti su Facebook. Sulla lotta alla ‘ndrangheta ha le idee molto chiare. I ritardi nella lotta al fenomeno mafioso li addebita alla scarsa capacità di lettura del fenomeno di molti uomini di Chiesa, anche se non esclude che, in passato, ci sia stata tolleranza. «La ‘ndrangheta, per troppo tempo, è stata vista come parte integrante del territorio, un necessario e utile strumento agli equilibri del potere, in cui qualche prete, consapevolmente o inconsapevolmente, è rimasto pericolosamente invischiato». La soluzione la individua nella capacità di prendere le distanze dai «circoli di potere» anche nelle piccole parrocchie.

 

Noi abbiamo il dovere di avvicinare gli ‘ndranghetisti e con fermezza spiegare loro che l’appartenenza mafiosa è incompatibile con la Chiesa di Cristo. Dovremmo trattarli come si fa con gli apostati: se non recidono pubblicamente i legami con la ‘ndrangheta, non dovremmo garantirgli neanche la benedizione in chiesa, dopo la morte. Non è possibile invocare sempre la misericordia per tutti. Ci vorrebbero chiari orientamenti pastorali, da applicare in ogni parrocchia, escludendo così ogni discrezionalità. C’è chi nega i funerali ai mafiosi e chi no. C’è chi assume atteggiamenti di rottura e chi invece si dimostra accomodante. Non ci possono essere preti coraggiosi e preti codardi. Ci devono essere preti che applicano la norma. E la norma deve essere chiara e inequivocabile. Inoltre, in tutti i catechismi dovrebbe risuonare un no chiaro e discriminante alla ‘ndrangheta, alla violenza e all’ingiustizia.3 Sono tanti i problemi da risolvere. Nicola Fiorita ne indica un altro, legato alle modalità di formazione del clero. Spiega: Nel suo ultimo libro, Quello che resta dei cattolici, un acuto sociologo come Marco Marzano osserva che la formazione del clero è tuttora legata a logiche ed impostazioni vecchie ed autoreferenziali, senza alcun riferimento alla vita concreta con la quale dovranno rapportarsi i futuri parroci. Si entra in seminario con un patrimonio di valori e di abitudini e, dopo anni che dovrebbero essere utilizzati per l’elevazione spirituale e culturale, si esce con la medesima mentalità iniziale e magari con una scarsa vocazione pastorale. Si va a predicare la Parola di Dio, ma non necessariamente la si è correttamente intesa, la si è completamente metabolizzata o si è pronti a trasmetterla. Quello che a me pare, insomma, è che la vita seminariale potrà fornire degli strumenti teologici e culturali ma non incide sulla consapevolezza individuale di alcuni grandi temi della contemporaneità, come quello della mafia. Da ciò discende che chi ha una propria sensibilità la coltiverà anche una volta indossato l’abito talare, mentre chi non la ha continuerà tranquillamente a non averla.4 Altro aspetto è quello della selezione delle gerarchie ecclesiastiche, alle quali ascendono prevalentemente le componenti meno coraggiose. I preti che rischiano, che hanno il coraggio di uscire dalle sagrestie, non fanno «carriera».

Don Peppino Fiorillo, cinquant’anni di sacerdozio alle spalle, ha fatto molto per i giovani e si è speso tanto anche per Libera, l’associazione fondata da don Luigi Ciotti. «La Chiesa in questi anni» dice con la franchezza che tutti gli riconoscono «ha tollerato - probabilmente in maniera inconscia -

la presenza della ‘ndrangheta e delle mafie. Ha tollerato inoltre che i mafiosi del posto strumentalizzassero sacramenti e processioni. Per i boss, i preti sono stati un biglietto da visita da esibire, da sbandierare in una sorta di legittimazione latente sul territorio». Riconosce, però, che dall’anatema di Giovanni Paolo II, molte cose sono cambiate.

Oggi, la Chiesa non può più limitarsi a definire le mafie «organizzazioni anticristiane», deve mettere mano a una serie di iniziative per confrontarle quotidianamente sul territorio.

Non ci possono essere ampi margini di discrezione nell’attività pastorale dei preti impegnati nei territori più difficili. Non ci possono essere più i preti che combattono e i preti che tollerano, quelli che rischiano la vita e quelli che si girano dall’altra parte e fanno finta di non vedere.

Per don Fiorillo la ‘ndrangheta costituisce un nemico del Vangelo e della comunità umana.

 

È giunto il tempo in cui i preti che preferiscono minimizzare il problema, quasi ignorandolo, abbiano il coraggio di smettere di usare il Vangelo come uno scudo, e inizino invece a far proprie e divulgare le sue pagine più taglienti per affermare che i princìpi della religione cattolica sono assolutamente incompatibili con le angherie della ‘ndrangheta, che spegne ogni progetto di un buon progresso sociale attraverso una sana imprenditorìa. La Chiesa, la Chiesa di Cristo, deve affidarsi a veri pastori, non è più tempo, quindi, di astensione o neutralità.5 Sulla «neutralità» anche don Pino Demasi ha fatto lunghe battaglie:

 

In passato ci sono state delle fragilità, dei comportamenti ambigui, accomodanti, in alcuni casi persino complici. Alcuni hanno dimostrato di non avere coraggio, una insufficiente determinazione nel contrastare la ‘ndrangheta, a tal punto che chi invece ha dimostrato di averlo, esponendosi in prima persona, è diventato più vulnerabile, più a rischio.

 

Per don Demasi, per comprendere come tutto questo sia potuto succedere, bisogna tenere conto del contesto socioeconomico e culturale in cui si innesta la Chiesa nel Mezzogiorno.

 

Più che la costruzione di una città degli uomini, è prevalsa l’invocazione e l’attesa del miracolo come dono risolutore da parte dei Santi protettori. Questa visione di cristianesimo che non costa nulla ha fatto sì che ognuno si creasse un Dio a propria immagine e somiglianza. E così abbiamo fatto convivere un Dio dei poveri e un Dio dei ricchi, un Dio dei potenti e un Dio degli impotenti, un Dio dei mafiosi e un Dio degli anti-mafiosi, un Dio dei dittatori e un Dio degli oppressi. Questa visione ha prodotto soprattutto una complicità con l’ingiustizia sociale in genere e con la ‘ndrangheta in particolare, per cui abbiamo assistito a episodi che vedevano protagonisti alcuni mafiosi che dopo aver fatto soldi con la corruzione e con illeciti si sentivano tranquilli perché staccavano l’assegno di decine di milioni alla propria parrocchia e venivano addirittura additati come esempio di buona cristianità, o altri boss finanziare ed organizzare feste patronali, a patto che la processione passasse sotto casa e tutti, al passaggio, mostrassero dovuta reverenza.

Una visione di Chiesa e una prassi pastorale che ha permesso quindi alla ‘ndrangheta di avere sempre più legittimazione e riconoscimento sociale attraverso l’ostentazione di una religiosità di facciata.

