<B>I</B>
Quando giunse di lontano il primo clamor confuso della ribellione, Don Filippo Cassàura aprì subitamente le palpebre che per solito gli pesavano su gli occhi, infiammate agli orli e arrovesciate come quelle de' piloti che navigano per mari ventosi. - Hai sentito? - chiese al Mazzagrogna che gli stava da presso. E il tremito della voce tradiva lo sbigottimento interiore. Rispose il maggiordomo, sorridendo: - Non abbiate paura, Eccellenza. Oggi è San Pietro. Cantano i mietitori. Il vecchio stette un poco in ascolto, poggiato sul gomito, con lo sguardo ai balconi. Le cortine ondeggiavano ai soffi caldi del libeccio. Le rondini a stormi passavano e ripassavano, rapide come frecce, nell'aria ardentissima. Tutti i tetti delle case sottostanti fiammeggiavano, quali rossastri, quali grigi. Oltre i tetti si distendeva la campagna immensa ed opulenta, quasi tutta d'oro in tempo di mietitura. Di nuovo chiese il vecchio: - Ma, Giovanni, hai sentito? Giungevano, infatti, clamori che non parevano di gioia. Il vento, rafforzandoli a intervalli e spegnendoli o mescendoli al suo fischio, li rendeva più singolari. - Non ci badate, Eccellenza - rispose il Mazzagrogna. - Gli orecchi v'ingannano. State quieto. Ed egli si levò per andare verso uno dei balconi. Era un uomo tarchiato, con le gambe in arco, con le mani enormi, coperte di peli sul dorso, bestiali. Aveva gli occhi un poco obliqui, biancastri come quelli degli albini, tutta la faccia sparsa di lentiggini, pochi capelli rossi su le tempie, e l'occipite occupato da certe escrescenze dure e scure in forma di castagne. Rimase in piedi alquanto, fra le due cortine che si gonfiavano come due vele, a investigare il piano sottoposto. Un alto polverìo levavasi dalla strada della Fara, come per passaggio di greggi numerose; e i folti nugoli, gonfiati dal vento, crescevano in forma di trombe. Di tratto in tratto, anche, i nugoli balenavano come se chiudessero gente armata. - Ebbene? - chiese Don Filippo, inquieto. - Nulla - rispose il Mazzagrogna; ma aveva le sopracciglia corrugate profondamente. Di nuovo, il soffio impetuoso portò un tumulto di grida lontane. Una cortina, sforzata dall'urto, si mise a sbattere e a garrire nell'aria come un gonfalone spiegato. Una porta si chiuse d'improvviso, con violenza e con fragore. I vetri ne tremarono. Le carte, accumulate sopra una tavola, si sparpagliarono per tutta la stanza. - Chiudi! Chiudi! - gridò il vecchio, con un moto di terrore. - Mio figlio dov'è? Egli ansava, sul letto, affogato dalla pinguedine, incapace di levarsi poiché aveva tutta la inferior parte del corpo impedita dalla paralisìa. Un continuo tremor paralitico gli agitava i muscoli del collo, i gomiti, le ginocchia. Le sue mani posavano sul lenzuolo, contorte e nodose come le radiche dei vecchi olivi. Un sudore abondante gli stillava dalla fronte e dal cranio calvo, rigandogli la larga faccia che era d'un color roseo disfatto, sottilissimamente venato di vermiglio come la milza dei buoi. - Diavolo! - mormorò fra i denti il Mazzagrogna, mentre chiudeva le imposte a viva forza. - Fanno davvero? Ora si scorgeva su la strada della Fara, alle prime case, una moltitudine d'uomini agitata e ondeggiante, come un rigurgito di flutti, che dava indizio di un'altra maggior moltitudine non visibile, nascosta dalla linea dei tetti e dalle querci di San Pio. La legione ausiliaria delle campagne veniva dunque ad ingrossar la ribellione. A poco a poco la folla diminuiva, internandosi nelle vie del paese e scomparendo come un popolo di formiche nei labirinti d'un formicaio. Le grida, soffocate dalle mura o ripercosse, giungevano ora come un rombo continuo, indistinte. A volte mancavano; e allora si udiva il grande stormire degli elci dinanzi al palazzo che pareva più solo. - Mio figlio dov'è? - chiese di nuovo il vecchio, con una voce che lo sbigottimento rendeva più stridula. - Chiamalo! Lo voglio vedere. Tremava forte, sul letto, non soltanto perché egli era paralitico, ma perché aveva paura. Ai primi moti sediziosi del giorno innanzi, agli urli d'un centinaio di giovinastri venuti a schiamazzare sotto i balconi contro la più recente angheria del duca d'Ofena, egli era stato preso da una così pazza paura che aveva pianto come una femminetta ed aveva passata la notte invocando i santi del Paradiso. Il pensiero della morte o del pericolo dava un indicibile terrore a quel vecchio paralitico, già semispento, in cui gli ultimi guizzi della vita eran si dolorosi. Egli non voleva morire. - Luigi! Luigi! - si mise a gridare, nell'ambascia, chiamando il figliuolo. Tutto il palazzo era pieno dell'acuto tintinnìo de' vetri all'urto del vento. Di tratto in tratto si udiva il rimbombo d'un uscio sbattuto, o suono di passi precipitati e di voci brevi. - Luigi!
<B>II</B>
Il duca accorse. Egli era un poco pallido e concitato, se bene cercasse di dominarsi. Alto di statura e robusto, aveva la barba ancor tutta nera su le mascelle assai grosse; la bocca tumida e imperiosa, piena d'un soffio veemente; gli occhi torbidi e voraci; il naso grande, palpitante, sparso di rossore. - Ebbene? - chiese Don Filippo, ansando con tal rantolo che pareva dovesse soffocarlo. - Non temete, padre; ci sono io - rispose il duca, appressandosi al letto, cercando di sorridere. Il Mazzagrogna stava in piedi, dinanzi a uno dei balconi, guardando di fuori, intento. Non giungevano più grida; non si vedeva più alcuno. Il sole declinava dal cielo puro, simile a un cerchio roseo di fiamma, che più s'ingrandiva e più s'accendeva nel raggiungere le cime dei colli. Tutta la campagna pareva ardere; e pareva che il garbino fosse l'alito dell'incendio. Il primo quarto della luna saliva di tra le macchie di Lisci. Poggio Rivelli, Ricciano, Rocca di Forca, in lontananza, mandavano lampi dai vetri delle finestre e a tratti suono di campane. Qualche fuoco incominciava a brillare qua e là. Il calore toglieva il respiro. - Questo - disse il duca d'Ofena con quella sua voce rauca e dura - ci viene dagli Scioli. Ma... E fece un gran gesto di minaccia. Poi s'accostò al Mazzagrogna. Egli era inquieto per Carletto Grua che non si vedeva ancóra. Passeggiò in lungo e in largo nella stanza, con un passo pesante. Staccò da una panoplia due lunghe pistole d'arcione e le esaminò attentamente. Il padre seguiva ogni atto di lui con occhi dilatati; ansava come un giumento in agonia; di tratto in tratto scoteva con le mani deformi il lenzuolo, per aver refrigerio. Domandò due o tre volte al Mazzagrogna: - Che si vede? D'improvviso il Mazzagrogna esclamò: - Ecco Carletto che vien su correndo, con Gennaro. Si udirono, in fatti, colpi furiosi alla porta grande. Poco dopo, Carletto e il servo entrarono nella stanza, pallidi, sbigottiti, macchiati di sangue, coperti di polvere. Il duca, vedendo Carletto, gettò un grido. Lo prese fra le braccia, si mise a tastarlo in tutto il corpo per trovare la ferita. - Che t'hanno fatto? Di', che t'hanno fatto? Il giovine piangeva, come una donna. - Qui - disse fra i singhiozzi. Abbassò la testa e mostrò su la nuca alcune ciocche di capelli attaccate insieme dal sangue rappreso. Il duca mise le dita fra i capelli delicatamente, per iscoprir la ferita. Egli amava d'un tristo amore Carletto Grua; ed aveva per lui le cure d'un amante. - Ti fa dolore? - gli chiese. Il giovine singhiozzò più forte. Egli era esile come una fanciulla; aveva un volto femineo, a pena a pena ombrato d'una lanugine bionda; i capelli alquanto lunghi, bellissima la bocca, e la voce acuta come quella degli evirati. Era un orfano, figliuolo d'un confettiere di Benevento. Faceva da valletto al duca. - Ora verranno! - disse, con un tremito per tutta la persona, volgendo gli occhi pieni di lacrime al balcone d'onde ora di nuovo giungevano i clamori, più alti e più terribili. Il servo, che aveva una ferita profonda su la spalla destra e tutto il braccio intriso di sangue fino al gomito, raccontava balbettando come ambedue fossero stati rincorsi dalla folla inferocita; quando il Mazzagrogna, ch'era rimasto sempre a spiare, gridò: - Eccoli! Vengono al palazzo. Sono armati. Don Luigi, lasciando Carletto corse a vedere.
<B>III</B>
La moltitudine, in fatti, irrompeva su per l'ampia salita, urlando e scotendo nell'aria armi ed arnesi, con una tal furia concorde che non pareva un adunamento di singoli uomini ma la coerente massa d'una qualche cieca materia sospinta da una irresistibile forza. In pochi minuti fu sotto al palazzo, si allungò intorno come un gran serpente di molte spire, e chiuse in un denso cerchio tutto l'edifizio. Taluni dei ribelli portavano alti fasci di canne accesi, come fiaccole, che gittavano su i volti una luce mobile e rossastra, schizzavano faville e schegge ardenti, mettevano un crepitìo sonoro. Altri, in un gruppo compatto, sostenevano un'antenna, alla cui cima penzolava un cadavere umano. Minacciavano la morte coi gesti e con le voci. Tra le contumelie ripetevano un nome: - Cassàura! Cassàura! Il duca d'Ofena si morse le mani, quando riconobbe in cima all'antenna il corpo mutilato di Vincenzio Murro, del messo ch'egli aveva spedito nella notte a chieder soccorso di gente d'arme. Additò l'impiccato a Mazzagrogna, il quale disse a bassa voce: - E' finita! Ma l'udì Don Filippo, e cominciò a fare un lagno così accorante che tutti si sentirono stringere il cuore e mancare gli spiriti. I servi si accalcavano su le soglie, smorti in faccia, tenuti dalla viltà. Alcuni lacrimavano, altri invocavano un santo, altri pensavano al tradimento. - Se, consegnando il padrone al popolo, avessero potuto aver salva la vita? - Cinque o sei, meno pusillanimi, tenevano perciò consiglio e si eccitavano a vicenda. - Al balcone! Al balcone! - gridava il popolo, tempestando. - Al balcone! Ora il duca d'Ofena parlava sommesso col Mazzagrogna, in disparte. Volgendosi a Don Filippo, disse: - Mettetevi nella sedia, padre. Sarà meglio. Ci fu tra i servi un leggero mormorìo. Due si fecero innanzi per aiutare il paralitico a discendere dal letto. Altri due accostarono la sedia che scorreva su piccole ruote. L'operazione fu penosa. Il vecchio corpulento ansava e si lamentava forte, premendo con le braccia il collo dei servi che lo sostenevano. Egli era tutto grondante; e la stanza, essendo chiuse le imposte, era ormai piena dell'insoffribile odore. Com'egli fu nella sedia, i suoi piedi con un moto ritmico presero a percuotere il pavimento. Il gran ventre tremolava floscio su le ginocchia, simile a un otre mezzo vuoto. Allora il duca disse al Mazzagrogna: - Giovanni, a te! E quegli, con un gesto risoluto, aprì le imposte ed uscì sul balcone.
<B>IV</B>
Un urlo immenso l'accolse. Cinque, dieci, venti fasci di canne ardenti vennero lì sotto a radunarsi. Il chiarore illuminava i volti animati dalla bramosìa della strage, l'acciaro degli schioppi, i ferri delle scuri. I portatori di fiaccole avevano tutta la faccia cospersa di farina, per difendersi dalle faville; e tra quel bianco i loro occhi sanguigni brillavano singolarmente. Il fumo nero saliva nell'aria, disperdendosi rapido. Tutte le fiamme si allungavano da una banda, spinte dal vento, sibilanti, come capellature infernali. Le canne più sottili e più secche si accendevano, si torcevano, rosseggiavano, si spezzavano, scoppiettavano come razzi, in un attimo. Ed era una vista allegra. - Mazzagrogna! Mazzagrogna! A morte il ruffiano! A morte il guercio! - gridavano tutti, accalcandosi per iscagliar più da vicino l'insulto. Il Mazzagrogna stese una mano, come per sedare i clamori; raccolse tutta la potenza vocale; e incominciò col nome del Re, quasi promulgasse una legge, per incutere al popolo il rispetto. - In nome di S. M. Ferdinando II, per la grazia di Dio, Re delle Due Sicilie, di Gerusalemme... - A morte il ladro! Due, tre schioppettate risonarono fra le grida; e l'arringatore, colpito al petto e alla fronte, vacillò, agitò in alto le mani e cadde in avanti. Nel cadere, la testa entrò fra l'un ferro e l'altro della ringhiera e penzolò di fuori come una zucca. Il sangue gocciolava sul terreno sottostante. Il caso rallegrò il popolo. Lo schiamazzo saliva alle stelle. Allora i portatori dell'antenna con l'impiccato vennero sotto il balcone e accostarono Vincenzio Murro al maggiordomo. Mentre l'antenna oscillava nell'aria, il popolo stava intento al congiungimento dei due morti, quasi ammutolito. Un poeta improvviso, alludendo all'occhio albino del Mazzagrogna e a quello cisposo del messo, gittò a squarciagola un sospetto: - <I>Affàccet' a 'ssa fenestre, uòcchie fritte, Ca t'è mmenut' a ccandà 'lu scazzàte</I>. Un vasto scroscio di risa accolse lo scherno del poeta; e le risa si propagarono di bocca in bocca, come un tuono d'acque cadenti giù pe' sassi d'una china. Un poeta rivale gridò: - <I>Vide che ssòrt' ha da 'vè 'ssu cecàte</I>! <I>S'affranghe de chiude' l'uòcchie quando se mòre</I>. Le risa si rinnovellarono. Un terzo gridò: - <I>O faccia de cecòria mmàle còtte</I>! <I>Tenète lu chelòre de la morte</I>! Altri distici volarono al Mazzagrogna. Una gioia feroce aveva invaso gli animi. La vista e l'odore del sangue inebriavano i più vicini. Tommaso di Beffi e Rocco Furci vennero a contesa di destrezza nel colpire con una sassata il cranio penzoloni dell'ucciso ancor caldo. A ogni colpo il cranio si moveva e dava sangue. La pietra di Rocco Furci alla fine colpì nel mezzo, levando un suono secco. Gli spettatori applaudirono. Ma erano sazii omai del Mazzagrogna. Di nuovo sorse il grido: - Cassàura! Cassàura! Il duca! A morte! Fabrizio e Ferdinandino Scioli s'insinuavano tra la folla ed istigavano i facinorosi. Una terribile sassaiuola si levò contro le finestre del palazzo, fitta come una grandine, mista di schioppettate. I vetri cadevano addosso agli assalitori. Le pietre rimbalzavano. Rimasero feriti non pochi dei circostanti. Terminati i sassi, consumato il piombo, Ferdinandino Scioli gridò: - A terra le porte! E il grido, ripetuto da tante bocche, tolse al duca d'Ofena ogni speranza di salvezza.
<B>V</B>
Nessuno aveva osato di richiudere il balcone dov'era caduto il Mazzagrogna. Il cadavere giaceva in un'attitudine scomposta. Poiché i ribelli, per essere liberi, avevan lasciata l'antenna contro la ringhiera, anche il corpo sanguinoso del messo, a cui qualche membro era stato reciso con la scure, scorgevasi a traverso le cortine gonfiate dal vento. La sera era profonda. Le stelle riscintillavano senza fine. Qualche stoppia bruciava in lontananza. Udendo i colpi contro le porte, il duca d'Ofena volle ancóra tentare una prova. Don Filippo, istupidito dal terrore, teneva gli occhi chiusi; non parlava più. Carletto Grua, con la testa fasciata, si rannicchiava tutto in un angolo, battendo i denti nella febbre e nella paura, seguendo con i poveri occhi fuori dell'orbita ogni passo, ogni gesto, ogni moto del suo signore. I servi erano rifugiati quasi tutti nelle soffitte. Pochi rimanevano nelle stanze contigue. Don Luigi li radunò, li rianimò; li armò di pistole o di fucile; quindi a ciascuno assegnò un posto dietro il davanzale d'una finestra o tra le persiane d'un balcone. Ciascuno doveva tirare su la folla, con la maggior possibile celerita di colpi, in silenzio, senza esporsi. - Avanti! Il fuoco incominciò. Don Luigi sperava nel pànico. Egli stesso caricava e scaricava le sue lunghe pistole con un meraviglioso vigore, senza stancarsi. Come la moltitudine era densa, nessun colpo falliva. Le grida, che si levavano ad ogni scarica, eccitavano i servi e n'aumentavano l'ardore. Già lo scompiglio invadeva gli ammutinati. Molti fuggivano, lasciando a terra i feriti. Allora dal servidorame partì un urlo di vittoria: - Viva il duca d'Ofena! Quelli uomini vili ora s'inbaldanzivano, vedendo le spalle del nemico. Non rimanevano più nascosti, né più tiravano alla cieca, ma si erano alzati in piedi, fieramente, e cercavano di colpire nel segno. Ed ogni volta che vedevan cadere uno, gittavano l'urlo: - Viva il duca! In poco, il palazzo fu libero d'assedio. D'intorno i feriti si lamentavano. I residui delle canne, che ancóra ardevano al suolo, gittavan su' corpi bagliori incerti, suscitavan riflessi da qualche pozza di sangue, o stridevano spegnendosi. Il vento era cresciuto; ed investiva gli elci con alto stormire. I latrati dei cani si rispondevano per tutta la valle. Inebriati dalla vittoria, grondanti per la fatica, i servi discesero a rifocillarsi. Tutti erano incolumi. Bevevano senza misura, e facevano gazzarra. Alcuni proclamavano i nomi di quelli che essi avevan colpito, e ne descrivevano il modo della caduta, buffonescamente. I bracchieri desumevano le similitudini dalla selvaggina. Un cuciniere si vantò d'aver ucciso il terribile Rocco Furci. Alimentate dal vino, le millanterie si moltiplicavano.
<B>VI</B>
Ora, mentre il duca d'Ofena, sicuro d'aver per quella notte almeno scongiurato ogni pericolo, era solo intento a custodire il piagnucolante Carletto, improvvisi bagliori si ripercossero in uno specchio e nuovi clamori si levarono tra il fischiar del libeccio, sotto il palazzo. Al tempo medesimo apparvero quattro o cinque servi, che il fumo aveva quasi soffocati mentre dormivano ubriachi nelle stanze basse. Essi non avevano ancóra riacquistati gli spiriti; barcollavano senza poter parlare poiché si sentivan la lingua torpida. Altri sopraggiunsero. - Il fuoco! Il fuoco! Tremavano gli uni addossati agli altri, come una greggia. La viltà nativa li occupava novamente. Avevano tutti i sensi ottusi, come in un sogno. Non sapevano quel che dovevano fare. Né ancóra la perfetta consapevolezza del pericolo li stimolava a cercare uno scampo. Sorpreso, il duca dapprima restò perplesso. Ma Carletto Grua, vedendo entrare il fumo e udendo quel singolare ruggito che fanno le fiamme nel nutrirsi, si mise a strillare così acutamente e a far gesti così forsennati che Don Filippo si destò dal grave sopore in cui era caduto e vide la morte. La morte era inevitabile. Il fuoco, sotto il costante soffio del vento, propagavasi con una stupenda celerità per tutta la vecchia ossatura dell'edifizio, divorando ogni cosa, suscitando da ogni cosa vampe mobili, fluide, canore. Le vampe correvano lievi su le pareti, lambivano le tappezzerie, esitavano un istante a fior del tessuto, si colorivano di tinte mutevoli e vaghe, penetravano nella trama con mille lingue sottilissime e vibranti, parevano infondere per un attimo nelle figure murali uno spirito, accendere per un attimo su la bocca delle ninfe e delle iddie un riso non mai veduto, muovere per un attimo le loro attitudini e i loro gesti immobili. Passavan oltre, in fuga sempre più luminosa; si avvolgevano alle suppellettili di legno, conservando fino all'ultimo la loro forma, così da farle apparire tutte materiate di piropi che d'un tratto si disgregavano e s'incenerivano come per incanti. Le voci delle vampe erano innumerevoli; formavano un vasto coro, una profonda armonia, come d'una selva dai milioni di foglie, come d'un organo dai milioni di canne. Già appariva ad intervalli, nelle aperture fragorose, il cielo puro con le sue corone di stelle. Omai tutto il palazzo era in potere del fuoco. - Salvami! Salvami! - gridò il vecchio, tentando invano di sorgere, sentendo già sotto di sé sprofondare il pavimento, sentendosi accecare dall'implacabile rossore. - Salvami! Con uno sforzo supremo giunse a levarsi. E si mise a correre, col tronco inclinato innanzi, saltellando a piccoli passi incalzanti, come spinto da un irresistibile impulso progressivo, agitando le mani informi, finché cadde fulminato, già preda del fuoco, sgonfiandosi e rappigliandosi come una vescica. Ora di tratto in tratto le grida del popolo aumentavano, e salivan più alto dell'incendio. I servi, pazzi di terrore e di dolore, mezzo riarsi, si precipitavano dalle finestre e venivano a cadere morti sul suolo; o mal vivi, ed eran finiti. Ad ogni caduta rispondeva un maggior clamore. - Il duca! Il duca! - gridavano i barbari, malcontenti, perché volevano veder precipitare il tirannello col suo bagascione. - Eccolo! Eccolo! E' lui! - Giù! Giù! Ti vogliamo! - Muori, cane! Muori! Muori! Muori! Su la porta grande, proprio in cospetto del popolo, apparve Don Luigi con le vesti in fiamme portando su le spalle il corpo inerte di Carletto Grua. Egli aveva tutto il volto bruciato, irriconoscibile; non aveva quasi più capelli, ne barba. Ma camminava a traverso l'incendio, impavido, non anche morto, poiché valeva a sostener gli spiriti quello stesso atroce dolore. Da prima il popolo ammutolì. Poi di nuovo proruppe in urli e in gesti, aspettando con ferocia che la gran vittima venisse a spirargli dinanzi. - Qui, qui, cane! Ti vogliamo veder morire! Don Luigi udì, a traverso le fiamme, l'ultime ingiurie. Raccolse tutta l'anima in un atto di scherno indescrivibile. Quindi voltò le spalle; e disparve per sempre dove più ruggiva il fuoco.
