Cisy stava aspettando ancora qualcuno: il barone di Comaing, «può darsi che venga, non è sicuro». Tutti i momenti andava a vedere, sembrava inquieto; alla fine - erano le otto - passarono in una sala magnificamente illuminata, fin troppo grande per il numero dei commensali. Cisy l'aveva scelta appositamente a scopo di lustro.
Un trofeo di vermeil traboccante di fiori e di frutti occupava il centro della tavola, tutta coperta di piatti d'argento secondo l'antica usanza francese; piccoli vassoi pieni d'antipasti e di spezie facevano bordo tutt'intorno; boccali di vino ghiacciato corretto con essenza di rosa eran posati a distanze regolari; davanti Ad ogni piatto s'allineavano cinque bicchieri di differenti altezze insieme a una quantità di cose che non si capiva a che servissero, una serie intera di svariati e ingegnosi oggetti da tavola. La sola prima portata comprendeva testa, di storione inzuppata di champagne, prosciutto di York al tokai, tordi gratinati, vol-au-vent alla besciamella, pernici arrosto, pernici rosse in padella e, come contorno di tutta quella roba, patate tagliate fini fini e mescolate con fettine di tartufi. L'ambiente, tappezzato di damasco rosso, era rischiarato da un lampadario centrale e da una serie di grandi candelabri. A quella vista gli invitati diedero in esclamazioni di stupore, il precettore in particolar modo.
«Parola mia, il nostro anfitrione ha fatto delle vere follie. È straordinario!»
«Questo?» disse il visconte di Cisy. «Ma via, vorrà scherzare!»
E, dopo la prima forchettata:
«E allora, mio vecchio des Aulnays, è stato al Palais-Royal a vedere Padre e maggiordomo?»
«Lo sai che non ho tempo,» rispose il marchese.
Le sue mattine erano occupate da un corso d'arboricoltura, passava tutte le sere al Circolo agricolo e dedicava ogni pomeriggio a certi studi nelle fabbriche di attrezzi per l'aratura. Siccome passava nella Saintonge i tre quarti dell'anno, approfittava dei viaggi a Parigi per istruirsi; e il suo cappello a larghe tese, che aveva posato su una console, era pieno di opuscoli.
Ma Cisy s'avvide che Forchambeaux rifiutava il vino e:
«Su, diamine, non si faccia pregare. Non è davvero in forma, per essere il suo ultimo pranzo di scapolo!»
A quelle parole tutti si congratularono, inchinandosi verso di lui.
«E sarà di sicuro,» disse il precettore, «una personcina affascinante.»
«E come!» disse Cisy. «Però ha torto lo stesso; il matrimonio è una cosa troppo stupida.»
«Parli con leggerezza, amico mio,» replicò des Aulnays, e una lacrima gli rotolò sulla guancia al pensiero della sua diletta scomparsa.
Quanto a Forchambeaux, ripeté parecchie volte di fila, e ogni volta con un sogghigno:
«Verrà anche la sua volta, verrà!»
Cisy protestava. Preferiva divertirsi, lui, fare una vita «stile Reggenza». Voleva imparare la savate per frequentare le gargotte dell'Isola, come il principe Rodolfo nei Misteri di Parigi; tirò fuori una tremenda pipetta, strapazzava i camerieri, beveva come un matto; e per fare buona impressione denigrava tutte le portate. Mandò persino indietro i tartufi, e il precettore, che pareva compiacersene, commentò vilmente:
«Già, non valgono le uova strapazzate della sua signora nonna.»
Dopodiché riprese a chiacchierare con il suo vicino, un agronomo che giudicava molto conveniente vivere in campagna, fosse solo per la possibilità di tirar su le figlie con dei gusti più semplici. Il precettore applaudiva a quelle idee e gli faceva una corte smaccata, supponendo che l'agronomo avesse qualche influenza sul suo pupillo del quale aspirava segretamente a diventare l'amministratore.
Federico, arrivando, era pieno di risentimento verso Cisy; la stupidità del nobiluomo l'aveva disarmato. Però i suoi gesti, la sua faccia, tutta la sua persona, nella misura in cui gli ricordavano il pranzo al Café Anglais tornavano a poco a poco ad irritarlo; e stava a sentire i commenti poco lusinghieri che faceva a bassa voce il cugino Giuseppe, un bravo ragazzo sprovvisto di patrimonio, agente di Borsa e gran cacciatore. Cisy, per piacevolezza, l'aveva chiamato più d'una volta «ladro»; poi, tutt'a un tratto:
«Ah! ecco il barone.»
S'avanzò un pezzo d'uomo sulla trentina, con un che di rude nei lineamenti e di snodato nelle membra, cappello inclinato sull'orecchio e fiore all'occhiello. Era l'ideale del visconte. Parve rapito di disporne; e persino, eccitato dalla sua presenza, azzardò un gioco di parole esclamando, all'apparire in tavola d'un gallo di brughiera:
«Questo è il migliore dei Caratteri di La Bruyère!»
Rivolse poi a De Comaing una quantità di domande su persone che nessuno dei presenti conosceva; e a un certo punto, come colpito da un'idea:
«A proposito: si è ricordato di me?»
Il barone alzò le spalle.
«Impossibile, ragazzo mio: non ha ancora l'età.»
Cisy si era raccomandato che lo facesse ammettere al suo club. Evidentemente impietosito dell'amor proprio del visconte, l'altro riprese:
«Ah, dimenticavo: mille felicitazioni per quella sua scommessa, caro amico.»
«Quale scommessa?»
«Ma quella che ha fatto alle corse, d'andare la sera stessa in casa d'una certa dama...»
Federico sentì come un colpo di frusta. Ritrovò subito la calma vedendo la faccia imbarazzata di Cisy.
In effetti la Marescialla, il mattino dopo, era già bell'e pentita; e proprio in quel giorno era ricomparso Arnoux, il suo primo amante, il suo uomo. Insieme avevano fatto capire al visconte che era «di troppo», e l'avevan sbattuto fuori senza troppe cerimonie.
Fece come se non cogliesse l'allusione. Ma il barone insisteva:
«Che ne è di quella cara Rosina? Le sue gambe son sempre così belle?» provando, con tale battuta, d'averne una conoscenza intima.
La scoperta diede fastidio a Federico.
«Non è il caso d'arrossire,» continuò il barone. «È merce di prima qualità!»
Cisy fece un verso con la lingua.
«Non poi così straordinaria, via.»
«No?»
«Ma no, francamente. Prima di tutto non ci vedo niente d'eccezionale; e poi, donne come lei se ne trovano quante se ne vuole: dopotutto... è in vendita.»
«Non per tutti,» intervenne acre Federico.
«Crede d'esser diverso dagli altri,» replicò Cisy. «Non è spassoso?»
Una risata percorse la tavola.
Federico sentiva battere il cuore al punto di soffocarlo. Inghiottì uno dopo l'altro due bicchieri d'acqua.
Ma il barone serbava un buon ricordo di Rosanette.
«Sta sempre con un certo Arnoux?»
«Non ne so niente,» disse Cisy. «Non conosco quel signore.» Ciò nonostante, avanzò l'ipotesi che fosse una specie di sfruttatore.
«Un momento!» esclamò Federico.
«Ma andiamo, è una cosa sicura. Ha anche avuto un processo.»
«Non è affatto così.»
Federico si mise a difendere Arnoux. Ne garantiva l'onestà finendo per crederci lui stesso; inventava le cifre, le prove. Il visconte, pieno di rancore, e mezzo sbronzo fra l'altro, s'ostinò nelle sue asserzioni, finché Federico gli disse in tono grave:
«È forse per insultarmi, signore?»
E lo fissava con pupille che ardevano come la punta del suo sigaro.
«Nemmeno per sogno. Anzi, ammetto volentieri che qualcosa di molto buono ce l'ha: sua moglie.»
«La conosce?»
«Diamine: Sofia Arnoux! e chi non la conosce?»
«Come ha detto?»
Cisy, alzatosi in piedi, ripeté balbettando:
«E chi non la conosce?»
«Stia zitto! Donne così lei non ne frequenta di certo.»
«Per mia fortuna.»
Federico gli lanciò un piatto in viso.
Radendo la tovaglia come un baleno rovesciò due bottiglie, demolì una fruttiera e, esploso in tre pezzi contro il trofeo, percosse al ventre il visconte.
Tutti saltaron su per trattenerlo. Si dibatteva, gridava, preso da una sorta di frenesia. Des Aulnays ripeteva:
«Calma, calma; vediamo un po', ragazzo mio.»
«Ma è una cosa spaventosa,» vociferava il precettore.
Forchambeaux, livido come una spugna, s'era messo a tremare; Giuseppe rideva alle lacrime; i camerieri asciugavano il vino, scopavan via le rovine; e il barone andò a chiudere la finestra perché il baccano avrebbe potuto trapelare sul boulevard nonostante il rumore delle carrozze.
Dato che al momento del lancio tutti i commensali stavan parlando, risultò impossibile scoprire se l'oltraggio avesse riferimento ad Arnoux, a Madame Arnoux, a Rosanette o a qualcun altro. L'unica cosa sicura era la brutalità inqualificabile di Federico, il quale si rifiutò, di fatto, di testimoniare il minimo rincrescimento.
Ci si mise des Aulnays a cercar di rabbonirlo; poi il cugino Giuseppe, il precettore, persino Forchambeaux. Il barone, nel frattempo, stava confortando Cisy, che in preda a una crisi di nervi era scoppiato in lacrime. Federico, al contrario, si sentiva via via più irritato; e sarebbero rimasti così sino al mattino se il barone, per venirne a capo, non avesse detto:
«Domani, signore, il visconte le manderà i suoi padrini.»
«L'ora?»
«Mezzogiorno, se le aggrada.»
«Perfetto signore.»
Una volta fuori, Federico respirò a pieni polmoni. Da troppo tempo tratteneva il suo cuore. Ora l'aveva soddisfatto, finalmente; e sentiva come un orgoglio virile, un inebriante scatenarsi di forze interiori. Aveva bisogno di due testimoni. Il primo che gli venne in mente fu Regimbart; e si diresse subito verso un locale di rue Saint-Denis. La saracinesca era abbassata, ma da sopra, attraverso un vetro, filtrava luce. Gli fu aperto, e per entrare dovette chinare molto la testa. |[continua]|
|[IV, 2]|
Una candela sull'orlo del banco rischiarava la sala deserta. Le sedie eran posate sui tavoli con le gambe per aria. Padrone e padrona stavano mangiando insieme al cameriere nell'angolo vicino alla cucina; e Regimbart, col cappello in testa, divideva il loro pasto togliendo la libertà dei movimenti al cameriere che era costretto a tirarsi da parte a ogni boccone. Federico gli espose brevemente la faccenda e chiese la sua assistenza. Il Cittadino, tanto per cominciare, non rispose; roteava gli occhi, si dava l'aria di riflettere; fece parecchie volte il giro della sala e, finalmente:
«Sì, con piacere.»
E un sorriso omicida gli rischiarò il volto quando seppe che l'avversario era nobile.
«Lo faremo saltare come un merlo, stia pur tranquillo. Intanto: la spada...»
«Ma forse,» obiettò Federico, «non è a me che spetta...»
«Le dico che ci vuole la spada!» replicò brutalmente il Cittadino. «Sa tirare?»
«Un po'.»
«Un po'! ecco come siete tutti quanti. E avete la mania di sfidarvi a duello! A che vuol mai che serva la sala d'armi? Dia retta a me: si tenga bene a distanza, si chiuda in circolo, sempre: e rompere! rompere! È consentito. Lo stanchi a dovere. E poi andargli addosso deciso, a fendenti. E soprattutto niente piccole furberie, niente colpetti tipo La Fougère. No: semplici uno-due, disimpegni. Ecco, vede?» e girava il polso come per aprire una serratura. «Ehi, Vauthier, dammi un po' il tuo bastone. Ah ecco: questo sarà sufficiente.»
Impugnò la canna che serviva per accendere il gas, arrotondò il braccio sinistro, piegò il destro e si mise a menar colpi verso la parete. Batteva il piede a terra, si scaldava, fingeva persino d'essere in difficoltà, tutto senza smetter di gridare: «Dove sei eh? dove sei?»; e la sua ombra si proiettava enorme contro il muro, col cappello che sembrava toccasse il soffitto. Il bettoliere, di tanto in tanto, commentava: «Bravo! benissimo!» La moglie non era meno compresa, anche se alquanto emozionata; e Teodoro, ex militare, era addirittura inchiodato dallo sbalordimento, essendo fra l'altro un grande ammiratore di Regimbart.
L'indomani di buonora Federico corse al negozio di Dussardier. Dopo un'infilata di locali pieni zeppi di stoffe, posate in bell'ordine sugli scaffali o sciorinate per traverso sui banchi con, ogni tanto, qualche scialle appeso a certi funghi di legno, avvistò l'amico in piedi dentro una gabbia traforata, circondato da registri e in atto di scrivere su una specie di leggio. Il bravo ragazzo abbandonò immediatamente tale bisogna.
I testimoni arrivarono prima di mezzogiorno. Federico giudicò di miglior gusto non assistere alla conferenza.
Il barone e il cugino Giuseppe dichiararono che si sarebbero accontentati delle scuse meno formali. Ma Regimbart, il cui principio era di non cedere mai e che teneva a difendere l'onore di Arnoux (dato che Federico non gli aveva parlato d'altro), chiese che fosse il visconte a presentare delle scuse. Comaing fu disgustato da tanta impertinenza. Il Cittadino non mollava. Impossibile ogni conciliazione, dovevano dunque battersi.