 

Dopo aver tracciato le ombre di ieri e le luci di oggi, don Demasi ritiene che per sconfiggere le mafie, e la ‘ndrangheta in particolare, ci sia bisogno di un grande progetto educativo che affronti alla radice, partendo dalla formazione delle persone, i problemi culturali che rendono possibile la fioritura della criminalità organizzata.

 

La lotta alle mafie non può essere demandata interamente alla magistratura e alle forze dell’ordine, che devono essere sostenute dalla società civile e dalla politica con parole forti e fatti concreti. Gli arresti, i sequestri e le confische sono fondamentali e servono a vincere una battaglia, ma non la guerra. Per vincere le mafie è indispensabile l’impegno dei cittadini e della società civile organizzata al fine di spezzare la coltre della cultura mafiosa, dell’omertà, della paura e coltivare una cultura antimafiosa, della cittadinanza attiva, dell’impegno civile. Un lavoro socioeducativo duro e faticoso, svolto in passato da realtà e persone lasciate sole e per questo più esposte alla furia omicida delle mafie.

 

Don Demasi ama definirla «antimafia del giorno prima», in contrapposizione a quella del «giorno dopo», emotiva, schizofrenica, che ha sempre contraddistinto la lotta alle organizzazioni criminali nel nostro paese:

 

Bisogna educare i nostri ragazzi a essere i protagonisti del cambiamento, rinunciando al disimpegno e alla pratica delle deleghe, facendo capire loro che quella che chiamano onorata società non è per nulla onorata e appartenere a essa non è un onore ma un disonore. Grazie a Dio oggi ci sono tanti giovani, per i quali vivere in terra di mafia significa non accettare uno stato di mortificazione continua, ma dare vita ad una resistenza civile per la liberazione del territorio dal potere mafioso. C’è da aggiungere però che negli ultimi decenni è iniziato e sta andando avanti, spesso con molta contraddizione ed a seconda delle sensibilità delle persone, un cammino che vede le Chiese calabresi sempre più impegnate in una pastorale di liberazione dalle mafie.6 Arricchisce questa riflessione la sociologa Alessandra Dino che, da anni, ribadisce l’importanza di spezzare quell’intreccio articolato di potere che comprende esponenti del mondo della politica e dell’economia, delle professioni, di quei pezzi di classe dirigente che, proprio perché tali, non hanno bisogno di sparare o far sparare, dal momento che possono facilmente eliminare i propri avversari con le leggi, con i provvedimenti disciplinari e amministrativi, con le censure, con gli strumenti del monopolio di produzione del sapere.

 

Non basta fermare le feste sacrileghe; non basta chiudere il Santuario della Madonna di Polsi alle frequentazioni dei capibastone. È necessario, ma non basta. Serve soprattutto condannare la pretesa che taluno vanta di poter coltivare la fede per un Dio condiscendente verso il potere, un Dio con cui si può confidenzialmente negoziare la salvezza della propria anima, senza dover passare attraverso un percorso di redenzione socialmente e collettivamente condiviso.

Un Dio privato, che non appartiene alla natura stessa della Chiesa.

 

Per la sociologa palermitana, la Chiesa è ormai giunta ad un bivio:

 

O si rafforza e si consolida la coraggiosa esperienza pastorale fin qui maturata, verso la quale guardano ancora con silenziosa diffidenza vasti settori della società civile, o il potere devastante delle mafie tornerà ad affermarsi in modo irreversibile nei paesi, nelle campagne, nelle città, in mezzo ai giovani.7 La Chiesa, ai piani alti, sembra avere compreso l’importanza del momento: «L’annuncio non basta» dice il cardinale Gianfranco Ravasi in una intervista a «Repubblica».

«La Chiesa deve essere una spina nel fianco della mafia».

E ammette: «È un fenomeno radicato e impastato: forse la comunità ecclesiale non lo ha combattuto abbastanza, anche in passato».

Sulla commistione tra mafia e religione posticcia, dice: Sono situazioni cristallizzate nel tempo di una forma religiosa degradata. Ma se si arriva al punto di pregare prima di andare ad ammazzare un’altra persona siamo nella degenerazione totale, nella blasfemia. E questo va ribadito sempre con chiarezza, bisogna ricordare come ha fatto Giovanni Paolo II in Sicilia che i mafiosi sono fuori dalla Chiesa nonostante usino tutti i simboli religiosi. La loro è pura idolatria, negazione di Dio. Va detto senza esitazioni e non basta nemmeno questo.

 

Infine, alla domanda su cosa dovrebbe fare la Chiesa, risponde:

 

Annunciare, come sto facendo io adesso, questi princìpi è facile. Ma qui si tratta di operare all’interno come spina nel fianco per far cadere la connessione tra incultura, religione e crimine. Serve un’opera di educazione e presenza già con i bambini e poi con le famiglie, che specie in Calabria diventano il vincolo di sangue, primo problema nella sfida alla criminalità. Ci sono parroci che lo fanno, sull’esempio di don Puglisi a Palermo: lui fu messo a tacere ed ora è stato riconosciuto il suo martirio, che apre le porte alla beatificazione.

Chi lo ha ucciso è un persecutore della fede, anche se ha le statue della Madonna in casa.8 Abbiamo chiesto ad alcuni importanti uomini di Chiesa perché ci sono vescovi che parlano di perdono e altri che invece negano i sacramenti ai mafiosi, perché non si riesce a mettere nero su bianco e indicare a tutti come bisogna comportarsi con mafiosi, ‘ndranghetisti, camorristi e come bisogna tenerli fuori dalle chiese e dalle sagrestie. Ci hanno risposto che non avevano né il tempo né la tranquillità per soffermarsi sull’argomento.

 

<continua>

 

Capitolo diciottesimo: Una Chiesa povera per i poveri.

 

«Vorrei tanto una Chiesa povera per i poveri» dice papa Francesco, ricordando le ragioni che lo hanno ispirato nella scelta del nome. Francesco come Francesco d’Assisi, uomo di povertà e di pace. «Quando è stato raggiunto il quorum dei due terzi» racconta Bergoglio «l’arcivescovo emerito di San Paolo, il brasiliano Claudio Hummes, mio grande amico, che sedeva accanto a me nel Conclave, mi abbraccia e mi sussurra in un orecchio: “non dimenticarti dei poveri”».

Sono in molti, e non soltanto il nuovo pontefice, ad auspicare una Chiesa lontana dalle lusinghe del potere, soprattutto dopo i ripetuti intrighi dello IOR, la banca vaticana, e i continui complotti svelati da Vatileaks, ai danni di Benedetto XVI, il papa che, dopo otto anni di pontificato, il 28

febbraio 2013, si dimette.

Scrive il vaticanista Marco Politi:

 

C’è qualcosa di profondamente malato nel modo in cui troppi uomini di Chiesa maneggiano il denaro o lo lasciano maneggiare. C’è una drammatica carenza di controlli. C’è un disinteresse colpevole delle supreme istanze ecclesiastiche nei confronti della malagestione e del malaffare, che si annida tra preti con ambizioni da manager e pratiche da faccendieri.