----------------------------------
<B>La vergine Orsola</B>
<B>I</B>
Il viatico uscì dalla porta della chiesa a mezzogiorno. Su tutte le strade era la primizia della neve, su tutte le case la neve. Ma in alto grandi isole azzurre apparivano tra le nuvole nevose, si dilatavano sul palazzo di Brina lentamente, s'illuminavano verso la Bandiera. E nell'aria bianca, sul paese bianco appariva ora subitamente il miracolo del sole. Il viatico s'incamminava alla casa di Orsola dell'Arca. La gente si fermava a veder passare il prete incedente a capo nudo, con la stola violacea, sotto l'ampio ombrello scarlatto, tra le lanterne portate dai clerici accese. La campanella squillava limpidamente accompagnando i Salmi susurrati dal prete. I cani vagabondi si scansavano nei vicoli al passaggio. Mazzanti cessò di ammucchiare la neve all'angolo della piazza e si scoprì la zucca inchinandosi. Si spandeva in quel punto dal forno di Flaiano nell'aria l'odore caldo e sano del pane recente. Nella casa dell'inferma gli astanti udirono gli squilli, e udirono su per le scale il salire dei vegnenti. La vergine Orsola era sul letto, supina, tenuta dallo stupore della febbre, da una sonnolenza inerte, con la respirazione frequente rotta da i rantoli. Posava sul guanciale la testa quasi nuda di capelli, la faccia d'un colore quasi ceruleo, ove le palpebre erano semichiuse sopra gli occhi vischiosi e le narici parevano annerite dal fumo. Ella faceva con le mani scarne piccoli gesti incerti, vaghi conati di prendere qualche cosa nel vuoto, strani segni improvvisi che davano quasi un senso di terrore a chi stava da presso; e nelle braccia pallide le passavano le contrazioni dei fasci muscolari, i sussulti dei tendini; e a volte un balbettamento inintelligibile le usciva dalle labbra, come se le parole le si impigliassero nella fuliggine della lingua, nel muco tenace delle gengive. Nella stanza si faceva quel silenzio tragico che suole precedere gli avvenimenti supremi, un silenzio dove il respiro dell'inferma e i gesticolamenti incerti e le irruzioni rauche della tosse aggravavano l'attesa della morte. Dalle finestre aperte entrava l'aria pura ed uscivano le esalazioni della malattia. Un vivo baglior bianco si rifrangeva dalla neve coprente i cornicioni e i capitelli corintii dell'Arco di Portanova; il fiore cristallino dei ghiaccioli scintillava d'iridi all'altezza della stanza. Nell'interno, su le pareti pendevano grandi medaglie sacre d'ottone, imagini di santi. Sotto un vetro una Madonna di Loreto tutta nera il volto il seno le braccia, come un idolo barbarico, luceva nella sua veste adorna di mezzelune d'oro. In un angolo, un piccolo altare candido portava un vecchio crocifisso di madreperla, tra due boccali turchini di Castelli pieni d'erbe aromatiche. Camilla, la sorella, l'unica parente, presso al letto, pallidissima, tergeva le labbra nerastre e i denti incrostati dell'inferma con un lino umido di aceto. Don Vincenzo Bucci, il medico, seduto, guardava il pomo d'argento della bella mazza, le belle corniole incise ch'egli aveva negli anelli delle dita, aspettando. Teodora La Iece, una tessitrice vicina, stava ritta, in silenzio, tutta intenta nell'atteggiare a dolore la faccia bianca e lentigginosa, gli occhi d'acciaio, la bocca crudele. - <I>Pax huic domui</I> - disse il prete entrando. Apparve all'uscio Don Gennaro Tierno, lunghissimo e smilzo su piedi enormi, con i movimenti di un bruco che si snodi. Veniva dietro di lui Rosa Catena, una femmina che avea fatto pubblica professione d'impudicizia al suo tempo verde e che ora si salvava l'anima assistendo i moribondi, lavando i cadaveri, vestendoli e accomodandoli nella bara, senza prender mercede. Nella stanza di Orsola tutti erano in ginocchio, chini la faccia. L'inferma non udiva; una stupefazione intensa le teneva ancóra i sensi. E l'aspersorio si levò su di lei, lucido nell'aria, aspergendo il letto. - <I>Asperges me, Domine, hyssopo, et mundabor</I>... Ma Orsola non sentì l'onda purificatrice che la rendeva più bianca della neve innanzi al suo Signore. Ella stirava davanti a sé con le dita fragili le coperte, aveva un moto tremulo nelle labbra, nella gola il gorgoglio della parola che ella non poteva profferire. - <I>Exaudi nos, Domine sancte</I>... Allora uno scoppio di pianto risonò fra le parole latine, e Camilla nascose nella sponda del letto la faccia rigata di lacrime. Il medico s'era accostato e teneva fra le dita inanellate il polso di Orsola. Egli voleva scuoterla, apprestarla a ricevere il Sacramento dalle mani del sacerdote di Gesù Cristo, fare che ella porgesse la lingua all'ostia. Orsola balbettò, gesticolò ancóra vagamente nel vuoto, mentre la sollevavano su i guanciali. Ella non udiva se non un tintinnìo nei nervi dell'orecchio perturbati, a tratti un gridìo, a tratti una musica. Come fu sollevata, subitamente il rossore livido della faccia si mutò in un pallore di cadavere; la vescica di ghiaccio cadde dalla testa sul lenzuolo. - <I>Misereatur</I>... Porse ella finalmente la lingua tremante, coperta d'una crosta mista di muco e di sangue nerastro, dove l'ostia vergine si posò. - <I>Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi</I>... Ma ella non ritirò la lingua a quel contatto, perché non aveva conscienza di quel che faceva; lo stupidimento non era rotto dal lume dell'Eucaristia. Camilla guardava con gli occhi rossi pieni di terrore e di dolore quella faccia terrea dove ogni segno di vita mancava a poco a poco, quella bocca aperta che pareva la bocca di uno strangolato. Il prete seguitava, nella solennità del suo ministerio, le preghiere latine lentamente. Tutti gli altri rimanevano genuflessi, sotto il diffuso albore che fuori dalla neve suscitava il meriggio. L'odore del pane caldo salì col vento e fece fremere le papille del naso ai clerici. - <I>Oremus!</I>... Agli eccitamenti del medico Orsola richiuse le labbra. La riadagiarono supina; poiché il prete entrava nel sacramento dell'Estrema Unzione. I clerici genuflessi ripetevano sommessamente l'antifona dei sette Salmi penitenziali. - <I>Ne reminiscaris</I>. Teodora La Iece metteva di tratto in tratto un singulto soffocato, coperta il volto con le palme, a' piedi del letto. Rosa Catena stava ritta, accanto, con un occhio semichiuso da cui le colava di continuo un liquido giallognolo e con l'altro occhio cieco e bianco per un'albùgine; scorreva un rosario, mormorando. E mentre i Salmi sommessamente dal pavimento si elevavano, su quel mormorìo confuso dominava la formula sacra del prete ungente in croce gli occhi, gli orecchi, le narici, la bocca, le mani dell'inferma inerte. -...<I>indulgeat tibi Dominus quidquid per gressum deliquisti. Amen.</I> Fu Camilla che scoperse i piedi della sorella: apparvero tra le coperte due piedi gialli, squamosi, lividi nelle unghie, che al tatto davano un ribrezzo di membra morte. E su quella pelle secca le lacrime caddero, si mescolarono con l'unzione estrema. - <I>Kyrie eleison. Christe eleison. Kyrie eleison. Pater noster</I>... L'unta del Signore stava ora immobile, respirando, con gli occhi chiusi dinanzi alla luce, con le ginocchia sollevate e le mani strette fra le cosce, nell'atteggiamento abituale dei tifosi. E il prete, poi ch'ebbe premuto su le labbra di lei per l'ultima volta il crocefisso, fatto il segno della croce alto in mezzo alla stanza con la gran mano, uscì seguito dai clerici. Vagava ancóra nella stanza quell'odore svanito di incenso e di cera che hanno le vesti sacerdotali. Fuori, sotto le finestre, Matteo Puriello martellava le suola, canticchiando.
<B>II</B>
I segni del male declinavano lentamente in favore: succedeva ora il quarto settenario, succedeva ora al sopore stupido la quiete naturale del sonno, una quiete durevole in cui a poco a poco tutte le perturbazioni della conscienza si sedavano e le facoltà del senso si facevano meno torbide e la frequenza della respirazione diminuiva. Ma una tosse aspra scoppiava a tratti nel petto dell'inferma, facendo sussultare le vertebre; una distruzione dolorosa della pelle e dei tessuti molli si compiva ai gomiti, alle ginocchia, all'estremità della schiena, di giorno in giorno. Quando Camilla si chinava sul letto chiamando: - Orsola! - la sorella tentava d'aprire gli occhi, di volgersi verso la voce. Ma la debolezza la opprimeva; lo stupore torpido le occupava di nuovo il senso. Ella aveva fame, aveva fame. Una bramosìa bestiaie di cibo le torturava le viscere vuote, le dava alla bocca quel movimento vago delle mandibole chiedenti qualche cosa da masticare, le dava talvolta alle povere ossa delle mani quelle contrazioni prensili che hanno le dita delle scimmie golose alla vista del pomo. Era la fame canina nella convalescenza del tifo, quella terribile avidità di nutrimento vitale in tutte le cellule del corpo impoverite dal lungo malore. Una scarsa onda di sangue restava a pena circolante pei tessuti; nel cervello debolmente irrigato ogni attività ristagnava come in una macchina a cui la forza motrice del liquido difetti. Soltanto, in quella materia disordinatamente ora si producevano certe vibrazioni determinanti certi atti che nella vita anteriore erano abituali; né di quel lavorio meccanico aveva la convalescente conscienza. Ella per lo più diceva ad alta voce le litanie; divideva in sillabe parole senza senso; minacciava punizioni a discepoli; cantava le strofe quinarie di un inno a Gesù. Aveva per lo più nell'indice della mano sinistra un moto di indicazione scorrente su l'orlo del lenzuolo, come se ella con quel segno guidasse l'occhio dei discepoli su le righe del libro. Poi, talvolta, la sua voce si sollevava, prendeva una solennità quasi minacciosa, pronunciando le ammonizioni delle <I>sette trombe</I>, ricordando confusamenre le parole di fra Bartolomeo da Saluzzo ai peccatori, avendo forse negli occhi stupefatti la visione di quelle vecchie stampe impresse dal legno piene di deformi angeli tubanti e di demonii debellati. Ma negli occhi non mai aveva uno sguardo. Le palpebre pesanti coprivano l'iride a metà, quell'iride senza colore spersa nella sclerotica che pareva come velata da un muco giallastro. Ella stava nel suo letto distesa, con il capo su due guanciali. Quasi tutti i capelli le erano caduti nella malattia; un pallor terreo, di quei pallori sotto cui pare non anche possa rimanere la vita, le occupava la faccia, le cavità della faccia; e il teschio ne traspariva, e da tutta la restante aridezza della pelle lo scheletro traspariva, e intorno a tutto quell'ossame nei punti di pressione sul letto i tessuti aderenti degeneravano. Solo, un'immensa fame animava quella rovina, torturava gl'intestini ove le ulcere tifose si cicatrizzavano lentamente. Fuori, era la novena di Natale, la bella festività de' vecchi e de' fanciulli. Erano certi vespri chiari e rigidi, sotto cui tutto il paese di Pescara si popolava di marinari e si empiva dei suoni delle zampogne. L'odore acuto delle zuppe di pesce si propagava nell'aria dalle cantine aperte. Lentamente alle finestre, alle porte, nelle vie i lumi apparivano. Il sole indugiava roseo su i terrazzi di pietra della casa di Farina, su i comignoli della casa di Memma, sul campanile di San Giacomo. Le altezze illustri dominavano come fari sul paese occupato dall'ombra. Poi, d'un tratto, la notte cominciava a constellare i firmamenti; sopra le case di Sant'Agostino, una mezza luna si affacciava dal bastione, tra il fanale rosso e il pino del telegrafo, crescendo. Alla stanza di Orsola tutta quell'animazione di vita saliva in un romorìo confuso di alveare che si sveglia. Le pastorali delle zampogne si avvicinavano, di casa in casa, di porta in porta. Avevano una religiosa e familiare letizia quei suoni che i ciociari di Atina traevano da un otre di pecora e da un gruppo di canne forate. La convalescente udiva, si sollevava sul letto; poiché quella sensazione le ridestava i fantasmi di altre sensazioni trascorse, e gli occhi le si empivano tutti di visione sacra, di presepi raggianti e di bianchi peregrinaggi d'angeli in azzurri immacolati. Ella si metteva a cantare le laudi, tendendo le braccia, restando talvolta con la bocca aperta, mentre la voce negli organi le mancava; si metteva a laudare Gesù con una elevazione ardente di amore, trasportata dai suoni delle pastorali appressantisi, allucinata dalle imagini sante delle pareti. Ascendeva ai cieli, tra le musiche dei cherubini, tra i vapori della mirra e dell'incenso. - <I>Hosanna!</I> La voce le mancava. Ella tendeva le braccia. Camilla, da presso, voleva riadagiarla su i guanciali; si sentiva come soggiogare da quel cieco entusiasmo di fede; le tremavano le mani, le labbra. Orsola ricadeva stesa, con il capo abbandonato, scoperta la gola e il petto, mostrando degli occhi solo il bianco nel gran pallore, sorridente a qualche cosa invisibile, in un atteggiamento di vergine martire. Le zampogne passavano; tardi passavano le canzoni del vino urlate dai marinari nella notte tornanti alle barche della Pescara.
<B>III</B>
L'istinto della fame si ridestava vivissimo, come più chiara si faceva la conscienza. Quando dal forno di Flaiano saliva nell'aria l'odore caldo del pane, Orsola chiedeva; chiedeva con un accento di mendicante famelica, tendeva la mano, supplicando, alla sorella. Divorava rapidamente, con un godimento brutale di tutto l'essere, guardando d'intorno se qualcuno tentasse strapparle di tra le mani il cibo, in sospetto. La convalescenza era lunga e lenta, ma già un senso mite di sollievo comincia a spargersi per le membra, a liberare il capo. Per quella sana nutrizione di albume e di carne muscolare un sangue novello si produceva: i polmoni dilatati ora largamente dall'aria vivificavano il sangue carico di sostanze; e i tessuti irrigati dall'onda tiepida e rapida si colorivano ricomponendosi, si rinnovellavano nelle piaghe di decubito, si ricoprivano di cute a poco a poco; e le attività cerebrali a quell'affluire operavano sicure; e le innervazioni negli organi sensorii non più perturbate rendevano limpida la sensazione; e sul cranio i bulbi capilliferi rigermogliavano densi; e da quel riordinamento delle leggi meccaniche della vita, da quel dispiegarsi di energie prima latenti che la malattia aveva provocate, da quella intensa brama che la convalescente aveva di vivere e di sentirsi vivere, da tutto, lentamente, quasi in una seconda nascita, una creatura migliore sorgeva. Erano i primi giorni di febbraio. Dal suo letto Orsola vedeva la sommità dell'Arco di Portanova, i mattoni rossicci tra cui crescevano l'erbe, i capitelli sgretolati dove le rondini avrebbero appeso i nidi. Le viole di Sant'Anna nelle screpolature del fastigio non anche fiorivano. Il cielo sopra si apriva in una gentile beatitudine; e per l'aria a tratti giungevano dall'Arsenale gli squilli delle fanfare. Fu allora che, quasi con un senso di meraviglia, ella riandò l'esistenza trascorsa. Le pareva quasi che quel passato non le appartenesse, non fosse suo; una lontananza smisurata ora la divideva da quei ricordi, una lontananza come di sogno. Ella non aveva più la valutazione sicura del tempo; ella doveva guardare gli oggetti che la circondavano, fare uno sforzo della mente, raccogliersi a lungo, per ricordare. Si toccava con le dita le tempie dove i capelli rigerminavano tenui, e un sorriso vago di smemorata le sfiorava le labbra pallide, le fuggiva negli occhi. - Ah! - susurrò fioca; e il gesto delle dita alle tempie le ritornava, gentilmente. Era stata una vita triste ed uguale, in quelle tre stanze, fra tutte quelle piccole statue deformi di Santi, fra tutte quelle imagini di Madonne, fra tutti quei bimbi compitanti in coro ad alta voce per cinque ore del giorno le medesime parole scritte col gesso su la lavagna. Come le martiri gloriose della leggenda, come Santa Tecla di Licaonia e Santa Eufemia di Calcedonia, le due sorelle avevano consacrata la loro verginità allo Sposo celeste, al talamo di Gesù. Avevano mortificata la carne a furia di privazioni e di preghiere, respirando l'aria della chiesa, l'incenso e l'odore delle candele ardenti, cibandosi di legumi. Avevano stupefatto lo spirito in quell'esercizio arido e lungo di sillabazione, in quel freddo distillìo di parole, in quell'opra macchinale dell'ago e del filo su le eterne tele bianche odoranti di spigo e di santità. Mai le loro mani cercarono la dolcezza delle chiome infantili, il tepore di quel biondo angelico; mai le loro labbra cercarono la fronte dei discepoli, in una effusione di tenerezza improvvisa. Insegnavano la piccola dottrina, i piccoli canti della religione; facevano prostrare tutte quelle teste gioconde lungamente sotto le ammonizioni quaresimali; parlavano del peccato, degli orrori del peccato, delle pene eterne, con la voce grave, mentre tutti quei grandi occhi si empivano di meraviglia e tutte quelle bocche rosee si aprivano allo stupore. Intorno, per le fantasie vive dei fanciulli le cose si animavano: dal fondo dei vecchi quadri uscivano certi profili giallognoli di Santi misteriosi; e il Nazareno cinto di spine e di stille sanguigne guardava da ogni parte con gli occhi agonizzanti, perseguitando; e su per la gran cappa del camino ogni macchia di fumo prendeva una forma atroce. Così infondevano esse la fede in quelle anime inconsapevoli. Ora il ricordo di quella sterilità si destò in Orsola torbidamente. Ella risaliva, risaliva agli anni più lontani, per una naturale tendenza dello spirito, si rifugiava alle fonti; e una pienezza improvvisa di giubilo la inondò come se in un momento tutta la sua infanzia le rifluisse al cuore. - Camilla! Camilla! - chiamò. - Dove sei? La sorella non rispose, non era nell'altra stanza; era forse andata giù, nella chiesa, al vespro. Allora la convalescente fu presa dalla tentazione di mettere i piedi a terra, di provare i passi sul pavimento, così, sola. Rideva d'un riso timido di bambina che esiti in un'impresa difficile; socchiudeva gli occhi soffermandosi nel nuovo diletto di quel pensiero, palpava con le dita le ginocchia, le caviglie esili, raccogliendosi, come per misurare la forza; e rideva, rideva poiché il riso le insinuava uno sfinimento dolce, una sottile delizia vibrante, in tutto l'essere. Una freccia di sole strisciava sul davanzale e feriva l'acqua di un bacile in un angolo: il riflesso mobile tremolava nella parete, come una fine trama di oro. Uno stuolo di colombi attraversò lo spazio e venne a posarsi su l'Arco; parve un augurio. Ella pianamente scansò le coperte, esitò ancóra: seduta su la sponda del letto cercava con la punta del piede scarno e giallo la pianella di lana. La trovò, trovò l'altra; ma ora una tenerezza subitanea l'assaliva e le si empivano di lacrime gli occhi, e tutto tremolava dinanzi a lei in un albore indistinto come se le cose intorno si facessero aeree ed evanissero. Le lacrime le rigavano le guance, le si fermavano alla bocca tiepide e salse: ella ne bevve alcune, ne sentì il sapore. Fuori, dall'Arco i colombi a uno a due si rialzavano, frullando. Orsola con un moto delle fauci respinse il groppo del pianto; poi si poggiò su la sponda, premette, si alzò finalmente in piedi; sorrise dagli occhi umidi, guardandosi. Non sapeva di essere così debole, di non potersi così reggere diritta su le gambe; aveva una strana sensazione di formicolìo negli stinchi, di vellicamento nei muscoli, quasi la sensazione d'un ferito che si levi quando l'osso infranto non anche è bene saldato. Tentò di muovere un passo, avanzò il piede, timidamente; ebbe paura, sedette di nuovo su la sponda, guardandosi in torno come per assicurarsi che non la spiava alcuno. Poi cercò un punto di mèta, la finestra; e ricominciò, pianamente, con gli occhi fissi sul piede che avanzava, in equilibrio, stringendosi lo scialle verde al petto, invasa un poco dal freddo. Un subitaneo spavento la prese, a mezzo: ella barcollò, agitò le mani, si rivolse verso il letto, mise tre o quattro passi precipitosi, ricadde su la sponda. Stette un momento là, in affanno; rientrò sotto le coperte dove ancóra restava il tepore, s'avvolse e si raccolse rabbrividendo. - Come sono debole, Signore! E guardava curiosa sul pavimento il luogo dove ella aveva fatto i passi, quasi vi cercasse le orme.
