Ulisse, l’eroe della nostalgia
È l’eroe giusto per i tempi di crisi. Uno che sa cavarsela in ogni situazione, che riesce a inventarsi vie d’uscita inattese quando ormai non sembra esserci più scampo. Non per caso è, da sempre, l’eroe di ogni modernità. Gli illustri filosofi di Francoforte, Theodor Wiesengrund Adorno e Max Horkheimer, ne fecero un’incarnazione dello spirito illuminista, l’alfiere della tecnica e del dominio dell’uomo sulla natura. Ma Ulisse non è come Prometeo. Quest’ultimo si rivolge all’umanità in astratto, al genere umano, al quale apre la strada del progresso con il dono del fuoco. Ulisse parla invece agli uomini concreti. È l’individuo con i suoi guai privati, una moglie da cui ritornare, una casa da sottrarre all’avidità altrui. È il cittadino che sa di doversi misurare con il suo prossimo ed è consapevole che, per prevalere sugli altri, l’astuzia e la retorica contano più della forza bruta. In Italia, ma non solo in Italia, la figura di Ulisse porta impresso da secoli lo stampo di Dante. È l’eroe titanico dell’“ultimo viaggio” che, per amore del sapere, per seguire «virtute e canoscenza», varca anche le colonne d’Ercole. L’Ulisse degli antichi era diverso. La curiosità, certo, non gli mancava. Ma di Circe, di Cariddi e delle Sirene avrebbe fatto volentieri a meno. L’Ulisse omerico voleva innanzitutto tornare a casa: ritrovare la moglie, il figlio, il focolare. Voleva uscire dal mondo delle favole e rientrare in quello degli uomini. Quando, secondo la fantasia di Platone nella Repubblica, gli viene offerta la chance di vivere una seconda volta, chiede per sé la vita anonima di un uomo comune. Già l’Odissea, per molti versi, è la storia di un anti-eroe. Ma siamo soprattutto noi moderni, noi figli del Novecento che non abbiamo potuto fare a meno di identificarci con l’Ulisse anti-eroico: l’Ulisse naufrago, l’Ulisse-Nessuno, protagonista di un viaggio senza meta, l’uomo la cui identità è sempre precaria, sempre in discussione.
Ulisse è l’eroe della metis, parola greca che indica un tipo di intelligenza pratica capace di trovare, di volta in volta, la soluzione concreta a problemi concreti. Ed è con questa intelligenza che l’eroe si applica al problema della guerra di Troia. Troverà la soluzione: un cavallo di legno, in cui nascondere un manipolo di uomini armati. Dopo la morte di Achille, spetterà a lui sciogliere il nodo dell’assedio infinito. Usando, più che la forza della spada, l’arma altrettanto tagliente dell’astuzia. Ulisse non aveva la prestanza fisica degli altri eroi omerici. Non era forzuto come Diomede, non svettava per altezza ed eleganza come Agamennone. Era tarchiato, massiccio. A vederlo, in mezzo agli altri, poteva apparire persino insignificante. Il vecchio Antenore, nel terzo libro dell’Iliade, ricorda di averlo ospitato una volta in casa, mentre si tentavano trattative di pace tra greci e troiani, e lo descrive così: «Restava immobile guardando in basso, con gli occhi fissi al suolo. Sembrava non sapesse che dire. L’avresti detto in preda alla collera oppure pazzo del tutto. Ma quando dal petto faceva uscire la voce profonda e diceva parole che parevano fiocchi di neve in inverno, allora nessun uomo avrebbe sfidato Ulisse, nessuno pensava a guardare il suo aspetto.» Il re di Itaca possedeva la magia della parola. Ed era anche maestro di un’arma che non tutti gli achei sapevano maneggiare: l’arco. Ulisse, come Filottete e pochi altri, è un eroe arciere. Non sfugge il combattimento corpo a corpo e, anzi, nell’Iliade si distingue per eroismo. Ma sa anche colpire da lontano, con le sue frecce implacabili. Alcuni lo ritenevano discendente di Sisifo e di Autolico. È una discendenza che mette in rilievo il lato oscuro e cialtronesco di Ulisse, la sua furbizia, la sua abilità di ciurmatore, il suo spirito corsaro. L’eroe Sisifo era riuscito a circuire e a mettere in catene persino il genio della morte, Thanatos in persona, dopo averlo fatto ubriacare. Secondo alcuni, Sisifo era il vero padre di Ulisse, avendone sposato Anticlea che era figlia di Autolico, un altro furbacchione matricolato, un noto bandito. Sarebbe stato proprio il nonno, Autolico, che a sua volta discendeva da Ermes, il dio dei ladri, a dare il nome a Ulisse. Lo chiamò “Odisseo”, che in greco significa qualcosa come “l’odiato”, perché anche lui era stato accompagnato in vita dall’odio di molti, per le sue imprese brigantesche, e perché prevedeva che lo stesso odio avrebbe circondato il nipote. Ulisse, insomma, secondo queste versioni discendeva da una genia di malandrini. Ma la tradizione più diffusa, attestata anche dall’Odissea, riteneva Ulisse figlio di Laerte, sovrano di Itaca, eroe onesto e perbene, che aveva partecipato anche all’impresa degli Argonauti.
Ulisse, insomma, è figura complessa. È, per eccellenza, l’eroe multiforme, polytropos, come si dice nel linguaggio dell’epica. Diverso in ogni situazione, è un maestro nell’assumere identità fittizie. Nell’Odissea si dissimula continuamente. Si presenta con il nome ingannevole di Nessuno al Ciclope Polifemo, rientra nella sua reggia travestito da mendicante, si spaccia più volte per un mercante o un pirata cretese. Come diceva Alberto Savinio, Ulisse ha vissuto la vita di tutti, tranne che la sua propria. A questa identità sfuggente si aggiungono la ricchezza e la varietà delle sue avventure. Nella saga di Ulisse si uniscono al massimo grado i due aspetti fondamentali dell’epopea troiana: l’assedio e il ritorno, la guerra e il viaggio. Ulisse è protagonista decisivo della battaglia per Troia. Ma è anche il più celebre eroe delle saghe dei “ritorni” (nostoi) che narravano le travagliate navigazioni dei guerrieri achei sulla strada del rientro in patria. Il nostos e la nostalgia (cioè il dolore e la malinconia di chi desidera ritornare) sono elementi chiave della storia di Ulisse. Il re di Itaca non voleva neppure partire per Troia. Cercò in tutti i modi di evitare l’arruolamento, benché avesse giurato anche lui, con gli altri pretendenti alla mano di Elena, di prestare soccorso a Menelao. Quando gli achei vennero a Itaca per convincerlo a imbarcarsi, Ulisse si finse pazzo. Una parte che, come sempre, recitò alla perfezione: aggiogò a un aratro un cavallo e un bue, si mise in testa un cappello bizzarro, e cominciò ad arare la terra a casaccio, per indurre gli altri a credere che non vedesse e non sapesse quello che stava facendo. Ma, quella volta, Ulisse incontrò uno che era più furbo di lui. Si chiamava Palamede e, dopo avere osservato a lungo il re d’Itaca, ne afferrò il figlioletto, Telemaco, che era ancora neonato. Poi mise improvvisamente il bambino davanti all’aratro. Se Ulisse era davvero pazzo, lo avrebbe straziato col vomere. Ma, come Palamede aveva intuito, Ulisse non era affatto pazzo e si fermò, per non uccidere il figlio. «Smettila con questa commedia e vieni con noi» gli disse seccamente Palamede. Sbugiardato davanti a tutti, Ulisse ormai era costretto a partire per Troia.
Questo Palamede, figlio di Nauplio, re dell’isola di Eubea, era un personaggio straordinario. Non era solo un guerriero di grande furbizia e destrezza. Era anche un inventore: gli si attribuivano l’invenzione di molti giochi (i dadi e gli scacchi), della moneta, delle unità di misura, persino dell’alfabeto, o almeno di alcune lettere. La sua rivalità con Ulisse è dunque la rivalità tra due eroi di straordinaria intelligenza. Palamede, alla fine, ebbe la peggio. Il re di Itaca era tenace e vendicativo. Aspettò il momento giusto, poi fece pagare al suo nemico la colpa di avere smascherato la sua finta pazzia. Gli achei erano già arrivati a Troia. Ulisse catturò un troiano e lo costrinse a scrivere una finta lettera in cui Priamo ringraziava Palamede per i servigi che gli aveva reso. Poi nascose la lettera nella tenda del principe d’Eubea, insieme a una cassa piena d’oro. Quindi denunciò per tradimento Palamede, che fu condannato a morte per tradimento e lapidato dagli achei. L’eroe non cercò neppure di opporsi all’ingiusta condanna. Si offrì al supplizio, impassibile e dignitoso, pronunciando solo poche parole: «Ti compiango, verità: tu sei morta ancora prima di me.» Questo mito era conosciuto già in tempi molto antichi ed era cantato in alcuni poemi epici perduti. Addirittura si diceva che molte delle sciagure dei greci, sulla via del ritorno a casa, fossero dovute a una vendetta ordita dal re dell’Eubea, Nauplio, che voleva vendicare l’uccisione del figlio. Eppure della storia di Palamede non c’è traccia né nell’Iliade né nell’Odissea. Perché? Una spiegazione favolistica la offre Filostrato nel suo Eroico. Qui si racconta come Omero girasse per il mondo raccogliendo notizie per i suoi poemi. Un giorno s’imbarcò per Itaca, avendo sentito dire che l’anima di Ulisse aleggiava ancora sull’isola. Omero lo evocò dal regno dei morti e chiese al fantasma informazioni di prima mano sulla guerra di Troia. Ulisse rispose che lui sapeva tutto di quella guerra ma avrebbe parlato solo a una condizione: Omero doveva garantirgli che lo avrebbe esaltato nei suoi poemi, celebrando la sua saggezza e il suo valore. Il poeta acconsentì e promise che, nei limiti del possibile, sarebbe stato benevolo. Così Omero ottenne un racconto attendibile e dettagliato di tutte le vicende della guerra troiana. Ma, quando già si stava allontanando, l’ombra di Ulisse lo richiamò: «Un’ultima cosa. So di essere stato ingiusto con Palamede. Sconterò la mia pena quaggiù, tra i morti, perché già sono pronti a giudicarmi. Ma, se tra gli uomini, si saprà il meno possibile di questa storia, può darsi che anche negli inferi la mia pena sarà meno dura. Nei tuoi poemi Palamede non ci deve essere: non farlo andare a Troia, non dire che fu un guerriero valoroso e un inventore sapiente. Altri poeti ne parleranno, ma nessuno crederà alle loro parole, se tu non dirai nulla in proposito.» E così, racconta Filostrato, il grande Palamede scomparve dal racconto di Omero.