Mai un’inchiesta da parte della Chiesa. Mai una punizione. Mai un’operazione di pulizia.1 Sporcizia e ramazza. Male antico quello che lega la Chiesa al Potere, nato con l’editto di Costantino del 313 che, riconoscendo ai cristiani il diritto di professare la propria fede nei territori dell’Impero romano, rendeva difficilmente conciliabile la Chiesa dell’Amore con quella del Potere. «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre» scrive Dante quando nella Divina Commedia affronta questo delicatissimo argomento.

La donazione di Costantino è il primo atto (vero o supposto importa poco) che dà base temporale al papato e costituisce il suo dominio. Da allora la logica del potere diventa il centro della Chiesa di Roma determinandone le scelte e relegando la missione pastorale in una posizione secondaria.

Lo IOR, Istituto per le Opere Religiose, nato come centro di raccolta di fondi per la carità senza fini di lucro, nel 1942, in piena guerra mondiale, viene trasformato da papa Pacelli in una vera e propria banca che, nel tempo, diventa un centro di affari e di potere. Negli anni Settanta e Ottanta, durante la gestione del cardinale Paul Marcinkus, lo IOR

si trova al centro di intricate vicende che vedono il protagonismo di inquietanti faccendieri come Michele Sindona e Roberto Calvi. Lo stesso Marcinkus in Vaticano trova riparo da tre mandati di cattura internazionali. Sono vicende ormai lontane, ma non superate. Ancora oggi l’Istituto è al centro di una inchiesta giudiziaria sotto il peso di una ipotesi di riciclaggio per un valore di decine di milioni di euro. Puro esercizio di potere o logica di servizio?

Don Andrea Gallo, uno dei tanti sacerdoti inquieti dei nostri tempi, recentemente scomparso, sperava in un ritorno a un pontificato sul modello di quello praticato da Gregorio I, il papa che si definiva servus servorum Dèi, servo dei servi di Dio, nella logica del «nulla di troppo», cioè nulla di troppo «tanto» e nulla di troppo «poco».

La realtà del nostro tempo continua, purtroppo, a rimandarci l’immagine di una Chiesa che a fatica pratica una missione pastorale distinta e lontana dalla logica del potere.

Ancora troppi uomini di Chiesa mostrano di preferire una coabitazione con «la gente di palazzo» piuttosto che con la gente comune, la più vicina al messaggio del Vangelo.

Giovanni Reale ha 81 anni e vive a Milano. Filosofo, scrittore, docente universitario, è uno tra i più valenti studiosi italiani delle radici spirituali dell’Occidente. Riflettendo sulle lusinghe del potere, osserva:

 

A partire da tempi antichi, la Chiesa ha abbracciato il potere temporale per ragioni storicamente ben spiegabili e, sotto certi aspetti, con effetti positivi. Ma col passare del tempo, il potere temporale ha manifestato un peso resosi insostenibile.

La Chiesa ha cercato di liberarsi da esso, ma è riuscita solamente in parte. Penso che il compito vero della Chiesa sia quello di liberarsi di tutto ciò che è rimasto legato al potere temporale per concentrarsi per intero su quello spirituale.

Infatti, Cristo ha detto che il suo regno non è «di questo mondo», e l’errore di certi uomini della Chiesa è quello di credere che il regno di Cristo si possa introdurre «in questo mondo» con la logica «di questo mondo».2 Per Giovanni Reale, il messaggio di Cristo non è di carattere politico, ma «meta-politico» e diventa efficace anche politicamente nella misura in cui si colloca al di sopra delle dimensioni politiche e si rapporta senza equivoci all’anima dell’uomo. Spiega ancora Reale:

 

Al giorno d’oggi, mi pare un non-senso quello di uno «Stato-Chiesa», con le conseguenti strutture, che allontanano più che avvicinare gli uomini alla Parola di Cristo. Così non capisco il senso dei ministeri, e dei vari uffici a questi connessi, dello «Stato-Chiesa», e non comprendo come mai i cardinali siano da considerarsi «Principi della Chiesa». Tale espressione potrebbe avere un significato accettabile, solo intendendo il termine «Principi» in senso esattamente contrario a quello mondano, ossia in senso puramente spirituale.3 Poi lo studioso affonda l’analisi sulla possibilità di un ritorno alle origini, lontano dalle lusinghe del potere.

 

Il Potere temporale ha una logica e una forza che, in vari modi, anche nascosti e subdoli, condizionano e incatenano la libertà dello spirito. La Chiesa deve tornare alle origini, e privilegiare sempre di più la parola dei Vangeli sulle varie «teologie». Secondo Pareyson, le rappresentazioni filosofiche (e teologiche) di Dio, per quanto elevate, sono sempre forme di «antropomorfismo», ossia di modi in cui l’intelletto umano (anche il più geniale) racchiude l’infinito nel finito.4 L’analisi dello studioso non ignora le relazioni della Chiesa con i poteri forti, l’impatto pesantemente negativo dei ricorrenti scandali per atteggiamenti di connivenza o di colpevole silenzio nei confronti delle mafie. Ma individua una via d’uscita e aggiunge:

 

I rapporti della Chiesa con i «poteri forti» non potranno mai essere veramente efficaci, se non trascendendo la logica di quegli stessi poteri. Paolo aveva ben compreso che la vera forza della grazia di Dio si manifestava proprio nelle sue debolezze. I poteri forti si combattono, a mio avviso, con quelle che il mondo considera «debolezze». L’evangelista Marco diceva (11,22-23): «E Gesù disse loro: “Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: se uno dice a questo monte: lèvati e gèttati in mare, senza dubitare in cuor suo ma credendo che quello che dice avverrà, ciò gli sarà accordato”».5 A conclusione della sua analisi, Giovanni Reale richiamando la famosa frase di Archimede («datemi un punto d’appoggio e io solleverò il mondo») sostiene che il punto d’appoggio c’è, ma che sta fuori dal mondo (fuori da tutti i poteri forti di questo mondo) e appoggiandosi su esso si possono sollevare non solo le montagne, ma il mondo intero. Il punto d’appoggio è la fede. «Questa, e soprattutto questa, deve essere la forza della Chiesa contro i poteri forti del mondo».

 

<continua>

 

Capitolo diciannovesimo: La fede tradita e la speranza.

 

La Chiesa ha finalmente riconosciuto le mafie come strutture di peccato e da qui bisogna ripartire per fare chiarezza sul significato di parole come conversione e perdono.

Non ci può essere pentimento che non dia frutti nella società.

La misericordia non può diventare una facile ed indebita cappellanìa. Così come non ci dovrà essere distinzione tra giustizia divina e giustizia terrena. Nessun mafioso dovrà poter dire: mi sono pentito davanti a Dio, ma non davanti agli uomini.