<B>IV</B>
Di questo primo tentativo non disse nulla alla sorella. Quando sentì Camilla rientrare, chiuse gli occhi, stette immobile come una dormiente, provando uno strano piacere in sé di quell'inganno, ricacciando a forza indietro il riso che la vellicava a sommo del petto e le saliva alle labbra. Ella gioiva di quel piccolo segreto: tutti i giorni aspettava con un desiderio inquieto l'ora in cui Camilla scendeva le scale; restava un momento in ascolto, seduta sul letto, fin che giungeva il rumore del lento discendere; poi si levava, soffocando gli scoppi di riso, appoggiandosi alle pareti, ai mobili, mettendo gridi di paura sommessi ogni volta che le ginocchia minacciavano di piegarsi, ogni volta che l'equilibrio mancava. Dal forno di Flaiano a quell'ora saliva quasi sempre l'odore del pane ad irritarla. Ella si avvicinava alla finestra per cercare il vento; provava una tortura mista di voluttà nell'aspirare quella emanazione sana, con la lingua nuotante nell'acquolina e gli occhi vivi di cupidigia. Allora la prendeva una furia di frugare da per tutto, di mettere da per tutto le mani, traendosi di qua di là con minore lentezza, facendo sforzi inutili e irosi su le serrature di cui Camilla aveva portato seco le chiavi. Una volta, in fondo al repostiglio di un tavolino trovò una mela e ci ficcò i denti golosamente. Da tempo, nel regime severo della convalescenza, ella non assaporava un frutto. In quello era un fresco profumo di rosa, il profumo che in certe mele aggrinzite e scolorite si accoglie. Cercò di nuovo nel repostiglio, sperando; ma non trovò se non una specie di siliqua verdognola, chiusa, che doveva contenere forse un gruppo di semi; e la prese, la guardò curiosamente, la nascose sotto il guanciale. Passava così quell'ora, in segreto, con il godimento acre che danno ai fanciulli in guarigione le cose proibite, le infrazioni degli ordini dottorali, i piccoli furti. Solo testimone era un micio, tutto maculato come una pelle di serpente, che girava talvolta intorno a Orsola con un miagolìo familiare o si fermava teso invano a ghermire se fuori volavano su l'Arco i colombi. A poco a poco Orsola prendeva amore a quel compagno discreto. Ella lo accoglieva nel tepore del letto, gli susurrava parole senza nesso, lo guardava lungamente leccarsi con la lingua rosea la zampa, porgere la gola di lucertola alla blandizia, una gola gialliccia che palpitava d'un suono rauco e dolce simile al tubare delle tortore nei boschi. Ella, forse per un naturale ricorso di quel suo misticismo anteriore, amava i bagliori tralucenti dagli occhi dell'animale nella penombra, quegli sprazzi di fosforo, che emanavano da una forma misteriosa e silenziosa nella tenebra. Camilla vedeva tutte queste strane predilezioni della sorella, con una specie di diffidenza ed anche di rammarico sordo, ma taceva. E lentamente, quasi insensibilmente, quelle due anime si distaccavano, si allontanavano per repulsa. Erano prima vissute in una comunione di abitudini e di sentimenti continua, perché in loro ogni diversità d'indole e ogni insorgimento si agguagliava e placava nell'unica fede, nel culto infrangibile della deità di Cristo, in quel contemplamento ch'era divenuto lo scopo della vita loro. Ma come il culto le assorbiva intere, in loro i legami della consanguineità a poco a poco erano stati coperti e sopraffatti da quelli della comune religione; quindi non mai una espansione di tenerezza le aveva ricongiunte, non mai un abbandono di confidenza e di ricordi o di speranze, come sorelle. Erano correligionarie, erano membri della grande famiglia di Gesù spersi su la terra e agognanti il Cielo. Così che a pena, per la rinnovazione operata prima dalla malattia e dopo dal regime, in Orsola si manifestarono inaspettati atteggiamenti d'indole e modi inconsueti, la repulsa avvenne inevitabile e la voce del comun sangue sopita non si poté levare a contrasto.
<B>V</B>
I discepoli tornarono: fu la prima volta una mattina del marzo nascente. Orsola s'era levata dal letto; stava seduta su la sponda, col calore del sole alla nuca ed agli òmeri. Nella stanza si sentiva l'odore agro dell'aceto che Camilla aveva versato nei calamai muffiti; e dalle finestre raramente il vento recava gli effluvii delle viole già fiorite su l'Arco. L'infanzia alitò nella stanza come un fiato di quel vento marzolino. Fu prima su l'uscio un sospingersi tumultuoso di piccole teste che volevano sollevarsi le une su le altre per vedere; poi l'esitazione, la timidità, una specie di meraviglia ingenua dinanzi alla maestra pallida pallida e scarna che i discepoli riconoscevano a pena. Ma la vergine sorrideva, sotto un turbamento improvviso di tutto il suo sangue; li chiamava a sé, confondeva i loro nomi che le si affollavano alle labbra, tendeva loro le mani. A uno, a due, a tre, i bimbi si avanzavano, volevano prenderle le mani per metterci la bocca sopra, ridicevano le parole di augurio imparate a casa, ingoiando per la furia le sillabe. - No, no, non più! - esclamava Orsola, sopraffatta, ma abbandonando le mani a quelle bocche tiepide e molli. Si sentiva quasi mancare. - Camilla, tienili, tienili. Ogni bimbo recava un dono: erano fiori, erano frutta. Le violette avevano sùbito sparso il profumo nell'aria, e in quel profumo, in quella luce tutte quelle facce infantili invermigliate dal buon sangue plebeo sorridevano. Poi la lezione, nell'altra stanza, cominciò. La prima classe diceva a voce alta le vocali e i dittonghi, la seconda sillabava; e su quel coro chiarissimo a tratti si levava l'ammonimento di Camilla. - <I>La, le, li, lo lu</I>... Negli intervalli di silenzio, si udiva Matteo Puriello picchiare su le suola o il telaio della Iece sbattere. - <I>Va, ve, vi, vo, vu</I>... Allora Orsola s'infastidì. La monotonia de' rumori e delle voci le dava al capo una pesantezza ingrata, le conciliava il sonno, mentre ella voleva essere desta, mentre ella sentiva ancóra intorno a sé la respirazione dei fanciulli, il soffio giocondo di quelle vite. - <I>Bal, bel, bil, bol, bul</I>... Prese i fiori, li mise in un bicchiere pieno d'acqua per conservarli. Li fiutò poi lungamente, stette con le narici tra quel fresco, chiudendo gli occhi, raccogliendosi tutta in quel peccato d'olfatto. - <I>Gra, gre, gri, gro, gru</I>... Una gran nuvola bianca velò il sole. Orsola si accostò alla finestra, si sporse al davanzale per guardar giù nella piazza. Di fronte, Donna Fermina Memma in una roba rosata stava sul balcone, tra i vasi dei garofani; e un gruppo di ufficiali passava sotto a lei ridendo e facendo un tintinnìo di sciabole sul lastrico. Più in là, nel giardino pubblico le piante di lilla erano sul fiorire, la punta del gigantesco pino si piegava al vento. Dalla cantina di Lucitino usciva Verdura, l'eterno ubriaco, barcollando e vociferando. Orsola si ritrasse: era la prima volta, dopo tanto, che si affacciava su la piazza. Le parve di essere in alto in alto, guardando in giù; la prese una leggera vertigine. - <I>Nar, ner, nir, nor, nur</I>... II coro dentro seguitava, ancóra, ancóra, ancóra. - <I>Pla, ple, pli, plo, plu</I>... Orsola si sentiva soffocare, venir meno, a quella tortura: i suoi poveri nervi indeboliti cedevano. Il coro seguitava, al ritmo della bacchetta di Camilla battuta sul tavolino, implacabile. - <I>Ram, rem, rim, rom, rum</I>... - <I>Sat, set, sit, sot, sut</I>... Allora un impeto subitaneo di singhiozzi squassò la convalescente, l'abbatté sul letto. Ella singhiozzava, così, bocconi, a braccia aperte, premendo la faccia su i guanciali, scossa dai sussulti, senza potersi frenare. - <I>Tal, tel, til, tol, tul</I>...
<B>VI</B>
Le erano ricresciuti tutti i capelli, crespi e castanei, come prima. Ella aveva ora una curiosità grande di guardarsi nello specchio; perché Rosa Catena, con uno di quei lezii che sempre svelavano in lei l'antica femmina impudica, passandole la mano sul corpo le aveva detto: - Bellezza! Aspettò dunque che Camilla uscisse; poi scese dal letto, staccò dalla parete uno di quelli specchi <I>rococò</I> a cornice d'oro appannati di macchie verdi; con un lembo della coperta tolse la polvere e si guardò dentro, sorridendo. Ella aveva tutto il collo nudo e pe 'l collo certe vene azzurrognole quasi in rilievo, e nella testa piccola e lunga qualche cosa di caprino, la bocca fine, il mento acuto, gli occhi castanei come i capelli, ma più tendenti al giallo. Il pallore trasparente e il sorriso davano una grazia nuova, una nuova giovinezza ai suoi ventisette anni. Ella restò a guardarsi a lungo; e si piaceva di allontanare lentamente lo specchio e di veder sparire l'imagine in quella luce un po' glauca come in un velo d'acqua marina e quindi riemergere. La vanità la conquistava, la occupava. Ella si accorse di tante piccole cose a cui prima non aveva badato mai; per esempio, di un neo simile a una lenticchia, che le macchiava la pelle su la tempia sinistra, e di una cicatrice leggera che le attraversava l'arco di un sopracciglio. Restò così, a lungo. Poi, assalita da una gioia repentina, cercò in torno un qualche diletto. Quella capsula vegetale, ch'ella aveva trovato in fondo a un repostiglio, s'era aperta come in due valve scoprendo un grappolo denso di semi nerastri. Ogni seme pareva legato a filamenti sottilissimi d'una lucidità argentea; e il grappolo si manteneva compatto. Ma a pena la vergine vi mise un soffio, un nuvolo di piumoline bianche si levò nell'aria e si sparpagliò qua e là brillando: erano le <I>spie</I>. I semi parevano alati, parevano insetti esili ed evanescenti che si dissolvessero incontrando i raggi del sole o parevano lanugini di cigno a pena visibili; ondeggiavano, ricadevano, si mescolavano ai capelli di Orsola, le sfioravano la faccia, la coprivano tutta. Ella rideva, difendendosi da quell'invasione, cercando di scacciare quella pelurie che le vellicava la pelle e le si attaccava alle mani, ma le risa le impedivano i soffii. Alla fine si distese lunga sul letto, lasciò che tutta quella molle nevicata le scendesse sopra lentamente. Teneva gli occhi semichiusi per prolungare la dolcezza; e a mano a mano che il sopore la invadeva, si sentiva come sommergere in un giaciglio alto di piume. La luce che entrava nella stanza era una di quelle pallide chiarità pomeridiane del mese di marzo, ove il sole ride modestamente estinguendosi come un indizio di aurora in un gran cielo albeggiante. Camilla trovò la sorella ancóra addormentata con accanto lo specchio, con ne' capelli le <I>spie</I>. - Oh, Signore Gesù! oh, Signore Gesù! - mormorò tra i denti, congiungendo le mani, in atto di compassione amara. La cristiana veniva dalla chiesa, dove aveva cantate le litanie per l'Annunciazione e aveva ascoltata la predica sul messaggio dell'Arcangelo all'ancella di Dio. <I>Ecce ancilla Domini</I>. L'eloquenza sonora del frate predicante l'aveva inebriata; le restavano ancóra negli orecchi certe parole ammonitrici. Orsola si destava in quel momento con un lungo sbadiglio voluttuoso, e stirava le membra. - Ah! Sei tu, Camilla? - disse ella un po' confusa da quella presenza. - Sono io, sono io! Tu ti perderai, sciagurata, tu ti perderai - irruppe la devota, additando lo specchio sul letto. - Tu hai tra le mani lo strumento del demonio... Ed eccitata dalla prima invettiva, ella seguitava, sollevava la voce, gittava le frasi ardenti della predica con grandi gesti nell'aria, incalzava nelle minacce dei castighi eterni, non si rivolgeva soltanto alla pericolante, assorgeva ad ammonire l'universo dei peccatori. - <I>Memento! Memento!</I> Orsola non intendeva più nulla, poiché tutta quella vociferazione l'aveva stordita. D'un tratto dall'angolo della piazza scoppiò la fanfara militare con uno squillo di venti trombe.
<B>VII</B>
L'ultima stanza della casa era stretta e bassa, con le travi del soffitto annerite dal fumo, piena d'un lezzo di cipolle, di rigovernatura e di carbone spento. I vasi di rame pendevano alla parete in ordine senza luccichìo; i piatti di Castelli stavano in ordine su la mensola con le loro gioconde pitture di fiori, di uccelli e di teste ridenti; le antiche lucerne di ottone, le bottiglie vuote, le foglie di erbaggio non più fresche erano sparpagliate per le tavole; e su tutto dominava proteggitore San Vincenzo effigiato con il gran libro in una mano e la fiamma rossa in mezzo al cranio. Là, un tempo, Orsola, stando in mezzo ai vapori dell'acqua bollente e alle esalazioni dei cibi vegetali, spesso aveva sentito giungersi sul capo dalla piccola finestra alta i ritornelli d'una canzone libertina e certi larghi schiamazzi di risa che s'inseguivano. I canti e le risa crescevano nelle sere di estate, tra i passagalli delle chitarre, fra gli urti della danza sul terreno. Tutti i romori della vita d'una suburra infima salivano, in certe ore, a quella altezza e facevano tremare d'orrore le povere spose di Gesù chine in umiltà su i tegami d'argilla pieni dell'eremitica innocenza dei legumi e delle verdure. Ma ora, al novel tempo e gaio, come un giorno udì Orsola le voci, una voglia nell'animo le corse di spinger la vista fuori. Camilla non stava nella casa; era la domenica quinta di Lazzaro. Urgeva nell'aria, dopo le brevi piogge, con un più dolce alito di calore l'imminenza dell'aprile; e in quell'aria la pulzella più aveva pieno e chiaro il senso del suo rinascimento. E, in ozio, girando per le stanze, ebbe ella naturalmente la curiosità di guardare, presa al fascino malsano che gli spettacoli di lascivia esercitano anche su gli animi verecondi. Ella salì su una sedia all'altezza dell'apertura; ma prima di spingere lo sguardo innanzi, fu invasa da un turbamento di tremiti, e ritta su la sedia si volse in torno temente se non qualcuno la sorprendesse nell'atto. Intorno tutto era quieto; ogni tanto una gocciola d'acqua cadeva dall'alto in un bacile, sonando. Di fuori salivano le voci ed allettavano. La vergine, rassicurata, guardò. Nel vicolo, sotto la pioggia il fradiciume aveva fermentato come un lievito; una melma nera copriva il lastrico, ove spoglie di frutta, residui di erbe, stracci, ciabatte marce, falde di cappello, tutto il ciarpame sfatto che la miseria gitta nella strada, si mescolavano. Su quella cloaca, in cui il sole suscitava insetti e miasmi, una fila di case nane pareva ansare addossata alla caserma. Da tutte le finestre però, da tutti gli spiragli si riversavano le piante dei garofani non più contenute nei vasi; e i grandi fiori rosei e rossi penzolavano al sole aperti magnificamente. E tra quei fiori apparivano le facce flosce e dipinte delle meretrici, passavano le oscenità delle canzonette, le risa gutturali; e giù sul lastrico, sotto le inferriate della caserma, altre femmine si tendevano verso i soldati parlando a voce alta, provocandoli. E i soldati, che sentivano nel sangue alla primavera rifiorire i mali di Venere, allungavano le mani di tra le sbarre pur di brancicare qualcosa, divoravano con gli occhi in fiamme quelle femmine disfatte già per anni dalla lascivia di tante ciurme briache e di tanti facchini fradici. Orsola stette li stupidita allo spettacolo di tutta quella corruzione fermentante pe 'l buon sole di quaresima e saliente fino a lei. Non si ritraeva ancóra; ma come alzò gli occhi, vide in un abbaino sul tetto della caserma un uomo biondo che la guardava e sorrideva. Ella scese dalla sedia a precipizio, più pallida di prima, credendo di sentire la voce di Camilla. Corse nella sua stanza e si gettò sul letto, sbigottita, senza respiro, come se l'avesse perseguitata qualcuno minacciandola.
<B>VIII</B>
Da quel giorno, tutte l'ore, tutti i momenti in cui Camilla non era nella casa, la tentazione diabolica la trascinava a quello spettacolo. Ella prima pugnava, vanamente, senza forze, lasciandosi vincere. Andava là con l'ansia sospettosa di chi va a un ritrovo di amore; ci restava lungo tempo, dietro la persiana quasi cadente, mentre i miasmi del lupanare la turbavano e la corrompevano. Ella spiava tutto, acuendo lo sguardo, cercando di penetrare negli interni, cercando di scoprire qualche cosa tra i garofani che chiudevano le finestre. Il sole era caldo e pesante: sciami d'insetti turbinavano nell'aria. Ad intervalli, quando entrava nel vicolo qualche uomo, venivano dalle finestre i richiami delle aspettanti: femmine discinte, con il seno scoperto, uscivano fuori ad offerirsi. L'uomo spariva in una delle porte oscure con l'eletta. Le deluse gittavano scherni e risa dietro la coppia, e si rimettevano all'agguato tra i garofani. Così, nella vergine, si accendeva la brama. Il bisogno dell'amore, prima latente, si levava ora da tutto il suo essere, diventava una tortura, un suplizio incessante e feroce da cui ella non sapeva difendersi. Un fiotto di sanità caldo la riempiva; certe sùbite allegrezze le muovevano il sangue, le suscitavan nel petto quasi battimenti d'ale, le inspiravano canti nella bocca. A volte un soffio, uno di quei piccoli fremiti dell'aria che si dilata sotto il sole, una canzone di mendicante, un odore, un nulla bastava a darle smarrimenti vaghi, abbandoni in cui le pareva di sentire su tutte le membra come il passaggio carezzevole del velluto d'un frutto maturo. Ella era così librata e perduta in abissi ignoti di dolcezza. L'irritazione della continenza, la sovrabbondanza insolita de' succhi, quel distendersi continuo dei nervi sotto gli stimoli la tenevano in una specie di stordimento simile al primo stadio dell'ebrezza. Il passato si dileguava, si assopiva in fondo alla memoria, non risorgeva più. E in ogni ora, in ogni luogo il desiderio le tendeva insidie: i Santi delle mura, le Madonne, i Cristi crocefissi ignudi, le piccole figure di cera deformi, tutte le cose in torno, prendevano per lei apparenze impure. Da tutte le cose l'impurità emanava e le alitava su la persona, affocantemente. - Ecco, ora scendo nella strada - diceva ella a sé stessa, non reggendo più. Poi le mani le tremavano su la porta, nell'aprire. Lo stridore del chiavistello scorrente negli anelli la sbigottiva. Ella tornava in dietro, si gettava sul letto quasi svenendosi, livida, sotto una larva d'uomo.