Le molte gesta compiute da Ulisse durante la guerra di Troia sono narrate da Omero. Il re di Itaca combatté con coraggio in campo aperto, s’impegnò in imprese di spionaggio, riuscendo persino a entrare di soppiatto nella città nemica, ma si distinse anche nel placare i ricorrenti malumori dell’assemblea dei soldati, combinando sempre la violenza con l’astuzia. Qui diremo solo dell’ultima impresa di Ulisse in terra d’Asia e dello stratagemma con cui riuscì a risolvere la situazione: il famoso cavallo di legno. È una storia che nell’Iliade non si trova e che anche nell’Odissea è rievocata molto fuggevolmente. Ma la conosciamo bene grazie al racconto di scrittori successivi, come il mitografo Apollodoro o il poeta epico Quinto Smirneo, e, soprattutto, grazie al magnifico quadro dipinto da Virgilio nella sua Eneide. L’idea era diabolica: bisognava costruire un enorme cavallo di legno, lasciarlo davanti alle mura di Troia come se fosse un dono votivo per gli dei, poi l’esercito greco si sarebbe allontanato fingendo di tornare in patria ma sarebbe rimasto in agguato, gettando le ancore poco distante dalla costa. Nel ventre del cavallo si sarebbe nascosto un gruppo di soldati achei. Quando i troiani avessero trascinato il cavallo dentro le mura, gli incursori greci sarebbero usciti con il favore delle tenebre aprendo le porte della città al resto dell’armata. Un piano così non poteva che essere opera di Ulisse. Ma, secondo alcuni, la realizzazione del cavallo fu opera di un altro guerriero acheo, Epeo, che veniva dalla Focide, una regione della Grecia centrale. Quinto Smirneo narra che la dea Atena in persona apparve in sogno a Epeo e gli ispirò l’arte necessaria per costruire il cavallo. Mosso dall’ispirazione divina, Epeo progettò la trappola di legno: i greci tagliarono molti tra i grandi abeti che sorgevano nelle valli del monte Ida. Presto l’opera fu compiuta. Si scelsero, forse estraendoli a sorte, gli uomini che dovevano compiere l’impresa. Non sappiamo quanti guerrieri entrarono nel ventre del cavallo. C’è chi dice cinquanta, altri addirittura azzardano la cifra, spropositata, di tremila. Quinto Smirneo offre i nomi di alcuni di loro. C’erano grandi eroi come Ulisse, Menelao, Diomede, Neottolemo (il figlio di Achille) ma anche figure minori come Ialmeno, Talpeo, Anfimaco, Leonteo, Euripilo, Trasimede e altri il cui nome brilla nella nebbia della leggenda solo per questa impresa ingannevole.
Per ultimo entrò l’artefice Epeo. Tirò su la scala usata dai soldati per salire nel ventre del cavallo e chiuse tutte le aperture. I guerrieri rimasero in silenzio, vivendo con il cuore in gola quelle ore sospese tra la promessa del trionfo e la paura di essere fatti a pezzi dai troiani, se l’inganno fosse stato scoperto. Gli altri greci, guidati da Agamennone, finsero la ritirata. Bruciarono le tende dell’accampamento, salirono sulle navi e poi si misero alla fonda con tutta la flotta nelle insenature di Tenedo, un’isoletta poco lontana da Troia, attendendo un segnale per tornare in battaglia. Perché il piano funzionasse, bisognava però indurre i troiani a portare il cavallo dentro le mura. Ma Ulisse aveva pensato anche a questo: un greco avrebbe finto di essere un disertore, raccontando ai nemici che il cavallo era stato lasciato lì come offerta per la dea Atena, che tramite il suo Palladio proteggeva la rocca di Troia. Si offrì per questo difficile compito un uomo di nome Sinone: Virgilio, raccontando la storia dal punto di vista dei troiani, lo descrive come un viscido impostore ma autori come Quinto Smirneo ne celebrano il coraggio e la fermezza d’animo. Si raccontava addirittura che Sinone avesse accettato di farsi mutilare dai suoi compagni perché il suo racconto fosse più convincente. O che, comunque, torturato crudelmente dai troiani, riuscì a resistere al dolore e a non confessare il suo inganno. Quando la flotta lasciò la spiaggia di Troia, il finto disertore si nascose vicino al cavallo. I troiani, superato il primo stupore, uscirono dalle mura. Non riuscivano a credere che i greci se ne fossero andati davvero, dopo dieci lunghi anni di guerra. Osservavano sbalorditi e ammirati il cavallo gigantesco, che si ergeva enigmatico in mezzo alla pianura. Fu allora che Sinone venne allo scoperto e raccontò una storia ben congegnata. Disse che era un vecchio amico del povero Palamede e per questo era entrato in urto con Ulisse, che odiava con tutto il suo cuore. I greci volevano ucciderlo, raccontò, tra le lacrime, e per questo lui era fuggito, e si era acquattato dietro al cavallo, che gli achei avevano lasciato su quella spiaggia come dono votivo ad Atena, per propiziarsi il ritorno in patria. Sinone recitò perfettamente la sua parte. E, alla fine, convinse i troiani che quella storia, concordata con Ulisse, era vera. I troiani si abbracciarono felici: la guerra era finita! Ora avrebbero portato il cavallo dentro le mura di Troia, sarebbe stato il monumento alla loro vittoria contro i greci.
Ma un troiano non si era lasciato convincere da Sinone. Era Laocoonte, sacerdote di Posidone. Aveva compreso che quel cavallo nascondeva un’insidia. «Siete pazzi» andava urlando ai suoi concittadini, «davvero credete che i greci se ne siano andati? Non conoscete i loro inganni? Vi siete già dimenticati di cosa è capace Ulisse? Forse nel ventre di questo cavallo sono nascosti guerrieri che vi massacreranno. Non vi fidate, troiani. Io ho paura dei greci anche se portano doni.» «Timeo Danaos et dona ferentes»: quest’ultima frase di Laocoonte è diventata proverbiale per indicare la diffidenza con cui è opportuno accogliere i regali di chi sappiamo essere nostro nemico. Pronunciata la sua invettiva, Laocoonte raccolse tutte le sue forze e scagliò una lancia che s’infilzò nel ventre del cavallo. Il colpo risuonò cupamente all’interno: i greci si guardavano atterriti, credevano ormai di essere spacciati. E Laocoonte avrebbe probabilmente convinto i troiani se gli dei, che ormai avevano deciso la distruzione di Troia, non fossero intervenuti. All’improvviso le acque del mare gorgogliano e spumeggiano. E due draghi immensi affiorano tra le onde, strisciano sulla spiaggia e afferrano nelle loro spire i due figli di Laocoonte, stritolandoli. Il padre si lancia al soccorso, cercando di liberarli. Ma i draghi avvincono anche lui e lo uccidono. Poi se ne ritornano lenti negli abissi del mare. Terrorizzati dal prodigio, i troiani si dicono l’un l’altro: «Gli dei hanno punito Laocoonte per il suo sacrilegio, perché ha offeso il cavallo sacro ad Atena.» A quel punto non ci sono più indugi. La folla trascina il cavallo dentro le mura. Si preparano ruote, si tendono corde per trasportarlo in città. L’ordigno fatale, pregno d’armi e di morte, sale alla rocca. Si abbattono i bastioni perché l’immenso cavallo possa entrare. Ragazze e ragazzi levano inni festosi. I troiani festeggiano la loro catastrofe. Si racconta, nell’Odissea, che la stessa Elena, sospettosa, si fosse messa a girare intorno al cavallo. È una storia bizzarra: Elena avrebbe imitato le voci di tutte le mogli dei greci, suscitando tra i guerrieri il desiderio di risponderle. Menelao e Diomede, quasi stregati dall’incantesimo di Elena, erano già balzati in piedi, pronti a uscire dal cavallo e a condannarsi così a morte certa. Ulisse li fermò appena in tempo. E fermò anche un altro compagno, Anticlo, che stava rispondendo a Elena, premendogli la mano sulla bocca. Ancora una volta la prontezza del re di Itaca aveva salvato la situazione. L’ultima notte di Troia era arrivata. Virgilio racconta nel dettaglio la strage e il caos della battaglia finale. I greci che escono dal ventre del cavallo, si disperdono per la città ancora addormentata, massacrano donne, vecchi e bambini. «In ogni luogo è lutto e terrore, appare ovunque l’immagine molteplice della morte (“plurima mortis imago”)» scrive il poeta latino. Ulisse ha compiuto la sua opera: la grande rocca di Troia è distrutta. Dopo dieci anni di combattimenti sul campo, l’astuzia ha deciso le sorti del conflitto. La prima fase delle avventure di Ulisse si conclude così. Ora inizia un nuovo capitolo nella vita del re di Itaca: la lunga vicenda del ritorno, altri dieci anni di peregrinazioni e di dolori tra mostri e prodigi, per mari sconosciuti e terre ostili.
Di tutte le saghe dedicate ai ritorni degli eroi greci da Troia, quella di Ulisse è l’unica che ci sia rimasta nella sua integrità. La storia è contenuta nell’Odissea di Omero, capolavoro assoluto della poesia mondiale, archetipo di tutta la letteratura fantastica, di viaggio e di avventura. È un racconto marinaro, il primo di una lunga serie, che influenza, per esempio, anche la leggenda persiana di Sinbad il marinaio. E forse è fondato, a sua volta, sui racconti dei più antichi navigatori del Mediterraneo. Addirittura, in un libro del 1927, lo studioso Victor Berard definì l’Odissea «un portolano fenicio», immaginando che alla base delle avventure di Ulisse ci fossero le rotte percorse fin da tempi remoti dai mercanti della Fenicia, i più celebri marinai del mondo antico. Si sa che gli uomini di mare amano ingigantire le avventure e i pericoli che hanno affrontato. E tutto quello che accade durante il viaggio di Ulisse ha un sapore fantastico. Fin dall’antichità, c’è stato chi ha tentato di definire con esattezza la rotta seguita dal re di Itaca durante le sue peregrinazioni. Ma, come diceva già il geografo Eratostene, erudito della Biblioteca di Alessandria, famoso per avere misurato con esattezza la circonferenza della terra, «si ritroverà dove Ulisse ha navigato, quando si troverà il cuoiaio che ha cucito l’otre dei venti.» Cioè, mai. La rotta di Ulisse sconfina nell’irrealtà, è un viaggio in universi paralleli, remoti da quelli degli uomini. Nonostante l’ammonimento di Eratostene, c’è chi non ha rinunciato all’impresa di ricostruire le rotte dell’Odissea. Per esempio, l’ufficiale di artiglieria Vincenzo Barrabini, autore del volume L’Odissea rivelata (1967), sosteneva che tutto il viaggio di Ulisse si era svolto tra Trapani, le Egadi e Pantelleria. Naturalmente, era del tutto casuale il fatto che anche Barrabini fosse di Trapani. Fosse stato jugoslavo, come l’ingegner Aristide Vučetić, autore di un altro saggio odissiaco di ben novemila pagine, avrebbe sostenuto che Ulisse si era perso per dieci anni intorno a Dubrovnik. Fosse stato olandese, come l’economista Iman Wilkens, avrebbe dimostrato che Omero era nato in Olanda, mentre la guerra di Troia si era svolta intorno a Cambridge. Davanti a tutti questi studi omerici prodotti da ingegneri ed economisti, viene quasi voglia di dar retta all’austriaca Cristina Pellech, che invece attribuiva a Ulisse la scoperta dell’America e sosteneva che nei suoi viaggi il re di Itaca era arrivato fino alle cascate del Niagara. In effetti, è poco credibile che tutta l’Odissea si sia svolta nel Mediterraneo. Come scriveva già l’arguto Filostrato, vi pare che un uomo astuto come Ulisse potesse perdersi per dieci anni in un mare poco più grande di uno stagno?