Sorsero altre difficoltà. La scelta delle armi spettava di diritto a Cisy, che era l'offeso: ma Regimbart sostenne che con l'invio del cartello di sfida il visconte si era costituito offensore. I suoi padrini protestarono che uno schiaffo, in ogni caso, era la più sanguinosa delle offese. Il Cittadino, attaccandosi alle parole, replicò che un colpo non era uno schiaffo. Decisero, alla fine, di rimetter la decisione a dei militari; e i quattro testimoni uscirono per andare a consultare qualche ufficiale nella prima caserma.
Si fermarono a quella del quai d'Orsay. Comaing, abbordati due capitani, espose la controversia.
I capitani non ci capirono un accidente, fuorviati dalle continue interruzioni del Cittadino. Per farla breve, consigliarono ai quattro di redigere un processo verbale, sulla base del quale si riservavano di decidere. Si trasferirono, allora, in un caffè; e per maggior discrezione Cisy fu designato con la lettera H, Federico con la lettera K.
Furori di nuovo alla caserma. Gli ufficiali erano usciti. Ricomparsi, dichiararono che la scelta delle armi spettava con ogni evidenza al signor H. Allora si tornò tutti da Cisy. Regimbart e Dussardier si fermarono sul marciapiede.
Nell'apprendere la decisione Cisy fu colto da un così gran turbamento, che dovette farsela ripetere diverse volte; e quando Comaing accennò alle pretese di Regimbart, il visconte mormorò:
«In fondo...», non essendo lontano, lui come lui, dall'ottemperarvi. Poi, lasciatosi cadere su una poltrona, dichiarò che non si sarebbe battuto.
«Eh? Cosa?» disse il barone.
Cisy s'abbandonò, a questo punto, a un disordinato flusso di parole. Voleva battersi col fucile a trombone, a bruciapelo, con una semplice pistola.
«Oppure mettiamo dell'arsenico in un bicchiere e tiriamo a sorte. A volte si fa; l'ho letto da qualche parte.»
Il barone, non molto paziente per natura, ricorse alla durezza.
«I signori aspettano la sua risposta. Andiamo, su! è una cosa indecorosa. Cos'è che sceglie, eh? la spada?»
Il visconte rispose «sì» con un cenno della testa; e fu stabilito d'incontrarsi il giorno dopo, alle sette precise, a Porte Maillot.
Dussardier doveva tornare al lavoro, e così fu Regimbart ad avvertire Federico.
Era rimasto tutto il giorno senza sapere niente; la sua impazienza s'era fatta intollerabile.
«Tanto meglio!» gridò.
Il Cittadino parve soddisfatto del suo contegno.
«Pretendevano delle scuse, ci crederebbe? Una cosa da niente, appena una parola! Ma io li ho fatti correre; non c'era altro da fare, no?»
«Naturale,» disse Federico, non riuscendo a non pensare che avrebbe fatto meglio a scegliersi un altro padrino.
Poi, rimasto solo, si ripeté ad alta voce:
«Sto per battermi. Guarda un po': sto per battermi. Che strano!»
Andava su e giù per la stanza, e passando davanti allo specchio s'accorse d'esser pallido.
«Non avrò mica paura?»
L'idea di poter avere paura sul terreno gli mise addosso un'angoscia abominevole.
«E se restassi ucciso, dopotutto? Mio padre è morto proprio in questo modo. Sì, resterò ucciso!»
E vide, a un tratto, sua madre vestita a lutto; immagini incoerenti cominciarono a susseguirsi nella sua testa. La sua stessa vigliaccheria finì con l'eccitarlo. Fu preso da un parossismo di coraggio spavaldo, da una sete di carneficina. Non sarebbe indietreggiato davanti a un battaglione. Placatasi quella febbre s'accorse con gioia d'essere calmissimo. Per distrarsi andò all'Opéra a vedere un balletto. Ascoltò la musica, osservò con il binocolo le ballerine, e nell'intervallo bevve un punch. Rientrando a casa, però, la vista del suo studio, dei suoi mobili, il pensiero d'esser li forse per l'ultima volta gli produssero qualche debolezza. Scese in giardino. Le stelle brillavano; si fermò a contemplarle. L'idea dì battersi per una donna gli dava una misura più grande, più nobile di se stesso. Si mise tranquillamente a letto.
Per Cisy fu tutt'altra faccenda. Andato via il barone, Giuseppe s'era sforzato di tirargli su il morale e, vedendo che il visconte restava freddo:
«Naturalmente, vecchio mio, se preferisci non farne nulla, andrò io ad avvertirli.»
Cisy non ebbe, il coraggio di rispondere «sì, certo», ma concepì del rancore verso il cugino che non aveva pensato di rendergli quel servigio senza parlarne.
Si augurava che Federico, durante la notte, morisse d'un attacco apoplettico, o che per un'improvvisa sommossa ci fossero, l'indomani, abbastanza barricate da bloccare tutti gli accessi al Bois de Boulogne; oppure che qualche avvenimento trattenesse uno dei testimoni, dato che in assenza dei testimoni il duello non poteva aver luogo. Sarebbe scappato via con un direttissimo, non importa dove. Rimpianse di non avere nozioni di medicina, in modo da prendere qualcosa che (senza mettere a repentaglio i suoi giorni) lo facesse credere morto. Arrivò persino a desiderare una malattia, una malattia grave.
Sperando d'averne aiuto, consiglio, mandò a chiamare des Aulnays. Quell'uomo eccellente aveva fatto ritorno alla Saintonge a causa d'un messaggio che gli annunciava l'indisposizione d'una figlia. La cosa parve a Cisy di cattivo auspicio. Meno male che Vezou, il precettore, capitò a fargli visita. Finalmente poteva sfogarsi.
«Che fare, mio Dio, che fare?»
«Al suo posto, signor conte, io assolderei uno di quei tipi forzuti che ci sono al mercato, e gli farei dare una buona battuta.»
«Capirebbe subito da che parte arriva,» obiettò Cisy.
A intervalli regolari emetteva un gemito; poi di colpo:
«Ma è una cosa che si ha il diritto di fare, battersi in duello?»
«È un residuo di barbarie; che ci vuol fare?»
Per compiacenza, il pedagogo s'invitò da solo a pranzo. Dopo il pasto il suo pupillo, che non aveva toccato cibo, sentì il bisogno di fare un giro.
Passando davanti a una chiesa disse:
«Se entrassimo un momento... a dare un'occhiata?»
Vezou non chiedeva di meglio, e gli offerse persino l'acqua benedetta.
Era il mese di Maria, l'altare era coperto di fiori, s'udivano voci cantare, rimbombare l'organo. Ma non gli riuscì di pregare: le pompe della religione gli ispiravano idee funerarie; gli sembrava di sentire nelle orecchie un ronzare sordo di De profundis.
«Andiamo via, non mi sento bene.»
Passarono tutta la notte giocando a carte. Il visconte si sforzava di perdere per scongiurare la malasorte, a Vezou non ripugnò di approfittarne. Infine, all'alba, Cisy s'accasciò stremato sul tappeto verde cadendo in un sonno gremito di sogni spiacevoli.
Tuttavia, se il coraggio consiste nella volontà di dominare la propria debolezza, il visconte fu coraggioso: alla vista dei padrini che venivano a prenderlo s'irrigidì con tutte le sue forze, reso conscio dalla sua vanità che indietreggiando si sarebbe perduto. Comaing lo complimentò per il suo bell'aspetto,
Per strada, però, il rullio delicato del fiacre e il tepore del sole mattutino lo svuotarono completamente. L'energia era svanita; non capiva nemmeno più dove fossero.
Il barone si compiacque di aumentare il suo terrore parlando del «cadavere» e del modo di introdurlo clandestinamente in città. Giuseppe lo assecondava; tutti e due trovavano ridicola la faccenda ed erano convinti che si sarebbe arrangiata.
Cisy aveva la testa china sul petto; la sollevò pian piano e fece notare che non aveva portato medici.
«È inutile,» disse il barone.
«Non c'è pericolo, allora?»
Giuseppe rispose gravemente:
«Auguriamocelo!»
E più nessuno, nella carrozza, aveva aperto bocca.
Alle sette e dieci giunsero a porte Maillot. Federico e i suoi testimoni, tutti e tre vestiti di nero, erano già là. Regimbart, al posto della cravatta, aveva un colletto di crine da soldato; e portava con sé una specie d'astuccio da violino, adattissimo per avventure del genere. Si salutarono freddamente. Poi s'inoltrarono tutti nella foresta attraverso la strada di Madrid, in cerca di un posto adatto.
Regimbart si rivolse a Federico, che camminava tra lui e Dussardier, e gli disse:
«Allora, con la tremarella, come la mettiamo? Se ha bisogno di qualcosa non stia a far complimenti: so cosa vuol dire. Aver paura è assolutamente naturale.»
Poi, abbassando la voce:
«Non fumi, la indebolisce.»
Federico gettò via il sigaro, che gli dava fastidio, e proseguì con passo fermo. Il visconte veniva dietro, appoggiato al braccio dei suoi due testimoni.
Incrociarono radi passanti. Il cielo era azzurro e si sentiva, a tratti, saltare qualche coniglio. A una svolta del sentiero, una donna in misto-seta parlava con un uomo in camiciotto; nel grande viale, sotto i castagni, domestici in tenuta da fatica facevan passeggiare i cavalli. A Cisy venivano in mente i giorni felici, quando in sella al suo sauro s'avvicinava, guardando attraverso il monocolo, agli sportelli dei calessi. Tali ricordi facevan crescere la sua angoscia; era riarso da una sete insopportabile: il ronzio delle mosche si confondeva nelle sue orecchie col battito delle arterie; affondava i piedi nella sabbia con la sensazione d'essere in cammino da un tempo infinito.
Senza fermarsi, i testimoni frugavano con gli occhi ai due lati della strada. Si discusse se andare verso la Croix Catelan o fin sotto le mura di Bagatelle. Alla fine piegarono a destra, e s'arrestarono in una specie di triangolo erboso fra i pini.
Il terreno fu delimitato in modo da ripartire equamente livelli e pendenze del suolo. Furori segnati i punti in cui dovevano piazzarsi i due avversari. Poi Regimbart dischiuse il suo astuccio. Sopra una imbottitura di pelle rossa v'eran posate quattro bellissime spade, con una profonda scanalatura centrale e le impugnature filigranate. Un raggio di sole cadde, attraversando i rami degli alberi, sopra le lame che parvero, a Cisy, brillare come vipere d'argento sopra uno stagno di sangue.
Il Cittadino fece constatare ch'eran tutte lunghe uguali, e prese la terza per sé allo scopo di separare, in caso di bisogno, i contendenti. Comaing teneva in mano un bastone. Vi fu un silenzio; s'incrociarono sguardi. In tutte le facce c'era qualcosa di sbigottito o di crudele.
Federico s'era tolto redingote e panciotto. Cisy, con l'aiuto di Giuseppe, fece lo stesso; allentata la cravatta, si vide che aveva al collo una medaglia benedetta. Regimbart ebbe un sorriso di commiserazione.
A questo punto Comaing, per lasciare a Federico un momento ancora di riflessione, tentò di sollevare dei cavilli. Pretese che fosse riconosciuto il diritto di tenere un guanto e quello di afferrare la spada dell'avversario con la mano sinistra; Regimbart, che aveva fretta, non fece opposizione. Finalmente il barone, rivolgendosi a Federico:
«Tutto dipende da lei, signore. Non è mai disonorevole ammettere il proprio errore.»
Dussardier faceva gesti d'approvazione. Il Cittadino si mostrò indignato.
«Non penserete che siam venuti fin qui per spennare delle anitre, eh? Su, in guardia.»
Gli avversari erano uno di fronte all'altro, coi testimoni ai due lati. Regimbart diede il segnale:
«Avanti!»
Cisy si fece spaventosamente pallido. La punta della sua lama tremava come un frustino. La testa gli si rovesciava indietro, le braccia s'aprirono; cadde sulla schiena svenuto. Giuseppe lo sollevò e si mise a scuoterlo con vigore ficcandogli sotto il naso, intanto, una boccetta. Il visconte riaperse gli occhi, poi, tutt'a un tratto, fece un salto e raccolse furiosamente la spada. Federico, che aveva tenuto la sua, l'aspettava con lo sguardo fisso e la mano levata.
«Fermi, fermi!» gridò una voce dalla strada, e s'udiva, intanto, il rumore d'un cavallo al galoppo; e rami spezzati dalla capote d'un calessino... Un uomo ne sporgeva agitando un fazzoletto e non smetteva di gridare: «Fermi, fermi!»
Comaing, pensando a un'irruzione della polizia, alzò il bastone.
«Giù le armi, signori: il visconte perde sangue.»
«Io?» disse Cisy.
In effetti, scivolando, s'era scorticato il, pollice della mano sinistra.
«Ma è stato nella caduta,» osservò il Cittadino.
Il barone fece finta di non sentire.
Dal calessino, con un salto, era sceso Arnoux.
«Arrivo troppo tardi; no, no: Dio sia lodato!»
Stringeva a sé Federico a piene braccia, lo palpava, gli copriva il volto di baci.
«So il motivo, lei ha voluto difendere il suo vecchio amico. Ah, è stato bello, molto bello da parte sua; non lo dimenticherò! Ah, che caro, che bravo ragazzo è lei!»
Contemplandolo versava delle lacrime e, nello stesso tempo, rideva di gioia. Il barone si volse verso Giuseppe.