<B>IX</B>
La domenica delle Palme ella uscì dopo tanti mesi, per la prima volta; poiché Camilla voleva condurla a render grazie della guarigione al Signore. Quando le campane si misero a squillare, Orsola si affacciò. Tutto il paese era ridente nel grande riso pasquale del sole d'aprile. Tutto il contado invadeva le vie con il segno pacifico dei rami di olivo. Ella ora doveva vestirsi in fretta: la gente nelle vie l'avrebbe guardata passare. Una furia di vanità sùbito la prese: si chiuse nella stanza, cercò in fondo alla cassa le vesti più chiare. Un odore acuto di canfora saliva da quei vecchi tessuti conservati là dentro per anni: erano grandi gonne di seta a fiorami, verdi e violette e cangianti, che un tempo la crinolina avea forse gonfiate in torno alle anche di una sposa novella; erano lunghi busti con maniche ampie, mantelline color di tortora orlate di merletti bianchi, veli intrecciati di fili d'argento, collari di tela fina ricamati a giorno; tutte cose morte per l'uso, goffe, macchiate dall'umido. Orsola sceglieva, come guidata da un nuovo istinto, profumandosi di canfora le mani nel cercare. Tutta quella seta inutile e quei veli la irritavano. Non trovava al fine nulla che le andasse alla persona! Chiuse la cassa irosamente, la respinse sotto il letto con un urto del piede. Le campane sonavano per la terza volta. Ella si mise in furia il consueto abito triste color di cenere, in conspetto di Camilla, mordendosi le labbra per ricacciare in giù le lacrime. Le campane chiamavano. Per le vie i fasci delle palme mettevano un mobile luccicore argenteo; da ogni gruppo di villici sorgeva una selva di ramoscelli; e la candida clemenza della benedizione cristiana si diffondeva per tutta l'aria da quelle selve, come se si appressasse il Galileo, il re povero e dolce sedente su l'asina fra la turba dei discepoli, in contro agli osanna del popolo redento. <I>Benedictus qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis!</I> Nella chiesa la folla era immensa, sotto la selva delle palme. Per una di quelle correnti che si formano irresistibili nelle masse di popolo, Orsola fu divisa da Camilla; restò sola in quel rigurgito, in mezzo a tutti quei contatti, in mezzo a tutti quegli urti e quegli aliti. Ella tentava d'aprirsi un varco: le sue mani incontravano la schiena d'un uomo, altre mani tiepide il cui tocco la turbava. Ella si sentiva sfiorare il volto da una foglia d'olivo, contrastare il passo da un ginocchio, spingere il fianco da un gomito, offendere il petto, offendere le spalle da pressioni incognite. Sotto l'odore dell'incenso, sotto le palme benedette, nella penombra mistica, in tutto quell'ammasso di cristiani e di cristiane, piccole scintille erotiche scoccavano per attrito e si propagavano; amori segreti si ritrovavano e si congiungevano. Passavano accanto a Orsola fanciulle della campagna con palme sul petto, con un riso fuggente nel bianco degli occhi vòlto ad amatori che dietro le insidiavano: ed ella sentiva in torno a sé così passare l'amore, poneva il suo corpo tra quei corpi che si cercavano, era un ostacolo a quei gesti che tentavano toccarsi, separava le strette di quelle mani, i legami di quelle braccia. Ma qualche cosa di quelle carezze interrotte le penetrava nel sangue. In un punto ella s'incontrò a faccia a faccia con un soldato biondo; quasi gli posò il capo su la tunica, perché una colonna di gente dietro la spingeva. Ella levò gli occhi; e il giovine sorrise come aveva sorriso un giorno dall'abbaino della caserma. Dietro, l'urto seguitava; il vapore dell'incenso si spandeva più denso, e il Diacono dal fondo cantò: - <I>Procedamus in pace</I>. E il coro rispose: - <I>In nome Christi. Amen</I>. Era l'annunzio della processione, che mise un sommovimento enorme in tutto il popolo. Per istinto, senza pensare, Orsola si attaccò all'uomo, come se già gli appartenesse; si lasciò quasi sollevare da quelle braccia che la prendevano ai fianchi, si sentì ne' capelli quel fiato virile che sapeva lievemente di tabacco. Ella andava così, indebolita, sfinita, oppressa da quella voluttà che l'aveva colta d'improvviso, non vedendo se non un barbaglio dinanzi a sé. Allora dall'altare maggiore si mosse il turiferario spargendo nuvoli di fumo cerulo e dolce sul popolo; e una processione candida si svolse nel mezzo della chiesa. I celebranti portavano in mano rami d'olivo e cantavano.
<B>X</B>
Tutta la Settimana Santa protesse delle sue complici ombre l'amore della vergine Orsola. Le chiese erano immerse nel crepuscolo della Passione, i crocefissi su gli altari erano coperti di drappi violacei; i sepolcri del Nazareno erano circondati di grandi erbe bianche cresciute nei sotterranei; un profumo di fiori e di belzuino pesava nell'aria. Là Orsola, inginocchiata, attendeva, fin che un passo leggero dietro di lei la faceva trasalire. Ella non poteva volgersi, perché Camilla la vigilava; ma si sentiva tutta abbracciare dallo sguardo di quell'uomo, come da un fuoco sottile, e una tenerezza torbida le scendeva nella carne. Allora fissava i ceri digradanti su un triangolo di legno presso l'altare. I preti cantavano dinanzi a un gran libro; e ad uno ad uno i ceri venivano spenti. Non ne rimanevano che cinque, non ne rimanevano che due; l'oscurità si avanzava dal fondo delle cappelle su la gente in preghiera. L'ultima fiammella finalmente spariva; tutte le panche risonavano sotto le battiture delle verghe. Orsola nel buio, a pena si sentiva toccare da due mani cercanti, scattava dal pavimento, con un sussulto, smarrita. Poi, quando usciva dalla chiesa, il pensiero d'aver violato un luogo sacro la empiva di rimorso: subitamente, la paura del castigo risorgeva. Ella s'inabissava poi come in un sogno dove la figura livida di Gesù morto e lo scroscio delle battiture e i brividi della carne sollecitata e l'odor grave dei fiori e gli aliti di quell'uomo biondo si mescolavano in un senso dubbio di dolore e di piacere.
<B>XI</B>
Ma come Gesù trionfante risalì alla gloria dei cieli, gli aromi pasquali non più confortarono l'amore della vergine Orsola. Scena dell'amore fu allora il dominio dei gatti randagi e dei colombi torraioli. Dall'abbaino alla finestra i dolci segni correvano: tra mezzo, il lupanare si sprofondava come un fossato d'acque limacciose a' cui cigli crescessero fiori alimentati dalla putredine. I colombi sorvolavano con il luccichìo verde e grigio delle loro piume. L'amadore aveva un bel nome antico, si chiamava Marcello, e aveva un bel fregio rosso e d'argento su le maniche della tunica. Scriveva epistole piene di fuoco eterno, con frasi impetuose che davano all'amatrice deliquii di tenerezza e fremiti di voluttà mal contenuta. Orsola leggeva quei fogli in segreto, li teneva notte e giorno nel seno: pe 'l calore la scrittura violetta le s'imprimeva su la pelle, ed era come un gentile tatuaggio d'amore, di cui ella gioiva. Le risposte di lei non finivano mai: tutta la sapienza grammaticale di una maestra, tutto il tesoro delle apostrofi psalmistiche di una devota, tutta la fluente sentimentalità di una pulzella tardiva si riversava su la carta de' quaderni scolastici rigati di turchino. Ella scrivendo si obliava, si sentiva trascinare in un'onda di verbosità sonore. Pareva quasi che una facoltà novella si esplicasse in lei e prendesse forme maniache, d'improvviso. Quel gran sedimento di lirismo mistico accumulato per la lettura de' libri di preghiera in tanti anni di fedeltà allo Sposo Celeste, ora, scosso dal tumulto dell'amore terreno, si levava su confusamente per assumere sapori di profanità nuovi. Così le lacrimose implorazioni a Gesù si mutavano in sospiri di speranza verso letizie d'amplessi non eterei, le offerte del fior dell'anima al Sommo Bene si mutavano in tenere dedizioni della carne al disio del biondo amante, e il lume afrodisiaco della luna si cingeva di tutti gli epiteti per cui va radioso lo Spirito Santo, né gli zefiri della primavera mancavan di rapire gli aromi alle mense del Paradiso.
<B>XII</B>
Era messaggero uno di quegli uomini che paion cresciuti su, come funghi, dall'umidità della strada immonda ed hanno in tutta la figura quasi una nativa tinta di fango; di quelli uomini bigi, che s'insinuano per tutto, che si trovano per tutto ov'è un centesimo da guadagnare, un po' di untume da leccare, uno straccio da sottrarre, oggi rigattieri e domani procaccianti in atto di serve o di male femmine, oggi falsi sensali di mercatanzia e domani accalappiatori di cani erratici. Costui aveva un nome melodrammatico, si chiamava Lindoro: dal quartiere dell'Ospedale al bastione di Sant'Agostino una popolarità grande s'era fatta in torno a questo nome. Nasceva costui dall'accoppiamento d'un sonatore ambulante di clarinetto con una piazzaiuola rivenditrice di fruttaglia, ereditando l'istinto nomade del padre e la naturale avarizia della madre. S'era prima strascicato per gli immondezzai di tutte le case, con la scopa e il canestro; aveva poi fatto il guattero in una bettola, dove soldati e marinai gli gettavano sul viso gli sgoccioli del bicchiere e le spine del pesce mal fritto. Dalla bettola era caduto in un forno, dove spingeva i pani con la lunga pala dentro le fiamme, tutta la notte, in sudore, accecandosi. Dal forno era passato all'uffizio di accenditore pubblico de' fanali, logorandosi una spalla sotto il peso della scala portatile. Scacciato da quell'uffizio perché sottraeva il petrolio dalle grandi casse di zinco bianco, si mise alla ventura della strada, comprando e rivendendo abiti vecchi, facendo in tutte le case popolane i servigi più vili, offrendo ai soldati e ai forestieri i suoi ruffianesimi, lottando così per il tozzo. Nel suo corpo e nella sua anima ogni mestiere aveva impresso una traccia, aveva lasciato un gesto abituale, uno sviluppo di singoli muscoli, l'indebolimento di un organo, una callosità, una cadenza di voce, una frase del gergo. Egli era di piccola statura, magro, con una testa enorme e quasi calva, con chiazze di peli radi su le guance, con pustole tra i peli. Il suo vestito era ibrido e mutevole; tutte le fogge passavano su la sua persona, si sovrapponevano a contrasto: nobili zimarrine verdognole e calzoni carichi di toppe, cappelli di feltro arrossenti e ciabatte servili, bottoni di metallo lucido, formelle d'osso bianco, galloni militari, trine, quel miscuglio di ricchezza sfatta e di miseria ignobile, che ingombra la bottega di un rigattiere ebreo.
<B>XIII</B>
Ora costui fu il galeotto. Portava le epistole di Marcello con le conche piene d'acqua della Pescara su alla casa di Orsola e tornava giù con le conche vuote e con epistole di risposta. Orsola, quando lo sentiva salir le scale, si faceva pallida; cercava pretesti per allontanare Camilla, per essere sola con l'uomo portatore d'acqua e di gioia. Avvenivano allora contatti rapidi, nel sotterfugio; passavano allora tra lei e il galeotto quegli sguardi obliqui di intesa, quei fuggevoli accenni dei muscoli faciali, quei monosillabi sommessi, che son gli aiuti dell'astuzia umana e che a lungo andare stringono legami tra gli ingannatori. A poco a poco nell'amore di Orsola penetrava qualche cosa della viltà di Lindoro; una specie di domestichezza a poco a poco si stabiliva tra l'amatrice e l'ambasciatore. Ella, se costui giungeva nell'assenza di Camilla, lo incalzava di domande, gli parlava da presso facendogli sentire l'alito, qualche volta inavvedutamente gli posava su la spalla una mano. Lindoro scioglieva i freni della sua loquacità, intramezzando parole di gergo, reticenze impudiche, furbi sorrisi rivelatori, gesti ambigui, piccoli schiocchi di lingua e di labbra. Egli ruffianeggiava con arte, sapeva insinuare sottilmente la corruzione nell'animo di Orsola, sapeva trascinare lentamente all'insidia di Marcello quella preda. E la vergine stava ad ascoltarlo intenta, con in fondo agli occhi una fiamma che cresceva, con in bocca l'aridezza prodotta dall'orgasmo lascivo, senza più interrompere. Lindoro s'accorgeva subito di aver suscitato nella femmina la brama; e dinanzi a quella figura tutta protesa e tutta sconvolta si risvegliava in lui il maschio d'un tratto e l'assaliva la tentazione di cogliere quel fiore ch'egli apprestava al piacere di un altro. Ma la paura sorgente dal fondo della sua viltà lo tratteneva e gli ghiacciava l'ardore. Così Orsola al fine aveva concesso a Marcello un ritrovo. Si sarebbero ritrovati in una casa remota del sobborgo, in fondo a un vico deserto, dove nessuno li avrebbe spiati, una domenica di giugno, stando Camilla nella chiesa più lungo tempo, facendo buona guardia Lindoro. Nei giorni precedenti quel gran fatto, Orsola era tenuta da una eccitazione amara, da una specie di febbre che a volte le dava il battito dei denti e le vampe alla faccia e i brividi alla radice dei capelli, alla nuca. Ella non poteva più star ferma, non poteva più star seduta, perché una furia di mobilità le sollecitava tutte le membra. Nella scuola, in mezzo al coro eguale dei discepoli, in mezzo a quello stillicidio continuo di sillabe, uno spirito di ribellione le abbagliava la vista all'improvviso, ed ella avrebbe voluto balzare tra i fanciulli, sconvolgere con le mani tutte quelle capigliature, rovesciare la lavagna, le tabelle, le panche, rompere in grida, spezzare qualche cosa, stordirsi. Sotto lo sguardo freddo e scrutatore di Camilla, poco mancava che ella non svenisse per lo spasimo, per la bile, per l'immenso sforzo interiore di dissimulazione. Poi, quando Camilla usciva, ella si agitava per tutte le stanze, moveva le sedie, morsicchiava un fiore, beveva d'un fiato un gran bicchiere d'acqua, si guardava nello specchio, si affacciava alla finestra, si abbatteva a traverso il letto, sfogava in mille modi l'irrequietudine, l'esuberanza della vitalità sensuale. Tutto il suo corpo, nel tardivo fermento della verginità, si era arricchito ed espanto. La sua testa non era bella, non aveva la quadratura vigorosa, lo splendore olivastro di certe razze d'Abruzzo, quelle pure linee del naso e del mento svolgentisi grecamente nella latina ampiezza della faccia. Ma ella, inconsapevole, sotto la goffaggine delle vesti grige, sotto la cascaggine delle pieghe incomposte, celava un bel corpo delicato. Erano i giorni primi di giugno: sorgeva l'estate dalla primavera, come da un campo d'erbe un àloe. Tra il mare e il fiume tutto il paese di Pescara godeva nella ventilazione salina e nel refrigerio fluviale, come distendendo le braccia verso quei naturali confini d'acqua amara e d'acqua dolce. Salivano alla stanza di Orsola allora le blandizie della temperie; insetti lucidi urtavano ai vetri e rimbalzavano, come una grandine d'oro. La vergine, se era sola, provava un bisogno di distendersi, di gettare lungi le vesti, di giacere, e di raccogliere su la pelle quella blandizia ignota che fluttuava nell'aria. Cominciava lentamente a spogliarsi, con gesti pigri, indugiando con le dita in torno alle allacciature e ai fermagli, facendo piccoli sforzi svogliati nel cacciar fuori le braccia dalle maniche, fermandosi a mezzo e abbandonando in dietro la testa dai capelli crespi e corti, quella sua testa di giovincello. Lentamente, sotto l'amorosa fatica, dalla informità delle vesti, come dalla scoria del tempo una statua diseppellita, il corpo ignudo si rivelava. Un mucchio di lana e di tela vile era ai piedi della pulzella così purificata, e da quel mucchio ella come da un piedestallo sorgeva nella luce coronandosi con le braccia, mentre al contatto dell'aria una vibrazione a pena visibile le correva a fior della pelle. In quell'attitudine momentanea tutte le linee del torso si distendevano e salivano verso il capo ricinto; si appianava la leggera onda del ventre non anche deturpato dalla concezione; gli archi delle coste si disegnavano in rilievo. Poi, se un insetto entrava nella stanza, il ronzio aliante in torno ed accennante ad attingere la nudità, il ronzio sbigottiva Orsola; ed era allora un difendersi dalla puntura mal temuta, erano movimenti serpentini, scatti di muscoli sotto la cute, paurosi raggruppamenti di membra, falli dei malleoli non bene forti al gioco. Poi, così eccitata dal moto e calda, ella aveva voglie nuove. Apriva l'uscio, cauta in sospetto; e metteva fuori il capo guardando nell'altra stanza. C'era un odore di chiuso, quello squallore inanimato che hanno le scuole senza fanciulli. Nelle tabelle quadrate l'alfabeto cubitale e i gruppi dei dittonghi e delle sillabe stavano muti dominatori del luogo. Orsola si avanzava evitando co' piedi nudi gli interstizii del pavimento smosso, provando la titubanza di chi cammina scalzo per la prima volta su un piano aspro e la confusione di una donna che non sente più in torno al suo passo l'impedimento abituale della veste. Andava così fino alla terza stanza, dov'era l'acqua. Intingeva le mani, si spruzzava tutta, coraggiosamente, sussultando se una gocciola più grossa le rigava l'epidermide. Usciva di là, tutta sparsa di rugiada: andava verso lo specchio di un antico canterano. Restavano in quel canterano ancóra frammenti di intarsio qua e là. Lo specchio, che celava un armario sovrastante, aveva in torno fregi misti d'oro e di colori e in alto due puttini decapitati. Orsola saliva fin là, attratta da una irresistibile curiosità di vedersi nuda. La sua persona tutta ancóra fresca di gocciole sorgeva nell'offuscamento dello specchio come in un verdazzurro fondo marino. Ella si guardava sorridendo. Il sorriso, ogni movimento dei muscoli pareva far tremolare tutte le linee della nudità nello specchio come quelle di una imagine dentro le acque. Allora ella cominciava una specie di mimica vanitosa, guardando riprodursi tutti i suoi gesti nella lastra, aprendo le labbra per mostrare i denti, alzando le braccia per mostrare le ascelle, presentando la schiena arcata e forzando il capo a volgersi in dietro: fin che un pazzo impeto di ilarità, dinanzi a quello spettacolo di sé, le scuoteva tutta la persona. In fondo in fondo, dietro la donna, si rifletteva dalla parete avversa la tabella dell'alfabeto.
<B>XIV</B>
Ora avvenne che in uno di quei momenti battesse alla porta della scala Lindoro venuto su con le conche. Orsola gridò: - Aspetta! E raccolse da terra le vesti, in furia; se le mise addosso, in furia; andò ad aprire. Erano le sei di sera: il riverbero bianco del palazzo di Brina entrava nella stanza; tutto il paese di Pescara, grande ospizio di rondini, cantava. I due, in mezzo, ritti, parlarono del ritrovo imminente. Lindoro con la sua loquacità cercava di vincere le estreme esitazioni della pulzella; poiché egli già teneva una parte della mercede, e l'adescava il resto. L'artifizio persuasore gli avvivava le parole, gli occhi, i gesti. Egli aveva nel fiato l'odore del vino, e nella faccia, su le tempie, pe 'l passaggio recente del rasoio, piccole macchie rosse e violacee. Mentre parlava gli si scopriva la fila dei denti eguale e schietta, una di quelle forti chiostre che spesso armano le bocche plebee; e la singolarità emergeva vivacemente dalla generale turpitudine dell'uomo. Orsola opponeva dubbii, paure, ad interrompere; ma già, poi che l'impudicizia a mano a mano sorgendo più calda dal fòmite del vino bevuto si insinuò nelle persuasioni del galeotto, ella cominciava a turbarsi. S'era ritirata a poco a poco verso il muro, appoggiandovisi. Dalle aperture lasciate qua e là nell'abito per furia del rivestirsi, si intravedevano i lembi del lino. La gola era tutta scoperta, i piedi senza calze nascondevano nelle pianelle soltanto le dita. Ma ella, a un punto, involontariamente, per quel cieco istinto da cui una donna è avvertita d'essere innanzi a un uomo bramoso, corse con la mano a chiudere sotto la gola, sul petto gli uncinelli. Quell'atto, col quale Orsola così riconosceva nel mezzano l'uomo, quell'improvviso atto fece scattare dall'abbiezione di Lindoro un impeto di orgoglio maschile. - Ah egli dunque aveva potuto per sé stesso turbare una donna! - E si fece più da presso; e, come il coraggio del vino lo animava, quella volta nessun ritegno di viltà trattenne il bruto.