Quasi tutto il racconto dei viaggi del re di Itaca è, nell’Odissea, affidato alla voce dello stesso Ulisse che è protagonista ma anche narratore delle sue avventure. Noi conosciamo i suoi incontri con i mostri e con le ninfe attraverso un lungo flash-back che si snoda tra il nono e il dodicesimo libro del poema di Omero. Al re e alla regina del favoloso popolo dei Feaci, che l’hanno accolto naufrago nel loro regno, Ulisse racconta tutte le sue peripezie a partire dal momento in cui partì da Troia, i suoi tentativi di sfuggire all’ira di Posidone, il dio del mare, e l’aiuto sempre ricevuto dalla sua protettrice, Atena. Il vento dapprima spinse la flottiglia di Ulisse sulla costa del regno dei Ciconi, a nord della Grecia, nella regione barbara della Tracia. È, questa, un’avventura che sta ancora dentro i limiti consueti dell’esperienza umana. I marinai di Ulisse sbarcano, incendiano la città dei Ciconi, rapiscono le donne e fanno razzia di mandrie e di vino. Ma il contrattacco dei Ciconi li sorprende e molti achei cadono sul campo. La flotta di Ulisse riprende il mare e già la seconda tappa del viaggio ha contorni più favolosi. Dopo giorni e giorni di tempesta, i guerrieri di Itaca sbarcano nel paese dei Lotofagi, i “mangiatori di loto”. Un popolo pacifico, questa volta, che si nutre di loto, un’erba magica, una droga che dona l’oblio e fa vivere sereni. Alcuni marinai di Ulisse assaggiano il loto, offerto loro dagli indigeni, e subito si scordano chi sono, si dimenticano di avere una patria, mogli e figli che li attendono a casa. Non vogliono più ritornare. Ulisse deve caricarli a forza sulla nave. Ecco la prima insidia che minaccia il viaggio: l’oblio. Il re di Itaca deve tenere accesa la fiammella del ricordo, deve sforzarsi di non dimenticare e di non essere dimenticato. Il rischio di perdere la propria identità è sempre in agguato. Il paese dei Lotofagi, terra dell’oblio, è l’immagine di questo rischio. Ulisse, per il momento, riesce a superare il pericolo. Ma ben altre prove lo attendono.
Le navi di Ulisse approdano a un’isola sconosciuta. Nessuno ancora lo sa ma hanno raggiunto la terra dei Ciclopi, giganti con un occhio solo, figli mostruosi di Posidone. Il mondo dei Ciclopi sta agli antipodi della civiltà umana. Quei mostri non coltivano la terra, non conoscono leggi, ignorano la vita in società, e vivono ciascuno rintanato nella sua grotta. È un paese incantato, dove il grano e l’orzo crescono da soli nei campi, senza che nessuno vada ad arare e a seminare. Ulisse nel suo viaggio ha già oltrepassato i limiti dell’umano ed è entrato nella favola. I greci si accampano sulla spiaggia, arrostiscono un buon numero di capre che trovano sui monti, danno fondo alla riserva di vino che si sono procurati nel paese dei Ciconi. Poi, al mattino, Ulisse decide di esplorare l’isola: «Ora voi aspettate qui, miei fedeli compagni. Io invece con la mia nave e i miei uomini andrò a vedere chi è questa gente, se sono violenti, ingiusti e selvaggi oppure ospitali e timorati di dio.» Costeggiando l’isola, Ulisse vede una grotta a strapiombo sul mare. Decide di raggiungerla, con dodici suoi compagni, lasciando gli altri a guardia della nave. L’istinto gli suggerisce di portare con sé un otre di vino e questo gesto gli salverà la vita. I greci s’insinuano nell’antro del Ciclope. Non c’è nessuno, il mostro sta pascolando le sue greggi. I compagni di Ulisse osservano i graticci con i formaggi e i vasi pieni di latte. È tutto enorme, smisurato. Implorano Ulisse di prendere quanto si può e scappare. Ma il re di Itaca li trattiene: vuole vedere chi abita quella grotta. E non è chiaro se agisca per quella curiosità insaziabile che, nella tradizione successiva, sarà una delle caratteristiche principali dell’eroe o se s’immagini di poter contrattare con gli indigeni, grazie alla sua astuzia, condizioni per lui favorevoli. Alla fine il padrone di casa, il Ciclope Polifemo, rientra, con i suoi passi pesanti: smisurato, sguaiato, orrendo, con il suo unico occhio piantato in mezzo alla fronte. Fa entrare le capre, uniche compagne della sua solitudine, e chiude l’accesso alla caverna con una pietra così gigantesca che neppure ventidue carri avrebbero potuto smuoverla. Si accorge presto della presenza degli intrusi: «Stranieri, chi siete? Da dove venite navigando sulle vie d’acqua? Siete mercanti o vagate sul mare come predoni che rischiano la vita e a tutti portano rovina?» Il cuore di tutti è spezzato dal terrore alla vista del gigante. Ma Ulisse si fa coraggio e risponde: «Siamo achei, di ritorno da Troia. Siamo guerrieri di Agamennone, figlio di Atreo, la cui fama grandissima va fino al cielo. Siamo qui a supplicare la tua ospitalità, secondo le leggi di Zeus che protegge gli ospiti.» Polifemo guarda l’ometto minuscolo: «Sei uno sciocco, straniero, se pensi che i Ciclopi abbiano paura degli dei. Le leggi di Zeus qui non valgono, noi siamo molto più forti dell’Olimpo.» Così parlò Polifemo e subito afferrò due compagni di Ulisse, spaccò le loro teste sbattendole contro la pietra, e se li divorò tutti interi.
La grotta di Polifemo è come l’antro dell’orco delle favole. È un motivo folklorico quello del mostro affamato di carne umana e lo troviamo in tante storie che ci hanno raccontato quando eravamo bambini (“Ucci, ucci...”). In tutte queste storie, come insegna per esempio la favola di Pollicino, la salvezza dipende sempre dall’astuzia dell’eroe. Ulisse si mise a pensare e trovò la soluzione a quella situazione che pareva senza uscita (senza uscita in senso letterale, perché, se anche fossero riusciti a uccidere il Ciclope, sarebbero rimasti prigionieri nella grotta: impossibile spostare il masso enorme che ostruiva l’ingresso). Quando, il mattino seguente, Polifemo esce dal suo antro per pascolare le greggi, dopo avere fatto colazione con altri due compagni di Ulisse, il re di Itaca ordina ai superstiti di prendere un grosso tronco che era custodito nella grotta e di levigarlo aguzzandone per bene la punta. Poi il tronco fu nascosto sotto un mucchio di letame. Sarebbe tornato utile al momento opportuno. Polifemo rientra e, richiusa la porta con il masso enorme, divora altri due greci. Allora Ulisse gli si avvicina, tenendo in mano una coppa di vino: «Bevi questo vino, Ciclope, ora che ti sei saziato. Era questa la bevanda che ti portavo come offerta, se tu avessi avuto pietà di me. Ma tu hai agito da folle e senza giustizia.» Polifemo prende la coppa e beve. Non aveva mai assaggiato il vino, simbolo di civiltà, sconosciuto al mondo selvaggio dei Ciclopi. Gli piace terribilmente e ne chiede ancora, e poi ancora: «Dimmi il tuo nome, straniero. Così potrò ricambiare anch’io il tuo dono.» «Tu chiedi il mio nome, Ciclope. Te lo dirò, ma tu mantieni la promessa di donarmi qualcosa. Nessuno è il mio nome. Nessuno mi chiamano il padre e la madre.» Nessuno, Outis, in greco: non dire il proprio nome è un’astuzia ma è anche qualcosa di più di un’astuzia. Prigioniero ai confini del mondo, nell’antro di un orco selvaggio, Ulisse si spoglia della sua identità: non è più il re di Itaca, il glorioso figlio di Laerte. Per un attimo scende a patti con le forze dell’oblio e dell’ignoto, diventa altro da sé, indossa la maschera del nulla: il suo nome è Nessuno.
Polifemo beve a garganella e, ridendo, garantisce a Ulisse che manterrà la sua promessa: «Caro Ulisse, ti mangerò per ultimo, dopo i tuoi compagni. Questo sarà il mio regalo per te.» Poi il mostro, ubriaco, si abbandona e piomba in un sonno profondo, vomitando i pezzi di carne mangiati. È il momento di agire. Ulisse e i suoi compagni prendono il tronco, lo arroventano sulla fiamma e lo cacciano nell’unico occhio del Ciclope. Polifemo grida un grido pauroso, strappandosi il palo dall’occhio, mentre i greci si rintanano negli angoli della grotta. Gli altri Ciclopi, sentendo le urla, lo chiamano dalle caverne vicine: «Perché gridi così? Ti stanno rubando le pecore? O forse qualcuno vuole ucciderti, con la violenza o con l’inganno?» «Nessuno vuole uccidermi, amici, Nessuno: con l’inganno e non con la violenza» risponde Polifemo. «Se nessuno vuole ucciderti, allora il male sta dentro di te: prega il padre Posidone che ti guarisca.» L’astuzia di Ulisse aveva funzionato. Ma ora c’era da risolvere un altro problema: come uscire dalla grotta? Nulla era impossibile per l’eroe dalla mente variopinta. Ulisse fa aggrappare i compagni superstiti alla pancia delle pecore che, la mattina dopo, Polifemo lascia uscire per mandarle al pascolo: il gigante cieco tasta la schiena delle sue bestie ma non si accorge degli uomini che stanno sotto. Ulisse esce per ultimo, aggrappandosi al montone che era l’animale prediletto del Ciclope: «Mio caro montone, perché ora esci per ultimo? Una volta eri il primo ad uscire e il primo a rientrare la sera. Forse soffri anche tu per il tuo padrone? Se tu solo potessi parlare e dirmi dove si nasconde quell’uomo, gli spaccherei il cervello contro le pietre.» Ormai in salvo, Ulisse e i suoi compagni iniziano a correre a perdifiato verso la nave, portandosi via anche le greggi del mostro. Tutti si misero ai remi, vogando a tutta forza verso il largo. Ma, quando ancora erano a portata di voce, Ulisse urlò, mentre i marinai cercavano invano di trattenerlo: «Ciclope, non era un vile l’uomo che è entrato nella tua caverna. Hai offeso Zeus e la giustizia divorando i tuoi ospiti e ora ne sconti la pena.» Polifemo, furioso, lanciò in mare un macigno che mancò di poco la nave. E Ulisse ancora lo insultava: «Ciclope, se un giorno qualcuno ti chiederà chi ti ha accecato, sappi che è stato Ulisse, figlio di Laerte, re di Itaca, distruttore di città.» Polifemo si ricordò che una profezia gli aveva annunciato l’arrivo di Ulisse nella sua isola. Alzò le mani verso il cielo e pregò: «Posidone signore, se davvero sono tuo figlio, ascoltami. Fa’ che Ulisse non torni alla sua casa. O, se proprio è destino che egli ritorni in patria, fa’ che vi arrivi attraverso infinite sofferenze, su una nave non sua, dopo avere perso tutti i compagni, e che nella sua casa trovi nuove sventure.» La maledizione del Ciclope non fu vana. Posidone ascoltò la preghiera del suo figlio mostruoso. E, da allora in poi, il suo odio implacabile e sovrumano avrebbe scandito il viaggio di Ulisse.