A quanti scelgono di appartenere a una organizzazione criminale bisogna dire, in modo chiaro e convinto, che la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra rappresentano un’altra religione, un’altra fede, incompatibile con quella del popolo di Dio. Il potere è il Dio di questi criminali, che non possono continuare a utilizzare la devozione e la religiosità popolare per i propri fini. Se i fercoli dei santi devono fermarsi davanti a qualche casa, che si fermino davanti a quelle dei testimoni di giustizia, come è successo a San Leo di Briatico nel 2006, durante la festa di San Leone Magno.1 Tanto cammino si è fatto, ma tanto resta da fare ancora oggi che, per la prima volta, viene beatificato un prete ucciso dalla mafia in odium fidei, in odio alla fede. Don Pino Puglisi viene ammazzato perché al quartiere Brancaccio di Palermo fa quotidiana pratica di una liturgia che non è solo quella della messa, ma anche e soprattutto quella della solidarietà e della costruzione del bene comune, per il quale le mafie mostrano da sempre il maggior disprezzo, in ossequio alle logiche criminali e deviate del clan e della famiglia.

«Non mettiamolo in una nicchia, mettiamolo nel cuore»

invita Rosaria Cascio a Reggio Emilia in un convegno promosso dalla Provincia, pochi giorni prima della cerimonia di beatificazione al Foro Italico di Palermo.

«Oggi c’è ancora bisogno di svegliarsi» scrive Franco Cassano.

«La nottata siamo noi. E questo essere qui ha senso se abbiamo ricominciato a svegliarci, se ancora una volta si è fatto giorno, e quel giorno siamo noi».2 La speranza c’è e si chiama Francesco. Se riuscirà a dimostrare che la linea più breve tra due punti non è l’arabesco, come sosteneva Ennio Flaiano, vinceranno le ragioni della speranza. Ma tra quei due punti, bisognerà tracciare una linea retta.

Solo allora i mafiosi resteranno fuori.

 

<continua>

 

Note.

 

Prologo.

 

1. Aldo Varano, Calabria, delitto al santuario, in «l’Unità», 3 giugno 1989.

 

2. Aldo Varano, Calabria, delitto al santuario, in «l’Unità», 3 giugno 1989.

 

3. Pantaleone Sergi, Locri, ridateci Persefone, in «la Repubblica», 26 settembre 1991.

 

4. Procura di Locri, fascicolo processuale sulla morte di don Giuseppe Giovinazzo.

 

5. Procura di Locri, fascicolo processuale sulla morte di don Giuseppe Giovinazzo.

 

6. Amedeo Lugaro, Pronta a morire per mio figlio rapito, in «La Stampa», 9 giugno 1989.

 

7. Paolo Pollichieni, Solo qualche parrocchiano ai funerali di don Giovinazzo, in «Gazzetta del Sud», 5 giugno 1989.

 

I. La Madonna che tutto vede.

 

1. Corrado Alvaro, Calabria, prefazione di Libero Bigiaretti, Vibo Valentia, Qualecultura Jaca Book, 1990, p. 39.

 

2. Edward Lear, Diario di un viaggio a piedi, Reggio Calabria, Laruffa, 2003.

 

3. Corrado Alvaro, Calabria, cit., p. 40.

 

4. 7 capi della mafia calabrese nascosti fra ventimila pellegrini, in «La Stampa», 2 settembre 1955. Nell’articolo si legge: «Per antica tradizione, rispettata anche in questi ultimi anni, chiunque poteva recarsi alla festa di Polsi armato di fucile anche se non possedeva il regolare porto d’armi. Ma in passato si vedeva pure un gran numero di uomini maneggiare moderne armi da guerra che non avrebbero dovute essere in alcun modo nelle loro mani. L’anno scorso, si è calcolato che ci fossero più di diecimila fucili».

 

5. John Dickie, Blood Brootherhoods. The Rise of the Italian Mafias, London, Sceptre, 2011, p. 190.

 

6. ASRC, Rapporto del 17 agosto 1901, Tenenza dei carabinieri reali di Reggio Calabria. Nel rapporto viene citata la lettera che Giuseppe Priolo invia a Rosario Morabito di Casalinuovo d’Africo in data 28 gennaio 1899.

 

7. Giovanni Carteri, Corrado Alvaro e la Madonna di Polsi. Tra religiosità, mito e storia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1995, p. 96.

 

8. Rapporto giudiziario circa le indagini esperite in merito alla rapina consumata da due individui tutt’oggi ignoti, ai danni del santuario di Polsi in San Luca. N. 364-1-2. Stazione dei carabinieri di San Luca, 16-11-1982, p. 2.

 

9. Memorie sul Santuario di Polsi sito nella Diocesi di Gerace, Polistena, Stabilimento tipografico R. Pascale, 1933, p. 11.

 

10. Luigi Malafarina, La ‘ndrangheta. Il codice segreto, la storia, i miti, i riti e i personaggi, Roma, Gangemi, 1986, p. 37.

 

11. Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, Dire e non dire, Milano, Mondadori, 2012, p. 31.

 

12. Questura di Reggio Calabria, Romeo Sebastiano + 49, s.d., ma 1989, p. 266.

 

13. Carlo Macrì, Polizia al Santuario, il priore si dimette, in «Corriere della Sera», 21 agosto 1999.

 

14. Pietro Borzomati, Polsi: studi e ricerche per una storia della pietà nel Mezzogiorno, in S. Maria di Polsi, storia e pietà popolare, Reggio Calabria, Laruffa, 1992, pp. 61-62.

 

15. Lia Staropoli, La «Santa» setta, Reggio Calabria, Laruffa Editore, 2011, pp. 81-82.

 

16. Vito Teti, E la processione dei boss torna a Polsi un anno dopo, in «Corriere della Sera», 28 agosto 2010.

 

17. Linkiesta, ‘Ndrangheta, c’è una Chiesa che si mita dall’altra parte (http://www.linkiesta.it/madonna-polsi-ndrangheta consultato il 18 agosto 2013).

 

18. Linkiesta, ‘Ndrangheta, c’è una Chiesa che si volta dall’altra parte (http://www.linkiesta.it/madonna-polsi-ndrangheta consultato il 18 agosto 2013).

 

II. ‘Ndranghetisti devoti.

 

1. Direzione distrettuale antimafia Reggio Calabria, Inchiesta Pettirosso, luglio 2010. L’arresto di Gregorio Bellocco è avvenuto il 16 febbraio 2005.

 

2. Andrea Camilleri, La gita a Tindari, Palermo, Sellerio, 2000, p. 210.

 

3. Francesco Caravetta, Guagliuni i malavita. Cosenza 1870-1931, Cosenza, Pellegrini Editore, 2012. Appendice.

 

4. Silvio Messinetti, Il boss cita Bertone come teste, in «il Manifesto», 3

novembre 2012 (http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/8816/

consultato il 24 agosto 2013).

 

5. Tribunale di Milano, Interrogatorio di Lampada Giulio Giuseppe da parte del GIP del Tribunale di Milano Giuseppe Gennari, presso la Casa di reclusione di Opera, 2 dicembre 2011.

 

6. Intercettazione ambientale all’interno della costruzione rurale sita a Limbadi, Vibo Valentia, località Fontanella, nella disponibilità di Mancuso Pantaleone, 7 ottobre 2011, ROS, Indagine Purgatorio, Informativa conclusiva, 30 novembre 2012.

 

7. Antonio Zagari, Ammazzare stanca. Autobiografia di uno ‘ndranghetista pentito, Cosenza, Edizione Periferia, 1992, p. 15.