<B>XV</B>
Orsola rimase inerte, lunga su i mattoni, con nelle vesti, con in tutta la figura lo scompiglio della donna violata. Ma, quando udì i passi di Camilla nella scala, dal fondo della sua languidezza si levò su un gomito; rapidamente passò le mani su le vesti sconvolte; ritrovò le parole per dire alla sorella che una sùbita mancanza di forze l'aveva fatta cadere nel mezzo della stanza. Fuori, annottava. Sul paese si spandeva la grande frescura glauca della sera di giugno, originante dall'Adriatico. Voci e risa empivano la piazza; giù pe 'l casamento cantava la gioia sabatina degli abitanti sollevati. Dal secondo pianerottolo Teodora La Iece gridò: - Comare Camilla, comare Orsola, venite? Orsola seguì la sorella, senza parlare, senza pensare. Durava fatica a ricordarsi: una specie di ebetudine le teneva ancóra la memoria. Teodora le empiva gli orecchi del suo chiacchierio di femmina maldicente e petulante. - Sapete, comare, la figlia di Rachela Catena si marita. - Ah. - Sapete, piglia Giovannino Speranza, quel rosso che tiene locanda alla Pesceria e ha il mal di San Donato, liberanosdòmine. - Ah. - Sapete, comare; Checchina Madrigale se n'è scappata un'altra volta a Francavilla. Voi la conoscete; quella grassa che sta di casa a Gloria, nera, col naso a becco... quella. Teodora seguitando aveva preso il passo di Orsola. Camilla veniva un poco in dietro, a capo chino, senza badare ai peccati di mormorazione che la lingua della tessitrice commetteva contro il prossimo. Per le vie tutta la gente godeva l'aria; gruppi di donne passavano, in vesti di tela, con braccia nude sino al gomito. - Comare, guardate Graziella Potavigna che falbalà s'è messo! Guardate Rosa Zazzetta, con un sergente avanti e uno dietro... Ah, voi non sapete? E qui una storia d'amorazzi piena d'indiscrezioni salaci, susurrata quasi all'orecchio. Per obliare, Orsola si immerse nel pettegolezzo intieramente, con una specie di furia convulsa, non dando a sé stessa il tempo di ripensare, interrogando, eccitando Teodora alla chiacchiera, temendo gli intervalli di silenzio, riempiendoli con sussulti di riso. Ella aveva quasi un godimento amaro a sentire i vituperii degli altri. - Oh, ecco Don Paolo! Veniva in contro con la sua bella placidezza Don Paolo Seccia, un ottuagenario ancóra aspro e verde come un ginepro. - Venite con noi, Don Paolo: usciamo fuori. Tutti i macelli per la via di qua, di là, avevano i loro manzi freschi penzolanti in mezzo alla porta: l'odore della carne bovina si spandeva dalle ventraie aperte e assaliva le nari. Più in su, lunghe file di maccheroni stavano attelate al lume della luna che le guardava dalla cima di un'antenna soperchiante la caserma. Gruppi di soldati si affollavano in torno alle rivenditrici di frutta, vociferando. - Andiamo alla Bandiera - disse Teodora, dando la precedenza a Don Paolo ed a Camilla. Orsola passò in mezzo a tutti quei rumori e quegli odori forti, stordita. Cominciava alfine uno sbigottimento vago a sommuoversi dal fondo, a torcerle la bocca nel riso, nelle parole, a impedirle la lingua. Anche certi piccoli tormenti fisici la molestavano e la richiamavano alla realità delle cose. Ella non sapeva più sfuggire a sé stessa: le moriva la voce fra i denti, l'angoscia le serrava la gola, il fantasma del peccato enorme e irrimediabile le si drizzava dinanzi. Ella ora si sentiva morire dalla fatica di reggersi in piedi, di mettere i passi: si sentiva percossa dalla spietata animazione della vita nella strada che è di tutti. - Dunque, comare mia, quel guercio del marito senza saper nulla di nulla... - diceva Teodora riannodando la maldicenza interrotta. Andavano per la Bandiera. Il ponte a battelli, su la sinistra, cavalcava il fiume. Dall'altro lato, la mole cupa e grave del bastione si disegnava nel chiarore. I vecchi cannoni di ferro, piantati con la bocca nel terreno, si dilungavano in fila trattenendo le gómene; grandi àncore di ferro ingombravano lo scalo. Nelle tolde, a riva, i marinari sotto le tende mangiavano e fumavano: le tende illuminate contrastavano con un rossore sanguigno l'albore della luna. Intorno alle prore, su l'acqua larghe chiazze come di materia liquefatta fluttuavano lentamente. -...mandò a chiamare don Nerèo Memma, figuratevi! - seguitava Teodora, implacabile. - Chi parla del dottor Dulcamara? - fece Don Paolo, a cui era giunto quel nome, ridendo dalla franca bocca ancóra armata di avorii. Orsola non sentiva più: ella era pallida come la faccia della luna. Da prima, tutta quella gran pace luminosa piovente dal cielo sul fiume e tutte quelle lunghe vene di odore marino corrente pe 'l fresco le avevano dato sollievo; poiché dinanzi a quello spettacolo di dolcezza i fantasmi vagheggiati dell'amore in fondo a lei si risollevavano e le sommità del sentimento al raggio lunare riscintillavano. Fu, sùbito dopo, un tumulto confuso in cui ella udiva battere le arterie con un susurrìo assordante che parve dilatarsi e riempire tutta l'aria d'un tratto. Le mancava sotto i piedi il suolo fermo. Il limite delle acque si confuse, per la vertigine; il fiume invase la strada; acque acque acque si sparsero in torno. Poi, d'un tratto, uno scintillìo di bagliori si accese dentro gli occhi di lei, un tremolìo crescente di fiammelle fatue che rompevano, si intrecciavano, si allontanavano, e si fondevano e perdevano serpentinamente nell'ombra. In quella illuminazione la figura di Marcello compariva e spariva, con una rapidità e una mutabilità di sogno. La vertigine cessò. Orsola riconobbe i riflessi della luna nel fiume placido; continuò a camminare, stupefatta, indebolita, quasi in punto di venir meno. - Stanca, eh? comare; voi non siete abituata, si sa. Appoggiatevi a me, appoggiatevi - diceva Teodora. - La figlia di Donna Mentina Ussoria, quella più piccola, butterata, stava proprio innanzi alla bottega, sapete, su la piazzetta... Erano alla caserma dei finanzieri. Grandi mucchi di carrube mandavano un odore forte come di pelli conciate; e la strada seminata di scaglie d'ostriche scricchiolava sotto i passi. Due sciàbiche, presso la riva, facevano pesca d'anguille, in silenzio, con la luna propizia. Ma la sonorità del mare empiva di grandezza il silenzio. Annunziavano la foce gli ondeggiamenti del sale superanti il lieve fiore dell'acqua dolce. - Torniamo in dietro, belle figliuole - disse Don Paolo, prendendo una carruba dal mucchio vicino. Orsola si lasciava condurre. Ella durava fatica a rattenere l'ansia del respiro; poiché ora il suo stato con una terribilità incalzante, le si ripresentava dinanzi e schiacciava tutti gli aneliti e i tumulti del sentimento suscitati dalla voluttà della notte lunare. Ella vedeva, nella fissazione del suo pensiero, la figura di Lindoro levarsi e vivere; si sentiva un'altra volta afferrare e palpare da quelle mani aspre, soffocare da quel fiato caldo di vino e di libidine, violare su i mattoni della stanza. Ma in quel momento, pensava, ella non aveva resistito, non aveva gridato, non aveva fatto nessun moto per opporsi; ella aveva soggiaciuto, senza forze, non distinguendo più nulla, non sentendo se non una gran gioia mista di dolore inondarle le fibre. Allora il ribrezzo e il languore si avvicendarono nella sua carne, agghiacciandola, affocandola. Inconsapevole, guardava innanzi a sé, pallida e con gli occhi ingranditi e più neri. - Sentite come il vino canta! - disse Don Paolo, soffermandosi. Nelle barche i marinari stavano distesi tra i cordami, in mezzo al fumo del tabacco di Dalmazia, e cantavano di femmine belle, in gran coro.
<B>XVI</B>
Camilla, su l'inginocchiatoio, pregò a voce bassa, co 'l capo prostrato, con giunte le mani, lungamente; poi accese la lampada votiva a Maria Vergine, per la notte; piegò poi nel sonno tenendo il dolce cuore di Gesù tra i fiori vizzi del seno. Il suo respiro di dormiente era religioso come se sfiorasse l'ostia sacra su la paténa d'argento. Nella volta le ombre seguivano le oscillazioni della fiammella alimentata dall'olio. I rumori del legno che si dilata e dei tarli che ròdono, le voci misteriose dei vecchi mobili nella calma notturna, rompevano il silenzio. Orsola stava nello stesso letto, a fianco di Camilla, distesa, senza muoversi, senza chiudere gli occhi, poiché una grande stanchezza insonne le occupava le membra e la vigilanza assidua dell'angoscia le martoriava l'anima tapina. Ella ascoltava il silenzio; spiava sé stessa con una curiosità ansiosa, come per sentire qual mutamento si fosse compiuto nell'essere suo. A un tratto, Camilla nel sonno cominciò a mormorare parole confuse, frammenti di parole incomprensibili, movendo appena le labbra, mettendo lunghi respiri. La testa di lei, scarna, affilata, scolpita rigidamente dalla penitenza e dal digiuno, ingiallita dal lume della lampada, posava su la bianchezza del guanciale come una effigie mal dorata di santa sopra una raggiera. Piccole ombre violacee segnavano l'interno delle narici, i solchi del collo teso e pieno di corde, le fosse delle gote, le occhiaie d'onde sporgeva grande il globo coperto dalla pelle molle della palpebra. Ella pareva così il cadavere di una martire, dentro cui scendesse lo spirito di Dio. Benché quello dei soliloqui notturni non fosse il primo, Orsola sentì freddo in mezzo ai capelli: un terrore improvviso l'assalì e la oppresse. Ella istintivamente si rannicchiò, cercò di allontanarsi dal corpo della sorella ritraendosi su l'orlo della sponda; stette immobile, sospesa negli intervalli di silenzio, con gli occhi fissi su la bocca della dormiente, provando un sordo sussulto in mezzo al petto se quelle labbra si movevano a profferire nuove parole. Ella non comprendeva; ma qualche cosa di lontanamente profondo e di solenne era in quel mormorìo interrotto, un mistero soprannaturale si levava da quel corpo inerte e inconsapevole che parlava senza udire la propria voce. Nella stanza passava l'alito del sepolcro; per la fantasia sconvolta dell'insonne le ombre oscillanti prendevano forme spaventose e minacciose di spettri; l'aria pareva solcata da romori ignoti. Tutte le cose su cui l'allucinata si rifugiava con lo sguardo, tutte le cose si trasformavano e si animavano ed andavano verso di lei. Allora l'idea del castigo e della pena eterna ancóra una volta le risorse nella conscienza e la incalzò. Ella si abbatté sotto l'incubo del suo peccato, mettendo in croce le braccia sul petto per difendersi dalle minacce dei demonii, tentando pregare con la lingua impedita dal terrore aggrappandosi con un supremo slancio all'àncora del pentimento, all'ultima salvezza. Ella si sentiva perduta, chiedeva misericordia dall'intimo del suo cuore al divino Sposo tradito, a Gesù buono e grande, a Colui che perdona. La voce di Camilla si esalava in sospiri, si confondeva in un borboglìo tremulo, si spegneva nella respirazione lenta ed eguale, a mano a mano che l'entusiasmo del sogno mistico si andava placando. Le ombre seguitavano ad oscillare. Non ancóra il Crocefisso discendeva dalla parete a raccogliere con le dolcissime braccia la pecorella tornante all'ovile.
<B>XVII</B>
- Ha detto il Signore per bocca del profeta Gioele, figlio di Petuel: « Avverrà che io spanderò il mio Spirito sopra ogni carne, e i vostri figliuoli e le vostre figliuole profetizzeranno; i vostri vecchi sogneranno sogni, i vostri giovani vedranno visioni ». Questo Spirito di cui gli Apostoli ebbero le primizie e la beatitudine, fu per essi e per noi uno Spirito di verità, uno Spirito di santità e uno Spirito di forza... O divino amore, o sacro legame che unisci il Padre e il Figlio, Spirito onnipotente, fedele consolatore degli aflitti, penetra negli abissi profondi del nostro cuore e infondici la tua gran luce!- Così predicava Don Gennaro Tierno nella Pentecoste, dall'altare maggiore, vòlto al popolo ascoltante. Sopra di lui, in alto, la terza persona della SS. Trinità apriva l'arco radioso delle ali d'oro, e nella chiesa l'illuminazione dei ceri spandeva un rossore simile a un riflesso d'incendio. Gli enormi pilastri di pietra sostenenti le due navate, coperti di barbare sculture cristiane, cavalcavano verso l'altare pesantemente; su le pareti gli avanzi dei mosaici rilucevano: qualche testa di Apostolo, qualche braccio rigido di Santa, qualche ala d'angelo emergeva ancóra nell'offuscamento e nello scrostamento operato dai secoli. Tra i mosaici pendevano piccole navi <I>ex-voto</I> dedicate al tempio dai naufraghi superstiti. E in mezzo alle pietre rudi e alle croste fosche si elevava agile un gruppo di colonne rosee a spira sorreggenti il pergamo anche marmoreo fiorito di acanti e animato di bassirilievi. - Spandi la tua dolce rugiada su questa terra deserta, a fin che cessi la sua lunga aridità. Manda i raggi celesti del tuo amore fino al santuario dell'anima nostra, a fin che penetrandoci accendano fiamme consumatrici delle nostre debolezze, delle nostre negligenze, dei nostri languori! - seguitava il prete, salendo ai supremi culmini della sua eloquenza e della sua potenza vocale. Orsola, da presso, ascoltava, tutta raccolta. Ella si era rifugiata nella casa del Signore, era tornata al talamo; voleva che il Signore la purificasse e la ricevesse un'altra volta nella benignità del suo grande abbracciamento. Quel barbaglio subitaneo di fede la abbacinava, le faceva quasi dimenticare ogni fallo anteriore. Le pareva che subitamente dalla sua anima le macchie si cancellassero e dalla sua carne cadessero le scorie della impurità terrena. Giammai ella si era accostata all'altare di Dio con un più profondo tremito di speranza; giammai aveva ascoltato la parola di Dio con una più lunga ebrezza. Dall'istante in cui l'orrore della dannazione le si levò nella conoscenza, ella si compresse in una specie di raccoglimento cupo, sorvegliando sé stessa, sorvegliando i proprii atti, i proprii pensieri, i minimi moti pe 'l timore che quella veemenza di pentimento si esalasse, per l'ansia di conservare intatto dentro di sé quel fiore di fede rigermogliato d'improvviso. Fu una specie d'assunzione verso Gesù, con un ripudio di ogni legame umano. Ella si esaltò nella lettura dei libri sacri; si gettò nella contemplazione delle imagini e dei misteri; lottò contro le molli viltà della carne, contro i calori della giornata, contro l'insidie della notte, contro i profumi che le portava il vento, contro il soffio che saliva dai suoi ricordi impuri, contro le voci che parevano vellicarle l'udito e susurrarle segreti nuovi di piacere. Dopo quella settimana solitaria di passione, ella ora deponeva il sacrificio ai piedi dell'altare; beveva il balsamo della parola di Dio, fissando gli occhi in alto alla colomba radiosa e sentendosi a poco a poco naufragare nel pelago dell'estasi. - Vieni dunque, vieni, dolce consolatore delle anime desolate, rifugio nei pericoli, protettore nella sventura. Vieni, o tu che purifichi l'anime da ogni macchia e ne guarisci le piaghe. Vieni, forza del debole, appoggio di quegli che cade. Vieni, stella dei naviganti, speranza dei poveri, salute di chi è per morire! - incalzava Don Gennaro Tierno, alto nella pianeta d'argento, vermiglio in volto, con occhi forzanti le orbite, con gesti che parevano toccare il cielo. Nella chiesa una calura grave si era addensata su i cristiani. Le navate si schiacciavano su i pilastri; in una vetrata la testa di San Luca evangelista raggiava percossa dal sole e il gran manto metteva nell'aria una zona di crepuscolo verde. L'ambone marmoreo si levava come un miracoloso fiore mistico, in quel vapore di luce. - Vieni, o Spirito, vieni ed abbi misericordia di noi! Orsola teneva gli occhi all'alto: su l'onda di tutte quelle invocazioni ella ascendeva verso il nimbo, penetrata dalla ineffabile soavità che attira l'anime all'odore degli aromi spirituali. Le parve un istante di vedere la colomba d'oro balenarle un lampo di assentimento, e il cuore le balzò di giubilo nel seno come San Giovanni nelle viscere d'Elisabetta alla visita della Vergine Maria. - Per nostro signore Gesù Cristo. <I>Amen</I>. Il prete, tutto d'argento, si volse verso la custodia, dicendo a bassa voce un <I>credo</I>. Due turiferarii bianchi ai lati cominciarono a scuotere i turiboli fumanti e odoranti. Un nuvolo di incenso avvolse la vergine violata che stava da presso; e subitamente un invincibile fiotto di nausea dal fondo della maternità le salì alla gola e le fece torcere la bocca.
<B>XVIII</B>
Non c'era dunque scampo? - Più giorni ancóra ella oscillò nel dubbio, aspettando l'ultima prova. Vertigini la prendevano al levarsi, quando ella metteva a terra i piedi; sfinimenti vaghi la invadevano su la sera, fievolezze in cui il pensiero, la volontà, i ricordi parevano quasi avere la confusione, la sonnolenza fluttuante delle prime ore mattutine. Ella faceva le cose per abitudine, con gesti di sonnambula, stancamente. Nella scuola, se veniva sul vento l'odore del pane caldo dal forno, ella si sentiva morire, sentiva tutte le viscere montarle d'un tratto alla bocca; e un sapore di lisciva le si spandeva nella lingua. Un giorno, mentre un bimbo succhiava una ciliegia, una voglia violenta di quel frutto la fece contorcere su la sedia, impallidire e sudare. Poi, ella, dopo il pasto, tutta amara di nausea, si metteva lunga sul letto, si lasciava occupare dal sopore: il caldo era pesante, le mosche ronzavano, le grida d'un venditore di occhiali passavano sotto la finestra, rauche nel silenzio. Sfiduciata, ella non cercò più la chiesa: l'incenso anche la ributtava. Ella non pensò più a Marcello; non lo vide più, non ebbe di lui se non un ricordo incerto, come di un sogno remoto. L'ansia presente la teneva tutta. Lindoro saliva a portar acqua come prima. Egli giungeva su, rosso e stillante di sudore; posava le conche, lanciando sguardi di sbieco alla vittima. Orsola si ritirava nell'altra stanza o si curvava sul lavoro stringendo i denti nella collera repressa. Lindoro se ne andava, come un cane frustato; ma il pensiero di aver posseduto quella donna gli turbava il sangue: avrebbe voluto ora trascinarsela con sé, tenersela, esserne il padrone come di una merce da usare e da vendere. Cupidigia sensuale e avidità di guadagno in lui si mescevano. Una sera egli aspettò che Camilla uscisse, alla porta di strada; poi salì a precipizio per sorprendere Orsola, per trovarla sola nella casa. Quando egli batté all'uscio Orsola lo riconobbe e si sentì rimescolare. - Che vuoi da me, che vuoi? - chiese ella con la voce soffocata, senza aprire. - Sentimi un momento, sentimi! Non aver paura; non ti faccio male... - Vattene, cane, infame, assassino... - proruppe la donna, con una veemenza stridula di vituperii, togliendo il freno a tutto l'odio accumulato contro colui. - Vattene, vattene! E, sfinita, si ritrasse nella sua stanza, si gettò, su i guanciali mordendoli fra le lagrime.
<B>XIX</B>
Non c'era più scampo. - La figlia di Maria Camastra aveva bevuto il vetriolo ed era morta così, con un bimbo di tre mesi nel ventre. La figlia di Clemenza Iorio s'era precipitata dal ponte, ed era morta così, nella fanga della Pescarina. Bisognava dunque morire. Quando questo pensiero balenò alla mente di Orsola, cadeva il pomeriggio. Tutte le campane sonavano a gloria, nella vigilia del <I>Corpus Domini</I>; grandi tribù di rondini schiamazzavano e turbinavano sul palazzo di Brina, si assembravano a parlamento su l'Arco. Una nuvola rossa sovrastava le case, simile forse a quella che versò bitume ardente su l'empietà di Sodoma. Orsola al baleno di quel pensiero si smarrì, ebbe paura. Poi a mano a mano che il sentimento della vergogna la persuadeva al passo, in fondo a lei una sorda ribellione di vitalità cominciava a levitare, le viscere fremevano. Ella d'un tratto sentì il rossore e il calore del suo sangue chiazzarle la fronte, le guance. Si levò, dalla sedia, torcendosi le braccia nell'agitazione della lotta. E, con un impeto di forza nervosa, finalmente uscì dalla stanza, entrò nella cucina, cercò su le tavole un bicchiere e il mazzo degli zolfanelli. L'odore forte del carbone le turbava lo stomaco; la vertigine le prendeva il cervello. Ella trovò tutto: mise gli zolfanelli a disciogliersi nell'acqua; rientrò nella sua stanza e nascose in un angolo, sotto un mobile, il bicchiere letale. - Dio mio! Dio mio! Ella aveva ora paura di trovarsi così, sola, dinanzi al suo proponimento. Le tornò subitamente nella fantasia il cadavere di Cristina Iorio intraveduto quel giorno mentre lo portavano su la barella alla casa della madre: un corpo gonfio come un otre, con la melma ne' capelli, nel cavo degli occhi, nella bocca, tra le dita de' piedi violetti... - Dio mio, Dio mio, morire! E sussultò come se una mano fredda e rigida le si fosse posata sul capo: un brivido le corse tutte le membra, le durò un momento sul cranio con l'impressione di una lama che vi penetrasse per distaccarne la pelle. - No, no, no! - disse con la voce alterata, come se volesse scacciare da sé il contatto di qualche cosa orribile. E andò alla finestra, sporse il capo fuori, cercando un rifugio. Ella rimase là, inchiodata, attonita dinanzi a quella visione d'incendio biblico e a quella tregenda di uccelli neri. Quando si volse un poco, intravide nell'ombra della stanza un bagliore strano: il luccichìo delle mezzelune d'oro su la veste della Madonna di Loreto e il luccichìo delle medaglie. Ebbe ancóra paura; si schiacciò sul davanzale si sporse di più; stette là, senza avere il coraggio di muoversi. Allora, in quella immobilità, l'indebolimento serale cominciò ad invaderla; ed ella si strinse la testa grave tra le palme, socchiuse le palpebre. - Ah! D'improvviso le si era aperto nell'animo uno spiràcolo. - Sì, sì, ella se ne rammentava! Spacone, il mago, quel vecchio con la barba lunga, quello che faceva i miracoli e aveva le medicine per ogni male... Era venuto al paese qualche volta a cavalcioni di una muletta bianca, con due triangoli d'oro agli orecchi, con una fila di bottoni larghi come cucchiai d'argento senza manico. Tante donne uscivano su gli usci e lo chiamavano, e lo benedicevano. Egli aveva guarito ogni sorta di malattie con certe erbe e certe acque e certi segni del dito pollice e certe parole magiche. Egli doveva avere i rimedii pure per quella cosa... sì, sì, li doveva avere! E Orsola rivisse in un barlume di speranza, mentre il languore saliva saliva. Dinanzi a lei, le cose annegavano nel crepuscolo; il giorno vermiglio, penetrato dalle ceneri della notte vicina, mancava in un lento scoloramento, senza contrasti. Una rondine, come un pippistrello, passò radendole il capo. Il sùbito alito dell'estate le soffiò nella faccia, le toccò ogni vena, le scosse fin le radici infime della vita. Ella, con un moto involontario e inconsapevole, mise le mani sul ventre e le tenne così un istante. L'indefinito sentimento della maternità le attraversava l'anima. E dal fondo, misteriosamente, un ricordo della convalescenza lontana si svegliò. - Ah, era di marzo... una gran bianchezza ridente... e sopra di lei le <I>spie</I>, le lanugini molli piovevano.