«Credo che siamo di troppo in questa festicciola di famiglia.
È tutto finito, signori, non è vero? Lei, visconte, si metta il braccio al collo; eccole la mia sciarpa.»
Poi, con un gesto imperioso:
«Su, senza rancore; dovete farlo!»
I due combattenti si strinsero mollemente la mano. Il visconte, Comaing e Giuseppe scomparvero da una parte, Federico andò via dall'altra insieme ai suoi amici.
Dato che non eran lontani dal Restaurant de Madrid, Arnoux propose d'andarci per bere un bicchiere di birra.
«Si potrebbe anche far colazione,» disse Regimbart.
Ma Dussardier non aveva tempo, e si limitarono a un rinfresco nel giardino. Tutti provavano quel senso di delizioso sollievo che tien dietro alle soluzioni felici. Il Cittadino, tuttavia, si sentiva offeso perché lo scontro era stato interrotto sul più bello.
Arnoux ne aveva avuto sentore tramite un certo Compain, amico di Regimbart, e in uno slancio del cuore era accorso per impedirlo, convinto, d'altra parte, d'esserne lui la causa. Pregò Federico di fornirgli al riguardo qualche particolare. Federico, commosso da quelle prove d'affetto, si fece scrupolo d'aumentare la sua illusione:
«Non parliamone più, la prego.»
Tanto riserbo parve ad Arnoux squisitamente delicato. Poi, con la sua solita leggerezza, passò ad altro argomento:
«Che c'è di nuovo, Cittadino?»
E si misero a parlare di scadenze, di cambiali. Anzi, per star più comodi andarono a chiacchierare a un altro tavolo, in disparte.
Federico distinse qualche parola: «Mi dovrebbe firmare...» «Si, però lei, naturalmente...» «Alla fine ho concluso sulla base di trecento.» «La provvigione non è male, in fede mia!» Insomma, era chiaro che Arnoux aveva parecchi affari con il Cittadino.
A Federico venne in mente di ricordargli i suoi quindicimila franchi. Ma il suo ultimo gesto gli impediva qualsiasi rimprovero, anche il Più dolce; e il posto non era adatto. Rimandò tutto a un'altra occasione.
Arnoux, seduto all'ombra d'un ligustro, fumava con aria beata. Alzò gli occhi verso le porte dei salottini, tutte aperte sul verde, e disse che c'era venuto, in altri tempi, parecchie volte.
«Non da solo, naturalmente,» disse il Cittadino.
«Eh!»
«Che razza di brigante: un uomo sposato!»
«E lei allora?» ribatté Arnoux; e, con un sorriso indulgente: «Scommetto che quel furbacchione ha persino una stanza, da qualche parte, per ricevere le ragazzine.»
Con una semplice alzata di sopraccigli, il Cittadino lasciò intendere ch'era vero. I due signori, allora, esposero i rispettivi gusti: adesso Arnoux preferiva la gioventù, le operaie; Regimbart detestava quelle che «la metton giù dura» e mirava principalmente al sodo. La conclusione, tratta dal mercante di ceramiche, fu che le donne non bisogna prenderle sul serio.
«La sua la ama, però!» pensava Federico distogliendo lo sguardo; e lo trovava poco onesto. Lo rimproverava, dentro di sé, per il duello, come se fosse stato davvero a causa sua che poco fa aveva rischiato la vita.
A Dussardier, invece, era riconoscente per la devozione dimostratagli; e dietro le sue insistenze il commesso giunse ben presto a fargli visita tutti i giorni.
Federico gli prestava dei libri: Thiers, Dulaure, Barante, I Girondini di Lamartine. Il bravo ragazzo lo ascoltava rapito, e accettava le sue opinioni come quelle d'un maestro.
Una sera arrivò tutto spaventato.
Quel mattino, sul boulevard, un uomo che correva a perdifiato era andato a sbattergli contro; e riconoscendolo per un amico di Sénécal gli aveva detto:
«L'hanno preso; io scappo!»
Era proprio vero. Dussardier aveva passato la giornata a raccogliere informazioni. Sénécal si trovava sotto chiave con un'imputazione di reato politico.
Nato a Lione, Sénécal era figlio d'un capofabbrica e aveva avuto come professore un vecchio discepolo di Chalier. Appena arrivato a Parigi s'era introdotto nella lega denominata «Società delle famiglie»; le sue abitudini eran conosciute; la polizia lo teneva d'occhio. Si era battuto durante i moti del maggio 1839; dopo aveva cercato di restare nell'ombra, sempre più fanatico però, sostenitore accesissimo di Alibaud, con una spiccata tendenza a mettere insieme le sue accuse alla società con quelle del popolo alla monarchia e a svegliarsi tutte le mattine con la speranza di una rivoluzione che nel giro di quindici giorni o di un mese potesse cambiare il mondo. Alla fine, scoraggiato dalla mollezza degli altri soci della lega, esasperato per i ritardi che si frapponevano ai suoi sogni e disperando della patria, era entrato a far Parte, come chimico, del complotto delle bombe incendiarie; ed era stato sorpreso con certa polvere che avrebbe dovuto sperimentare a Montmartre, nel supremo tentativo d'instaurare la Repubblica.
Dussardier non ne era un fautore meno appassionato, convinto com'era che essa significasse libertà e felicità per tutti. Un giorno (aveva quindici anni) in rue Transnonain aveva visto davanti a una bottega di droghiere dei soldati con la baionetta rossa di sangue e ciuffi di capelli appiccicati al calcio del fucile; da allora il Governo lo rendeva furioso, come una vera e propria incarnazione dell'Ingiustizia. Faceva un po' di confusione tra assassini e gendarmi; ai suoi occhi, un confidente della polizia equivaleva a un parricida. Tutto il male sparso per il mondo lo attribuiva ingenuamente al Potere, che odiava d'un odio essenziale e permanente, tale da tenergli completamente il cuore e da raffinare la sua sensibilità. Le tirate di Sénécal lo avevano abbacinato. Colpevole o non colpevole che fosse, e per odiosa che potesse apparire la sua impresa, non aveva importanza: era una vittima del Potere, dunque bisognava aiutarlo.
«La Camera alta lo condannerà, questo è sicuro. E poi lo porteranno in una carrozza cellulare, come un galeotto, e lo chiuderanno a Mont-Saint-Michel; è lì che il Governo li fa morire. Austen ci è diventato pazzo; Steuben si è ucciso! Per mettere in cella Barbès l'hanno tirato per le gambe, per i capelli; gli son montati addosso coi piedi, gli han fatto rimbalzare la testa contro tutti i gradini della scala. Che abominio! Che miserabili!»
Singulti di rabbia lo soffocavano, girava per la stanza in preda, Evidentemente, a una grande angoscia.
«Bisognerà pure far qualcosa, no? Non so; vediamo... E se tentassimo di liberarlo? Mentre lo portano al Lussemburgo possiamo buttarci sulla scorta, nel corridoio. Con una dozzina d'uomini ben decisi si arriva dappertutto.»
C'era un tal fuoco nei suoi occhi che Federico ebbe un soprassalto.
Sénécal gli parve più grande di quanto non avesse mai creduto. Gli vennero in mente i suoi patimenti, la sua vita austera; non aveva per lui l'entusiasmo di Dussardier, ma sentiva quell'ammirazione che ispirano tutti gli uomini capaci di sacrificarsi a un'idea. Se lui lo avesse aiutato, rifletteva, Sénécal non si sarebbe trovato in quel frangente; e i due amici si misero di buona lena a cercare qualche combinazione per salvarlo.
Non ci fu modo d'arrivare fino a lui.
Federico cercava di conoscere la sua sorte dai giornali, e per tre settimane frequentò i circoli di lettura.
Un giorno gli capitarono sotto mano diversi numeri del Flambard. L'articolo di fondo era invariabilmente consacrato alla demolizione d'un uomo in vista. Poi venivano le cronache mondane, gli scandali. Poi si calunniava l'Odéon, Carpentras, la piscicoltura e - quando ce n'era - i condannati a morte. La scomparsa d'una nave forniva materia di piacevolezze per un anno intero. In terza colonna un «corriere delle arti» faceva, sotto forma di aneddoti o consigli, la pubblicità ad alcune sartorie, e somministrava resoconti di serate, annunci di vendite e analisi di opere d'arte usando lo stesso inchiostro per un volume di versi o per un paio di scarpe. La sola parte seria era la critica dei teatri minori, in cui due o tre direttori facevano da bersaglio e ci si appellava agli interessi dell'Arte a proposito degli scenari dei Funambules o dell'attrice giovane dei Délassements.
Federico stava per buttar via tutto quando gli caddero gli occhi su un articolo intitolato: Tre galli e una gallina. Era la storia del suo duello raccontata «alla francese», in stile «scintillante». Non fece fatica a riconoscersi; lo si designava con questa spiritosaggine, che ritornava sovente: «un giovane insensato del Collegio di Sens». Era descritto addirittura come un povero diavolo di provinciale, un'autentica nullità che cercava d'intrufolarsi in mezzo ai signori. Quanto al visconte, la sua parte era la più brillante, sia riguardo al pranzo nel quale s'era infilato di prepotenza, sia per la scommessa, dato che s'era portato via la ragazza, sia infine sul terreno, dove aveva tenuto un contegno da gentiluomo. Il coraggio di Federico non era proprio negato, ma si lasciava capire che un intermediario - il «protettore» in persona - era intervenuto giusto in tempo. Il tutto terminava con la seguente frase, carica forse di perfidi sottintesi:
«Donde viene sì tenero affetto? Mistero! E, come dice don Basilio, a chi diavolo si vuol darla a bere?»
Si trattava, senza il minimo dubbio, di una vendetta di Hussonnet contro Federico per il rifiuto dei cinquemila franchi.
Che fare? Se fosse andato a chiedergli spiegazioni lo scrittorello si sarebbe protestato innocente, e lui non ci avrebbe guadagnato un bel niente. Era meglio mandar giù tutto, e silenzio; tanto non c'era nessuno, alla fin fine, che leggesse Le Flambard.
Uscendo dal circolo vide gente ferma davanti alla vetrina d'un mercante di quadri. Guardavano un ritratto di donna che aveva, in basso, una dicitura in lettere nere: «Mademoiselle Rose-Annette Bron. Proprietà Federico Moreau, Nogent.»
Era proprio lei, o quasi: vista di faccia, seno scoperto, capelli sciolti e, fra le mani, una borsetta di velluto rosso; da dietro, un pavone sporgeva il becco sopra la sua spalla, nascondendo il muro con le sue grandi piume aperte a ventaglio.
Pellerin aveva combinato la mostra per costringere Federico a pagare, convinto d'esser celebre e che tutta Parigi, mettendosi in agitazione a suo favore, si sarebbe occupata di quella miseria.
Che fosse una congiura? Forse il pittore e il giornalista s'erano messi d'accordo per fare insieme quel colpo...
Il suo duello non era servito a niente. Diventava ridicolo, tutti si burlavano di lui.
Tre giorni dopo, s'era alla fine di giugno, le azioni del Nord eran salite di quindici franchi e, dato che l'altro mese ne aveva comprate duemila, Federico si trovò a guadagnare trentamila franchi. Quella carezza della fortuna gli ridiede fiducia. Si disse che non aveva bisogno di nessuno, che l'origine di tutti i suoi guai erano la sua timidezza, le sue esitazioni. Avrebbe dovuto esser brutale sin dall'inizio con la Marescialla, dire di no a Hussonnet il primo giorno, non compromettersi con Pellerin; e per dimostrare che niente poteva metterlo in imbarazzo, intervenne a uno dei soliti pomeriggi della signora Dambreuse.
In mezzo all'anticamera Martinon, che arrivava anche lui in quel momento, si voltò a guardarlo:
«Come, tu qui?» manifestando stupore, contrarietà persino, nel vederlo.
«Certo, perché no?»
E cercando di capire il motivo d'un'accoglienza simile, Federico si fece avanti nel salotto.
Nonostante le lampade posate negli angoli la luce era bassa: attraverso le tre finestre spalancate s'alzavano, paralleli, tre grandi rettangoli d'ombra. Le giardiniere posate sui tavoli occupavano ad altezza d'uomo gli intervalli di parete; una teiera d'argento e un samovar si riflettevano, in fondo alla stanza, dentro uno specchio. S'alzavano voci in un mormorio discreto. A tratti si sentiva uno scricchiolare di scarpini sul tappeto.
Federico distinse qualche giacca nera, poi un tavolo rotondo illuminato da un grande abat-jour, sette o otto signore in eleganti abiti estivi, e, appena più lontana, la signora Dambreuse seduta in una poltrona a dondolo. La sua veste di taffettà lilla aveva nelle maniche degli spacchi dai quali uscivano sbuffi di mussola; la tinta dolce della stoffa s'intonava col punto di colore dei capelli; e stava (solo un poco) rovesciata all'indietro, la punta del piede posata su un cuscino, tranquilla e piena di delicatezza come un'opera d'arte o come un fiore raro.
Dambreuse passeggiava avanti e indietro per la sala in compagnia d'un vegliardo canuto. Qualcuno, qua e là, conversava seduto in punta di divano; altri stavano in piedi e formavano circolo nel mezzo.
Parlavano di voti, di emendamenti, di controemendamenti, del discorso di Grandin, della replica di Benoist. Il terzo partito stava decisamente esagerando, Il centro-sinistra avrebbe dovuto ricordarsi un po' di più delle proprie origini. Il ministero era stato duramente attaccato. Ciò che dava una certa tranquillità, tuttavia, era che non si vedeva alcuna alternativa. La situazione, insomma, era del tutto analoga a quella del '34.