Dall’isola dei Ciclopi, Ulisse passò a un’altra isola misteriosa. Si chiamava Eolia e vagava per il mare come un’immensa nave. Era cinta da mura di bronzo, indistruttibili. Su di essa regnava un sovrano di nome Eolo, che banchettava tutti i giorni con i suoi dodici figli: Zeus gli aveva donato il potere sui venti, che comandava a suo piacimento. Poteva placarli o suscitarli quando voleva. Un regno da favola, insomma, anche se sappiamo da altre notizie che due figli di Eolo, Macareo e Canace, si sarebbero poi uniti in un amore incestuoso: Euripide dedicò a questo fatto una tragedia per noi perduta, dove si narrava che il padre infine uccideva Macareo. Ma nulla di questa tragedia aleggia sull’isola Eolia dell’Odissea, regno di pace e di gioia. Per un mese intero, Ulisse fu ospite alla tavola di Eolo e banchettò con il re, che era ansioso di sapere ogni cosa sulla grande guerra troiana. Quando Ulisse fu pronto a riprendere il mare, Eolo gli fece un regalo: un otre di pelle di bue chiuso con una catena d’argento. In quell’otre erano contenuti tutti i venti dell’universo. Il re fece spirare i soffi di Zefiro perché accompagnassero le navi dei greci nel loro viaggio. Così Ulisse salpò dall’isola Eolia che, più tardi, fu identificata con Lipari, anche se Omero non ci dà nessuna indicazione al riguardo. Tutto sembrava andare per il meglio. Dopo nove giorni di navigazione col vento propizio, Itaca appariva già all’orizzonte. Ulisse lasciò per la prima volta il timone, che aveva stretto ininterrottamente per tutti quei giorni, e finalmente si abbandonò al sonno. Ma i suoi compagni avevano visto l’otre ed erano convinti che contenesse un tesoro. «Ma guarda quest’uomo» si dicevano l’un l’altro. «Lui tornerà a Itaca carico di oro e argento mentre noi, che abbiamo fatto la stessa strada e patito le stesse sofferenze, arriveremo a mani vuote. Avanti, apriamo l’otre e vediamo quanto oro e argento contiene.» Pessima idea: una volta tolta la catena d’argento, si scatenarono tutti i venti, e le navi di Ulisse furono travolte da una tempesta terribile. Il re di Itaca vide, con dolore, la sua patria scomparire alla vista. Voleva uccidersi buttandosi in mare ma, ancora una volta, fece ricorso a quella virtù che lo caratterizzava tanto quanto l’astuzia: la sopportazione, la pazienza. I greci approdarono ancora una volta all’isola Eolia, ma il re questa volta si rifiutò di aiutare Ulisse: «Vattene da quest’isola, obbrobrio degli uomini. Tu sei in odio agli dei immortali, è per questo che non riesci a tornare in patria. E io non posso aiutare chi è detestato dalle divinità.»
Il viaggio continuava. Ulisse era destinato a vagare ancora a lungo per ogni mare. E, soprattutto, era destinato a restare solo: nessuno dei suoi compagni sarebbe sopravvissuto al viaggio. Molti caddero già durante una sosta nella terra dei Lestrigoni che erano creature smisurate, simili ai Giganti, selvaggi e feroci come i Ciclopi. Assalirono i greci con pietre enormi e quasi tutte le navi andarono distrutte nella battaglia, quasi tutti gli uomini uccisi. Ulisse si salvò con la sua sola nave e il suo solo equipaggio. La flotta di Itaca si era ridotta a un unico scafo che puntava la prua verso terre sempre più ignote e misteriose. Un’altra isola apparve dal mare, fitta di boschi, montuosa, con una baia accogliente. La nave scivolò dentro il golfo su cui aleggiava un silenzio irreale. I greci si accamparono sulla spiaggia, Ulisse andò in perlustrazione, salendo sulla vetta più alta dell’isola: da lassù, tra gli alberi, vide levarsi un filo di fumo. Tornò dai suoi compagni e raccontò cos’aveva visto. Disse che bisognava esplorare l’isola, scoprire chi l’abitava. Gli uomini erano paralizzati dal terrore: si ricordavano bene cosa avevano vissuto nella terra dei Ciclopi. Allora Ulisse propose di dividersi in due gruppi, uno al suo comando e l’altro al comando di Euriloco: avrebbero estratto a sorte a quale dei due gruppi sarebbe toccato esplorare l’isola. La sorte decise che la rischiosa missione toccava a Euriloco, che s’inoltrò nel folto della foresta con ventidue compagni. Ulisse, con gli altri, restò ad attenderlo sulla riva. Come raccontare quello che vide Euriloco? L’isola era magica, incantata, un luogo di prodigi. I compagni arrivarono a una radura dove sorgeva una casa di pietra. Tutt’intorno, come animali domestici, stavano lupi e leoni, che scodinzolavano felici come cagnolini, facendo festa ai nuovi arrivati. Euriloco e i suoi erano presi dal terrore, tenevano strette le mani sulle spade. Ma, dall’interno della casa, arrivò il suono di una voce melodiosa, che intonava canzoni mai ascoltate. Una donna? O forse una dea? I marinai di Ulisse si fecero coraggio e chiamarono l’ospite della casa misteriosa, pregandola di uscire. Le porte splendenti si aprirono. E sulla soglia apparve lei, Circe, la più potente di tutte le maghe.
Ulisse e i suoi compagni erano arrivati nell’isola Eea, dove da tempo immemorabile abitava Circe, figlia del dio Sole, signora degli incantesimi e della magia. Omero sembra situarla in un remoto Oriente, ai confini del mondo, oltre le acque del fiume Oceano che cinge tutta la terra, «là dov’è la casa di Aurora che sorge al mattino, e i luoghi delle sue danze, e quelli ove si leva il Sole.» Tradizioni più tarde situarono invece il regno di Circe nel mar Tirreno, dove sorge il promontorio che oggi appunto si chiama Circeo. Ma è difficile, come abbiamo detto, localizzare i luoghi immaginari. L’isola della maga appartiene a un mondo parallelo, a una dimensione segreta. È una terra nascosta, segnata dal marchio dei prodigi. Circe dominava su ogni aspetto della natura. Gli animali selvaggi le obbedivano, e lei sapeva trarre dalle erbe e dai fiori ogni genere di pozioni miracolose. Con i suoi filtri e la sua bacchetta magica poteva compiere qualsiasi incantesimo. Di uno, soprattutto, si dilettava: trasformare gli uomini in bestie. E fu appunto quello che capitò ai compagni di Ulisse. Circe li fece accomodare e offrì loro da bere: una coppa di vino e un intruglio in cui aveva mescolato formaggio, miele e farina d’orzo. Ma a queste bevande aveva aggiunto i suoi filtri magici. Quando i compagni di Ulisse ebbero bevuto, Circe li toccò con la sua bacchetta: d’incanto, si trasformarono tutti in maiali. O, meglio, avevano il corpo di un maiale, le setole, il grugno e tutto il resto: ma dentro quel corpo conservavano l’anima di un uomo e piangevano sulla loro sorte infelice, mentre la maga li chiudeva in un recinto. Ma Euriloco era rimasto indietro, temendo un inganno. Aveva atteso a lungo fuori dalla porta. Poi, non vedendo tornare i suoi compagni, era corso indietro fino alla nave. Quando arrivò davanti a Ulisse non riusciva neppure a parlare: raccontò della casa nella radura, della donna misteriosa che cantava con voce mai udita, dei compagni che avevano attraversato la porta e non erano più usciti. Ulisse si mise in spalla l’arco e la grande spada di bronzo: «Portami a quella casa» disse. Ma Euriloco era sconvolto: «No, ti prego, non farmi tornare laggiù. Non riusciremo a salvare i nostri compagni e moriremo anche noi.» «Allora resta qui a mangiare e bere. Io devo andare: è duro ma è necessario farlo.» Così parlò Ulisse, e s’inoltrò nel folto del bosco.
L’isola era piena d’incanti. In un angolo del bosco, subito prima della casa di Circe, Ulisse vide un giovane bellissimo e splendente di grazia. Era Ermes, il messaggero dell’Olimpo. Prese Ulisse per una mano e gli sussurrò: «Dove te ne vai, tutto solo, per queste valli, senza neppure sapere dove sei. I tuoi compagni sono prigionieri di Circe, la maga dai riccioli belli. Li ha trasformati in maiali e li ha rinchiusi nelle sue stalle. Farà lo stesso con te, se non mi darai ascolto. Prendi quest’erba magica, ti terrà al riparo da ogni pericolo.» Ermes tese a Ulisse il moly, così lo chiama Omero, un’erba misteriosa che poi invano, per secoli, gli uomini hanno cercato di identificare, senza mai riuscire nell’impresa. E per forza, spiegava l’erudito Tolomeo Chenno al tempo degli imperatori romani: il moly è un’erba che cresce solo nell’isola Eea, nata dal sangue di un Gigante che tentò di violentare la maga ma fu ucciso dal dio Sole, padre di Circe. Ermes spiegò a Ulisse come doveva comportarsi: «Circe ti offrirà da bere dopo avere versato nella coppa le sue pozioni magiche. Poi ti toccherà con la sua bacchetta magica. Allora tu sguaina la spada come per ucciderla. Lei s’inginocchierà ai tuoi piedi e ti pregherà di entrare nel suo letto. Tu non rifiutare l’amore di una dea: libererà i tuoi compagni e si prenderà cura di voi. Ma prima di far l’amore con lei chiedile di giurare il gran giuramento: che quando sarai disarmato e nudo, non ti renda impotente.» Ulisse seguì alla lettera le istruzioni di Ermes. Circe fu vinta dagli inganni di un altro dio. La strega si mutò in una povera donna indifesa e poi assunse i caratteri di una fata benevola. Chiamò le sue schiave, fece preparare un bagno per Ulisse, gli apparecchiò una tavola d’argento con coppe d’oro. «Circe» disse il re di Itaca. «Se vuoi che beva e mangi, prima libera i miei compagni.» La maga aprì i battenti del porcile, spinse fuori gli animali e li unse con un unguento speciale. Di colpo, i compagni di Ulisse ridiventarono uomini. Anzi, erano persino più belli e più forti di prima. Avevano vissuto l’incubo di restare prigionieri nel corpo di un animale. Ma per alcuni, forse, non era stato un incubo. Secoli dopo, Plutarco scriverà un dialoghetto in cui un uomo trasformato da Circe, tale Grillo, spiega a Ulisse le ragioni per cui preferisce restare un maiale: gli animali, sostiene, fanno una vita più sincera, senza ipocrisie e sotterfugi, senza folli ambizioni e desideri di cose inutili. Molto, ma molto meglio vivere da bestia che da uomo. Il divertimento letterario di Plutarco aggiunge così una coda filosofica alla storia di Circe. Che, nella sua essenza, è un tipo di racconto fiabesco che ritroviamo spesso nel folklore di tutti i popoli del mondo. Come scrive Cristiana Franco nel suo bel libro sul mito di Circe (Einaudi, Torino 2010): «Quello della tenutaria d’albergo maligna ed esperta di trasformazioni è un motivo molto diffuso dal Giappone, all’India all’Europa e ben testimoniato nel mondo antico. Nelle Metamorfosi di Apuleio l’ostessa Meroe è una maga che, tra le varie stregonerie di cui è capace, tramuta in animali tutti i suoi nemici: un ex amante fa la fine del castoro, un oste rivale si trova trasformato in rana, un avvocato che aveva osato parlare contro di lei finisce montone. Agostino, nella Città di Dio, riferisce di avere sentito raccontare in Italia storie di locandiere che danno formaggio drogato ai viaggiatori e li trasformano in animali da soma.» In altre storie, la strega che trasforma gli uomini in animali non è una locandiera, ma una donna che vive isolata in un bosco, proprio come Circe «dai riccioli belli.»