<B>XX</B>
Così fu che la mattina dopo ella uscì dalla casa, di sotterfugio; e s'incamminò sola fuori del paese, per la strada nuova di Chieti. Nelle vicinanze di San Rocco abitava Spacone. Sotto la maestà di una quercia druidica, egli compiva i miracoli e formulava i responsi. Tutto il contado, in venti miglia di circuito, ricorreva a lui, come a un apostolo della Providenza. Nelle epidemie del bestiame indigeno, mandre di bovi e di cavalli si raccoglievano in torno alla quercia per ricevere il talismano preservante dal morbo: le orme delle unghie equine e bovine facevano come un circolo di incanti su l'erbe semplici del terreno. Quando Orsola s'incamminò, era nella terra pescarese un gran giuoco d'ombre e di luci. Le nuvole nomadi trasmigravano dalla marina alla montagna, come carovane con buone salmerie d'acqua, per quel cielo arabico del mese di giugno. A intervalli, larghe zone di terra si sommergevano nell'ombra, altre zone emergevano illustrate; e, come l'ombra era turchina e mobile, la campagna così dava apparenza di un arcipelago che galleggiasse copioso di alberi e di fromento. Il canto degli uccelli lodava la maturità delle biade. Al primo spettacolo Orsola ebbe un insolito ristoro; poiché la libertà della campagna, la felicità della luce sul fogliame, gli odori cordiali dell'aria circondandole d'un tratto la persona le mossero il sangue, e la nuova speranza in lei al dispiegarsi dell'orizzonte si fortificò ed esultò. Ella si alleggeriva di tutte le angosce, vivendo per due sentimenti soli, per la speranza della salvazione corporea e pel desiderio di raggiungere la mèta. In fondo, alla mèta, ella vedeva nella sua fantasia sorgere il vecchio benefico e illuminarsi misticamente. Per una nativa tendenza superstiziosa, ella trasformava quella figura, la ingigantiva e la vestiva di una dolcezza cristiana, la cingeva il nimbo. Allora tutte le dicerie che correvano tra il volgo le tornarono alla memoria confusamente e gittarono sprazzi di luce meravigliosa su la fronte di Spacone. Allora ella si rammentò che Rosa Catena, in un giorno lontano della malattia, aveva parlato del Vecchio con una reverenza devota citando miracoli. - Un cieco di Torre de' Passeri era andato a San Rocco ed era tornato dopo tre dì con gli occhi che ci vedevano e con una cifra turchina su la tempia. Una femmina di Spoltore, invasa dagli spiriti maligni, era tornata mansueta come un'agnella, dopo aver bevuto due sorsi d'un'acqua custodita in una piccola zucca secca. Così a poco a poco, lungo il cammino, pel concorso di tanti elementi sparsi si venne formando nella mente di Orsola una specie di leggenda. E a poco a poco, giacché nulla possono gli uomini senza l'assistenza di Dio, sorse anche la persuasione che il Vecchio fosse un inviato del cielo, un redentore delle anime dalla dipendenza corporale, un distributore di grazie celesti su la terra ai caduti. - La speranza estrema non era discesa su la peccatrice improvvisamente, quasi per influsso divino, fra i segnali accesi nell'aria? E nella Pentecoste la colomba non aveva balenato dall'alto, agli occhi della pregante, un lampo di buona promessa? La promessa ora si compiva nel santo giorno del <I>Corpus Domini</I>. Orsola dunque, tutta calda di fede e di giubilo, andava su la polvere della via nuova, non curando la fatica dei passi. Ai due lati, le siepi biancheggiavano come coperte di escrementi d'uccelli. Gruppi di pioppi sonori stavano su i limiti; e i tronchi inargentati riverberavano le variazioni della luce. Le contadine della Villa del Fuoco, nane, co 'l naso camuso, con le labbra schiacciate, femmine cafre dalla pelle bianca, venivano incontro a due, a tre. Le vicende delle nuvole occupavano l'immenso teatro della campagna. Orsola passò il Mulino, passò la Villa. Una energia nervosa le animava il passo. Ella si sentiva battere il vento su la nuca e sentiva sul capo a intervalli stormire i pioppi. Ma l'oscillare delle ombre e la polvere cominciavano a turbarle un poco la visione; il calore del moto le affluiva alla testa; la volontà era tutta occupata nell'insolito sforzo materiale dell'incedere. Ella così andò innanzi in una specie di stordimento crescente che si mutava in malessere; e, vinta dalla fatica e dal caldo, si lasciò allettare da un mucchio di olivi messi in salita a sinistra. Passavano quattro o cinque zingari seminudi, bronzini, con amuleti luccicanti sul petto, a cavalcioni di certi asini rossastri. Uno di loro fischiava urtando con le calcagna il ventre della sua bestia. Tutti avevano in mano canne e portavano bisacce di pelle su le cosce. Guardarono la donna rifugiata sotto gli olivi e mormorarono ridendo. Orsola ebbe paura di quegli occhi che mostravano il bianco nello sguardo, e stette sbigottita finché il gruppo non si allontanò. Lo scoraggiamento incominciava a impadronirsi di lei; la solitudine cominciava ad esserle paventosa, poiché nella campagna correva per lunghi brividi l'annunzio della pioggia e un silenzio quasi lugubre scendeva nell'aria dalle nuvole raccolte. Ella s'era appoggiata ad un tronco: freschi soffi intermessi le investivano la persona e le gelavano il sudore nei pori, soffi che accorrevano a lei co 'l fruscìo di un animale furtivo nell'erba; mentre in torno il tremolìo del sole pareva un riverbero d'acque lontane. Pallidi fiori d'un giallo sulfureo facevano onda a pie' degli olivi. Un ricordo scese allora dai buoni alberi su l'animo della donna. - La chiesa era tutta piena di palme benedette e di aromi, quel giorno; ed ella andava tra il popolo sorretta dalle braccia di Marcello, in un gran tremore... Ma, come ella si soffermò in quel pensiero, le si smarrì la memoria; tutto le sfuggì in una incertezza di sogno. Soltanto, colpi sordi le batterono il cuore, sussulti d'angoscia le affannarono il respiro. Ella aveva ora la sensazione ottusa di un sopore che le cadesse sul cervello con la pesantezza d'un colpo di maglio. Un resto di volontà vigile le bastò a scuotersi debolmente e a discendere nella strada. Le nuvole raccolte verso la Maiella avevano preso il colore diafano e grigio di una massa pendula d'acque. Larghe trombe si avvicinavano dalla marina più cariche; e ancóra qualche azzurro campo si dilatava nell'alto. Un odore di umidità già saliva dalla polvere, da tutta la campagna ansante nell'aspettazione. Gli alberi immobili parevano assorbire la luce, si levavano anneriti in mezzo alla fumea dell'aria, popolavano di forme incerte la lontananza. Orsola camminava con una fatica immensa, sentendo che le forze stavano per abbandonarla. - Ecco, - pensava - arriverò a quell'albero e poi cadrò. - Ma non cadeva. Si scorgevano a destra le case di San Rocco. Un contadino veniva in contro a corsa. - Buon uomo, è quello San Rocco? - Sì, sì, voltate alla prima scorciatoia. Grosse gocce sonanti cominciarono a cadere; poi d'un tratto la pioggia crescente rigò l'aria di lunghe frecce bianche, di lunghe sferze che percotendo schioccavano. Un sommovimento mostruoso agitò allora le nuvole: sprazzi di raggi eruppero di qua, di là. Tutte le colline, in fondo, a traverso le liste della pioggia si accesero un attimo e si rispensero. Una fievole serenità d'argento si levò su la Maiella, parve acuirsi come una spada sottile. Orsola tentava di correre verso la quercia distante un tiro di schioppo. Le gocce le battevano su la nuca, le scivolavano per la schiena, le colpivano la faccia; e già le vesti erano tutte molli sino alla pelle. I passi le mancavano sul terreno sdrucciolevole. Ella cadde e si rialzò, due volte. Poi, quasi folle, si mise a gridare verso la casa. - Aiuto! aiuto! Una femmina uscì dalla porta e venne a sorreggerla, seguita da due cani che abbaiavano. Orsola si lasciò condurre senza poter più profferire una parola a traverso i denti serrati, livida, con la faccia stravolta. Non si riscosse se non dopo qualche tempo, per le domande che l'ospite le faceva. E allora, repentinamente, all'udire il nome di Spacone, si ricordò di tutto. - Ah, dov'è Spacone? - chiese. - E' a Popoli, donna santa: l'hanno chiamato. Orsola non resse più: cominciò a singhiozzare e a strapparsi i capelli. - Che volete, donna santa? Che volete? Io sono la moglie; ci son qua io... - miagolava la strega, trattenendole i polsi, incitandola a parlare. Orsola esitò un momento; poi disse tutto, a precipizio, tra i singulti, coprendosi la faccia. - Aspettate. Il rimedio c'è; ma costa cinquanta soldi, donna santa - fece la strega in quel suo idioma tutto molle di vocali, cantando quel bello appellativo per intercalare. Orsola sciolse un nodo nel fazzoletto e offerse cinque piccole monete d'argento. Poi aspettò, più calma. La stanza era vasta, ma bassa. Le pareti, su cui qua e là il salnitro fioriva, apparivano scagliose e verdastre. Rozzi idoli cristiani di maiolica popolavano quel fondo di spelonca; forme strane di utensili e di stromenti ingombravano le tavole. Era come un aspro santuario custodito da un semplicista monaco. La moglie di Spacone, dinanzi al camino, componeva il suo filtro, in silenzio. Era una femmina alta e ossuta, bianchissima in faccia, co 'l naso guasto, violetto come un fico, con i capelli rossi e lisci su le tempie, con due piccoli occhi di albina, tatuata nel mento, nella fronte, nel dorso delle mani. - Ecco, donna santa! Coraggio. Orsola ingoiò il liquido, d'un fiato; ma si sentì, subito dopo, da un'amarezza atroce mordere il palato e le viscere. Restò con la bocca aperta, premendosi il ventre con le mani, battendo rapidamente un piede sul pavimento, nello spasimo della prima contrazione uterina. - Coraggio, donna santa, coraggio! - le ripeteva la strega, fissandola con quegli occhi bianchicci, soffregandole le reni. - Avete tempo di arrivare a Pescara... Via! via! Orsola non poteva rispondere; alla bocca non le venivano che urli. I crampi le serravano lo stomaco, le irrigidivano i muscoli respiratori, le eccitavano il vomito. I bulbi visivi le ruotavano in alto, come se ella fosse entrata ne' sintomi di una convulsione epilettica. In tutto il suo debole organismo la potenza eccessiva della bevanda operava ora effetti inaspettati. Il parto falso si produsse quasi d'improvviso, con una di quelle terribili perdite per ove le forze della vita se ne vanno mollemente, insensibilmente, fluendo. - Gesù, Gesù, Gesù! - mormorava la strega, inquieta, presa da una sùbita paura dinanzi a quel povero corpo riverso. - Gesù, aiutatemi! Alle sollecitazioni di lei, Orsola rinvenne. E come dopo qualche tempo il profluvio parve arrestarsi, la meschina si potè levare in piedi; sospinta dalla femmina, uscire; giungere fino alla strada nuova, barcollando, pallida come se non le fosse rimasta sotto la pelle una goccia di sangue, ma tenuta viva dalla speranza che il maggior pericolo fosse ormai superato. Ora la campagna era tutta frescamente luminosa dopo la pioggia. Passava una fila di carretti carichi di gesso, e i grossi carrettieri di Letto Manoppello, pieni di vino, sdraiati su i sacchi fumavano. Come Orsola si mise dietro la fila, uno di quelli, l'estremo, gridò: - Ohè, volete che vi porti, bella figliuola? Quasi inconscia Orsola si lasciò tirar su dalle forti braccia dell'uomo, e stette così seduta sopra i sacchi. Non intendeva le grosse risa e i motti osceni che di carro in carro si propagavano. Con l'energia dell'istinto teneva le ginocchia serrate per impedire al flusso la via. Sentiva a poco a poco una specie di ottusità occuparle i sensi, così che gli sbalzi frequenti delle ruote su la ghiaia le davano appena un dolor sordo e il lezzo delle pipe le feriva appena le nari. Poi cominciò un susurro lontano agli orecchi, un tremante bagliore alla vista. Più volte ella sarebbe caduta se non l'avessero sorretta le mani del carrettiere, che incoraggiato dalla muta docilità di lei tentava qualche brutale carezza. Il paese di Pescara apparve in cima alla strada, in mezzo al sole, mandando suoni sul vento. - Fanno la processione - disse uno degli uomini. Tutti gli altri sferzarono; e la strada risonò sotto il trotto pesante, al tintinnìo de' sonagli, allo schiocco delle fruste. Quella violenza di scosse e di fragore richiamò per un momento Orsola al senso della realtà circostante. Ma, poiché l'uomo le cingeva i fianchi con un braccio e le soffiava il fiato vinoso nella guancia, ella per un cieco impeto si mise a gridare e a gesticolare quasi l'avesse presa il delirio. E il fantasma di Lindoro subitamente le si rizzò dinanzi agli occhi offuscati e potè anco suscitarle il ribrezzo dell'orrore in quel poco di sensibilità che le restava nei nervi. Appena il carro si fermò, discese a terra dai sacchi scivolando; tentò di muovere i passi, con la furia affannosa di chi cerchi raggiungere un luogo sicuro per cadere. Venivano in contro nella strada le verginelle coperte di veli candidi, con in mano i cèrei dipinti, e cantavano. Dietro la torma angelica, un grande sventolìo di drappi e di baldacchini ampliava l'aria beneficata dalla pioggia recente. E cantavano:
<I>Tantum ergo sacramentum Veneremur cernui</I>...
Orsola, intravedendo, voltò nel vicolo; giunse alla casa di Rosa Catena, entrò; presa dalla vertigine, cadde in mezzo al pavimento. E, come il profluvio del sangue ricominciava, la paralisi le occupò la metà inferiore del corpo, ogni facoltà di moto volontario in lei si spense. Rosa non era nella casa; la processione aveva attirato tutto il paese, quel giorno. In un angolo della stanza Muà, il padre, un mostro di vecchiaia umana, un cieco inchiodato per anni sul legname di una sedia dall'artrite deformante, tentava vagamente con la punta del bastone i mattoni intorno a sé per scoprire la causa del rumore improvviso; e un borbottìo bavoso gli esciva dalla bocca sdentata. Allora, ai piedi del mostro orrendo, in mezzo al sangue del peccato, con i pollici stretti nei pugni, senza grida, la sposa violata del Signore per alcuni attimi si agitò nella convulsione mortale. - Via! Via! Passa via! Via di qua! Il vecchio, credendo che fosse entrato il mastino del beccaio, allungava il bastone per scacciarlo; e percoteva la moribonda.