Dato che quelle cose lo annoiavano, Federico s'avvicinò alle signore. Martinon era già lì, in piedi, col cappello sotto il braccio e la faccia girata di tre quarti, così decoroso che sembrava una porcellana di Sèvres. Prese dal tavolo, fra un'Imitazione di Cristo e un Annuario di Gotha, una copia della Revue des Deux Mondes, e sfogliandola giudicò dall'alto un poeta illustre, fece sapere che frequentava le conferenze di San Francesco, si lagnò della sua laringe; ogni tanto inghiottiva una pastiglia di gomma senza smettere di parlar di musica o di fare il brillante. La signorina Cecilia, nipote di Dambreuse, stava ricamando un paio di polsini, e intanto lo guardava dal sotto in su con le sue pupille d'un azzurro slavato; miss John, l'istitutrice dal naso camuso, aveva addirittura tralasciato il suo lavoro all'uncinetto; e tutt'e due sembrava che gridassero dentro di loro:
«Come sei bello!»
La signora Dambreuse gli si rivolse.
«Sia bravo, mi dia il mio ventaglio, là su quella console. No, no, si sta sbagliando: l'altro!»
S'era alzata; e s'incontrarono faccia a faccia, mentre lui stava tornando, nel mezzo della sala; lei disse qualche parola, vivamente, rimproveri di certo, a giudicare dall'espressione altera del suo volto; Martinon si sforzava di sorridere, poi andò a confondersi nel conciliabolo degli uomini posati. La signora Dambreuse riprese il suo posto e, curvandosi sul bracciolo della poltrona disse a Federico:
«Ho visto una persona, l'altro ieri, che m'ha parlato di lei: il signor de Cisy. Lo conosce, non è vero?»
«Sì... un poco.»
Tutt'a un tratto la signora esclamò:
«Duchessa, che piacere!»
E andò sino alla porta incontro a una vecchia piccola dama che indossava un vestito di seta marrone chiaro e una cuffia fatta all'uncinetto, con lunghe bande sulle orecchie. Figlia di un compagno d'esilio del conte di Artois, vedova di un maresciallo dell'Impero creato pari di Francia nel 1830, faceva parte contemporaneamente della vecchia e della nuova corte, e poteva ottenere molte cose. Quelli che stavano in piedi a parlare le lasciarono il passo, poi ripresero la loro discussione. S'aggirava, adesso, sul pauperismo, che secondo quei signori si tendeva a dipingere con tinte esagerate.
«Però,» intervenne Martinon, «la miseria esiste, bisogna pur ammetterlo. Il fatto è che il rimedio non dipende né dalla Scienza né dal Potere. È una questione puramente individuale. Quando le classi inferiori si decideranno a sbarazzarsi dei vizi, allora potranno affrancarsi dai bisogni. Sia più morale, il popolo: e sarà anche meno povero!»
Il parere di Dambreuse era che non si combina niente di buono senza una grande abbondanza di capitali. L'unica, quindi, era di affidare, «come dicevano i sansimoniani del resto (santo Cielo, c'era del buono anche in loro, diamo a tutti quel che gli spetta), di affidare, dicevo, la causa del Progresso a chi è in grado di accrescere il patrimonio pubblico». A poco a poco si venne a parlare delle grandi imprese industriali, delle ferrovie, del carbonfossile. E Dambreuse disse sottovoce a Federico:
«Non è poi venuto per quella nostra faccenda.»
Federico addusse una malattia; ma, rendendosi conto che la scusa era troppo idiota:
«Fra l'altro ho avuto bisogno dei miei fondi.»
«Per comprare una carrozza?» disse la signora Dambreuse che gli passava accanto con una tazza di tè in mano; e stette qualche momento a fissarlo, la testa un po' girata sulla spalla.
Lo credeva l'amante di Rosanette: l'allusione era chiara. Parve anzi a Federico che tutte le signore, da lontano, lo guardassero sussurrando. Per capire meglio quel che stavano pensando s'avvicinò ancora una volta a loro.
Dall'altra parte del tavolo, vicino alla signorina Cecilia, Martinon stava sfogliando un album. Erano litografie di costumi spagnoli. Ripeteva a voce alta le leggende: «Donna di Siviglia», «Giardiniere di Valenza», «Picador andaluso»; e una volta, arrivando fino in fondo alla pagina, continuò con lo stesso tono: «Jacques Arnoux, editore... È un amico tuo, no?»
«Proprio così,» disse Federico urtato dal modo della domanda.
La signora Dambreuse intervenne:
«Già, ricordo che un mattino lei era stato qui per... per una casa, mi sembra: sì, per una casa che apparteneva a sua moglie.»
Il che voleva dire: «È la tua amante.»
Federico arrossì fino alle orecchie; e Dambreuse, che sopraggiungeva in quel momento, aggiunse:
«Sembrava, anzi, che lei s'interessasse molto a loro.»
Queste ultime parole finirono di metter fuori sesto Federico. Pensava che il suo turbamento fosse visibile, e tale da confermare i sospetti, quando Dambreuse gli si fece più vicino per dirgli con aria grave:
«Mi auguro che non ci faccia degli affari, con quel signore.»
Federico negò con reiterate scosse del capo, senza capire che il capitalista voleva dargli un consiglio.
Aveva voglia d'andar via; lo trattenne la paura di sembrar vile. Un domestico stava ritirando le tazze del tè; la signora Dambreuse discorreva con un diplomatico in giacca blu; due giovanette si mostravano un anello avvicinando le fronti; le altre, sedute in semicerchio sulle poltrone, volgevano qua e là con dolcezza i volti bianchi incorniciati di biondo o di nero; insomma, non c'era nessuno che s'occupasse di lui Federico voltò i tacchi; ed era quasi riuscito, con una serie di lunghe deviazioni, a raggiungere la porta, quando nel passare vicino a una console vide che sopra, fra un vaso cinese e il piano di legno, c'era un giornale piegato in due. Lo tirò appena verso di sé e lesse queste parole: Le Flambard.
Chi ce l'aveva messo? Cisy: nessun altro che lui, evidentemente. Del resto, non aveva importanza. Anche loro avrebbero creduto all'articolo, forse ci credevano già tutti quanti. Ma perché tanto accanimento? Un'ironia silenziosa lo circondava, gli sembrava d'esser perduto in un deserto. Tuttavia, la voce di Martinon lo raggiunse:
«A proposito di Arnoux, fra i nomi degli indiziati per le bombe incendiarie ho letto quello d'un suo impiegato: Sénécal. Non sarà mica il nostro Sénécal?»
«È proprio lui,» disse Federico.
Martinon, a voce altissima, aveva ripetuto:
«Ma come? proprio il nostro Sénécal!»
Gli rivolsero, allora, domande sul complotto: dato il suo posto alla Procura della Repubblica, doveva pur avere qualche notizia.
Confessò di non averne. Il personaggio, del resto, lo conosceva pochissimo, l'aveva visto due o tre volte al massimo; in definitiva, pensava che fosse un poco di buono. Federico, indignato, protestò:
«Ma niente affatto, è una persona molto onesta.»
«Veramente, signore,» disse un proprietario, «non si può essere insieme delle persone oneste e dei cospiratori.»
Quasi tutti gli uomini ch'eran là dentro avevano servito almeno sotto quattro governi; e avrebbero venduto non solo la Francia, ma l'intero genere umano per salvaguardare il loro patrimonio, per risparmiarsi un malanno o un fastidio e magari anche per semplice bassezza, per istintiva adorazione della forza. Tutti affermarono solennemente che i crimini politici non sono scusabili. Se mai, bisognava perdonare i delitti provocati dal bisogno; e non si mancò di citare l'eterno esempio del padre di famiglia che ruba l'eterno pezzo di pane all'eterno panettiere.
Un amministratore pensò bene d'aggiungere:
«Io, signore, se sapessi che mio fratello è un cospiratore, lo denuncerei.»
Federico invocò il diritto d'opposizione; e ricordando qualche frase di Deslauriers tirò in ballo Desolmes, Blackstone, la Dichiarazione dei diritti in Inghilterra e l'articolo 2 della Costituzione del '91. Era in virtù di tale diritto, fra l'altro, ch'era stato deposto Napoleone; e poi era stato riconosciuto nel 1830, e scritto proprio in cima alla Carta.
«D'altra parte, se un sovrano non tiene fede al patto, giustizia vuole che lo si rovesci.»
«Ma è terribile!» esclamò la moglie d'un prefetto.
Le altre dame tacevano, vagamente spaventate, come se avessero sentito il sibilo delle pallottole. La signora Dambreuse, dondolandosi nella sua poltrona, l'ascoltava con un sorriso.
Un industriale, ex carbonaro, tentò di dimostrargli che gli Orléans erano una bella famiglia; certo, si verificava qualche abuso...
«E dunque?»
«Ma non bisogna andare in giro a dirlo, signore! Se lei sapesse come nuocciono agli affari, tutte queste storie dell'opposizione...»
«M'importa assai degli affari,» replicò Federico.
Il marcio di quei vecchioni lo esasperava; e trascinato dal coraggio spavaldo che s'impadronisce, a volte, dei più timidi, attaccò i finanzieri, i deputati, il governo, il Re; prese le difese degli Arabi; le sciocchezze che diceva non eran poche. Alcuni lo incoraggiavano ironicamente: «Ma bravo, continui!» altri invece mormoravano:
«Diavolo, che razza d'esaltato!» Alla fine, gli sembrò il caso di ritirarsi; e stava già andando quando Dambreuse, alludendo al posto di segretario, gli disse:
«Niente di definitivo, ancora; ma si sbrighi.»
E la signora:
«A presto, vero?»
A Federico quell'addio parve un'ultima presa in giro. Era ben deciso a non metter più piede in quella casa, a non frequentare mai più tipi come loro. Pensava d'averli feriti, ignorando di quali larghe riserve d'indifferenza disponga la gente. Eran le donne, soprattutto, a farlo indignare. Non una che l'avesse sostenuto, fosse solo con lo sguardo. Ce l'aveva con loro di non esser riuscito a commuoverle. Quanto alla signora Dambreuse, le trovava un che di languido e al tempo stesso di arido, qualcosa che impediva di definirla con una formula. Aveva un amante? e quale? Il diplomatico, forse, oppure un altro? Martinon, magari? No, impossibile. Eppure sentiva una specie di gelosia nei confronti di lui, e nei confronti di lei un'irritazione inspiegabile.
Dussardier, ch'era venuto come ogni sera, lo stava aspettando. Federico aveva il cuore gonfio; sentì il bisogno di sfogarsi, e le sue lamentele, benché piuttosto vaghe e difficili da capire, rattristarono il buon commesso; si lagnava, fra l'altro, d'essere isolato. Esitando un poco, propose a Federico di andare insieme da Deslauriers.
Al nome dell'avvocato Federico fu preso da un estremo bisogno di rivederlo. La sua solitudine intellettuale era profonda, la compagnia di Dussardier insufficiente. Rispose che lasciava a lui di combinare come volesse.
Anche Deslauriers, dopo il loro litigio, sentiva un vuoto nella sua vita; e non oppose resistenza a quella mediazione cordiale.
Dopo essersi abbracciati, si misero a parlare di cose indifferenti.
Federico fu intenerito dalla delicatezza di Deslauriers; e per offrirgli una specie di riparazione gli raccontò, il giorno dopo, di aver perso quindicimila franchi e in che modo, senza dire esplicitamente che si trattava dei quindicimila franchi destinati a lui. L'avvocato, tuttavia, non ebbe dubbi in proposito. Quella disgrazia, che verificava i suoi pregiudizi contro Arnoux, finì di smontare il suo rancore, e non fece parola all'amico dell'antica promessa.
Federico, ingannandosi sul suo silenzio, pensò che se ne fosse dimenticato. Qualche giorno dopo gli chiese se non ci fosse mezzo per recuperare i suoi fondi.
Si poteva tentare la revoca delle precedenti ipoteche, citare Arnoux per l'evizione, eseguire pignoramenti in casa a carico della moglie.
«No, no, contro di lei no!» esclamò Federico; e cedendo alle insistenze dell'ex scrivano gli confessò la verità.
Deslauriers riportò la convinzione che non la dicesse per intero, certo per delicatezza; e fu ferito da così scarsa confidenza.
Tuttavia, si erano legati come una volta, e stavano così bene insieme che la presenza di Dussardier li infastidiva. A poco a poco, adducendo vari appuntamenti, arrivarono a liberarsene. Ci sono uomini la cui missione in mezzo agli altri è di fare da intermediari; ci si passa sopra come su un ponte, e si va più lontano.
Federico, che non nascondeva niente al suo vecchio amico, gli disse della faccenda del carbonfossile, con la proposta di Dambreuse. L'avvocato si fece pensoso.
«Guarda un po'! È un posto per il quale ci vorrebbe qualcuno molto forte in diritto.»
«Ma tu potresti aiutarmi,» rispose Federico.
«Ah, be' ... sì, certo, è naturale.»
Quella stessa settimana gli fece vedere una lettera di sua madre.
La signora Moreau si rimproverava di aver giudicato male Roque, il quale aveva dato, adesso, spiegazioni soddisfacenti della sua condotta. Poi veniva a parlare delle sue sostanze e della possibilità, in futuro, di un matrimonio con Luisa.
«Forse non è un'idea tanto malvagia,» commentò Deslauriers.