 

8. Luigi Malafarina, La ‘ndrangheta. Il codice segreto, la storia, i miti, i riti e i personaggi, Roma, Gangemi, 1986, pp. 113-114.

 

9. Gaetano Savagnone, La Chiesa di fronte alla mafia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1995, p. 95.

 

10. Intervista rilasciata agli autori, maggio 2013.

 

11. Intervista rilasciata agli autori, maggio 2013.

 

12. Il questionario è stato somministrato a 113 detenuti di «alta sicurezza», grazie alla collaborazione della dottoressa Maria Carmela Londo, direttrice del carcere di Reggio Calabria, nel mese di luglio 2013.

 

13. Intervista rilasciata agli autori, agosto 2013.

 

14. Isaia Sales, Chiesa e mafie, in Atlante delle mafie. Storia, economia, società, cultura, a cura di Enzo Ciconte, Francesco Forgione e Isaia Sales, vol. I, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013.

 

15. Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Torino, Einaudi, 1961 e 1990, p. 103.

 

16. Antonio Zagari, Ammazzare stanca. Autobiografia di uno ‘ndranghetista pentito, cit., p. 125.

 

17. Direzione distrettuale antimafia Catanzaro, Fermo di indiziato di delitto nei confronti di Grande Aracri Nicolino + 46, operazione Scacco Matto, procedimento n. 2221/2000 RGNR.

 

18. Corte d’assise di Palmi, Sentenza nel procedimento Abramo Francesco + 79,22 febbraio 1999, p. 1073.

 

19. Fulvio De Giorgi, La questione del Mezzogiorno: società e potere, in Cristiani d’Italia, 2011 (cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/la-questione-del-mezzogiorno-societa-e-potere_(Cristiani-d’Italia) consultato il 22 agosto 2013).

 

III. L’onore e l’infamia.

 

1. Pino Arlacchi, La mafia imprenditrice. Dalla Calabria al centro dell’inferno, Milano, il Saggiatore, 2007, p. 30.

 

2. Rocco Liberti, Quaderni Mamertini, Biblioteca di Stato Reggio Calabria, foglio 6.

 

3. Saverio Strati, Il selvaggio di Santa Venere, Milano, Mondadori, 1977, pp. 56-57.

 

4. Intervista rilasciata agli autori, maggio 2013.

 

5. Corte d’assise di Palmi, Verbale di udienza redatto da fonoregistrazione nel procedimento a carico di Barbaro Oscar + 46,24 aprile 2013.

 

6. Biblioteca comunale di Reggio Calabria, CAL, Busta LX/25. Enrico Montalbetti, L’Onore, Lettera pastorale per la Quaresima del 1940, Reggio Calabria, Stabilimento Tipografico Francesco Morello, 1940 - XVIII.

 

7. Saverio Strati, Il selvaggio di Santa Venere, cit., p. 147.

 

IV. Gli uomini con due battesimi.

 

1. Claudio Antonelli e Gianluigi Nuzzi, Metastasi. Sangue, soldi e politica tra Nord e Sud. La nuova ‘ndrangheta nella confessione di un pentito, Milano, Chiarelettere, 2010, p. 36.

 

2. Fabio Armao, Il sistema mafia. Dall’economia-mondo al dominio locale, Torino, Bollari Boringhieri, 2000, pp. 74-75.

 

3. ASCZ, Sentenze penali, Corte di appello delle Calabrie, 1890, vol. 324, 14 ottobre, Calia Michelangelo + 65.

 

4. Antonio Nicaso, Alle origini della ‘ndrangheta: la picciotteria, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 1990, p. 11.

 

5. Conversazione intercettata il 28 febbraio 2010. Tribunale di Torino, ordinanza di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di Bandiera Angelo +18, operazione Maglio, 15 giugno 2011, p. 75.

 

6. Memoriale consegnato ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Milano nel 2011.

 

7. Intervista rilasciata agli autori, agosto 2013.

 

8. Serafino Castagna, Tu devi uccidere, a cura di Antonio Perria, Milano, Editrice Il Momento, 1967, p. 33.

 

9. Nicola Misasi, L’Assedio di Amantea, Napoli, Gabriele Regina, 1894, vol.

I,p.64.

 

10. Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, Dire e non dire. I dieci comandamenti della ‘ndrangheta, Milano, Mondadori, 2012, p. 12.

 

11. Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, verbali di interrogatorio.

 

12. Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, decreto di fermo di indiziato di delitto - Operazione Crimine, vol. I, p. 481.

 

13. Diego Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Torino, Einaudi, 1992, p. 212.

 

14. Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, Fratelli di sangue, Milano, Mondadori, 2008, p. 304.

 

15. Ennio Starnile e Ignazio Schinella (a cura di), È Cosa Nostra. Una pastorale ecclesiale per l’educazione delle coscienze in contesti di ‘ndrangheta, Atti del convegno, Falerna, 26-27 gennaio 2007, Cosenza, Editoriale Progetto 2000, 2007, p. 20.

 

16. Archivio di Stato di Catanzaro, Corte d’assise di Locri, Sentenze 1939, Sentenza del 6 settembre 1939 a carico di Macrì Francesco +141. Per gentile segnalazione di John Dickie.

 

V. Feste patronali e fuochi d’artificio.

 

1. Corrado Alvaro, La fibbia, in «Corriere della Sera», 17 settembre 1955.

 

2. Alessandra Dino, La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa Nostra, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 17.

 

3. Ancora nel 2012 a Paola, Nella Serpa, detta «a bionda», viene arrestata, tra l’altro, anche perché gestiva l’assegnazione dei posti per le bancarelle dei venditori ambulanti davanti al santuario di San Francesco.

 

4. Alessandra Dino, La mafia devota, cit., p. 39.

 

5. Intervista rilasciata agli autori, luglio 2013.

 

6. Francesco Zanchini di Castiglionchio, Su alcuni episodi ricorrenti di infiltrazione criminale a margine di espressioni collettive della pietà popolare nel Mezzogiorno, in «Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista telematica» (www.statoechiese.it), n. 32,17 ottobre 2011, p. 2.

 

7. Barbara Carazzolo, Sara Laurenti, Luciano Scalettari e Annachiara Valle, Antimafia quotidiana, in «Jesus», marzo 2003, n. 3, p. 65.

 

8. Luigi Capuana, Gli Americani di Ràbbato, Milano, Casa Editrice Piccoli, 1986, p. 34.

 

9. Mimmo Gangemi, Ha il cuore di spine la festa di San Rocco, in «La Stampa», 15 agosto 2012.

 

10. Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, verbale di interrogatorio, 2009.

 

11. Pietro Comito, Dalla faida all’Affruntata. Quegli ultimi trent’anni di fede e potere mafioso, in «Calabria Ora», 7 marzo 2010.

 

12. Domenico Marino, Chiesa e ‘ndrangheta, mondi incompatibili, in «Gazzetta del Sud», 26 gennaio 2013; Andrea Gualtieri, Il richiamo dell’arcivescovo Nunnari: politica nuova contro la ‘ndrangheta, in «Avvenire», 26 settembre 2012.