----------------------------------
<B>Il traghettatore</B>
<B>I</B>
Donna Laura Albònico stava nel giardino, sotto la pergola, prendendo il fresco all'ora meridiana. La villa taceva, tutta bianca, con le persiane chiuse tra le piante degli agrumi. Il sole raggiava un calore e un fulgore immensi. Era la metà di giugno; e i profumi degli aranci e dei limoni fioriti si mescolavano all'odor delle rose, nell'aria tranquilla. Le rose crescevano da per tutto, nel giardino, con una forza indomabile. Le masse magnifiche si movevano, lungo i viali, ad ogni soffio di vento, coprendo il terreno con l'abbondanza della loro neve odorante. In certi momenti l'aria, pregna dell'aroma, aveva un sapore dolce e possente come quello di un vino prelibato. Le fontane, invisibili tra la verzura, mormoravano. A tratti, la cima mobile scintillante degli zampilli appariva fuor del fogliame, scompariva, riappariva, con vari giochi; e alcuni zampilli bassi producevano nei fiori e nelle erbe un fruscìo e uno scompiglio singolari, sembrando bestie vive che vi corressero a traverso o vi pascolassero o vi scavassero tane. Gli uccelli, invisibili, cantavano. Donna Laura, seduta sotto la pergola, meditava. Ella era una donna già vecchia. Aveva il profilo fine e signorile; il naso lungo, lievemente aquilino, la fronte un po' troppo ampia, la bocca perfetta, ancóra fresca, piena di benignità. I capelli canuti le si piegavano su le tempie e le facevano intorno al capo una specie di corona. Doveva essere stata molto bella, nella gioventù, ed amabile. Era venuta da due soli giorni in quella casa solitaria, col marito e con pochi servi. Aveva rinunziato alla villa magnatizia che sorgeva sopra un colle del Piemonte, abituale soggiorno estivo; aveva rinunziato al mare, per quella campagna deserta e quasi arida. - Ti prego, andiamo a Penti - aveva detto al marito. Il barone settuagenario era rimasto da prima un po' stupefatto, a quello strano desiderio della moglie. Perché a Penti? Che s'andava a fare a Penti? - Ti prego, andiamo. Per mutare - aveva insistito Donna Laura. Il barone, come sempre, s'era lasciato persuadere. - Andiamo. Ora, Donna Laura custodiva un segreto. Nella giovinezza, la sua vita era stata attraversata dalla passione. A diciotto anni aveva sposato il barone Albónico, per ragioni di convenienza familiare. Il barone militava sotto il primo Napoleone, con molta prodezza; egli stava quasi sempre assente dalla sua casa, poiché seguiva ovunque il volo delle aquile imperiali. In una di quelle lunghe assenze, il marchese di Fontanella, un giovine signore che aveva moglie e figliuoli, fu preso d'amore per Donna Laura; e, come egli era bellissimo ed ardente, vinse alfine ogni resistenza dell'amata. Allora pei due amanti una stagione passò nella felicità più dolce. Essi vivevano nell'oblio di tutte le cose. Ma un giorno Donna Laura s'accorse d'essere incinta: pianse, si disperò, rimase in una terribile angoscia, non sapendo che risolvere, come salvarsi. Per consiglio del suo amico, partì alla volta della Francia; si nascose in un piccolo paese della Provenza, in una di quelle terre solatìe piene di verzieri, dove le donne parlano l'idioma dei trovatori. Abitava una casa di campagna, circondata da un grande orto. Gli alberi fiorivano: era la primavera. Fra i terrori e le nere malinconie, ella aveva intervalli d'una infinita dolcezza. Passava lunghe ore seduta all'ombra, in una specie d'inconsapevolezza, mentre il sentimento vago della maternità le dava a tratti a tratti un brivido profondo. I fiori intorno a lei emanavano un profumo acuto: leggere nausee le salivano alla gola e le propagavano per tutte le membra una lassitudine immensa. Che giorni indimenticabili! E, quando il momento solenne si avvicinava, giunse, desiderato, il suo amico. La povera donna soffriva. Egli le stava accanto, pallido in viso, parlando poco, baciandole spesso le mani. Ella partorì di notte. Gridava, fra gli spasimi; si afferrava convulsamente alla lettiera: credeva di morire. I primi vagiti dell'infante le scossero l'anima dalle radici. Ella, supina, con la testa un po' arrovesciata oltre i guanciali, bianca bianca, senza più voce, senza più forza per tenere aperte le palpebre, agitava dinanzi a sé le mani esangui, debolmente, in certi piccoli movimenti vaghi, come fanno talvolta i moribondi verso la luce. Il giorno dopo, tutto il giorno, ella tenne seco, nel medesimo letto, sotto la medesima coperta, il bambino. Era un essere fragile, molle, un po' rossiccio, che vibrava d'una palpitazione incessante, di una vita palese, e in cui le forme umane non avevano certezza. Gli occhi stavano ancóra chiusi, un po' gonfi; e dalla bocca usciva un lamento fioco, quasi un miagolìo indistinto. La madre, rapita, non si saziava di riguardare, di toccare, di sentirsi su la guancia l'alito filiale. Dalla finestra entrava una luce bionda e si vedevano le terre provenzane tutte coperte di mèssi. Il giorno aveva una specie di santità. I canti del fromento si avvicendavano, nell'aria quieta. Dopo, il bambino le fu tolto, fu nascosto, fu portato chi sa dove. Ella non lo rivide più. Ella tornò alla sua casa; e visse col marito la vita di tutte le donne, senza che nessun altro avvenimento sopraggiungesse a turbarla. Non ebbe altri figliuoli. Ma il ricordo, ma l'adorazione ideale di quella creatura ch'ella non vedeva più, ch'ella non sapeva più dove fosse, le occuparono l'anima per sempre. Ella non aveva se non quel pensiero; rammentava tutte le minime particolarità di quei giorni; rivedeva chiaramente il paese, la forma di certi alberi che stavano dinanzi alla casa, la linea d'una collina che chiudeva l'orizzonte, il colore e i disegni del tessuto che copriva il letto, una macchia nella vòlta della stanza, un piccolo piatto figurato su cui le portavano il bicchiere, tutto, tutto, chiaramente, minutamente. Ad ogni momento il fantasma di quelle cose lontane le sorgeva nella memoria, così, senza ordine, senza legame, come nei sogni. A volte ella ne rimaneva quasi stupita. Le tornavano dinanzi, precisi e viventi, i volti di certe persone vedute laggiù, i loro moti, un loro gesto insignificante, una loro attitudine, un loro sguardo. Le pareva di avere negli orecchi il vagito della creatura, di toccare le mani esilissime, rosee, molli, quelle manine che forse erano la sola parte già tutta formata perfettamente, simili alla miniatura d'una mano d'uomo, con le vene quasi impercettibili, con le falangi segnate di pieghe sottili, con le unghie trasparenti, tenere, appena appena soffuse di viola. Oh, quelle mani! Con che strano brivido la madre pensava alla loro carezza inconsapevole! Come ne sentiva l'odore, l'odore singolare che ricorda quello dei colombi nella prima piuma! Così Donna Laura, chiusa in questa specie di mondo interiore che ogni giorno più assumeva le apparenze della vita, passò gli anni, molti anni, sino alla vecchiezza. Tante volte aveva chiesto all'antico amante notizie del figliuolo. Ella avrebbe voluto rivederlo, sapere il suo stato. - Ditemi dov'è, almeno. Vi prego. Il marchese, temendo un'imprudenza, si rifiutava. « Ella non doveva vederlo. Ella non avrebbe saputo contenersi. Il figlio avrebbe indovinato tutto; si sarebbe valso del segreto per i suoi fini; avrebbe forse rivelato ogni cosa... No, no, ella non doveva vederlo. » Donna Laura, dinanzi a queste argomentazioni d'uomo pratico, rimaneva smarrita. Ella non sapeva imaginarsi che la sua creatura fosse cresciuta, fosse già adulta, fosse già presso al limitare della vecchiaia. Oramai erano passati circa quarant'anni dal giorno della nascita; eppure ella nel suo pensiero non vedeva se non un bambino, roseo, con gli occhi ancóra chiusi. Ma il marchese di Fontanella venne a morire. Quando Donna Laura seppe la malattia del vecchio, fu presa da un'angoscia così penosa che una sera, non potendo più resistere allo spasimo, uscì sola, si diresse verso la casa dell'infermo, perché un pensiero tenace la sospingeva, il pensiero del figlio. Prima che il vecchio morisse, ella voleva conoscere il segreto. Camminò lungo i muri, tutta raccolta, come per non farsi vedere. Le strade erano piene di gente; l'ultimo chiarore del tramonto faceva rosee le case; tra una casa e l'altra un giardino appariva tutto violaceo di lilla in fiore. Voli di rondini, rapidi e circolari, s'intrecciavano nel cielo luminoso. Frotte di bambini passavano a corsa, con grida e con richiami. Talvolta passava una femmina incinta, a braccio del marito; e l'ombra della sua gonfiezza si disegnava sul muro. Donna Laura pareva incalzata da tutta quella gioconda vitalità delle cose e delle persone. Ella affrettava il passo, fuggiva. Gli splendori varii delle vetrine, delle botteghe aperte, dei caffè le davano agli occhi un senso acuto di dolore. A poco a poco una specie di stordimento le occupava la testa; una specie di sbigottimento le prendeva lo spirito. - Che faceva? Dove andava? - In quel disordine della coscienza, le pareva quasi di commettere una colpa, le pareva che tutti la guardassero, la indagassero, indovinassero il suo pensiero. Ora la città s'invermigliava agli ultimi rossori del sole. Qua e là, dentro le cantine, i cori del vino si levavano. Come Donna Laura giunse alla porta, non ebbe forza di entrare. Passò oltre, fece venti passi; poi ritornò in dietro, ripassò. Finalmente varcò la soglia, salì le scale; si fermò, sfinita, nell'anticamera. Nella casa c'era quell'animazione silenziosa di cui i familiari circondano il letto dell'infermo. I domestici camminavano in punta di piedi, portando qualche cosa fra le mani. Avvenivano dialoghi a bassa voce, nel corridoio. Un signore calvo, tutto vestito di nero, attraversò la sala, s'inchinò a Donna Laura, ed uscì. Donna Laura chiese a un domestico, con la voce ormai ferma: - La marchesa? Il domestico indicò rispettosamente col gesto un'altra stanza a Donna Laura. Quindi corse ad annunziare la visita. La marchesa apparve. Era una signora piuttosto pingue, con i capelli grigi. Aveva gli occhi pieni di lacrime. Aperse le braccia all'amica, senza parlare, soffocata da un singulto. Dopo un poco, Donna Laura chiese, non alzando gli occhi: - Si può vedere? Profferite le parole, strinse le mascelle per reprimere un tremito violento. La marchesa disse: - Vieni. Le due donne entrarono nella stanza dell'infermo. La luce ivi era mite; l'odore di un farmaco empiva l'aria; gli oggetti segnavano grandi e strane ombre. Il marchese di Fontanella, disteso nel letto, pallido, pieno di rughe, sorrise a Donna Laura, vedendola. Disse lentamente: - Grazie, baronessa. E le tese la mano ch'era umidiccia e tiepida. Egli pareva aver ripreso gli spiriti d'un tratto, per uno sforzo di volontà. Parlò di varie cose, curando le parole, come quando stava sano. Ma Donna Laura, all'ombra, lo fissava con uno sguardo così ardente di supplicazione che egli, indovinando, si volse alla moglie. - Giovanna, ti prego, preparami tu la pozione, come stamattina. La marchesa chiese licenza, ed uscì senza sospetto. Nel silenzio della casa si udirono i passi di lei allontanarsi su i tappeti. Allora Donna Laura, con un moto indescrivibile, si chinò sul vecchio, gli prese le mani, gli strappò le parole con gli occhi. - A Penti... Luca Marino... ha moglie... figli... una casa... Non lo vedere! Non lo vedere! - balbettò il vecchio, a fatica, preso da un terrore subitaneo che gli dilatava le pupille - A Penti... Luca Marino... Non ti svelare mai! Già la marchesa veniva, con il medicamento. Donna Laura sedette; si contenne. L'infermo bevve; e i sorsi scendevano nella gola con un gorgoglio, a uno a uno, distinti, regolari. Poi successe un silenzio. E l'infermo parve preso da sopore: tutta la faccia gli si fece più cava; ombre più profonde, quasi nere, gli occuparono le occhiaie, le guance, le narici, la gola. Donna Laura si accomiatò dall'amica; se ne andò, trattenendo il respiro, pianamente.
<B>II</B>
Tutte queste vicende ripensava la vecchia signora, sotto la pergola, nel giardino tranquillo. Che cosa ora dunque la tratteneva dal rivedere il figlio? Ella avrebbe avuto la forza di reprimersi; ella non si sarebbe svelata, no. Le bastava di rivederlo, il figlio suo, quello ch'ella aveva tenuto su le braccia un giorno solo, tanti anni a dietro, tanti, tanti anni! Era cresciuto? Era grande? Era bello? Com'era? E mentre così interrogava sé stessa, nel fondo del suo spirito ella non giungeva a raffigurarsi l'uomo. Sempre in lei l'imagine dell'infante persisteva, si sovrapponeva ad ogni altra imagine, vinceva con la nitida chiarezza delle sue forme ogni altra forma fantastica che tentasse di sorgere. Ella non preparava l'animo, si abbandonava debolmente al sentimento indeterminato. Il senso della realtà in quel momento le mancava. - Io lo vedrò! Io lo vedrò! - ripeteva in sé stessa, inebriandosi. Le cose in torno tacevano. Il vento faceva incurvare i roseti che, passato il soffio, seguitavano a muoversi pesantemente. Gli zampilli scintillavano e guizzavano, tra il verde, come stocchi. Donna Laura stette un poco in ascolto. Dal silenzio, nell'ora pànica, sorgeva qualcosa di grande e di inesorabile, che le infuse nell'animo uno sgomento misterioso. Ella esitò. Poi si mise pel viale, da prima con passi rapidi; giunse al cancello tutto abbracciato dalle piante e dai fiori; sostò, per guardarsi in dietro: aprì. Dinanzi a lei la campagna si stendeva deserta sotto il meriggio. Le case di Penti in lontananza biancheggiavano su l'azzurro del cielo, con un campanile, con una cupola, con due o tre pini. Il fiume si svolgeva nella pianura, tortuoso e lucentissimo, toccando le case. Donna Laura pensò: - Egli è là. - E tutte le sue fibre di madre vibrarono. Animata, riprese a camminare, guardando dinanzi a sé con gli occhi che il sole fastidiva, non curando il calore. A un certo punto della strada cominciarono gli alberi, magri pioppetti tutti canori di cicale. Due femmine scalze, ciascuna con un cesto sul capo, venivano incontro. - Sapete la casa di Luca Marino? - chiese la signora, presa da una voglia irresistibile di pronunziare quel nome a voce alta, liberamente. Le femmine la guardarono, stupefatte, soffermandosi. Una rispose con semplicità: - Noi non siamo di Penti. Donna Laura, malcontenta, seguitò la via, provando già un poco di stanchezza nelle povere membra senili. Gli occhi, offesi dalla luce intensa, le facevano vedere alcune mobili macchie rosse nell'aria. Un leggero principio di vertigine le turbava il cervello. Penti si avvicinava sempre più. I primi tuguri apparvero tra molte piante di girasoli. Una femmina, mostruosa per l'adipe, stava seduta sopra una soglia; ed aveva su quel gran corpo una testa infantile, gli occhi dolci, i denti schietti, il sorriso placidissimo. - O signora, dove andate? - chiese la femmina, con un accento ingenuo di curiosità. Donna Laura si accostò. Aveva il volto tutto infiammato e la respirazione corta. Le forze erano per mancarle. - Mio Dio! Oh mio Dio! - gemeva ella reggendosi le tempie con le palme. - Oh mio Dio! - Signora, riposatevi - diceva la femmina ospitale, invitandola ad entrare. La casa era bassa ed oscura; ed aveva quell'odor particolare che hanno tutti i luoghi dove molta gente agglomerata vive. Tre o quattro bambini nudi, anch'essi col ventre così gonfio che parevano idropici, si trascinavano sul suolo, borbottando, brancicando, portando alla bocca per istinto qualunque cosa capitasse loro sotto le mani. Mentre Donna Laura seduta riprendeva le forze, la femmina parlava oziosamente, tenendo fra le braccia un quinto bambino, tutto coperto di croste nerastre tra mezzo a cui si aprivano due grandi occhi, puri ed azzurri, come due fiori miracolosi. Donna Laura domandò: - Qual è la casa di Luca Marino? L'ospite col gesto indicò una casa rossiccia, all'estremità del paese, in vicinanza del fiume, circondata quasi da un colonnato di alti pioppi. - E' quella, perché? La vecchia signora si sporse per guardare. Gli occhi le dolevano feriti dalla luce solare, e le palpebre le battevano forte. Ma ella stette qualche minuto in quell'attitudine, respirando con fatica, senza rispondere, quasi soffocata da una sollevazione di sentimento materno. - Quella dunque era la casa del suo figliuolo? - Subitamente, le apparvero l'interno della stanza lontana, il paese di Provenza, le persone, le cose, come nel bagliore di un lampo, ma evidenti, nettissimi. Ella si lasciò ricadere su la sedia, e rimase muta, confusa, in una specie di ottusità fisica proveniente forse dall'azione del sole. Negli orecchi aveva un ronzìo continuo. Disse l'ospite: - Volete passare il fiume? Donna Laura fece un cenno fievole, incantata da un turbinìo di circoli rossi che le si producevano nella retina. - Luca Marino porta uomini e bestie da una riva all'altra. Ha una barca e una chiatta - seguitò l'ospite. - Se no, bisogna andare fino a Prezzi a cercare il guado. E' trent'anni che fa il mestiere! E' sicurissimo, signora. Donna Laura ora ascoltava, facendo uno sforzo per raccogliere i suoi spiriti che si disperdevano. Ma pure, dinanzi a quelle novelle del figliuolo, restava smarrita; quasi non comprendeva. - Luca non è del paese - riprese la femmina grassa, trascinata dalla nativa loquacità. - L'hanno allevato i Marino che non avevano figliuoli. E un signore, non di qui, gli ha dotata la moglie. Ora vive bene; lavora, ma ha il vizio del vino. La femmina diceva queste cose ed altre, con semplicità grande, senza malizia per l'origine sconosciuta di Luca. - Addio, addio - fece Donna Laura, levandosi, presa da un vigore fittizio. - Grazie, buona donna. Porse a uno dei bimbi una moneta; ed uscì alla luce. - Per quella viottola! - le gridò dietro, indicando, l'ospite. Donna Laura seguì la viottola. Un gran silenzio regnava intorno, e nel silenzio le cicale cantavano a distesa. Alcuni gruppi d'olivi contorti e nodosi sorgevano dal terreno disseccato. Il fiume, a sinistra, brillava. - Ooh, La Martinaaa! - chiamò una voce, in lontananza, dalla parte del fiume. Quella voce umana d'improvviso fece tremare le vene della vecchia. Ella guardò. Sul fiume navigava una barca, a pena visibile tra il vapor luminoso; e un'altra barca, ma a vela, biancheggiava a maggior distanza. Nella prima barca si scorgevano forme d'animali: erano forse cavalli. - Ooh, La Martinaaa! - richiamò la voce. Le due barche si avvicinavano l'una all'altra. Quello era il punto delle secche, dove i barcaiuoli pericolavano quando il carico pesava. Donna Laura, ferma sotto un olivo, appoggiata al tronco, seguiva con lo sguardo la vicenda. Il cuore le palpitava con tanta violenza che le pareva i battiti empissero tutta la campagna circostante. Il fruscìo dei rami, il canto delle cicale, il lampeggìo delle acque, tutte le apparenze la turbavano, le si confondevano nello spirito col disordine della demenza. L'accumulamento lento del sangue nel cervello, per l'azione del sole, le dava ora una visione leggermente rossa, un principio di vertigine. Le due barche, giunte a un gomito del fiume, non si videro più. Allora Donna Laura riprese a camminare, un po' barcollante, come un'ebra. Le apparve un gruppo di case riunite intorno a una specie di corte. Sei o sette mendicanti meriggiavano ammucchiati in un angolo: le loro carni rossastre, maculate dalle malattie della cute, uscivano di tra i cenci; nei loro volti deformi il sonno aveva una pesantezza bestiale. Qualcuno dormiva bocconi, con la faccia nascosta tra le braccia piegate a cerchio. Qualche altro dormiva supino, con le braccia aperte, nell'attitudine del Cristo crocifisso. Un nuvolo di mosche turbinava e ronzava su quelle povere carcasse umane, denso e laborioso, come sopra un cumulo di fimo. Dalle porte socchiuse veniva un rumore di telai. Donna Laura attraversò la piazzetta. Il suono de' suoi passi su le pietre fece risvegliare un mendicante che si levò su i gomiti e, tenendo gli occhi ancóra chiusi, balbettò macchinalmente: - La carità, per l'amore di Dio! A quella voce tutti i mendicanti si risvegliarono, e tutti sorsero. - La carita, per l'amore di Dio! - La carità, per l'amore di Dio! La torma cenciosa si mise a seguitare la passante, chiedendo l'elemosina, tendendo le mani. Uno era storpio e camminava a piccoli salti, come una scimmia ferita. Un altro si trascinava sul sedere puntellandosi con ambo le braccia, come fanno con le zampe le locuste, poiché aveva tutta la parte inferiore del corpo morta. Un altro aveva un gran gozzo paonazzo e rugoso che ad ogni passo ondeggiava come una giogaia. Un altro aveva un braccio ritorto come una grossa radice. - La carità, per l'amore di Dio! Le loro voci erano varie, alcune cavernose e roche, altre acute e feminine come quelle degli evirati. Ripetevano sempre le stesse parole, con lo stesso accento, in un modo accorante. - La carità, per l'amore di Dio! Donna Laura, così inseguita da quella gente mostruosa, provava una voglia istintiva di fuggire, di salvarsi. Uno sbigottimento cieco la teneva. Avrebbe forse gridato, se avesse avuta la voce nella gola. I mendicanti le instavano da presso, le toccavano le braccia, con le mani tese. Volevano l'elemosina, tutti. La vecchia signora si cercò nella veste, prese alcune monete, le lasciò cadere dietro di sé. Gli affamati si fermarono, si gittarono avidamente su le monete, lottando, stramazzando sul terreno, dando calci, calpestandosi. Bestemmiavano. Tre rimasero con le mani vuote; e ripresero a seguitare la vecchia, incattiviti. - Noi non l'abbiamo avuta! Noi non l'abbiamo avuta! Donna Laura, disperata per quella persecuzione, diede altre monete, senza volgersi. La lotta fu tra lo storpio e il gozzuto. Ambedue presero. Ma un povero epilettico idiota, che tutti opprimevano e dileggiavano, non ebbe nulla; e si mise a piagnucolare, leccandosi le lacrime e il moccio che gli colava dal naso, con un verso ridicolo: - Ahu, ahu, ahuuu!