Federico era d'idea completamente opposta; e poi il vecchio Roque era un famoso malandrino. Questo non voleva dir niente, secondo l'avvocato.
Alla fine di luglio un misterioso ribasso fece precipitare le azioni del Nord. Federico, che non aveva venduto, ci rimise in un colpo solo sessantamila franchi. Le sue rendite diminuivano sensibilmente. Bisognava contenere le spese, o procurarsi una posizione, o fare un buon matrimonio.
Deslauriers, allora, gli riparlò della piccola Roque. Niente gli impediva, comunque, di andare a rendersi conto di persona. Federico era un po' stanco; la provincia, la casa materna l'avrebbero rimesso in sesto. Ci andò.
La vista delle strade di Nogent, risalite a lume di luna, lo immerse in vecchi ricordi; provava una sorta d'angoscia, come uno che torna da un lungo viaggio.
Da sua madre c'erano tutte le visite abituali d'un tempo: Gamblin, Heudras, Chambrion, la famiglia Lebrun, le «signorine» Auger; e poi il vecchio Roque, e al tavolo da gioco, di fronte alla signora Moreau, la signorina Luisa. Era una donna, adesso. S'alzò in piedi con un grido. Tutti si mossero. Lei restava in piedi, immobile; e i quattro candelieri d'argento posati sul tavolo accrescevano il suo pallore. Quando si rimise al gioco le tremavano le mani. Federico, che era malato d'orgoglio, si sentì enormemente lusingato da, tanta emozione. «Tu mi amerai, tu!» fu il suo pensiero; e per ripagarsi delle mortificazioni che altrove aveva dovuto subire si mise a fare il parigino, il mondano, illustrò le novità del teatro, raccontò aneddoti scovati nei giornali; in una parola, abbagliò i suoi compatrioti.
Il giorno dopo la signora Moreau si dilungò sui meriti di Luisa; poi fece l'elenco dei boschi, delle fattorie che sarebbero stati suoi. Il patrimonio di Roque era ragguardevole.
L'aveva messo insieme facendo investimenti per conto di Dambreuse: concedeva prestiti a persone in grado di dare una buona garanzia ipotecaria, il che gli consentiva di chiedere supplementi e provvigioni. Il capitale, grazie a un'attiva sorveglianza, non correva rischi. D'altra parte il vecchio Roque non aveva mai esitato davanti a un sequestro; più tardi ricomprava a basso prezzo i beni ipotecati, e Dambreuse, che vedeva sempre tornare a casa i suoi fondi, trovava ottimi tutti gli affari del suo amministratore.
Quelle manipolazioni poco ortodosse, tuttavia, lo compromettevano nei suoi confronti. Non si sentiva di rifiutargli niente. Era per far piacere a lui che aveva ricevuto così bene Federico.
Il vecchio, in effetti, covava in fondo al cuore un'ambizione. Voleva che sua figlia diventasse contessa; e per riuscirci senza mettere in gioco la felicità di sua figlia, non vedeva che Federico.
Con la protezione di Dambreuse gli avrebbero fatto avere il titolo di suo nonno, dato che la signora Moreau era figlia di un conte de Fouvens ed era imparentata, inoltre, con le più antiche famiglie della Champagne, con i Lavernade, i d'Etrigny. Quanto a Moreau, un'iscrizione gotica vicino ai mulini di Villeneuve-l'Archevêque parlava di un Jacob Moreau che li aveva fatti riedificare nel 1596; e nella cappella di San Nicola si poteva vedere la tomba di suo figlio Pierre Moreau, primo scudiere del re sotto Luigi XIV.
Tanta distinzione affascinava Roque, figlio di un ex cameriere. Se anche la corona comitale non fosse arrivata, si sarebbe consolato con qualcos'altro: Federico poteva diventare deputato una volta che Dambreuse fosse entrato alla Camera alta, e così l'avrebbe aiutato negli affari ottenendogli delle forniture, delle concessioni. Insomma, lo voleva come genero; da molto tempo s'era ficcato in testa quell'idea, che diventava sempre più forte.
Andava in chiesa, adesso; ed era riuscito ad accattivarsi la signora Moreau con la speranza, in special modo, del titolo nobiliare. La signora, però, s'era guardata bene dal dargli una risposta definitiva.
In breve, dopo otto giorni, e senza che fosse stato pronunciato il minimo impegno, Federico passava per il «promesso» della signorina Luisa; e qualche volta il vecchio Roque, non troppo scrupoloso, li lasciava insieme da soli.
Venendo via da casa di Federico, Deslauriers aveva con sé la copia dell'atto di surrogazione e una procura regolare che gli conferiva pieni poteri; ma una volta risaliti i suoi cinque piani, trovandosi solo nella sua poltrona di pelle in mezzo al suo malinconico studio, la vista della carta bollata gli provocò una sorta di scoraggiamento.
Era stanco di queste cose, stanco dei ristoranti da trentadue soldi il pasto, dei viaggi in omnibus, della sua miseria, delle sue fatiche. Riprese in mano il fascicolo; dentro c'erano altre carte: i programmi della compagnia del carbonfossile, con l'elenco delle miniere e il dettaglio della loro potenzialità, che Federico gli aveva lasciato per avere una sua opinione in proposito.
Gli venne un'idea: presentarsi a Dambreuse e chiedere il posto di segretario. Ma il posto era legato, ovviamente, all'acquisto di un certo numero d'azioni. Rendendosi conto che il suo progetto era pazzesco, si disse:
«No, no, non sarebbe ben fatto.»
Si mise a pensare, allora, a come rimediare i quindicimila franchi. Per Federico una somma così rappresentava poco o niente; ma se l'avesse avuta lui, che leva sarebbe stata! E l'ex scrivano provò una vera indignazione al pensiero della fortuna dell'altro.
«L'uso che ne fa è semplicemente penoso. È un egoista. Me ne infischio, io, dei suoi quindicimila franchi!»
Perché li aveva prestati, poi? Per i begli occhi della signora Arnoux. Era la sua amante, si capisce: Deslauriers non aveva il minimo dubbio. «Ecco un'altra cosa che il denaro rende possibile!» Pensieri d'odio lo sopraffecero.
Dopo, fu la persona stessa di Federico a venirgli in mente. Ne aveva sempre subito un fascino quasi femminile; e presto si rese, conto d'ammirarlo per un successo che riconosceva al di fuori della sua portata.
E tuttavia, non è la volontà l'elemento primo d'ogni impresa? E se è vero che con la volontà si trionfa di tutto...
«Sarebbe da ridere, in fede mia!»
Ebbe vergogna della sua perfidia. Ma, passato un minuto:
«Bah, non avrà mica paura?»
A furia di sentirne parlare, Madame Arnoux aveva finito per campeggiare in modo straordinario nella sua fantasia. La costanza di quell'amore lo irritava come un problema. In più, gli dava noia la sua austerità un po' teatrale. La donna di mondo, d'altra parte (o qualcosa che a lui pareva tale) abbagliava l'avvocato come il simbolo e il compendio di mille piaceri sconosciuti. Da povero qual era, agognava al lusso nelle sue forme più appariscenti.
«Alla fin fine, se anche dovesse offendersi, peggio per lui. Si è comportato troppo male con me perché io debba farmi degli scrupoli. E poi niente m'assicura che lei sia proprio la sua amante. Lui giura di no: dunque sono libero.»
Il desiderio di realizzare quel progetto non lo abbandonò più. Quel che voleva fare era saggiare le proprie forze. Cosicché un bel giorno, tutt'a un tratto, si lustrò da solo le scarpe, comprò un paio di guanti bianchi e si mise in cammino, sostituendosi a Federico, figurandosi quasi d'esser lui attraverso un curioso processo intellettuale nel quale si mischiavano vendetta e simpatia, imitazione e audacia.
Chiese che fosse annunciato «il dottor Deslauriers».
Madame Arnoux ne fu sorpresa, dato che non aveva chiamato nessun medico.
«Le chiedo mille volte scusa: dottore in legge. Sono qui nell'interesse del signor Moreau.»
Gli parve, a quel nome, colta da turbamento.
«Meglio così,» si disse; «se ha accettato lui, accetterà anche me!» cercando d'incoraggiarsi con l'opinione comune: esser più facile soppiantare un amante che un marito.
Aveva già avuto il piacere d'incontrarla: al Palais, e le disse persino la data. La signora parve sbalordita da tanta memoria. Deslauriers, con tono mieloso, aggiunse:
«Lei doveva aver già, allora, qualche... qualche noia d'affari.»
Non gli rispose: era vero, dunque.
Si mise a parlare di questo e di quello, dei suo appartamento, della fabbrica; poi, vedendo alcuni piccoli ritratti infilati tra lo specchio e la cornice:
«Ritratti di famiglia, immagino.»
Lo colpì quello d'una vecchia signora: la madre di Madame Arnoux.
«Sembra proprio una persona eccellente, un tipo meridionale.»
E all'obiezione che invece era di Chartres:
«Ah, Chartres: una città veramente graziosa.»
Fece l'elogio della cattedrale, della pasticceria; quindi, tornando al ritratto, vi scoperse qualche somiglianza con la signora, lanciandole indirette lusinghe. La signora non accusò il colpo. Presa confidenza, le rivelò allora di conoscere Arnoux da molto tempo.
«Un bravo ragazzo: ma facile a compromettersi. Questa ipoteca, per esempio: è difficile immaginare che per trascuratezza...»
«Lo so, lo so,» disse la signora alzando le spalle.
Quell'involontaria testimonianza di disprezzo incoraggiò Deslauriers a proseguire.
«Lei forse non lo sa, ma quella storia del caolino è stata lì lì per prendere una bruttissima piega, e persino la sua reputazione...»
Un aggrottar di sopracciglia gli troncò la parola.
Allora, tornando sulle generali, compianse le povere donne alle quali i mariti mangian fuori il patrimonio.
«Ma è tutto suo, signore: io non possiedo niente.»
Non aveva importanza; non si poteva mai sapere... Una persona esperta poteva comunque esserle utile. Si disse a sua completa disposizione, esaltò i propri meriti; e attraverso le lenti degli occhiali, che mandavano lampi, la guardava fisso nel viso.
Una specie di vaga sonnolenza s'impadroniva di lei; ma, riscuotendosi:
«Parliamo del nostro affare, la prego.»
Deslauriers tirò fuori il fascicolo.
«Ecco la procura di Federico. Con un titolo simile la cosa è semplicissima: basta metterlo in mano all'ufficiale giudiziario per il precetto, e in meno di ventiquattr'ore...» La signora restava impassibile, l'avvocato pensò di cambiar tattica. «Del resto, io francamente non capisco perché si sia deciso proprio adesso a pretendere la somma: dopo tutto non ne ha nessun bisogno!»
«Ma come, il signor Moreau è stato anche troppo buono...»
«Oh, quanto a questo d'accordo!»,
E Deslauriers si diede a tesserne l'elogio per poi, piano piano, giungere a denigrarlo dipingendola come uomo leggero, avaro, egoista.
«La credevo suo amico, signore.»
«Questo non m'impedisce di vederne i difetti. Per esempio, egli dà troppo poco peso alla... come dire? alla simpatia...»
Madame Arnoux, che stava sfogliando il voluminoso incartamento, l'interruppe per chiedergli conto d'una parola.
Si chinò sulla spalla di lei, e così da presso da sfiorarle la guancia. La signora arrossì, e il suo rossore infiammò l'avvocato che si diede a baciarle voracemente la mano.
«Signore, che sta facendo?»
E in piedi, tenendosi alla parete, l'inchiodava dov'era con lo sguardo buio, irritato dei suoi grandi occhi.
«La prego, m'ascolti: io l'amo.»
La signora ruppe di colpo in un riso - un riso acuto, mortificante, atroce. Deslauriers sentì montare una collera che lo strangolava. Si controllò; e col fare d'un vinto che implora grazia:
«Ah! lei ha torto, signora. Io non farei come lui...»
«Ma di chi sta parlando?»
«Di Federico.»
«Davvero? Le ho già detto che non mi do molto pensiero del signor Moreau.»
«Oh! chiedo scusa.»
E con voce mordente, adesso, e una lentezza che sottolineava ogni frase:
«M'ero messo in mente, si figuri! che lei avesse nei suoi confronti abbastanza interesse per apprendere con piacere...»
Diventò pallidissima. L'ex scrivano continuò:,
«... che sta per sposarsi.»
«Lui!»
«Fra un mese, non di più, con la signorina Roque, figlia dell'amministratore di Dambreuse. Anzi, è andato a Nogent proprio per questa ragione.»
Si portò una mano al cuore come per la violenza d'un colpo; ma intanto aveva afferrato il cordone del campanello. Deslauriers non aspettò d'esser messo alla porta. Quando la signora si voltò, era già scomparso.
Le sembrava di soffocare. Per avere un po' d'aria s'avvicinò alla finestra.
Dall'altra parte della strada, sul marciapiede, un imballatore in maniche di camicia stava inchiodando una cassa. Passavano dei fiacres. Richiuse i vetri, tornò a sedersi. Le case alte di fronte intercettavano il sole: una luce fredda riempiva la stanza. I bambini erano usciti, intorno a lei niente si muoveva. Era come una immensa diserzione.
«Sta per sposarsi... Non è possibile!»
Un tremito nervoso la colse.
«Ma perché? Non sarà perché l'amo?»
Poi, d'un tratto:
«Ma sì, lo amo! lo amo!»
Era come scendere dentro qualcosa di profondo, qualcosa che non finiva più. Alla pendola suonarono le tre: rimase ad ascoltare le vibrazioni del martelletto che si spegnevano, seduta sull'orlo della poltrona, le pupille fisse, sempre con un sorriso.