La vita nella casa incantata scorre felice e serena. I greci vi si fermano un anno, tra banchetti e divertimenti. Ulisse stesso sembra avere dimenticato il ritorno. Sono i compagni che infine lo incalzano ad affrontare Circe, a chiederle che conceda loro la partenza. La maga non trattiene Ulisse. Ma lo avvisa che, se vuole tornare in patria, deve affrontare prima un’altra prova, la più terribile di tutte: scendere nel regno dei morti per consultare l’anima del grande profeta Tiresia. Solo Tiresia, infatti, saprà indicargli la via verso casa. Lei invece gli darà le istruzioni per affrontare il viaggio nell’Aldilà, nella terra inesplorata da cui nessun viaggiatore, salvo pochi grandi eroi, come Eracle, è mai ritornato. Ulisse piange a lungo, disperato. Poi si prepara ad affrontare la nuova impresa. La nave dei greci s’inoltra verso le regioni delle tenebre. Le porte degli Inferi si aprono oltre le terre dei Cimmeri, nell’estremo nord, sempre avvolte da nuvole e nebbie, vicino alla Città dei Sogni (demos oneiron). È un luogo dove gli uomini sono ridotti a simulacri senza sostanza, silhouette trasparenti che galleggiano nell’aria. Omero chiama psyche l’anima dei morti: solo più tardi, in greco, quella parola significherà anche l’anima dei viventi. Seguendo le istruzioni di Circe, Ulisse sgozza una pecora e un ariete neri: bevendo il sangue degli animali, il profeta Tiresia potrà tornare a predire il futuro. Le ombre si accalcano intorno a Ulisse. L’infinita schiera dei morti: bambine, ragazzi, vecchi che molto soffirono, giovani donne ancora inesperte della vita, guerrieri straziati dal bronzo in battaglia. Ulisse li tiene lontani dal sangue con la spada. Vede avvicinarsi, con immenso dolore, l’ombra della madre, Anticlea. Non sapeva che fosse morta. Ma tiene a distanza anche lei: Circe lo ha ammonito che Tiresia per primo deve bere il sangue degli animali sacrificati. Così avviene. E il profeta schiude per Ulisse il velo del futuro. Non è, questa, una pura invenzione di Omero: i greci credevano davvero alla possibilità di evocare i morti per ricevere responsi profetici, secondo un’arte che chiamavano “necromanzia” (cioè, appunto, “profezia attraverso i morti”). Compiendo dunque il rituale necromantico, Ulisse ascolta le parole di Tiresia: il profeta gli svela che tornerà alla sua casa, ma dopo avere attraversato molte altre sofferenze, e che arriverà da solo, dopo avere perso tutti i compagni, su una nave non sua. Lo ammonisce che troverà la sua casa occupata da uomini arroganti, che gli divorano i beni e corteggiano la sua sposa Penelope: dovrà vendicarsi di loro, uccidendoli tutti. E poi gli dice parole oscure, che alludono a un misterioso ultimo viaggio: «Quando avrai ucciso i pretendenti, prendi ancora il remo e rimettiti in viaggio fino a che giungerai presso genti che non conoscono il mare, da uomini che non mangiano cibi conditi col sale, che non conoscono navi dalle prore dipinte di rosso, né i remi che sono ali alle navi. Quando un viandante, incontrandoti, ti dirà che sulla spalla, invece di un remo, porti un ventilabro, la pala che serve per ventilare il grano sull’aia, allora pianta nella terra il tuo remo e fai ritorno in patria dopo avere sacrificato a Posidone. La morte verrà per te lontano dal mare, ti coglierà nella vecchiaia, e sarà dolce.» Parole enigmatiche, che alludono a leggende sconosciute. Non sappiamo altro di questo ultimo viaggio di Ulisse, che i poeti successivi s’immagineranno nelle più diverse maniere.
Tiresia scompare nelle profondità degli Inferi. E solo allora Ulisse interroga le altre anime. Parla con la madre, Anticlea, e tenta invano di abbracciarla: ma non è possibile, perché le anime dei morti sono evanescenti come le immagini dei sogni e le sue braccia stringono solo l’aria. Vede le schiere dei grandi eroi morti. Vede Eracle e Teseo, Minosse e Sisifo, ma anche Arianna e Leda. E il cuore gli sobbalza nel petto quando gli appare davanti Achille, il suo vecchio compagno d’armi, l’eroe più forte e più bello di tutti gli achei: «Figlio di Peleo, nessuno fu più felice di te quando eri vivo. E ora sicuramente la morte per te non è dolore, poiché sei grande anche tra i morti.» Ma Achille gli risponde con malinconia. Non gli parla di fama, di gloria, del suo nome che ancora risuona nei canti e risplende nella memoria degli uomini. No, Achille gli parla della nostalgia che prova per la vita e per la luce del sole: «Non parlarmi della morte, Ulisse. Preferirei essere il servo di un uomo da nulla piuttosto che regnare su tutte le anime dei defunti. Ma dimmi piuttosto di mio figlio, come si è comportato in battaglia?» Ulisse lo rassicura: suo figlio, Neottolemo, è sempre stato valoroso. Achille allora se ne va a lenti passi sul prato di asfodeli, felice perché gli hanno narrato la gloria del figlio. Uscito alla luce, Ulisse torna alla reggia di Circe. Era venuto il momento di congedarsi dalla maga che, ancora una volta, assunse il ruolo della fata buona, dando istruzioni sui pericoli che i greci avrebbero incontrato nella loro rotta. La prima minaccia sarebbe stata quella delle Sirene: misteriose incantatrici, sedute su uno scoglio del mare, stregano il cuore degli uomini con il loro canto soave. Nessuno dei marinai doveva ascoltare quel canto mortale: solo Ulisse avrebbe potuto farlo ma i suoi compagni dovevano legarlo ben stretto all’albero della nave, perché non si tuffasse in mare e morisse, incantato dalle Sirene.
Ecco dunque la nuova avventura: le Sirene. Noi ce le immaginiamo come esseri fantastici metà donne e metà pesce ma questa iconografia si afferma solo nel Medioevo. Nella Grecia antica le Sirene avevano il busto di fanciulle e il corpo di uccelli. Creature alate, dunque, come tutti i demoni della morte. Anche se da sempre legate al mare: la loro postazione preferita era uno scoglio o un’isola. Tutti i marinai, perciò, correvano il rischio di incrociarle nella loro rotta. Cristoforo Colombo, il 9 gennaio 1493, avvistò tre sirene presso le coste americane, forse lamantini o altri mammiferi marini, lamentandosi poi che «non erano così belle come le si dipinge.» Ma già agli Argonauti era capitato di incontrare le Sirene: Giasone e i suoi compagni si salvarono perché avevano imbarcato con loro anche il sommo cantore Orfeo, che sfidò e batté in una gara musicale le mostruose cantatrici. Uno degli Argonauti, però, raccontava il poeta greco Apollonio Rodio, si tuffò in mare per raggiungerle. Era il giovane Boutes: sarebbe morto nell’abbraccio assassino dei mostri, se Afrodite non fosse accorsa a salvarlo. Le Sirene, insomma, incarnano da sempre il fascino ambiguo delle acque, del mare che rifulge nella sua doppia luce: luogo di incanti, ma anche spazio di morte e dissoluzione. A volte esse appaiono come nemiche di Afrodite, che le avrebbe trasformate in mostri perché erano testardamente attaccate alla loro verginità e ostili all’amore. Ma, altre volte, è come se rappresentassero il lato oscuro e periglioso dell’eros. Una funzione che sembra affiorare, in forma per così dire laicizzata, nei testi che interpretano le Sirene come prostitute avide e rapaci. Così scriveva per esempio il mitografo Eraclito: «Erano, in realtà, cortigiane di straordinaria abilità musicale, sia con gli strumenti sia con la dolcezza della voce, bellissime, i cui clienti dilapidavano con loro le proprie sostanze.» Quella delle Sirene prostitute è un’immagine ricorrente nella letteratura antica. D’altra parte, Afrodite, signora dell’amore, aveva anche un rapporto speciale col mare. Dalla schiuma del mare di Cipro era nata: e proprio a Cipro, nella località di Ascalona, essa era venerata nella forma bizzarra di una divinità metà donna e metà pesce. Si capisce, dunque, come le Sirene possano essersi trasformate gradualmente, da donne-uccello in donne-pesce. Anche se la prima testimonianza sicura su questa seconda e nuova natura delle Sirene risale a un Libro dei mostri dell’VIII secolo. Creature del mare, le Sirene erano anche demoni della morte. Alcune leggende narravano che fossero le ancelle di Persefone, sposa del re degli Inferi. Alcuni ricollegavano il loro nome a Sirio, l’astro che porta la calura meridiana, e Roger Caillois le arruolò nella schiera di quei “demoni del mezzogiorno” che appaiono quando il sole è a picco e rubano il senno degli uomini. Anche Platone immaginava un loro rapporto con gli astri, sostenendo che l’armonia delle sfere celesti era intonata sulle loro mirabili voci. La loro seduzione si esercitava comunque attraverso il canto, e perciò alcuni le consideravano figlie di una Musa. Ma cosa cantavano le Sirene? L’imperatore Tiberio, che amava porre questioni bizzarre e impossibili agli eruditi di corte, si divertiva spesso con questa domanda. Non conosciamo le risposte dei suoi malcapitati interlocutori, ma possiamo indovinare il loro imbarazzo. Perché una risposta certa non c’è, anche se l’Odissea ci offre un indizio. Qui le Sirene dicono a Ulisse di conoscere tutte le sofferenze di greci e troiani e, ancora, «tutto quanto accade sulla terra ricca di frutti.» Ma solo il re di Itaca avrebbe potuto rispondere alla domanda di Tiberio. Perché solo lui aveva ascoltato la voce delle Sirene ed era sopravvissuto. Come aveva raccomandato Circe, si era infatti fatto legare all’albero della nave, dopo avere chiuso le orecchie dei suoi compagni con tappi di cera, perché non cadessero vittime dell’incantesimo.