 

13. Francesco Maria Storino, Dopo l’inchiesta si cambia registro sugli onori al mantello del Patrono, in «Gazzetta del Sud», 20 dicembre 2012.

 

VI. Funerali e matrimoni.

 

1. Interrogatorio di Vincenzo Cavallaro, collaboratore di giustizia, 16

luglio 1993.

 

2. Il tenente «Petrusinu» che arrestò «u Zirru», in «il Crotonese», 4 febbraio 2010.

 

3. Romina Arena, Paola Bottero, Francesca Chirico, Cristina Riso e Alessandro Russo, La ‘ndrangheta davanti all’altare, Reggio Calabria, Sabbia Rossa, 2013, p. 50.

 

4. Intervista citata in Franco Sampognaro, È morto «don» Piromalli il capo storico della mafia, in «La Stampa», 13 febbraio 1979.

 

5. Giuseppe Toscano, In seimila ai funerali di Girolamo Piromalli, in «Gazzetta del Sud», 14 febbraio 1979.

 

6. Giuseppe Toscano, In seimila ai funerali di Girolamo Piromalli, in «Gazzetta del Sud», 14 febbraio 1979.

 

7. Franco Sampognaro, È morto «don» Piromalli il capo storico della mafia, in «La Stampa», 13 febbraio 1979.

 

8. Operazione Olimpia, pp. 378-379.

 

9. Claudio Cerasuolo, Il prete di Africo dice: «Con la mafia non c’entro», in «La Stampa», 9 ottobre 1979.

 

10. Nel 1999 la cassazione respinge l’appello del procuratore generale di Reggio Calabria e conferma definitivamente la sentenza di proscioglimento del 1998.

 

11. Alessandra Dino, La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa Nostra, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 94.

 

12. Antonio Alvaro, Don Pino, perché hai vietato la chiesa a mio padre?, in «Calabria Ora», 20 luglio 2011.

 

13. Romina Arena, Paola Bùttero, Francesca Chirico, Cristina Riso e Alessandro Russo, La ‘ndrangheta davanti all’altare, cit., pp. 84-85.

 

14. Pasquino Crupi, Don Pino Dentasi persevera diabolicamente, in «La Riviera», 1§ agosto 2011 (http://www.larivieraonline.com/don-pino-demasi-persevera-diabolicamente consultato il 20 aprile 2013).

 

15. Pino Nano (a cura di), Vi racconto la Chiesa della speranza. Dossier sulla legalità e la lotta alla ‘ndrangheta della Parrocchia della Misericordia di Isola Capo Rizzuto, Isola Capo Rizzuto, Edizioni Misericordia, 2011, pp. 41-42.

 

16. Gianluigi Nuzzi, Benedizione del papa al matrimonio della figlia del boss della ‘ndrangheta Pasquale Condello, in «libero», 4 ottobre 2009.

 

17. Le chiacchiere ed i fatti, in «L’Avvenire di Calabria», 6 ottobre 2009.

 

18. Alessandra Dino, La mafia devota, cit., p. 79.

 

VII. Chiese, vendette e furti sacrileghi.

 

1. Clara Grifoni, Sterminio di famiglie in Calabria per uno spietato concetto dell’onore, in «La Stampa», 4 settembre 1955.

 

2. Luigi Locatelli, Dietro la caccia ai banditi lotte fra le correnti democristiane, «L’Espresso», 2 ottobre 1955.

 

3. DIA Centro operativo di Reggio Calabria, Esito accertamenti delegati, 19 novembre 1998, verbale del 26 luglio 1996, p. 164.

 

4. Tribunale di Reggio Calabria, Sezione GIP-GUP, Ordinanza di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, 30 luglio 2012, pp. 649-650.

 

5. Tribunale di Reggio Calabria, Sezione GIP-GUP, Ordinanza di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, 30 luglio 2012, pp. 540-541.

 

6. «Cronaca di Calabria», 17 dicembre 1920.

 

7. «Cronaca di Calabria», 8 gennaio 1921.

 

8. «Cronaca di Calabria», 5 giugno 1932.

 

9. Luigi Malafarina, Il canto della lupara, Reggio Calabria, Parallelo 38, 1977, p. 118.

 

10. Ibidem.

 

VIII. I preti dell’intrigo.

 

1. ASRC, Gabinetto di Prefettura, inventario 34, busta 39, fascicolo 199.

 

2. Intervista rilasciata agli autori, maggio 2013.

 

3. ASRC, Gabinetto di Prefettura, inventario 68, busta 229.

 

4. ASRC, Gabinetto di Prefettura, inventario 68, busta 229.

 

5. ASRC, Gabinetto di Prefettura, inventario 34, busta 206.

 

6. Pasquino Crupi, Anomalia selvaggia. Camorra, mafia, picciotteria e ‘ndrangheta nella letteratura calabrese del Novecento, Palermo, Sellerio, 1992, p. 130.

 

7. ASRC, Gabinetto di Prefettura, inventario 34, busta 206.

 

8. ASRC, Gabinetto di Prefettura, inventario 34, busta 205.

 

9. ASRC, Gabinetto di Prefettura, inventario 34, busta 208.

 

10. ASRC, Gabinetto di Prefettura, inventario 34, busta 205.

 

11. ASRC, Tribunale penale di Gerace, Sentenze, anno 1929, vol. 254.

 

12. ASRC, Gabinetto di Prefettura, inventario 34, busta 209.

 

13. ASRC, Gabinetto di Prefettura, inventario 34, busta 209.

 

14. ASRC, Gabinetto di Prefettura, inventario 34, busta 208.

 

15. ASRC, Tribunale penale di Reggio Calabria, VI versamento, segnatura originale b. 205 / a. 1938, fondo da riordinare.

 

16. ASRC, Tribunale penale di Reggio Calabria, Processi, VI versamento, segnatura originale b. 349/a. 1937, fondo da riordinare.

 

17. ASRC, Tribunale penale di Reggio Calabria, Processi, VI versamento, segnatura originale b. 349/ a. 1937, fondo da riordinare.

 

18. Legione carabinieri Calabria, Comando provinciale di Reggio Calabria, Reparto Operativo - Nucleo Investigativo. Scheda redatta sul conto di Cannizzaro Antonio Concetto, 14 novembre 2010.

 

19. Giuseppe Baldessarro, «Quel vescovo ha fatto porcate», in «Il Quotidiano della Calabria», 13 dicembre 2012.

 

20. DDA RC, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari, Alfano Vincenzo + 89, p. 16.

 

IX. Il prete con la pistola.

 

1. Gaetano Marando, L’arciprete di Ciminà assassinato a colpi di mitra, in «Gazzetta del Sud», 5 luglio 1966.

 

2. Lettera da Locri, in «Gazzetta del Sud», 10 luglio 1966. Il corsivo del giornale segue la lettera della Curia.

 

3. Rapporto dei carabinieri della Compagnia di Locri sull’omicidio di don Antonio Esposito, 26 settembre 1966.

 

4. Rapporto dei carabinieri della Compagnia di Locri sull’omicidio di don Antonio Esposito, 26 settembre 1966.

 

X. Il prete-padrone.

 

1. Corrado Stajano, Africo. Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta, Torino, Einaudi, 1979.

 

2. Enzo Laganà, Don Stilo, lei è mafioso? «No, una vittima», in «La Stampa», 18 luglio 1986.

 

3. Cesare Martinetti, Una P38 sotto la tonaca, in «La Stampa», 18 maggio 1991, p. 9.

 

4. Antonia Roberta Siino, Qualche luce, molte ombre, in «Narcomafie», 29

maggio 2013, n. 4, p. 38.