Lo stesso pomeriggio, nello stesso momento, Federico e Luisa passeggiavano insieme nel giardino che Roque aveva comprato all'estremità dell'isola. Da lontano la vecchia Caterina li teneva d'occhio; camminavano fianco a fianco, e Federico stava dicendo:
«Si ricorda quando la portavo con me in campagna?»
«Com'era buono con me!» rispose. «Mi aiutava a fare i budini con la sabbia, a riempire l'annaffiatoio, a andare sull'altalena...»
«E di tutte quelle bambole, quelle che avevano nomi di marchese o di regine, che ne sarà mai stato?»
«In fede mia non lo so.»
«E il suo cagnetto Moricaud?»
«E annegato, povera stella.»
«E quel Don Chisciotte di cui coloravamo insieme le figure?» «Ce l'ho ancora!»
Le ricordò il giorno della sua prima comunione, e com'era carina ai vespri con il suo velo bianco e la grande candela, quando sfilavan tutte intorno al coro e la campana rintoccava.
Quei ricordi non dovevano avere molto fascino per la signorina Roque; non trovò niente da rispondere, e un momento dopo:
«Che cattivo a non darmi mai, mai sue notizie...»
Federico addusse i suoi molti impegni.
«Ma che cosa fa, infine?»
Dopo un attimo d'imbarazzo rispose che s'occupava di studi di politica.
«Ah!»
E senza chiedere altro:
«Lei ha qualcosa da fare, almeno, ma io!»
E gli disse com'era arida la sua vita: nessuno da vedere, non il minimo piacere, il minimo svago. Le sarebbe piaciuto andare a cavallo.
«Il vicario sostiene che è poco conveniente per una fanciulla. Che cosa stupida le convenienze! Una volta mi lasciavan fare tutto quello che volevo: adesso, più niente...»
«Suo padre le vuol bene, però.»
«Si, ma...»
E si lasciò sfuggire un sospiro come per dire: «Non basta per esser felici.»
Poi un silenzio; non c'era altro rumore da sentire che lo scricchiolar della sabbia sotto i piedi e il fruscio della cascata. La Senna, a monte di Nogent, si divide in due rami: e quello che fa girare i mulini dà sfogo qui alla sovrabbondanza delle sue acque per raggiungere, più giù, il corso naturale del fiume. Venendo dai ponti si vede sull'altra riva, a destra, un pendio erboso dominato da una casa bianca. A sinistra si stendono i pioppeti della prateria, di fronte l'orizzonte è segnato da un'ampia curva del fiume. L'acqua era piatta, ferma come uno specchio; sopra scivolavano grandi insetti. Sui bordi crescono, ineguali, ciuffi di canne e di giunchi; piante d'ogni genere trascinate là dal vento schiudevano i loro bottoni d'oro, pendevano in grappoli gialli, drizzavano fusi di fiori amaranto, formavano avventurosi zampilli di verde. In un'ansa della riva galleggiavano le ninfee; e il giardino, da questo lato dell'isola, aveva per tutta difesa un filare di vecchi salici, in mezzo ai quali erano nascoste le trappole per i lupi.
Di qua, all'interno, quattro muri e una tettoia d'ardesia proteggevano l'orto, dove la terra lavorata di fresco formava dei quadrati più scuri. I meloni tondi luccicavano in fila, strette sui loro solchi; poi s'alternavano carciofi, fagioli, spinaci, carote e pomodori sino a raggiungere una distesa di asparagi che sembrava un piccolo bosco di penne.
Tutto il terreno era stato, ai tempi del Direttorio, quel che chiamavano allora un «sito di delizia». Poi gli alberi erano cresciuto a dismisura; la clematide aveva invaso i viali di carpini, i sentieri erano coperti di muschio, dappertutto proliferavano le spine. Il gesso delle statue cadute si sbriciolava nell'erba; camminando si rischiava sempre d'inciampare in qualche avanzo di fil di ferro. Del padiglione non restavano che due stanze a pianterreno, con una tappezzeria azzurra a brandelli. Lungo la facciata si stendeva un pergolato all'italiana: su pilastrini in cotto un graticcio di legno sosteneva la vite.
Tutt'e due erano entrati là sotto, e siccome la luce filtrava ineguale fra il verde, Federico, che parlava a Luisa standole di fianco, osservava sul suo viso l'ombra delle foglie.
S'era messa tra i capelli rossi, nello chignon, una spilla che finiva in un pezzo di vetro levigato, imitazione d'uno smeraldo; e a dispetto del lutto portava (tanto il suo cattivo gusto era ingenuo) delle ciabattine di paglia guarnite di raso rosa, non meno bizzarre che volgari, comprate di sicuro a qualche fiera.
Federico, che l'aveva osservato, le fece ironicamente un complimento.
«Non si burli di me!» lo supplicò in risposta.
Poi, contemplandolo da capo a piedi, dal feltro grigio alle calze di seta:
«Com'è carino!»
Poco dopo, l'aveva pregato di consigliarle qualche libro. Federico ne nominò parecchi; e Luisa disse:
«Com'è istruito!»
S'era presa per lui, ancora bambina, d'uno di quegli amori infantili che hanno insieme la purezza d'una religione e la violenza di un bisogno. Federico era stato il suo compagno, il suo fratello, il suo maestro, aveva dilettato il suo spirito, fatto battere il suo cuore e versato sin nel profondo di lei, senza volerlo, un'ebbrezza latente e inestinguibile. Quando l'aveva lasciata, con sua madre appena morta, era stata una grande crisi tragica in cui le due disperazioni s'eran confuse insieme. Assente, l'aveva idealizzato nel ricordo; tornava a lei, adesso, con una specie d'aureola, e Luisa s'abbandonava ingenuamente alla felicità di vederlo.
Federico sentiva, per la prima volta nella sua vita, essere amato; era un piacere nuovo, che non oltrepassava l'ambito dei sentimenti gradevoli e gli dava una sorta di pienezza interiore; spalancate le braccia, rovesciò indietro la testa.
Una grossa nuvola stava attraversando il cielo.
«Va verso Parigi,» disse Luisa. «Le piacerebbe seguirla, eh?»
«Io! e perché mai?»
«Chissà.»
E scrutandolo con uno sguardo acuto:
«Forse ha lasciato laggiù qualche...» cercava la parola, «qualche affetto.»
«Eh no, nessun affetto.»
«È proprio sicuro?»
«Ma sì, madamigella, sicurissimo.»
In meno d'un anno, c'era stata nella fanciulla una trasformazione straordinaria; Federico ne era sbalordito. Dopo un minuto di silenzio fu lui a riprendere:
«Dovremmo darci del tu come una volta: vuole?»
«No.»
«Perché?»
«Perché no.»
Federico insisteva. Chinando la testa gli rispose:
«Non ho il coraggio...»
Erano arrivati in fondo al giardino, sul greto del Livon. Federico, per gioco, si mise a far saltare i ciottoli sull'acqua. Luisa gli ordinò di sedersi; e quand'ebbe obbedito, guardando la cascata:
«Sembra il Niagara!»
Le parlò, allora, di paesi lontani, di grandi viaggi. L'idea di poterne fare la incantava. Non avrebbe avuto paura di niente, neanche delle tempeste, neanche dei leoni.
Seduti uno vicino all'altra prendevano delle manciate di sabbia che poi, parlando, lasciavano scivolare dalle mani; gli sbuffi di vento caldo che arrivavano dalla pianura portavano fino a loro effluvi di lavanda insieme al profumo di catrame che saliva da una barca dietro la chiusa. Il sole colpiva in pieno la cascata; i blocchi verdastri del breve muro lungo il quale scorreva l'acqua trasparivano come da una garza d'argento infinitamente scorrente. Sotto sorgeva e risorgeva in cadenza una lunga striscia di schiuma. Poi ribollii, gorghi, mille inverse correnti ne nascevano, placandosi alla fine confusi in una sola limpida tela.
Luisa mormorò che invidiava l'esistenza dei pesci.
«Dev'essere ben dolce rotolarsi là dentro a proprio agio, sentirsi accarezzare tutti...»
E aveva dei fremiti, dei moti di sensuale dolcezza.
Ma una voce gridò:
«Dove sei?»,
«È la governante che chiama,» disse Federico
«Sento, sento.»
Luisa non accennava a muoversi.
«Finirà con l'arrabbiarsi,» disse ancora Federico.
«Che m'importa? e poi...»
E la signorina Roque fece capire, con un gesto, d'esser lei a tenerla in pugno.
S'alzò, tuttavia, e prese a lamentarsi d'un mal di testa. Poi,
mentre passavano davanti a un vasto capannone dov'erano ammucchiate le fascine:
«Se ci mettessimo là sotto, a tetto?»
Federico fece finta di non capire l'espressione dialettale, e la burlò un poco per il suo accento. A poco a poco le labbra della ragazza si strinsero, vi affondava i denti; si strappò dal suo fianco imbronciata.
Lui la raggiunse giurandole che non voleva farla arrabbiare, che le voleva molto bene.
«Davvero?» disse lei di soprassalto, e lo guardava con un sorriso che le rischiarava tutto il volto, sparso qua e là di efelidi.
Il giovane non seppe resistere a tanta audacia di sentimenti, alla fragranza di quella giovinezza e rispose:
«Perché dovrei mentirti? Dimmi... ci credi, non è vero?»
E col braccio sinistro la prese per la vita.
Un grido soave come un gemito di colomba le sorse nella gola; la sua testa s'arrovesciava, fu per svenire, dovette sostenerla. E i suoi scrupoli d'onestà furon superflui: davanti a quella vergine che s'offriva lo colse la paura. L'aiutò a fare qualche passo, dopo, piano piano. Aveva tralasciato qualsiasi carezza verbale, e per non dire che cose insignificanti le parlava di alcuni personaggi della società nogentese.
Tutt'a un tratto Luisa lo respinse e, con accento d'amarezza:
«Tu non avresti il coraggio di portarmi via.»
Federico restava immobile, con un'aria assolutamente stupefatta.
Lei scoppiò in singhiozzi e, nascondendosi il viso:
«Come se potessi vivere, io, senza di te...»
Cercò di calmarla: lei gli mise le mani sulle spalle per fissarlo più da presso e trapassandogli le pupille con le sue ch'erano verdi e d'un'umidità quasi feroce:
«Vuoi essere mio marito?»
«Ma...» rispose Federico cercando una risposta, «... certamente. Non domando di meglio.»
In quel momento da dietro una pianta di lillà fece capolino il berretto del signor Roque.
Gli fece fare un viaggetto d'un paio di giorni, per mostrare «al suo giovane amico» le proprietà che aveva nei dintorni. Tornando a casa di sua madre Federico vi trovò tre lettere.
La prima era un biglietto di Dambreuse con un invito a pranzo per martedì passato. A che proposito tanta gentilezza? Eran passati sopra, dunque, alla sua alzata d'ingegno?
La seconda era di Rosanette. Lo ringraziava d'aver rischiato la vita per lei; Federico, a tutta prima, non capiva cosa volesse dire; alla fine, dopo molte perifrasi, si implorava da lui - invocando la sua amicizia, fidando nella sua delicatezza, considerata l'urgente necessità e (così diceva) mettendosi in ginocchio proprio come si domanda un pezzo di pane - un piccolo aiuto di cinquecento franchi. Decise subito di mandarli.
La terza lettera veniva da Deslauriers, parlava della surrogazione ed era tanto lunga quanto oscura. L'avvocato non aveva ancora preso partito. L'esortava a non muoversi: «È inutile che tu torni!» insistendo su quel punto, anzi, in modo alquanto bizzarro.
A Federico, dopo essersi perso in ogni sorta di congetture, venne voglia di tornare; quella pretesa di governar le sue azioni lo indisponeva.
La nostalgia del boulevard, d'altra parte, cominciava a riprenderlo; e poi le pressioni di sua madre erano tali, il vecchio Roque gli girava intorno così bene e Luisa l'amava con tanto entusiasmo, che non poteva restare molto a lungo, ancora, senza doversi dichiarare. Aveva bisogno di riflettere, da lontano avrebbe giudicato le cose con maggior chiarezza.
Per spiegare il suo viaggio aveva inventato una storia. E partendo Federico disse a tutti, credendoci lui stesso, che sarebbe tornato presto.
Arrivando a Parigi Federico non provò alcun piacere; era una sera della fine d'agosto, il boulevard sembrava deserto, i passanti che incrociava avevano facce accigliate; qua e là fumigava un calderone di asfalto. In molti edifici le persiane erano tutte chiuse. A casa la polvere copriva i parati; cenando da solo, Federico fu colto da uno strano senso d'abbandono. Pensò, allora, alla signorina Roque.
L'idea di sposarsi non gli sembrava più così folle. Avrebbero viaggiato, sarebbero andati in Italia, in Oriente... E vedeva Luisa in piedi su un'altura in contemplazione del paesaggio, oppure al suo braccio, in una galleria di Firenze, sostare ad ogni quadro. Che gioia sarebbe stato vedere quella buona, piccola creatura nell'atto di schiudersi agli splendori della Natura e dell'Arte! Una volta strappata al suo ambiente sarebbe diventata in breve tempo una compagna deliziosa. E poi, il patrimonio di Roque lo stuzzicava. Nello stesso tempo una decisione del genere gli riusciva ripugnante come se costituisse una debolezza, uno svilirsi.