Superati gli scogli delle Sirene, la nave di Ulisse dovette attraversare lo stretto presidiato da due orribili mostri: Scilla e Cariddi. Scilla aveva dodici piedi, sei colli e sei teste, ciascuna con tre file di denti. La sua voce era quella di un cucciolo di cane ma la sua forza era immensa. Se ne stava acquattata in un antro e, quando passava una nave, le sue teste si sporgevano per divorare i marinai. Dall’altro lato dello stretto, che fu poi identificato con quello di Messina, si trovava Cariddi, che risucchiava nella sua gola immensa i naviganti. Ulisse passò a fatica, ma perse sei compagni, divorati da Scilla. La tappa successiva fu l’isola del Sole, dove pascolavano le mucche e le pecore del signore del cielo. Tiresia e Circe avevano ammonito Ulisse: non toccate le mandrie del Sole, altrimenti una grande sventura piomberà su di voi. Ma Euriloco, folle, convinse gli altri compagni a uccidere e mangiare gli animali sacri, mentre Ulisse era a caccia. Quando il re di Itaca tornò alla sua nave e vide il banchetto che si erano apparecchiati i suoi marinai si disperò. Ma era troppo tardi. La vendetta degli dei incombeva sull’equipaggio di Ulisse. Quando la nave riprese il viaggio, fu travolta da una tempesta mai vista. Morirono tutti, i compagni di Ulisse. L’eroe rimase solo nel mare infinito. Per dieci giorni vagò naufrago tra le onde, aggrappato al relitto della sua nave. Poi gli dei lo gettarono esausto sulle rive di un’altra isola incantata, dove lo attendeva, dopo Circe, l’amore di un’altra divinità: la favolosa terra di Ogigia, abitata dalla bellissima ninfa Calipso. Il nome della dea, in greco, significa “colei che nasconde”, “la Nasconditrice”. Ancora una volta Ulisse si trova tagliato fuori dal mondo degli uomini, prigioniero della favola, ostaggio della ninfa che si rifiuta di lasciarlo andare. Certo, è una prigione dorata. Non a tutti i mortali è concesso di poter godere dell’amore di una divinità. Calipso farebbe qualsiasi cosa per Ulisse (a parte lasciarlo partire, s’intende): è disposta anche a renderlo immortale, pur di averlo sempre al suo fianco. Ma Ulisse si rifiuta. Non vuole cedere all’oblio, dimenticare la sua casa, sua moglie e suo figlio. Vuole tornare a essere re di Itaca, riprendere il suo posto nella società degli uomini. Così, passa le giornate sulla riva, guardando il mare, e gli occhi gli si riempiono di lacrime per la nostalgia della patria lontana.
Atena decise di intervenire in favore del suo protetto. Chiese udienza al padre Zeus che acconsentì a mandare Ermes nell’isola di Calipso, con l’ordine di lasciar partire Ulisse. Quando Calipso ricevette l’ordine rabbrividì: «Come siete spietati, voi dei dell’Olimpo. Siete gelosi e invidiosi. Non ammettete che una dea ami un mortale e dorma accanto a lui. Eppure sono stata io che l’ho salvato, io mi sono presa cura di lui e l’ho nutrito.» Ma non si poteva disubbidire a Zeus. Calipso comunicò a Ulisse la notizia, gli concesse di costruire una zattera per attraversare il mare. Tentò, ancora una volta, di fermare l’uomo che amava, convincendolo che non esisteva al mondo un luogo più bello e felice della sua isola: «Davvero vuoi partire? Se tu sapessi quanti dolori dovrai sopportare ancora prima di giungere in patria, rimarresti con me e vivresti immortale in questa casa. Cos’ha la tua sposa che io non ho? Certo non è più bella di me: le donne mortali non possono competere con le divinità.» Ulisse rispose: «Non adirarti con me, Calipso. So bene che Penelope non è bella come te, so che ti è inferiore in tutto: lei morirà, tu sei immortale. E tuttavia io voglio tornare a casa, voglio vedere il giorno del mio ritorno. Se dovrò soffrire ancora, sopporterò: molto ho già sofferto in guerra e sul mare, il mio cuore è allenato alla pazienza.»
E così Ulisse prese il mare verso Itaca ma, dall’alto di un monte, Posidone, che tornava da una visita al regno degli Etiopi, lo vide e s’infuriò: «Dunque gli dei hanno approfittato della mia assenza per aiutare Ulisse. Ma ci penserò io a rendergli la vita ancora difficile.» Dette queste parole, il dio adunò le nubi e sollevò le onde del mare con il suo tridente. La notte scese dal cielo. Euro, Noto, Zefiro, Borea e tutti gli altri venti sollevarono immensi marosi intorno alla zattera che si spezzò. Ulisse precipitò in mare: ormai sembrava che nulla potesse salvarlo dalla morte. Ma un’altra ninfa venne in soccorso dell’eroe: tra le onde, spuntò Leucotea, la “dea bianca”, signora degli abissi. Consegnò al re di Itaca un velo, raccomandandogli di cingerlo intorno al petto. L’avrebbe tenuto a galla, salvandogli la vita. Così fece Ulisse e raggiunse esausto la riva di un’altra terra ignota: l’ennesimo mondo sconosciuto in cui il destino lo gettava. Esausto, lacero e seminudo, si buttò su un mucchio di foglie e si addormentò. Fu risvegliato da grida di ragazze. La figlia del re di quella terra, la giovanissima principessa Nausicaa, stava giocando a palla con le sue amiche sulla spiaggia. Ulisse vide le ragazze e s’interrogò su cosa fare. Conciato com’era, coperto di salsedine e nudo, temeva di spaventarle. Non sapeva che Nausicaa era stata mandata su quella spiaggia con uno stratagemma da Atena, proprio perché aiutasse il suo beniamino: la dea era apparsa in sogno alla principessa, nelle vesti di una sua amica, e l’aveva incitata ad andare a lavare le sue vesti alle foci del fiume. Chissà mai, aveva detto l’apparizione del sogno, che uno di quei giorni non venisse qualcuno a chiedere la sua mano e allora Nausicaa doveva essere pronta per il novello sposo. Era dunque con una vaga idea di un futuro matrimonio che Nausicaa era uscita di casa, lieta e festosa, nel sole del mattino, e si era fermata a giocare a palla mentre le vesti si asciugavano sulla spiaggia. Ulisse, dopo avere a lungo meditato, uscì dal suo nascondiglio ma decise di tenersi a distanza. Tutte le ragazze fuggirono via, spaventate, tranne Nausicaa. Il re di Itaca le rivolse la parola, con la sua oratoria suadente, astuta ed elegante: «Signora, io ti supplico. Sei una dea o una donna? Se sei una dea, per la tua bellezza devi essere Artemide, figlia del sommo Zeus. Ma se sei una mortale, tre volte felici tuo padre e tua madre che hanno in casa questo fiore bellissimo. Ma più di tutti felice l’uomo che ti farà sua sposa. Io non ho mai visto una tale bellezza. Ti guardo, e lo stupore mi prende. Nell’isola di Delo, un tempo, vicino all’altare di Apollo, ho visto levarsi una giovane palma – sì, sono stato anche a Delo, e molti uomini mi seguivano...» Ulisse parlava, parlava, e la ragazza restava incantata ad ascoltarlo. Chi era quell’uomo così affascinante, che tanto aveva viaggiato e sapeva usare le parole così bene? Alla fine del suo lungo discorso, il re d’Itaca spiegò in breve la sua situazione, disse che aveva bisogno di aiuto. Tenne nascosto però il suo nome. Nausicaa, che univa al più delizioso candore una furbizia da bambina, promise che lo avrebbe introdotto nel palazzo di suo padre, il re Alcinoo. E lo avvertì che, prima di tutto, doveva gettarsi ai piedi della madre, la regina Arete. Quello era il regno dei Feaci, e i Feaci non amavano troppo le visite degli stranieri. Volevano vivere per conto loro, lontani dalle brutture del mondo. Ma se Arete si fosse impietosita, di certo i Feaci, popolo buono e generoso, avrebbero aiutato il naufrago.
Così avvenne, Ulisse fu accolto con generosità dai Feaci. Nessuno gli chiese come si chiamava: secondo le leggi greche dell’ospitalità, sarebbe stata una scortesia. L’ospite continuò così ad aggirarsi per quella reggia maestosa, che splendeva come il sole: aveva mura di bronzo, stipiti d’oro e d’argento. Due cani, anche loro fatti d’oro e d’argento, opera dell’artefice divino Efesto, sedevano come animali di guardia accanto alla porta d’ingresso. Dentro il palazzo, si aprivano vasti cortili, che erano tutti un tripudio di fontane e giardini. Il regno dei Feaci era un’antica Shangri-La, una città incantata, un paese delle meraviglie lontano dalle rotte degli uomini. Come i Ciclopi, vicino ai quali avevano abitato per lungo tempo, anche i Feaci erano discendenti di Posidone. Ma essi rappresentavano l’esatto opposto dei Ciclopi: il trionfo della saggezza, della pace, dell’armonia, delle leggi giuste. Erano il primo regno di Utopia di cui ci parli la letteratura mondiale. Ulisse trascorse molte ore in conversazione con il saggio re Alcinoo. E anche con la giovane Nausicaa. Non ci furono mai parole d’amore tra loro. Soltanto sottintesi, allusioni. Forse Ulisse faceva intendere alla giovane di essere interessato a lei. E lei, a sua volta, amava forse essere ingannata, sognando un futuro felice accanto a quell’uomo così nobile e maestoso che doveva essere certo anche lui un re. Ulisse banchettava con i Feaci, gareggiava con i giovani del regno, surclassandoli nel lancio del giavellotto e del disco. Ma continuava a pensare alla patria lontana. Un giorno, durante un banchetto, un cantore venne a narrare il giorno fatale della caduta di Troia, l’inganno del cavallo di legno, le imprese dello stesso Ulisse. Tutti gioivano ascoltando la voce magnifica del cantore. Ma non il re di Itaca, che nascondeva il suo pianto. Alcinoo si rese conto del dolore dell’ospite e chiese all’aedo di smettere di cantare. Ulisse non poteva e non voleva più nascondersi. Raccontò chi era, rievocò tutte le sue avventure, parlò dei Ciclopi e delle Sirene, di Circe e di Calipso. I Feaci gli misero infine a disposizione una nave per tornare in patria. Il suo addio a Nausicaa fu sobrio e sommesso, come sempre era stata la loro conversazione. Qualcuno racconterà poi che Nausicaa sarebbe diventata la moglie del figlio di Ulisse, Telemaco. Ma ci pare difficile credere a questa storia forse un po’ consolatoria, una sorta di lieto fine per interposta persona.