 

5. Claudio Cerasuolo, Il prete di Africo dice un teste era pure sceriffo e governatore, in «La Stampa», 14 novembre 1977.

 

XI. «Non mafiosi, ma galantuomini».

 

1. Pino Arlacchi, La mafia imprenditrice. Dalla Calabria al centro dell’inferno, Milano, il Saggiatore, 2007, p. 117.

 

2. Tribunale di Palmi, Verbale udienza redatto da fonoregistrazione nel procedimento penale a carico di Armeli Signorino + 63, Udienza del 20 luglio 2012.

 

3. Tribunale di Palmi, Verbale udienza redatto da fonoregistrazione nel procedimento penale a carico di Armeli Signorino + 63, Udienza del 20 luglio 2012.

 

4. Carmelo Abbate e Fabio Mella, Don Abbondio in Calabria, in «Panorama», 5 settembre 2012.

 

5. Tribunale di Locri, Verbale di udienza redatto da fonoregistrazione nel procedimento a carico di Agostino Maria più altri, 8 aprile 2013.

 

6. Davide Vari, Quel prete dice solo la verità, in «Calabria Ora», 9 aprile 2013.

 

7. Tribunale di Locri, Verbale di udienza redatto da fonoregistrazione nel procedimento a carico di Agostino Maria più altri, 8 aprile 2013.

 

8. Tribunale di Reggio Calabria, sentenza operazione Crimine, Agnelli Giovanni +126,7-8 marzo 2012.

 

9. Tribunale di Reggio Calabria, sentenza operazione Crimine, Agnelli Giovanni + 126,7-8 marzo 2012.

 

10. Nomina don Scordo, Snoq scrive al vescovo: «Quel prete non merita premi», in «Corriere della Calabria» (http://www.corrieredellacalabria.it/stories/

cronaca/13895_nomina_don_scordo_snoq_scrive_al_vescovo_quel_prete_

non_merita_premi/ consultato il 25 agosto 2013).

 

11. Tribunale di Locri, Verbale di udienza redatto da fonoregistrazione, nel procedimento a carico di Agostino Maria + 55,5 luglio 2013.

 

12. Tribunale di Reggio Calabria, Ordinanza di applicazione di misure cautelari, nel procedimento a carico di Falcomatà Luciano + 6 (Operazione Sistema-Assenzio), 21 luglio 2012, p. 82.

 

13. Procura della Repubblica, presso il Tribunale ordinario di Catanzaro, Direzione distrettuale antimafia, Decreto di perquisizione locale e personale e conseguente sequestro a carico di Santaguida Salvatore e Cannizzaro Sebastiano, 10 dicembre 2012.

 

14. Goffredo Buccini, Il prete figlio del boss in carcere e la prima omelia contro i giudici, in «Corriere della Sera», 19 aprile 2012.

 

15. Don Vincenzo Scerbo, La difesa di don Vincenzo Scerbo: che Dio mi fulmini se sono contro i giudici, in «Il Crotonese», 19 aprile 2012.

 

16. Tribunale di Milano, Ordinanza di applicazione di misura cautelare personale e contestuale decreto di sequestro preventivo, nel procedimento a carico di Giuseppe Romeo + 34, operazione Redux-Caposaldo, 3 marzo 2011, p. 102.

 

XII. I preti del coraggio.

 

1. ASDRCB, Fondo parrocchia del Loreto, Orti Inferiore, busta 2, foglio 10.

 

2. ASRC, Inventario 86, busta 218.

 

3. Giovanni Bianconi, «Il permesso premio? Vedere il Papa», in «La Stampa», 30 aprile 1997.

 

4. Gaetano Catanoso (1879-1963), Omelia di Sua Santità Benedetto XVI (http://www.vatican.va/news_services/liturgy/saints/ns_lit_doc_20051023_

catanoso_it.html consultato il 17 settembre 2013).

 

5. Nicola Adelfi, La Calabria dei «killers», in «La Stampa», 8 ottobre 1975.

 

6. Domenico Nasone, Mario Nasone, Don Italo Calabro: un prete di fronte alla ‘ndrangheta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007. Il brano è tratto dalla prefazione di don Luigi Ciotti.

 

XIII. I preti della denuncia.

 

1. Maurizio Spatola, Oggi la sentenza per la querela contro Einaudi e Corrado Stajano, in «Stampa sera», 8 gennaio 1980.

 

2. Vincenzo Bertolone, Padre Pino Puglisi Beato, Profeta e Martire, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2013, p. 61.

 

3. Intervista rilasciata agli autori, agosto 2013.

 

4. Aldo Varano, «Non basta condannare la mafia», in «l’Unità», 2 aprile 1990.

 

5. Domenico Del Rio, Il coraggio sale sul pulpito, in «la Repubblica», 25

maggio 1990.

 

6. Filippo Veltri, I preti nel mirino della mafia, in «l’Unità», 10 gennaio 1990.

 

7. Diego Minuti, Agguato al parroco antimafia, in «La Stampa», 14

aprile 1991.

 

8. Giuseppe Fedele, Altro «avvertimento» al parroco che non ci sta, in «Gazzetta del Sud», 30 maggio 1994.

 

9. Intervista rilasciata agli autori, maggio 2013.

 

10. Arcangelo Badolati, Sgradite le coraggiose omelie del parroco, in «Gazzetta del Sud», 30 gennaio 2012.

 

11. Giacomo Panizza con Goffredo Fofi, Qui ho conosciuto purgatorio, inferno e paradiso. La storia del prete che ha sfidato la ‘ndrangheta, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 222.

 

12. Ibidem.

 

13. Fulvio De Giorgi, La questione del Mezzogiorno: società e potere, in Cristiani d’Italia, 2011 (cfr.

http://www.treccani.it/enciclopedia/la-questione-del-mezzogiorno-societa-e-potere_(Cristiani-d’Italia) consultato il 22 agosto 2013).

 

XIV. Le pastorali che non incidono.

 

1. Piero Fantozzi, Disorientamenti e privazioni che la ‘ndrangheta propaga, in Ennio Starnile e Ignazio Schinella (a cura di), Ò Cosa Nostra. Una pastorale ecclesiale per l’educazione delle coscienze in contesti di ‘ndrangheta, Atti del convegno, Falerna, 26-27 gennaio 2007, Cosenza, Editoriale Progetto 2000,2007, p. 73.

 

2. Saverio Di Bella, Contro la mafia per la libertà: ‘ndrangheta nella Locride, in Utopia e rivoluzione in Calabria, scritti in onore di Enzo Misefari, a cura di Saverio Di Bella, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 1992, p. 420.