Comunque era ben deciso, in un modo e nell'altro, a cambiar vita, cioè a non buttare più il suo cuore in passioni infruttuose, tanto che esitava persino a fare la commissione di cui Luisa l'aveva incaricato. Si trattava di comperarle da Jacques Arnoux due grandi statuette policrome, dei negri simili a quelli che c'erano nella prefettura di Troyes. Luisa conosceva il marchio del fabbricante e voleva proprio quello. Federico aveva paura, tornando «da loro», di cadere una volta di più nel suo antico amore.
Fu occupato da tali riflessioni per tutta la sera; e stava per andare a letto quando arrivò una donna.
«Sono io,» disse ridendo la signorina Vatnaz. «Vengo da parte di Rosanette.»
S'erano riconciliate, allora?
«Mio Dio sì, sa bene che non sono cattiva, io. E poi quella poverina... Raccontarle tutto sarebbe troppo lungo.»
A farla breve, la Marescialla voleva vederlo, aspettava una risposta da lui, la sua lettera era stata rispedita da Parigi a Nogent; del resto la Vatnaz non sapeva cosa ci fosse scritto. Federico chiese, a questo punto, notizie della Marescialla.
«Stava», al presente, con un uomo molto ricco, un russo, il principe Tzernukoff, che l'aveva adocchiata l'estate prima al Campo di Marte.
«Tre carrozze, cavallo da sella, livrea, un groom come va di moda in Inghilterra, villa in campagna, palco agli ‹Italiens›, e una quantità di cose ancora. Capito, mio caro?»
E la Vatnaz sembrava più allegra, felice come una pasqua, sembrava che ci avesse guadagnato anche lei da quel mutamento di fortuna. Si sfilò i guanti e si mise a osservare i mobili e i soprammobili della stanza. Imbroccava tutti i prezzi giusti come un rigattiere. Avrebbe dovuto consultarla, li avrebbe pagati meno; e si complimentava con lui per il suo buon gusto:
«Che grazioso, benissimo, molto bene davvero. Lei è proprio straordinario per queste trovate!»
Poi, vedendo che nell'alcova, accanto al capezzale, c'era una porta:
«E di là facciamo andar via le donnine, eh?»
Con un gesto amichevole l'aveva preso per il mento. Federico fece un salto al contatto di quelle lunghe mani, ossute e tenere insieme. Ai polsi aveva un orlo di pizzo, lungo il corsetto della sua veste verde c'erano degli alamari sul tipo di quelli degli ussari. Il cappello nero di tulle, con le tese spioventi, nascondeva un poco la fronte; gli occhi, sotto, scintillavano; un profumo aromatico saliva dai suoi capelli divisi. La lampada Carcel di Federico, ch'era posata su un tavolino, la rischiarava dal basso come una luce di ribalta mettendole in risalto la mascella; e all'improvviso, davanti a quella donna brutta i cui fianchi avevano guizzi da pantera, il giovane fu colto da una brama spropositata, da un desiderio di voluttà bestiali.
Con voce mielosa, cavando fuori dal borsino tre rettangoli di carta, gli disse:
«Questi me li deve prendere!»
Erano tre posti per una rappresentazione in onore di Delmar.
«Come, ancora lui?»
«Si capisce.»
Senz'altre spiegazioni, aggiunse che l'adorava più che mai. A sentir lei l'attore si situava ormai in modo definitivo fra le «glorie del secolo». E non è che rappresentasse questo o quel personaggio; no, il genio stesso della Francia, il Popolo, era il soggetto della sua incarnazione! Aveva «l'anima umanitaria», lui; comprendeva «il sacerdozio dell'Arte». Per stornare quel torrente di elogi Federico le diede il denaro dei posti.
«Inutile farne parola, là. Santo cielo, come s'è fatto tardi!
Devo proprio lasciarla. Ah, dimenticavo l'indirizzo: rue Grange-Batelière 14.»
E, già sulla porta:
«Arrivederci, uomo al quale si vuol bene!»
«E chi sarebbe a volermi bene?» si domandò Federico. «Che strano tipo!» E gli venne in mente che Dussardier un giorno, parlando di lei, aveva detto: «Non è certo gran che», come se alludesse a qualche storia poco pulita.
Il giorno dopo era dalla Marescialla. Stava in una casa nuova, con le tapparelle sporgenti sulla strada. A ogni pianerottolo c'era uno specchio a muro, una giardiniera in stile rustico davanti alle finestre; sui gradini era stesa una passatoia di tela. Arrivando da fuori, la frescura delle scale era un sollievo, Ad aprirgli fu un domestico, un valletto in giubba rossa. Nell'anticamera una donna e due uomini, certo dei fornitori, aspettavano seduti su una panca come nel vestibolo d'un ministero. A sinistra, attraverso la porta socchiusa della sala da pranzo si vedevano alcune bottiglie vuote sulle credenze, i tovaglioli posati sugli schienali delle sedie; nella galleria che s'apriva di fianco, sostegni di legno dorato reggevano una spalliera di rose. Giù in cortile due garzoni con le braccia nude lustravano un landò; e le loro voci salivano dal basso insieme al rumore d'una striglia battuta a intervalli contro una pietra.
Il domestico tornò per annunciargli che la signora «avrebbe ricevuto subito il signore»; e lo fece passare per una seconda anticamera, poi per una grande sala tappezzata di finto broccato giallo, con grosse frange a cordone che partendo dagli angoli si riunivano sul soffitto e davan l'impressione di continuare nei bracci del lampadario, scolpiti in forma di gomene. La notte prima dovevano aver fatto baldoria; cenere di sigari era sparsa qua e là sulle consoles.
Fu introdotto, alla fine, in una specie di boudoir che riceveva una luce confusa dai vetri colorati delle finestre. Le sovraporte erano di legno intagliato; tre grandi cuscini purpurei appoggiati contro una balaustra facevan da divano e, insieme, da sostegno per il lungo cannello d'un narghilè di platino. Sul caminetto, al posto dello specchio, una scaffalatura a forma piramidale offriva ad ogni ripiano una vera e propria collezione di oggetti curiosi: vecchi orologi d'argento, calici di Boemia, fermagli preziosi, bottoni di giada, smalti, statuine grottesche, una piccola vergine bizantina col manto di vermeil; e tutto, nel crepuscolo dorato, si fondeva col bluastro del tappeto, coi riflessi di madreperla degli sgabelli, col fulvo delle pareti rivestite di cuoio. Dagli angoli, dentro vasi di bronzo sorretti da piedistalli, grandi fasci di fiori appesantivano l'aria.
Apparve Rosanette in pantaloni bianchi di cachemire, veste di seta rosa, collana di piastre e zucchetto rosso ornato in giro da un tralcio di gelsomino.
Federico ebbe un moto di sorpresa; poi le disse che aveva «quella tal cosa», e le porse il biglietto di banca.
Lei lo fissava sinceramente sbalordita; e dato che aveva il biglietto in mano, e non sapeva dove metterlo, Federico disse:
«Coraggio, lo prenda.»
Lo prese, lo gettò sul divano e:
«Lei è proprio gentile, sa?»
Era per un terreno a Bellevue, che stava pagando un tanto all'anno. Tanta disinvoltura offese Federico. Ma in fondo, meglio così: lo vendicava del passato.
«Si sieda. No, qui, più vicino.»
E assumendo un tono grave:
«Prima di tutto, mio caro, devo ringraziarla per aver rischiato la vita.»
«Ma non è niente.»
«Come! io lo trovo talmente bello!»
La gratitudine della Marescialla lo metteva in imbarazzo. In realtà Rosanette doveva pensare che si fosse battuto esclusivamente per Arnoux, il quale, convinto com'era della cosa, non aveva certo resistito al bisogno di dirglielo.
«Forse si sta prendendo gioco di me,» pensava Federico.
Gli sembrava d'aver finito, e adducendo un impegno s'alzò per andare.
«No! rimanga: la prego...»
Sedutosi di nuovo le fece un complimento per com'era vestita. E lei, con un'aria afflitta:
«È il principe, sa: gli piaccio così combinata! E poi bisogna fumare questi arnesi, guardi!» e gli indicava il narghilè. «Se lo provassimo, eh? cosa ne dice?»
Fu portato il fuoco; il fornello stentava a accendersi e la Marescialla, dall'impazienza, si mise a pestare i piedi. Poi cadde in una sorta di languore: stava immobile sul divano, un po' storta, con un ginocchio ripiegato e l'altra gamba distesa, stringendo un cuscino sotto le ascelle. Teneva contro le labbra il becco d'ambra del narghilè, lasciando che il lungo serpente di marocchino rosso le s'attorcigliasse intorno al braccio prima di ricadere in anelli sul pavimento; e intanto, con gli occhi socchiusi, guardava Federico attraverso le volute di fumo che l'avvolgevano. Aspirando profondamente, faceva gorgogliare l'acqua; e di tanto in tanto mormorava:
«Povera stella! povero tesoro!»
A Federico, che cercava un soggetto di conversazione simpatico, venne in mente la Vatnaz; e disse a Rosanette che gli era parsa molto elegante.
«Lo credo bene! Può dirsi fortunata d'avere me, quel bel tipo!»
E non aggiunse una parola di più, tanto stretto era il margine dei loro discorsi.
Tutt'e due avvertivano come una costrizione, un ostacolo. In effetti il duello aveva lusingato l'amor proprio di Rosanette, che credeva di esserne la causa. Stupitissima che non fosse corso da lei a farsi bello del suo gesto, aveva inventato per indurlo a tornare, l'urgenza dei famosi cinquecento franchi. E come mai, adesso Federico non le chiedeva in cambio un po' di tenerezza? Era un modo di fare raffinato che la colmava di meraviglia; e in uno slancio del cuore gli disse:
«Perché non viene con noi ai bagni di mare?»
«‹Noi› chi?»
«Ma noi, io e il mio merlo. Potrei farla passare per mio cugino, come nelle commedie d'una volta.»
«Grazie mille!»
«Be', allora può prendere un appartamento vicino al nostro.»
L'idea di doversi nascondere da un uomo ricco gli parve umiliante.
«No, non è proprio possibile.»
«Faccia come vuole.»
E Rosanette gli voltò le spalle, con qualche lacrima negli occhi. Federico se ne accorse, e per dimostrarle un po' d'interesse le disse ch'era felice di vederla, finalmente, così ben sistemata.
La ragazza alzò le spalle. Cos'era, dunque, che le dava pena? Non sarà stato, per caso, che non le volevano bene?
«A me, mi voglion bene sempre!»
Ma aveva aggiunto:
«Resta a vedere in che modo.»
Lamentandosi che «scoppiava dal caldo» si sbarazzò della veste; non aveva, intorno alle reni, che una camiciola di seta, e inclinava la testa sulla spalla in un atteggiamento di schiava, colmo di provocanti lusinghe.
Un uomo di men pensoso egoismo non sarebbe stato a riflettere sulla circostanza che il visconte, o il signor di Comaing, o altri ancora potevano sopraggiungere. Ma Federico aveva fatto troppe volte la parte dello zimbello ai loro stessi occhi per correre il rischio d'una nuova umiliazione.
La Marescialla volle sapere chi frequentava, con chi si divertiva; arrivò persino a informarsi dei suoi affari, a offrirgli, se ne avesse avuto bisogno, del denaro in prestito. Federico, non potendone più, prese il cappello.
«Benissimo, mia cara. Se la passi bene al mare. Arrivederci!»
Le si spalancarono gli occhi; poi, seccamente:
«Arrivederci.»
Passò un'altra volta per la sala gialla, per la seconda anticamera. Sul tavolo, fra un vaso pieno di biglietti da visita e un completo da scrittoio, c'era un cofanetto d'argento cesellato. Era quello di Madame Arnoux. Si sentì intenerire; e provava, insieme, un senso di scandalo, quasi di profanazione. Gli veniva voglia di toccarlo, d'aprirlo. Ma ebbe paura che lo vedessero, e se ne andò.
Federico si comportò da virtuoso: non tornò dagli Arnoux.
A comprare i due negri mandò il suo domestico, dopo avergli fatto tutte le raccomandazioni del caso; e la sera stessa la cassa fu spedita a Nogent. Il giorno dopo stava andando da Deslauriers quando all'angolo fra rue Vivienne e il boulevard, proprio di fronte, faccia a faccia, gli apparve Madame Arnoux.
La prima reazione fu per entrambi quella d'indietreggiare; poi un uguale sorriso salì alle loro labbra, e si fecero vicini. Per un minuto nessuno dei due disse parola.
Era avvolta dal sole; e il suo viso ovale, le lunghe sopracciglia, lo scialle nero di trina che modellava la forma delle spalle, il vestito di seta cangiante, il bouquet di violette puntato al cappellino: tutto parve a Federico di un incredibile splendore. Infinita era la soavità che scendeva dagli occhi radiosi di lei; e balbettando a caso le prime parole che gli vennero:
«Arnoux sta bene?» le disse.
«La ringrazio!»
«E i bambini?»
«Benissimo.»
«Ah! E... che bel tempo, vero?»
«Veramente magnifico.»
«È in giro per commissioni?»
«Sì.»
E inclinando lentamente la testa:
«Addio.»
Non gli aveva teso la mano, non aveva avuto per lui una sola parola affettuosa, non gli aveva detto nemmeno d'andare a trovarla; eppure non avrebbe dato quell'incontro in cambio della più bella avventura; e continuava, ripresa la sua strada, a gustarne la dolcezza.
Deslauriers fu sorpreso di vederlo, e fece di tutto per dissimulare il suo dispetto: verso Madame Arnoux serbava ancora, per ostinazione, qualche speranza, e aveva scritto a Federico di restarsene laggiù per essere più libero nelle sue, manovre.