Ulisse sbarca a Itaca di notte e si addormenta ancora una volta. Quando si risveglia ha davanti a sé il paesaggio della sua isola pietrosa. E se tutto quello che gli era accaduto fosse stato solo un sogno? E si trovava davvero in patria o era tutto un inganno? Forse non era tornato a Itaca, forse gli dei, ancora una volta, si facevano gioco di lui. Si addentrò con cautela nell’isola e presto s’imbatté in un pastorello. «Ragazzo, ti prego, dimmi una cosa: che terra è questa?» «Come che terra è questa? È la gloriosa Itaca, tutti la conoscono. Non sai che la sua fama è arrivata fino a Troia?» Ulisse gioì nel cuore sentendo quelle parole ma la sua astuzia lo induceva a non rivelarsi. Tiresia, negli Inferi, gli aveva svelato che la sua casa era occupata dai proci che ambivano alla mano di Penelope. Doveva essere molto accorto: «Ah certo, ne ho sentito parlare a Creta: io sono cretese, vengo da lì» disse Ulisse, e incominciò a raccontare una lunga storia, inventata con arte. «Bugiardo impudente, inventore d’inganni. Ma la finirai mai di dire bugie? Pure a me vuoi mentire?» lo interruppe il ragazzo che intanto andava trasformandosi in una splendida donna, alta e imponente. Era la dea Atena. Rimproverava Ulisse, ma con affetto, accarezzandogli la guancia: «Sei proprio incorreggibile. È da quando sei bambino che racconti frottole. Ma non avere paura di nulla. Io ti ho aiutato finora e anche adesso resterò al tuo fianco.» Atena raccontò a Ulisse qual era la situazione nell’isola. I pretendenti imperversavano, sempre più arroganti e violenti. Lei stessa aveva fatto in modo che Telemaco andasse a Pilo e poi a Sparta a chiedere notizie del padre. Stava per tornare: i proci gli avrebbero teso un agguato per ucciderlo ma ci avrebbe pensato Atena a salvarlo. Ora Ulisse doveva preoccuparsi di raggiungere la sua reggia e preparare la vendetta. Atena, con un colpo di bacchetta magica, toccò il re di Itaca e lo trasformò in un vecchio mendicante: «Ora vai alla capanna di Eumeo, il guardiano dei tuoi maiali. È uno di quelli che ti sono rimasti fedeli. E ricordati, ti sarò sempre accanto. Il giorno della vendetta non è lontano.»
Le avventure di Ulisse non erano ancora terminate. Doveva riconquistare il suo regno e la sua casa. Doveva uccidere tutti i principi che, da anni, si erano accampati nella sua reggia, gli mangiavano i beni e gli insidiavano la moglie. Non avrebbe avuto pietà: porgere l’altra guancia non rientrava nei comandamenti dei greci. Ma, come sempre, bisognava far ricorso all’astuzia: i suoi nemici erano troppi, da solo non sarebbe riuscito a sbaragliarli, nemmeno con l’aiuto di Atena. Raggiunse dunque la capanna di Eumeo che, senza riconoscerlo, lo accolse con cortesia, dividendo con lui quel poco che aveva. «La situazione qui è difficile, straniero» gli diceva il porcaro. «Non ho molto da offrirti, perché un gruppo di giovani arroganti si sta mangiando e bevendo tutte le provviste di casa. Quanto vorrei che il mio padrone ora fosse qui. Ma quello è morto, combattendo contro i troiani. Fosse morta la maledetta Elena invece di lui, che era un re saggio e valoroso.» Ulisse provocò il porcaro: «Come si chiamava il tuo re? Io ho viaggiato molto, potrei averlo incontrato.» «No, straniero, non venirmi anche tu a raccontare frottole. Ce ne sono stati tanti, troppi di ciarlatani che sono venuti qui a raccontare alla padrona storie incredibili, a ingannarla dicendole che il mio padrone è ancora vivo. No, straniero: il mio re – ho ritegno persino a pronunciarne il nome, da quanto lo amavo – Ulisse è morto. Ormai i pesci avranno spolpato il suo corpo nel fondo del mare.» «Perché parli così? Io ti dico, anzi ti giuro che Ulisse tornerà presto e punirà tutti i mascalzoni che hanno oltraggiato la sua sposa e suo figlio.» Ulisse ancora non vuole svelarsi a Eumeo e, anzi, gli racconta un’altra avventura tutta inventata, finge di essere un pirata cretese, di avere avuto notizia durante i suoi viaggi che il re di Itaca stava per tornare. Queste vicende del pirata cretese, incastonate nell’Odissea, sono come una miniatura all’interno del dipinto principale. Del resto, diceva Italo Calvino, l’Odissea contiene molte Odissee. Racchiude gli spunti per infinite avventure, gli embrioni di molte storie non narrate o appena abbozzate.
Intanto Telemaco stava rientrando a Itaca. Raggiunse anche lui la capanna di Eumeo, per avere notizie da un uomo fidato su cos’era successo in sua assenza. Vide il padre, gli parlò ma non lo riconobbe, perché aveva l’aspetto di un vecchio mendicante. Ma Atena decise che era giunto per Ulisse il momento di svelarsi a suo figlio. Lo toccò di nuovo con la bacchetta magica e gli restituì la giovinezza e il vigore. Telemaco, che prima si era visto davanti un vecchio, rimase stupito: «Chi sei tu? Come puoi trasformati così? Sei forse un dio?» «No, non sono un dio. Sono tuo padre» rispose Ulisse e baciò suo figlio, mentre le lacrime gli rigavano le guance. Ma Telemaco era sospettoso: «Non è possibile. Solo un dio può cambiare aspetto come tu hai fatto. Sei un dio crudele. E mi stai illudendo solo perché io pianga lacrime ancora più amare.» Ma Ulisse spiegò al figlio che era Atena a permettergli di trasformarsi così e alla fine lo convinse. Passata la commozione, i due si misero subito a progettare la vendetta. Il re di Itaca si fece raccontare quanti erano i proci. Troppi, più di cento, per affrontarli subito a viso aperto. Ma Ulisse aveva un piano: senza farsi notare, Telemaco avrebbe nascosto le armi dei pretendenti. Al resto avrebbe pensato Atena, stando al loro fianco in battaglia. Telemaco, dunque, secondo gli accordi, ritornò alla reggia. Ulisse lo seguì più tardi, trasformato di nuovo in un mendicante, e accompagnato da Eumeo. Nessuno lo riconobbe quando si accostò alla sua casa, da cui mancava da vent’anni. Nessuno tranne il cane Argo, suo antico compagno di giochi e di caccia. Ormai vecchio, pieno di zecche, il cane giaceva stanco, con lo sguardo spento, abbandonato su un mucchio di letame. Non riusciva più a correre come un tempo. Ma, quando vide il padrone, abbassò le orecchie e mosse la coda. Morì dopo avere avuto la gioia di rivedere Ulisse. E fu questa un’altra delle occasioni in cui l’eroe pianse, nascondendo le lacrime a Eumeo.
Nella casa, i proci banchettavano, arroganti, ormai convinti che Ulisse non sarebbe mai tornato. Non si curavano di Telemaco e continuavano a insistere perché Penelope scegliesse uno di loro come marito. Li comandava Antinoo, il peggiore di tutti, uomo feroce e violento. Ma la regina era astuta quanto suo marito. Per lungo tempo era riuscita a tenere a bada i pretendenti, dicendo loro che avrebbe fatto la sua scelta solo dopo avere finito di tessere un sudario per il padre di Ulisse, il vecchio Laerte, che si era ritirato a vivere in campagna. Era la famosa tela di Penelope, poi diventata proverbiale: di giorno la regina tesseva e di notte disfaceva ciò che aveva tessuto, in modo che il lavoro non fosse mai compiuto. Ma alla fine il suo stratagemma era stato scoperto. Non c’era più modo di rinviare le nozze. Ora i pretendenti esigevano una scelta. Questa era la situazione quando Ulisse rientrò nella sua casa. Sopportò con pazienza gli insulti di Antinoo e dei suoi compagni, fu maltrattato dagli altri servi. Strinse i denti, aspettando il giorno radioso della vendetta, che ormai era vicino. Parlò anche con Penelope, fingendo di portarle notizie di Ulisse, ma non si svelò neppure a lei. Doveva essere assolutamente certo della sua fedeltà e non poteva mettere a repentaglio il suo piano, svelandolo a una donna: le femmine, si sa, sono tutte volubili e inaffidabili. Eppure, ci fu una donna che scoprì la sua identità e seppe mantenere il segreto: la vecchia Euriclea, che lo aveva allevato quand’era bambino. Penelope le aveva affidato l’ospite perché gli facesse il bagno: almeno lei voleva prendersi cura dello straniero, visto che i pretendenti avevano così scarso rispetto per gli ospiti. Lavando le gambe di Ulisse, Euriclea vide una cicatrice sulla sua coscia e subito capì. Si ricordò di quel giorno lontano, quando Ulisse era ancora un ragazzo, ed era andato a caccia con il nonno Autolico, e un cinghiale l’aveva ferito con le sue zanne. Gioia e dolore insieme riempirono il cuore della vecchia: «Tu sei Ulisse, il mio figliolo carissimo. E io non ti ho riconosciuto, non ho riconosciuto il mio re!» Voleva subito correre da Penelope a darle la notizia ma Ulisse l’afferrò per la gola: «Madre, vuoi la mia morte, tu che mi hai allattato al tuo petto? Sono tornato dopo vent’anni di sofferenze infinite. E tu ora vuoi che tutti i miei nemici sappiano che sono qui?» Euriclea comprese e annuì: «Il mio cuore è saldo come il ferro. Non dirò una parola.»