 

3. Conferenza episcopale italiana, Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, documento dell’episcopato italiano, 21 febbraio 2010, p. 8

(http://www.chiesacattolica.it/chiesa_cattolica_italiana/news_e_mediacenter/

00010773_Chiesa_Italiana_e_Mezzogiorno.html consultato il 30 maggio 2013).

 

4. Intervista rilasciata agli autori, maggio 2013.

 

XV. Il dietrofront sulla scomunica.

 

1. Le informazioni sono tratte dall’articolo di Marco Tosarti, Scomunica ai mafiosi, in «La Stampa», 18 maggio 1989.

 

2. Orazio La Rocca, «Mafiosi e camorristi sono già scomunicati», in «la Repubblica», 20 maggio 1989.

 

3. Intervista rilasciata agli autori, maggio 2013.

 

4. Il vescovo di Locri ai parroci «Scomunica per chi uccide», in «la Repubbblica», 31 marzo 2006 (http://www.repubblica.it/2006/c/sezioni/cronaca/

ndrangheta3/vescolocr/vescolocr.html consultato il 31 agosto 2013).

 

5. Vincenzo Bertolone, Padre Pino Puglisi Beato, Profeta e Martire, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2013, pp. 63-64.

 

XVI. La conversione.

 

1. «Perdono per tutti ma non a buon mercato», in «Gazzetta del Sud», 2

settembre 2012.

 

2. Salvo Palazzolo, «Cosa Nostra», sfida pastorale, in «Jesus», n. 1,2004.

 

3. Isaia Sales, I preti e i mafiosi. Storia dei rapporti tra mafie e Chiesa cattolica, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2010, p. 147.

 

4. Isaia Sales, Religione cattolica e mafie, relazione svolta al convegno «Vincere la ‘ndrangheta», organizzato dal Museo della ‘Ndrangheta, Reggio Calabria, 22-25 novembre 2010, Roma, Ararne editrice, pp. 87-88.

 

5. Una pastorale per i mafiosi? Spunti di riflessione, in «Aggiornamenti sociali», vol. 49, n. 1, gennaio 1998, pp. 89-95, pp. 92-93.

 

6. Padre Giovanni Ladiana, Per amore del mio popolo, non tacerò. Religione e ‘ndrangheta, materiale utilizzato per iniziative promosse dal movimento Reggio non tace, giugno 2013.

 

XVII. Una Chiesa più forte: riflessioni e prospettive.

 

1. Piero Fantozzi, Disorientamenti e privazioni che la ‘ndrangheta propaga, in Ennio Starnile e Ignazio Schinella (a cura di), Ò Cosa Nostra. Una pastorale ecclesiale per l’educazione delle coscienze in contesti di ‘ndrangheta, Atti del convegno, Falerna, 26-27 gennaio 2007, Cosenza, Editoriale Progetto 2000,2007, p. 73.

 

2. Intervista rilasciata agli autori, aprile 2013.

 

3. Intervista rilasciata agli autori, maggio 2013.

 

4. Intervista rilasciata agli autori, maggio 2013.

 

5. Intervista rilasciata agli autori, agosto 2013.

 

6. Intervista rilasciata agli autori, agosto 2013.

 

7. Alessandra Dino, La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa Nostra, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 11.

 

8. Andrea Gualtieri, «La Chiesa sia spina nel fianco della mafia»

L’autocritica di monsignor Ravasi, in «la Repubblica», 20 aprile 2013

(http://www.repubblica.it/cronaca/2013/04/20/news/ravasi_mafia-57055252/

consultato il 31 agosto 2013).

 

XVIII. Una Chiesa povera per i poveri.

 

1. Marco Politi, Quando i soldi portano guai in Vaticano, in «il Fatto Quotidiano», 14 novembre 2012.

 

2. Intervista rilasciata agli autori, aprile 2013.

 

3. Intervista rilasciata agli autori, aprile 2013.

 

4. Intervista rilasciata agli autori, aprile 2013.

 

5. Intervista rilasciata agli autori, aprile 2013.

 

XIX. La fede tradita e la speranza.

 

1. Marialucia Conistabile, «La nostra vita bruciata a uno anno dalla svolta», in «Gazzetta del Sud», 25 agosto 2006.

 

2. Franco Cassano, Homo Civicus, la ragionevole follia dei beni comuni, Bari, Dedalo, 2004, p. 171.

 

<continua>

 

Ringraziamenti.

 

Sono molte le persone da ringraziare, ma soprattutto Maria Barillà che ci ha aiutato moltissimo nel difficile lavoro di ricerca.

Un grazie va anche a Mirella Marra e Vittorio Amaddeo. Siamo grati anche a Rosa Frammartino e Arcangelo Badolati per i preziosi consigli. Un grazie per gli stimoli e le proficue conversazioni va ad Antonio Vitti, Donato Santeramo, Giuliana Adamo, Nicola Fiorita, Giovanni Reale, monsignor Francesco Laganà, Giuseppe Carlo Marino, Giuseppe Gennari, Alessandra Dino, John Dickie, Donatella Loprieno, Ercole Giap Parini, Federico Cafiero De Rano, Simona Ferraiuolo, Roberto Di Palma, Giuseppe Lombardo, Maria Luisa Miranda, il colonnello Lorenzo Falferi, il questore Guido Longo, i tenenti colonnelli Carlo Pienoni, Giuseppe Furciniti, Giuseppe De Lisio, il maggiore Alessandro Mucci, John Truman, Marta Maddaloni, Isaia Sales, Vito Teti, Stefania Pellegrini, don Ignazio Schinella, don Ennio Starnile, Maria Carmela Longo, Antonio Garcea, Cosimo Colazzo, Ernesto Livorni, Andrea Ciccarelli, Maria Emanuela Piemontese, Walter Pellegrini, Antonietta Cozza, Antonino Denisi, padre Giovanni Ladiana, Umberto Ursetta, don Tommaso Scicchitano, don Pino Demasi, don Domenico Tropeano, don Peppino Fiorillo e monsignor Vincenzo Bertolone. Ci hanno aiutato molto, grazie alla loro esperienza sul territorio, i giornalisti Pietro Comito, Angela Panzera, Maurizio Zavaglia, Domenico Marino, Peppe Baldessarro, Claudio Cordova, Annalia Incoronato, Paolo Toscano, Michele Marcianise, Vincenzo Alvaro, Fabio Melia, Cesare Giuzzi, Francesca Viscone, Giovanni Pastore, Giuseppe Legato, Domenico Logozzo, Pino Nano, Francesco Tiziano e Gianluigi Nuzzi.

Un grazie va a Francesca Mazzurana, Nicoletta Lazzari e Francesco Anzelmo. E naturalmente a Marina, Antonella, Francesco, Marco, Massimo ed Emily.

 

FINE.

 

Questo volume è stato stampato presso ELCOGRAF S.p.A.

Stabilimento - Cles (TN).

Stampato in Italia - Printed in Italy.

25/11/13 12:40:32

ACQUA SANTISSIMA. La Chiesa e la 'ndrangheta, storie di potere, silenzi e assoluzioni
titlepage.xhtml
index_split_000.html
index_split_001.html