Lo informò che era andato a casa sua per sapere se ci fosse, tra i coniugi, comunione di beni: nel qual caso sarebbe stato possibile rivalersi sulla signora; e lei aveva fatto «una certa faccia» sentendo da lui, Deslauriers, del matrimonio di Federico.
«Ma guarda! Cosa ti è venuto in mente?»
«Dovevo, per farle capire che hai bisogno di recuperare i tuoi fondi. Certo, se tu le fossi indifferente non l'avrebbe presa quella specie di sincope.»
«Davvero?» esclamò Federico.
«Ah! ecco che ti tradisci, bello mio. Su, andiamo, cerca d'esser sincero!»
Una vigliaccheria immensa s'impadronì dell'innamorato.
«Ma no, t'assicuro... ti do la mia parola d'onore...»
Quei molli dinieghi finirono di convincere Deslauriers. Gli fece dei complimenti; gli chiese qualche «particolare». Federico si guardò bene dal darne, resistendo persino alla voglia d'inventarli.
Quanto all'ipoteca gli disse di non farne niente, dì aspettare. Deslauriers gli dava torto, e fu addirittura brutale nelle sue rimostranze.
Era, d'altronde, più nero, malevolo e irascibile che mai. Se la fortuna, entro un anno, non fosse cambiata, si sarebbe imbarcato per l'America, o si sarebbe fatto saltare le cervella. Appariva, insomma, così furioso contro tutto, e d'un radicalismo così assoluto, che Federico non si trattenne dal dirgli:
«Sei diventato proprio come Sénécal.»
Deslauriers gli raccontò, a questo proposito, che l'ex ripetitore era stato rilasciato da Sainte-Pélagie, evidentemente perché l'istruttoria non aveva fornito prove sufficienti per il rinvio a giudizio.
Nell'euforia di quella liberazione Dussardier decise di offrire «un bicchiere di punch» e pregò Federico di voler «essere dei loro», avvertendolo però che si sarebbe incontrato con Hussonnet, dimostratosi «molto a posto» nei confronti di Sénécal.
Le Flambard, in effetti, aveva aperto da poco anche una sezione commerciale, i cui dépliants recavano: «Agenzia dei produttori di vino. Ufficio Pubblicità. Recupero crediti. Informazioni» ecc. ecc. Sennonché lo scrittorello, temendo che un'attività del genere recasse pregiudizio alla sua reputazione letteraria, aveva preso il matematico per tenergli la contabilità. Il posto era mediocre, ma se non l'avesse avuto Sénécal sarebbe morto di fame. Federico, che non voleva rattristare il buon commesso, accettò l'invito.
Tre giorni prima Dussardier aveva dato personalmente la cera alle mattonelle rosse della sua soffitta, battuto la fodera della poltrona e spolverato il piano del caminetto che reggeva, fra una stalattite e una noce di cocco, una pendola d'alabastro protetta da una campana dì vetro. Dato che i due candelabri e la bugia di cui disponeva non bastavano, s'era fatto prestare altre due candele dal portinaio; e tutt'e cinque ardevano come ceri votivi sul cassettone, coperto da tre salviette per offrire un più decente sostegno alle paste di mandorle, ai biscotti, a una torta e a una dozzina di bottiglie di birra. Di fronte, contro la parete tappezzata di carta gialla, una piccola biblioteca in mogano conteneva le Favole di Lachambeaudie, i Misteri di Parigi, il Napoleone di Norvins; e nel centro dell'alcova, da una cornice di palissandro, sorrideva la faccia di Béranger.
Oltre a Deslauriers e a Sénécal, gli invitati erano un farmacista appena diplomato, al quale facevan difetto i denari per impiantarsi, un ragazzo della «ditta», un rappresentante di vini, un architetto e un signore che lavorava nelle assicurazioni. Regimbart non era riuscito a venire; lo si apprese con rammarico.
Tutti accolsero Federico con grandi segni di simpatia: erano al corrente, tramite Dussardier, del linguaggio da lui tenuto in casa Dambreuse. Sénécal si limitò a tendergli dignitosamente la mano.
Era in piedi, la schiena appoggiata al camino. Gli altri stavan seduti, con la pipa in bocca, e l'ascoltavano dissertare sul suffragio universale, dal quale sarebbe certamente risultato il trionfo della Democrazia e l'applicazione dei principi evangelici. Il momento, del resto, era vicino; i banchetti «per la riforma» si moltiplicavano in provincia; il Piemonte, Napoli e la Toscana...
«È vero,» disse Deslauriers troncandogli netto la parola. «Così non si può andare avanti.»
E si mise a fare un quadro della situazione.
Si era sacrificata l'Olanda per ottenere dall'Inghilterra il riconoscimento di Luigi Filippo; e adesso, questa famosa alleanza inglese era andata a farsi benedire, per via dei matrimoni spagnoli! In Svizzera, Guizot difendeva, al rimorchio dell'Austria, i trattati del 1815. La Prussia, col suo Zollverein, si preparava a dare dei fastidi. La questione d'Oriente era sempre in sospeso.
«Che il granduca Costantino mandi regali al duca d'Aumale, non è una buona ragione per fidarsi della Russia. Quanto all'interno, non s'è mai visto tanto accecamento, tanta stupidità. Anche la maggioranza, ormai, non sta più insieme. Insomma, da tutte le parti non c'è, come si suol dire, un bel niente: niente, niente, tre volte niente! E davanti a tante vergogne,» proseguì l'avvocato mettendosi i pugni sui fianchi, «hanno il coraggio di dichiararsi soddisfatti.»
Questa allusione a un famoso voto di fiducia suscitò degli applausi. Dussardier stappò una bottiglia di birra, la schiuma schizzò sulle tendine, lui non ci fece caso; caricava le pipe, tagliava la torta, l'offriva, era sceso più d'una volta per vedere se si decidevano a portare il punch; e dato che tutti covavano, nei confronti del Potere, la stessa esasperazione, non tardarono a esaltarsi. Era un'esasperazione violenta, e aveva come unica causa l'odio per l'ingiustizia. Alle accuse legittime si mescolavano i rimproveri più assurdi.
Il farmacista lamentò lo stato pietoso della nostra flotta. L'assicuratore non tollerava le due sentinelle sulla porta del maresciallo Soult. Deslauriers denunciava i gesuiti, che da poco s'erano installati pubblicamente a Lille. Sénécal aveva un odio ancor più profondo verso Cousin, per via che l'eclettismo, insegnando a trarre la certezza dalla ragione, sviluppa l'egoismo e distrugge la solidarietà. Il rappresentante di vini, che non s'intendeva molto di questi argomenti, gli fece notare ad alta voce che dimenticava molte altre infamie:
«Il vagone reale della linea nord costerà almeno ottantamila franchi; e chi li paga?»
«Già, chi li paga?» gli fece eco l'impiegato, furioso come se avessero tolto quel denaro dalla sua tasca.
Seguirono recriminazioni contro le avide linci della Borsa e la corruzione della burocrazia. Secondo Sénécal bisognava mirare più in alto, cominciare col metter sotto accusa i principi che riesumavano i costumi della Reggenza.
«Non avete visto, ultimamente, cos'hanno fatto gli amici del duca di Montpensier? Tornando da Vincennes, certamente ubriachi, sono andati a provocare con le loro canzoni gli operai del faubourg Saint-Antoine...»
«Gli han persino gridato dietro ‹abbasso i ladri›,» disse il farmacista. «C'ero anch'io, e anch'io ho gridato.»
«Tanto meglio: il popolo si sveglia, finalmente, dopo il processo a Teste e a Cubières.»
«A me quel processo ha fatto pena,» disse Dussardier. «In fondo, è stato l'onore d'un vecchio soldato a andarci di mezzo...»
«Sapete,» riprese Sénécal, «che in casa della duchessa di Praslin hanno scoperto...»
Ma la porta fu spalancata con un calcio, e comparve Hussonnet.
«Salve, miei signori,» disse accomodandosi sul letto.
Nessuno fece allusioni al suo articolo del quale, d'altronde, lui stesso era pentito, a seguito delle vigorose rampogne della Marescialla.
Era stato al teatro di Dumas a vedere Il Cavaliere della Maison-Rouge, e l'aveva trovato «orribilmente noioso».
Il giudizio sbalordì i democratici, le cui passioni eran state blandite dalle tendenze di quel dramma o meglio dalla sua messinscena. Avanzarono proteste. Sénécal, per tagliar corto, chiese se il lavoro servisse o no la Democrazia.
«Ma... forse; però il suo stile...»
«E allora va bene. Cosa credi che sia lo stile? è l'idea, nient'altro che l'idea.»
E, senza permettere a Federico d'interloquire:
«Come vi stavo dicendo, nel caso Praslin...»
Fu interrotto da Hussonnet.
«Oh, Dio, un'altra di quelle solfe! Mi sta proprio stufando.»
«E anche qualcun altro, insieme a te,» disse Deslauriers di rimando. «Ha fatto sequestrare niente meno che cinque giornali... Sentite un po' questa nota.»
E tirato fuori il suo taccuino, lesse:
«Dopo l'avvento della migliore fra le repubbliche abbiamo subìto milleduecentoventinove processi di stampa dai quali sono risultati per gli scrittori tremilacentoquarantunanni di prigione e la lieve somma di settemilionicentodiecimilacinquecento franchi d'ammenda. Carino, no?»
Tutti risero amaramente. Federico, pieno d'animazione al pari degli altri, aggiunse:
«La ‹Pacifica democrazia› è sotto processo per il suo romanzo d'appendice, che s'intitola La parte delle donne.»
«Cose da pazzi,» disse Hussonnet: «Proibirci la parte delle donne che ci spetta...»
«Ma che cos'è che non ci proibiscono?» l'interruppe gridando Deslauriers. «È proibito fumare al Lussemburgo, è proibito cantare l'inno a Pio IX...»
«E si vieta il banchetto dei tipografi,» disse una voce sorda.
Era la voce dell'architetto, nascosto dall'ombra dell'alcova e rimasto in silenzio fino a quel momento. Disse poi che la settimana prima, per oltraggio al re, era stato condannato un tale di nome Rombo.
«Rombo ai ferri,» disse Hussonnet.
La battuta di spirito parve così sconveniente a Sénécal, da indurlo a rimproverargli di difendere «il funambolo dell'amministrazione comunale, l'amico del traditore Dumouriez».
«Io? ma tutt'altro.»
Trovava, al contrario, che Luigi Filippo era terribilmente borghese, banale, guardia nazionale, quanto c'era di peggio nel genere droghiere e berretto da notte. E mettendosi una mano sul cuore l'artistoide si mise a recitare le frasi d'obbligo: «È con sempre nuovo piacere... la nazione polacca non può, non deve perire... la nostra grande impresa non sarà abbandonata... Un piccolo sussidio per la mia famigliola...» Tutti ridevano di gusto proclamandolo un tipo delizioso, spregiudicato e pieno di spirito, alla vista del cameriere che portava una caraffa di punch, l'allegria raddoppiò.
Le fiamme dell'alcool e quelle delle candele fecero presto a riscaldare l'ambiente. La luce della soffitta si proiettava, attraverso il cortile, sull'orlo del tetto ch'era di fronte, ritagliando la sagoma nera d'un comignolo contro il cielo notturno. Parlavano a voce molto alta; tutti in una volta; s'eran tolti la giacca, e girandosi urtavano nei mobili, facevan tintinnare i bicchieri.
Hussonnet s'era messo a declamare:
«Che siano introdotte al nostro cospetto le eccellentissime dame. Dev'esserci più colore locale, per mille diavoli; più Rembrandt, più Tour de Nesle!»
E il farmacista, che mescolava all'infinito il suo punch, intonò a squarciagola:
Due grandi bovi stan nella mia stalla,
due grandi bovi bianchi...
Sénécal gli tappò la bocca: non gli piaceva il disordine; i coinquilini, intanto, comparivano dietro i vetri, sorpresi da quell'insolito baccano nell'appartamento di Dussardier.
Il bravo ragazzo, raggiante, disse che gli venivano in mente le piccole riunioni d'una volta al quai Napoléon; certo, qualcuno mancava, Pellerin per esempio...
«Se ne può fare a meno,» disse Federico.
Deslauriers domandò anche notizie di Martinon.
«Cosa ne è di quel signore così interessante?»
Immediatamente Federico, sfogando il malanimo che nutriva nei suoi confronti, si mise a demolirne lo spirito, il carattere, la finta eleganza, la personalità intiera. Era proprio un magnifico esempio di villan rifatto! La borghesia, questa nuova aristocrazia, non valeva davvero l'antica: la nobiltà.
Se ne dichiarava convinto, e i democratici gli davan ragione, come se avessero fatto parte dell'una e frequentato l'altra. Erano affascinati, entusiasti di Federico. Il farmacista lo paragonò persino al conte d'Alton-Shée, che pur essendo pari di Francia sosteneva la causa del popolo.
Venne l'ora d'andarsene. Si separarono con grandi strette di mano; Dussardier, per tenerezza, uscì ad accompagnare Federico e Deslauriers. Appena in strada l'avvocato, dopo aver riflettuto un attimo in silenzio:
«Ce l'hai dunque tanto con Pellerin?»
Federico non gli tenne nascosto il suo rancore.
Era un fatto, però, che il pittore aveva ritirato il famoso quadro dalla vetrina. Perché litigare per simili quisquilie? A che scopo farsi dei nemici?