Il giorno della vendetta ormai era vicino. L’ala della morte si stendeva già sulla casa di Ulisse. Prima della strage i pretendenti mangiavano e ridevano sfrenatamente. Ridevano in modo strano, e i loro occhi si riempivano di lacrime. Atena aveva sconvolto le loro menti. Un profeta, Teoclimeno, si alzò tra loro e li ammonì con parole terribili: «Sciagurati, cosa vi accade? L’ombra della notte vi avvolge il capo e il volto. Ovunque risuonano lamenti, i muri grondano sangue. Il portico è pieno di ombre, sono fantasmi che scendono negli Inferi. Il sole è scomparso dal cielo, coperto da una nebbia funesta.» Teoclimeno, ispirato dagli dei, vedeva già la morte dei proci, come se l’avesse davanti. Ma i pretendenti non lo presero sul serio: «Ragazzi» disse uno di loro, Eurimaco. «Portate via questo pazzo. Che vada in piazza, se qui gli sembra sia notte.» Intanto Atena ispirava a Penelope un’idea: doveva imporre una gara ai proci. La prova era questa: bisognava far passare una freccia attraverso gli anelli di dodici scuri allineate una dietro l’altra. Il vincitore avrebbe avuto in premio la mano della regina. Come arma sarebbe stato usato l’arco di Ulisse, che Penelope custodiva nella casa, nella stanza dei tesori. I pretendenti erano perplessi. Temevano che fosse difficile per loro tendere la corda di quell’arco: nessuno aveva la forza di Ulisse. Ma Telemaco li schernì e li provocò e infine accettarono la sfida. Per primo si cimentò Leode. Ma, come previsto, non riuscì a tendere la corda dell’arco: «Amici, io rinuncio. Ci provi qualcun altro. Oppure andiamo a fare la corte a qualche altra bella principessa achea.» Antinoo s’infuriò col suo compagno: «Cosa dici, sciagurato. Se tu hai fallito, qualcun altro riuscirà. Avanti, proviamo tutti.» Uno dopo l’altro i pretendenti tentarono l’impresa. Intanto Ulisse prese da parte Eumeo e un altro servo, Melanzio, il guardiano dei buoi, di cui aveva messo alla prova la fedeltà: «Ascoltatemi: se Ulisse tornasse, sareste pronti a combattere per lui e con lui?» «Senz’altro» risposero i due. «Allora, preparatevi alla battaglia, perché sono tornato» disse il re di Itaca e mostrò la cicatrice sulla sua coscia. Ora tutti erano pronti. Ulisse, Telemaco, Eumeo, Melanzio: quattro contro cento. Ma i proci non avevano più le loro armi, mentre i vendicatori avevano Atena al fianco. Intanto la gara dell’arco proseguiva. Nessuno riusciva a tendere la corda. Allora Ulisse si fece avanti, con fare umile e implorante: «Miei principi, venerabili signori, concedete che provi anch’io.» I pretendenti si scandalizzarono, e anche Penelope. Gli uni temevano di fare brutta figura, se un mendicante fosse riuscito dove loro avevano fallito. La regina, invece, che aveva già le sue disgrazie, non sorrideva certo alla prospettiva di dovere poi sposare un mendicante. Ma Telemaco, forse per la prima volta nella sua vita, s’impose ai pretendenti e alla madre: cacciò Penelope nelle sue stanze e mise l’arco in mano a Ulisse. Il re di Itaca saggiò la corda della sua arma, prese una freccia che era stata abbandonata su un tavolo e con un colpo sicuro infilò tutti gli anelli delle dodici scuri. Tutti stupirono all’impresa del vecchio mendicante. A quel punto Ulisse gettò via i cenci e riapparve in tutto il suo splendore eroico: «Cani! Pensavate che non sarei mai più tornato a casa. Vi mangiavate le mie cose, vi portavate a letto le mie schiave, corteggiavate persino mia moglie. Ora la gara è finita. E col mio arco punterò a ben altri bersagli.»
Non racconteremo nei dettagli la vendetta di Ulisse. Vi rimandiamo all’Odissea, dove è narrata con tutti i particolari. Diremo solo che fu bella e sanguinosa come tutte le vendette che si rispettino. Una strage entusiasmante, dove i cattivi pagano per le loro cattiverie e i buoni trionfano. I proci furono sterminati, uno dopo l’altro. Le schiave infedeli furono impiccate, appese all’architrave del grande salone. I servi traditori sgozzati sul posto. Alla fine dell’Odissea, Atena interviene ancora per ricomporre i contrasti ed evitare una guerra civile tra Ulisse e i parenti degli uccisi. Tutto finisce nel migliore dei modi. Ulisse riconquista il suo regno e l’amore della sua sposa. Non subito, però. Anche dopo la strage, infatti, Penelope è sospettosa. Non è ancora sicura di avere ritrovato suo marito. È davvero Ulisse l’uomo che ha sterminato i pretendenti e che ora le sta davanti? Ci voleva un’altra astuzia per scoprirlo. Penelope chiamò le ancelle. Disse loro di spostare il suo letto fuori dalla stanza nuziale perché lo straniero potesse riposarsi. «Mia sposa» intervenne Ulisse. «Che cosa stai dicendo? Chi può spostare il mio letto? Io l’ho fabbricato con le mie mani e solo io e te sappiamo com’è fatto. C’era un grande tronco d’ulivo e in quel tronco ho intagliato il nostro letto. Poi vi ho costruito intorno la nostra camera nuziale.» Ecco, solo Ulisse poteva conoscere quel dettaglio. Il re di Itaca era davvero tornato, dopo vent’anni Penelope riabbracciò il marito. Fu questo dunque, secondo quanto racconta l’Odissea, il finale lieto di una lunga e tenace fedeltà coniugale. Penelope è rimasta nella memoria dell’umanità come donna perfetta e sposa esemplare. Ma questo è appunto quello che sostiene Omero. Altre leggende ci raccontano una storia completamente diversa, in cui Penelope riveste invece la parte della sgualdrina infedele. Il mitografo Apollodoro, per esempio, racconta che, quando Ulisse torna a casa, trova la moglie nel letto con uno dei proci, di nome Anfinomo. A quel punto il re di Itaca sguaina la spada e li sgozza entrambi. Ed è possibile che questa versione fosse molto più antica dei tempi in cui Apollodoro compilò la sua raccolta di leggende. Già nell’Odissea, infatti, Anfinomo appare come il più saggio e il più giusto dei proci. E Penelope mostra un’evidente attrazione per lui: Anfinomo, dice Omero, «primeggiava fra i pretendenti e molto piaceva a Penelope per i suoi discorsi.» Omero, insomma, forse sapeva che circolavano anche altre storie intorno alla regina di Itaca e, con malizia, si diverte ad alludere alle versioni alternative del mito. Seminando, qua e là, nella stessa Odissea, alcuni indizi che fanno capire che la fedeltà di Penelope non era affatto scontata. Insomma, esattamente come Ulisse, anche Penelope non era figura monolitica. Certo, non era in ogni caso la trepida casalinga che aspettava il ritorno dello sposo sedendo al focolare sola e rassegnata: era astuta quanto il marito (l’espediente della tela fatta e disfatta lo dimostra), sempre guardinga e sospettosa. Ma, soprattutto, la sposa perfetta aveva le sue vite parallele dove figurava come una sgualdrina. Come nella vicenda, narrataci da altri autori, secondo la quale Penelope sarebbe stata sedotta da Ermes, a cui avrebbe partorito Pan, il dio caprone, signore delle selve. Leggende misteriose e riti arcani sembrano nascondersi dietro queste vicende. “Penelope”, in greco, significa “anatra” e forse questa sposa di Ermes e madre del dio Pan altro non era che un’antichissima divinità venerata in forma di animale delle paludi. O, forse, con la trama variopinta dei lori miti, i greci, arguti come sempre, ci stanno raccontando che anche dietro la più solida e rassicurante delle mogli si nasconde sempre qualcosa di inquietante.
Comunque sia, l’Odissea finisce con Ulisse che riconquista il suo regno e la sua sposa. Ma Ulisse aveva vissuto davvero tutte le sue avventure? Noi le conosciamo solo attraverso il racconto che Ulisse stesso fa alla reggia dei Feaci. Ma come possiamo fidarci della parola di un eroe così abile nell’arte della menzogna? Anzi, vi sembra possibile, scriveva Filostrato, che «un uomo che aveva già superato l’età dell’amore, camuso, non alto» facesse perdere la testa a ninfe e divinità, a Circe e a Calipso? Le Sirene e i Ciclopi sono tutte favole, inventate, come diceva Luciano di Samosata, da un «maestro di ciarlataneria.» In effetti, Ulisse è il «viaggiatore senza testimone», come scriveva anni fa il critico Mario Lavagetto, studiando la bugia in letteratura, nel suo saggio La cicatrice di Montaigne (Einaudi, Torino 1992). Che Achille abbia ucciso Ettore dopo essersi fatto dare le armi da Efesto ce lo dice Omero: la veridicità delle sue imprese è garantita dalle Muse. Che Ulisse abbia incontrato il Ciclope, invece, è Ulisse stesso a dircelo. I suoi compagni sono tutti morti e nessuno può più smentirlo, a meno di non chiedere informazioni a Polifemo in persona. Si capisce, insomma, che molti abbiano faticato a credere a Ulisse che, astuto e buon parlatore qual era, appariva già agli ateniesi del V secolo a.C. come il prototipo dell’uomo politico. Un gran comunicatore, disinvolto e spregiudicato. Nelle tragedie di Euripide lo troviamo descritto come «uno che è nato furbo e sta sempre dalla parte della massa», un politicante che «è divorato dall’ambizione.» Ecuba, la regina di Troia, insultandolo, lo inserisce nella più vasta categoria degli adulatori del popolo: «Demagoghi, razza d’ingrati, in caccia solo del favore popolare! Non vi importa di ingannare il prossimo: a voi basta compiacere la folla con i vostri discorsi.» Ma, anche ammesso che le cose stiano così, una cosa differenzia Ulisse dagli altri demagoghi di ieri e di oggi: la consapevolezza della precarietà di ogni destino umano. Ulisse può raccontare bugie a tutti, ma lui alle bugie non crede. Egli sa, come racconta il suo personaggio nell’Aiace di Sofocle, che l’uomo è solo un’ombra vuota, un simulacro, e la vita una grande illusione.
La fine di un personaggio così cangiante e multiforme non può che essere avvolta nel mistero. Sono molte le versioni sulla morte di Ulisse. Rimase a Itaca? Oppure ripartì per altri viaggi? Alcuni dicono che morì per mano di Telegono, il figlio che aveva avuto da Circe. Si narra che fu trasportato nell’Isola dei Beati ma anche che fu sepolto in Etruria, a Cortona. Dante diede corpo alla profezia di Tiresia negli Inferi immaginando, nel XXVI canto dell’Inferno, un ultimo viaggio di Ulisse oltre le colonne d’Ercole. Nell’alto mare aperto, mentre cercava «virtute e canoscenza», spinto dalla sua insaziabile curiosità, Ulisse sarebbe stato travolto da una tempesta e il mare si sarebbe richiuso sopra di lui come una tomba. Secoli dopo, nella prima metà del Novecento, Alberto Savinio, nel dramma Capitano Ulisse, s’immagina invece un re di Itaca che «ripone le valigie in solaio» e decide di uscire dalla sua leggenda per vivere la vita anonima di un uomo comune. Oppure forse, chissà, tutto finì come racconta Giovanni Pascoli nel suo poemetto L’ultimo viaggio (1904). Il corpo di Ulisse fu spinto dalle onde sulle rive dell’isola Ogigia. Qui il cadavere del re di Itaca fu raccolto da Calipso, la ninfa che tanto lo aveva amato. La Nasconditrice cullò il suo morto amore come un bambino, lo avvolse nella nuvola dei suoi capelli. Lei, immortale, gridò il dolore di tutti gli uomini: a che valgono tante avventure, a cosa servono tante sofferenze se comunque la corta candela della vita è condannata a spegnersi? Meglio non essere mai nati, dicevano i greci. E così dice anche Calipso: «Non esser mai! non esser mai! Più nulla, ma meno morte, che non esser più!»