<B>III</B>
Donna Laura infine era giunta alla casa dei pioppi. Ella si sentiva sfinita: le si offuscava la vista, le tempie le battevano forte, la lingua le ardeva; le gambe sotto le si piegavano. Dinanzi a lei, un cancello stava aperto. Ella entrò. L'aia circolare era limitata da pioppi altissimi. Due degli alberi sostenevano un cumulo di paglia di fromento, tra mezzo a cui uscivano i rami fronzuti. Poiché in giro l'erba cresceva, due vacche falbe vi pascolavano pacificamente battendosi con la coda i fianchi nutriti; e tra le gambe a loro penzolavano le mammelle gonfie di latte, colorite come frutti succulenti. Molti arnesi di agricoltura stavano sparsi pel suolo. Le cicale, in su gli alberi, cantavano. Nel mezzo, tre o quattro cuccioli ruzzavano abbaiando verso le vacche o inseguendo le galline. - O signora, che cerchi? - chiese un vecchio, uscendo dalla casa. - Vuoi <I>passare</I>? Il vecchio, calvo, con la barba rasa, teneva tutto il corpo in avanti su le gambe inarcate. Le sue membra erano deformate dalle rudi fatiche, dall'opera dell'arare che fa sorgere la spalla sinistra e torcere il busto, dall'opera del falciare che fa tenere le ginocchia discoste, dall'opera del potare che curva in due la persona, da tutte le opere lente e pazienti della coltivazione. Egli, dicendo l'ultima parola, accennava al fiume. Sì, sì - rispose Donna Laura non sapendo che dire, non sapendo che fare, smarrita. - Allora vieni. Ecco Luca che torna - soggiunse il vecchio, volgendosi al fiume dove navigava a forza di pertiche una chiatta carica di pecore. Egli condusse la passeggiera, a traverso un orto irrigato, fin sotto a una pergola dove altri passeggieri attendevano. Camminando innanzi, egli lodava le verzure e faceva pronostici, per consuetudine di agricoltore invecchiato tra le cose della terra. Volgendosi a un tratto, poiché la signora restava muta come se non udisse, vide che ella aveva i cigli pieni di lacrime. - Perché piangi, signora? - le chiese con la stessa tranquillità con cui parlava delle verzure. - Ti senti male? - No, no... niente... - mormorò Donna Laura che si sentiva morire. Il vecchio non disse altro. Egli era così indurato alla vita, che i dolori altrui non lo commovevano. Egli vedeva, tutti i giorni, tanta gente diversa <I>passare</I>! - Siedi - fece, come giunse alla pergola. Là tre uomini della campagna antendevano, uomini giovani, carichi di fardelli. Tutt'e tre fumavano in grosse pipe, mettendo nel fumare una attenzione profonda, come per gustarne intera la voluttà, secondo il costume della gente campestre nei rari diletti. Ad intervalli, dicevano quelle lunghe cose insignificanti che l'agricoltore ripete senza fine e che appagano lo spirito di lui tardo ed angusto. Guardarono un poco, stupefatti, Donna Laura. Poi ripresero la loro impassibilità. Uno di loro avvertì, tranquillamente: - Ecco la chiatta. Un altro aggiunse: - Porta le pecore di Bidena. Il terzo: - Saranno quindici. E si levarono, insieme, intascando le pipe. Donna Laura era caduta in una specie di stupidimento inerte. Le lacrime le si erano fermate su i cigli. Ella avea perduto il senso della realità. Dov'era? Che faceva? La chiatta urtò leggermente contro la riva. Le pecore, strette le une contro le altre, belavano intimidite dall'acqua. Il pastore, il traghettatore ed il figlio le aiutavano a discendere a terra. Le pecore, appena discese, facevano una piccola corsa; poi si fermavano, si riunivano e si mettevano a belare ancóra. Due o tre agnelli saltellavano su le gambe lunghe e deformi, tentando i capezzoli materni. Compiuta la bisogna, Luca Marino fermò la chiatta. Poi a grandi passi lenti salì la riva, verso l'orto. Era un uomo di quarant'anni circa, alto, magro, con la faccia rossiccia, calvo alle tempie. Aveva baffi di colore incerto e una manata di peli sparsa disugualmente per il mento e per le guance; l'occhio un po' torbido, senza alcuna vivacità d'intelligenza, venato di sanguigno, come quello dei bevitori. La camicia aperta lasciava vedere il petto velloso, un berretto carico d'untume copriva la testa. - Ahuf! - esclamò egli d'un tratto, in faccia alla pergola, fermandosi su le gambe aperte e nettandosi con le dita la fronte stillante di sudore. Passò dinanzi ai passeggieri, senza guardarli. In tutti i suoi gesti e in tutte le sue attitudini era incomposto e quasi brutale. Le mani, enormi, gonfie di vene sul dorso, le mani avvezze al remo, parevano essergli d'impaccio. Egli le teneva penzoloni lungo i fianchi e le dondolava camminando. - Ahuf! Che sete!... Donna Laura stava come impietrita, senza più parole, senza più conscienza, senza più volontà. Quello era il suo figliuolo! Quello era il suo figliuolo! Una femmina gravida, che aveva già una figura senile, disfatta dal lavoro e dalla fecondità, venne a porgere al marito assetato un boccale di vino. L'uomo bevve d'un fiato. Poi si asciugò le labbra col dorso della mano e fece schioccare la lingua. Disse, bruscamente, come se la nuova fatica gli fosse dura: - Andiamo. Insieme col primogenito, ch'era un grosso fanciullo di quindici anni, preparò il legno: mise tra il bordo e la riva due tavole per rendere agevole ai passeggieri l'imbarco. - Perché non monti, signora? - fece il vecchio di dianzi, vedendo che Donna Laura non si moveva e non parlava. Donna Laura si levò, macchinalmente, e seguì il vecchio che le diede aiuto nel salire. Perché saliva ella? Perché passava il fiume? Non pensò; non giudicò l'atto. Il suo spirito, così colpito, rimaneva ora inerte, quasi immobile in un punto. - Quello era il figlio. - E a poco a poco ella sentiva in sé qualche cosa estinguersi, svanire; sentiva nella mente a poco a poco farsi una gran vacuità. Non comprendeva più niente. Vedeva, udiva, come in un sogno. Quando il primogenito di Luca venne a lei per chiedere la mercè del traghetto, prima che la barca si staccasse dalla riva, ella non intese. Il fanciullo scoteva nel concavo delle mani le monete ricevute da uno dei passeggieri; e ripeteva la domanda a voce più alta, credendo che la signora fosse sorda per la vecchiezza. Ella, come vide gli altri due uomini mettere la mano in tasca e pagare, imitò quell'atto, risovvenendosi. Ma diede più del dovuto. Il fanciullo volle farle intendere ch'egli non poteva renderle l'avanzo, perché non l'aveva. Ella non comprese. Il fanciullo prese tutto il danaro, con una smorfia di malizia. I presenti sorrisero, di quel sorriso astuto che hanno gli uomini campestri in conspetto di un inganno. Uno disse: - Andiamo? Luca, che fin allora stava intento a tirar l'àncora, spinse la barca che si mosse dolcemente su l'acqua gorgogliante. La riva parve fuggire, con le canne e con i pioppi, ed incurvarsi come una falce. Il sole incendiava tutto il fiume, appena inclinato verso il cielo occidentale, dove sorgevano vapori violetti. Si vedeva ora su la riva un gruppo di gente che gesticolava; ed erano i mendicanti addosso all'idiota. A tratti, col vento giungevano anche lembi di parole e di risa simili a un'agitazione di flutti. I rematori, nudi il busto, vogavano a gran forza per superare il filo della corrente. Donna Laura vedeva il dorso di Luca, nero, dove le costole si disegnavano e colava a rivoli il sudore. Teneva gli occhi fissi, un po' dilatati, pieni di ebetudine. Uno dei passeggieri avvertì, prendendo sotto il banco le sue robe: - Ci siamo. Luca afferrò l'àncora e la gittò alla riva. La barca ridiscese con la corrente per tutta la lunghezza della corda; quindi si fermò con una stratta. I passeggieri furono a terra, d'un salto, ed aiutarono la vecchia signora, tranquillamente. Quindi si rimisero in cammino. La campagna da quella parte era coltivata a vigneti. Le viti, piccole e magre, verdeggiavano in filari. Alcuni alberi interrompevano qua e là il piano, con forme rotonde. Donna Laura si trovò sola, perduta, su quella riva senz'ombra, non avendo più conoscenza di sé che per il battito continuo delle arterie, per un romorìo cupo ed assordante negli orecchi. Il suolo sotto i piedi le mancava e pareva affondarsi come fango o arena, ad ogni passo. Tutte le cose intorno turbinavano e si dileguavano; tutte le cose, ed anche la sua esistenza, le apparivano vagamente, lontane, dimenticate, finite per sempre. La follia le prendeva la mente. Ella, d'un tratto, vide uomini, case, un altro paese, un altro cielo. Urtò in un albero, cadde su una pietra; si rialzò. E il suo povero corpo sfinito traballava in moti terribili e insieme ridevoli; ma nessuna cosa intorno splendeva come i suoi capelli bianchi sotto il sole feroce. Ora, i mendicanti dall'altra riva avevano eccitato per dileggio l'idiota a passare il fiume a nuoto ed a raggiungere la donna per aver l'elemosina. Essi l'avevano spinto nell'acqua, dopo avergli strappati i cenci di dosso. E l'idiota nuotava come un cane, tra una pioggia di sassate che gl'impedivano di tornare addietro. Quegli uomini deformi fischiavano e urlavano, prendendo diletto nella crudeltà. Essi, come la corrente traeva l'idiota, arrancavano lungo la sponda e imperversavano. - Affoga! Affoga! L'idiota, con sforzi disperati, prese terra. E così ignudo, poiché in lui era morto con l'intelligenza il sentimento del pudore, si mise a camminare verso la donna, di traverso, com'era suo costume, tendendo la mano ad ogni tratto. La demente, rialzandosi, vide; e con un moto di orrore e con un grido acutissimo si diede a correre verso il fiume. Sapeva quel che faceva? Voleva morire? Che pensava ella, in quell'attimo? Giunta all'estremo limite, cadde nell'acqua. L'acqua gorgogliò, si chiuse pienamente; e tanti circoli successivi partirono dal luogo della caduta e si allargarono in lievi ondulazioni lucide e si dispersero. I mendicanti dall'altra riva gridavano verso una barca che si allontanava: - Oh Lucaaa! Oh Luca Marinooo! E correvano verso la casa dei pioppi a dare la novella. Allora, come seppe il caso, Luca spinse la barca verso il luogo che gli indicavano, e chiamò La Martina, che se ne veniva placidamente con il suo legno in balìa della corrente. Disse Luca: - C'é un'annegata laggiù. Non si curò di raccontare il fatto e di parlare della persona, poiché non amava le molte parole. I due fiumàtici misero i legni a paro e remigarono con calma. Disse La Martina: - Hai tu provato il vino nuovo di Chiachiù? Ti dico!... E fece un gesto che rappresentava l'eccellenza della bevanda. Luca rispose: - Non ancóra. Disse La Martina: - Ne prenderesti una goccia? Luca rispose: - Io sì. La Martina: - Dopo. Ci aspetta Iannangelo. Luca: - Va bene. Giunsero al luogo. L'idiota, che poteva meglio indicare il punto, era fuggito, e in mezzo alle vigne era stato preso da un accesso di epilessia. All'altra riva i curiosi cominciavano a radunarsi. Disse Luca al compagno: - Tu ferma la tua barca e salta nella mia. Uno rema e l'altro cerca. La Martina così fece. Egli remava su e giù per una ventina di metri, e Luca tentava il fondo del fiume con una lunga pertica. Ogni tanto Luca, sentendo qualche resistenza, mormorava: - Ecco! Ma s'ingannava sempre. Finalmente, dopo molte ricerche, Luca disse: - Questa volta c'è. E chinandosi e inarcando le gambe per far forza, sollevò piano piano il peso all'estremità della pertica. I bicipiti gli tremavano. La Martina chiese, lasciando il remo: - Vuoi che t'aiuti? Luca rispose: - Non importa.
----------------------------------
<B>La veglia funebre</B>
Il cadavere del sindaco Biagio Mila, già tutto vestito e con la faccia coperta d'una pezzuola umida d'acqua e d'aceto, stava disteso nel letto, quasi in mezzo alla stanza, tra quattro ceri. Vegliavano, nella stanza, la moglie e il fratello del morto ai due lati. Rosa Mila poteva avere circa venticinque anni. Era una donna fiorita, di carnagione chiara, con la fronte un po' bassa, le sopracciglia lungamente arcuate, gli occhi grigi e larghi e nell'iride variegati come agate. Possedendo in grande abbondanza capelli, ella quasi sempre aveva la nuca e le tempie e gli occhi nascosti da molte ciocche ribelli. In tutta la persona le splendeva la nitidezza della sanità; e la sua fresca pelle aveva il profumo dei frutti prelibati. Emidio Mila, il cherico, poteva avere circa la stessa età. Era magro, con nel volto il colore bronzino di chi vive nella campagna al pieno sole. Una molle lanugine rossiccia gli copriva le guance; i denti forti e bianchi davano al suo sorriso una bellezza virile; e gli occhi suoi giallognoli lucevano talvolta come due zecchini nuovi. Ambedue tacevano: l'una scorrendo con le dita un rosario di vetro, l'altro guardando il rosario scorrere. Ambedue avevano l'indifferenza che la nostra gente campestre suole avere dinanzi al mistero della morte. Emidio disse, con un lungo sospiro: - Fa caldo, stanotte. Rosa sollevò gli occhi per assentire. Nella stanza un poco bassa la luce oscillava secondo i moti delle fiammelle. Le ombre si raccoglievano ora in un angolo ora in una parete, variando di forme e di intensità. Le vetrate delle finestre erano aperte, ma le persiane restavano chiuse. Di tratto in tratto le tende di mussolo bianco si movevano come per un fiato. Sul candore del letto il corpo di Biagio pareva dormire. Le parole di Emidio caddero nel silenzio. La donna chinò di nuovo la testa, e ricominciò a scorrere il rosario lentamente. Alcune stille di sudore le imperlavano la fronte, e la respirazione le era faticosa. Emidio, dopo un poco, domandò: - A che ora verranno a prenderlo, domani? Ella rispose, nel natural suono della sua voce: - Alle dieci, con la Congregazione del Sacramento. Quindi ancora tacquero. Dalla campagna giungeva il gracidare assiduo delle rane, giungevano a quando a quando gli odori delle erbe. Nella tranquillità perfetta Rosa udì una specie di gorgoglìo roco escir dal cadavere, e con un atto di orrore si levò dalla sedia e fece per allontanarsi. - Non abbiate paura, Rosa. Sono umori - disse il cognato, tendendole la mano per rassicurarla. Ella prese la mano, istintivamente; e la tenne, stando in piedi. Tendeva gli orecchi per ascoltare, ma guardava altrove. I gorgoglìi si prolungavano dentro il ventre del morto, e parevano salire verso la bocca. - Non è nulla, Rosa. Quietatevi - soggiunse il cognato, accennandole di sedere sopra un cassone da nozze coperto d'un cuscino a fiorami. Ella sedette, accanto a lui, tenendolo ancóra per mano, nel turbamento. Come il cassone non era molto grande, i gomiti dei seduti si toccavano. Il silenzio tornò. Un canto di trebbiatori sorse di fuori in lontananza. - Fanno le trebbie di notte, al lume della luna - disse la donna volendo parlare per ingannar la paura e la stanchezza. Emidio non aprì bocca. E la donna ritrasse la mano, poiché quel contatto ora cominciava a darle un senso vago d'inquietudine Ambedue ora erano occupati da uno stesso pensiero che li aveva colti d'improvviso; ambedue ora erano tenuti da uno stesso ricordo, da un ricordo di amori agresti nel tempo della pubertà.
Essi, in quel tempo, vivevano nelle case di Caldore, su la collina solatìa, al quadrivio. Sul limite d'un campo di fromento sorgeva un muro alto costruito di sassi e di terra argillosa. Dal lato di mezzodì, che i parenti di Rosa possedevano, come ivi era più lento e dolce il calor del sole, una famiglia di alberi fruttiferi prosperava e moltiplicava. Alla primavera gli alberi fiorivano in comunione di letizia; e le cupole argentee o rosee o violacee s'incurvavano sul cielo coronando il muro e dondolavano come per inalzarsi nell'aria e facevano insieme un ronzìo sonnifero d'api mellificanti. Dietro il muro, dalla parte degli alberi, Rosa in quel tempo soleva cantare. La voce limpida e fresca zampillava come una fontana, sotto le corone dei fiori. Per una lunga stagione di convalescenza Emidio aveva udito quel canto. Egli era debole e famelico. Per sfuggire alla dieta, scendeva dalla casa furtivamente, celando sotto gli abiti un gran pezzo di pane, e camminava lungo il muro, nell'ultimo solco del grano, fin che non giungeva al luogo della beatitudine. Allora si sedeva, con le spalle contro i sassi riscaldati, e cominciava a mangiare. Mordeva il pane e sceglieva una spiga tenera: ogni granello aveva in sé una minuta stilla di succo simile a latte e aveva un fresco sapor di farina. La voluttà del gusto e la voluttà dell'udito nel convalescente si confondevano quasi in una sola sensazione infinitamente dilettosa. Cosicché in quell'ozio, tra quel calore, tra quelli odori che davano all'aria quasi la cordial saporità del vino, anche la voce feminile diveniva per lui un naturale alimento di rinascenza e come un nutrimento fisico che gli si fondeva nelle vene. Il canto di Rosa era dunque una causa di guarigione. E, quando la guarigione fu compiuta, la voce di Rosa ebbe sempre sul beneficiario una virtù sensuale. Dopo d'allora, poiché tra le due famiglie la dimestichezza divenne grande, sorse in Emidio uno di quei taciturni e timidi e solitarii amori che divorano le forze dell'adolescenza. Di settembre, prima che Emidio partisse pel seminario, le due famiglie riunite andarono in un pomeriggio a merendare nel bosco, lungo il fiume. La giornata era molle, e i tre carri tirati dai bovi avanzavano lungo i canneti fioriti. Nel bosco la merenda fu fatta su l'erba, in una radura circolare limitata da fusti di pioppi giganteschi. L'erba corta era tutta piena di certi piccoli fiori violacei che esalavano un profumo sottile; qua e là nell'interno discendevano tra il fogliame larghe zone di sole; e la riviera in basso pareva ferma, aveva una pace lacustre, una pura trasparenza ove le piante acquatiche dormivano immote. Dopo la merenda, alcuni si sparpagliarono per la riva, altri rimasero distesi supini. Rosa ed Emidio si trovarono insieme; si presero a braccio e cominciarono a camminare per un sentiero segnato tra i cespugli. Ella si appoggiava tutta su lui; rideva, strappava le foglie ai virgulti nel passaggio, morsicchiava gli steli amari, rovesciava la testa in dietro per guardar le ghiandaie fuggiasche. Nel moto il pettine di tartaruga le scivolò dai capelli che d'un tratto le si diffusero su le spalle con una stupenda ricchezza. Emidio si chinò insieme a lei per raccogliere il pettine. Nel rialzarsi, le due teste si urtarono un poco. Rosa, reggendosi la fronte tra le mani, gridava tra le risa: - Ahi! Ahi! Il giovinetto la guardava, sentendosi fremere sin nelle midolle e sentendosi impallidire e temendo di tradirsi. Ella distaccò con l'unghie da un tronco una lunga spirale d'edera, se l'avvolse alle trecce con un attorcigliamento rapido e fermò la ribellione su la nuca con i denti del pettine. Le foglie verdi, talune rossastre, mal contenute, rompevano fuori irregolarmente. Ella chiese: - Così vi piaccio? Ma Emidio non aprì bocca; non seppe che rispondere. - Ah, non va bene! Siete forse muto? Egli aveva voglia di cadere in ginocchio. E, come Rosa rideva d'un riso scontento, egli si sentiva quasi salire il pianto agli occhi per l'angoscia di non poter trovare una parola sola. Seguitarono a camminare. In un punto un'alberella abbattuta impediva il passaggio. Emido con ambe le mani sollevò il fusto, e Rosa passò di sotto ai rami verdeggianti che un istante la incoronarono. Più in là incontrarono un pozzo ai cui fianchi stavano due bacini di pietra rettangolari. Gli alberi densi formavano intorno e sopra il pozzo una chiostra di verdura. Ivi l'ombra era profonda, quasi umida. La volta vegetale si rispecchiava perfettamente nell'acqua che giungeva a metà dei parapetti di mattone. Rosa disse, distendendo le braccia: - Come si sta bene qui! Poi raccolse l'acqua nel concavo della palma, con un'attitudine di grazia, e sorseggiò. Le gocciole le cadevano di tra le dita e le imperlavano la veste. Quando fu dissetata, con tutt'e due le palme raccolse altr'acqua, e l'offerse al compagno lusinghevolmente: - Bevete! - Non ho sete - balbettò Emidio istupidito. Ella gli gettò l'acqua in viso, facendo con il labbro inferiore una smorfia quasi di dispregio. Poi si distese dentro uno dei bacini asciutti, come in una culla, tenendo i piedi fuori dell'orlo, e scotendoli irrequietamente. A un tratto si rialzò, guardò Emidio con uno sguardo singolare: - Dunque? Andiamo. Si rimisero in cammino, tornarono al luogo della riunione, sempre in silenzio. I merli fischiavano su le loro teste; fasci orizzontali di raggi attraversavano i loro passi; e il profumo del bosco cresceva intorno a loro. Alcuni giorni dopo, Emidio partiva. Alcuni mesi dopo, il fratello d'Emidio prendeva in moglie Rosa. Nei primi anni di seminario il cherico aveva pensato spesso alla nuova cognata. Nella scuola, mentre i preti spiegavano l'<I>Epitome historiae sacrae</I>, egli aveva fantasticato di lei. Nello studio, mentre i suoi vicini, nascosti dai leggii aperti, si davano fra loro a pratiche oscene, egli aveva chiuso la faccia tra le mani, e s'era abbandonato ad immaginazioni impure. Nella chiesa, mentre le litanie alla Vergine sonavano, egli, dietro l'invocazione alla <I>Rosa mystica</I>, era fuggito lontano. E, come aveva appresa dai condiscepoli la corruzione, la scena del bosco gli era apparsa in una nuova luce. E il sospetto di non avere indovinato, il rammarico di non aver saputo cogliere un frutto che gli si offriva, allora lo tormentarono stranamente. Dunque era cosi? Dunque Rosa un giorno lo aveva amato? Dunque egli era passato inconsapevole accanto a una grande gioia? E questo pensiero ogni giorno si faceva più acuto, più insistente, più incalzante, più angustioso. E ogni giorno egli se ne pasceva con maggiore intensità di sofferenza; finché, nella lunga monotonia della vita sacerdotale, questo pensiero divenne per lui una specie di morbo immedicabile e dinanzi alla irrimediabilità della cosa egli fu preso da uno scoramento immenso, da una melanconia senza fine. - Dunque egli non aveva saputo!
Nella stanza ora i ceri lacrimavano. Di tra le stecche delle persiane chiuse entravano soffi di vento più forti, e facevano inarcare le tende. Rosa, invasa pianamente dal sopore, chiudeva di tanto in tanto le palpebre; e come la testa le cadeva sul petto, le riapriva subitamente. - Siete stanca? - chiese con molta dolcezza il cherico. - Io, no - rispose la donna, riprendendo gli spiriti ed ergendosi su la vita. Ma nel silenzio di nuovo il sopore le occupò i sensi. Ella teneva la testa appoggiata alla parete: i capelli le empivano tutto il collo, dalla bocca semiaperta le usciva la respirazione lenta e regolare. Così ella era bella; e nulla in lei era più voluttuoso che il ritmo del seno e la visibile forma dei ginocchi sotto la gonna leggiera. Un soffio repentino fece gemere le tende e spense i due ceri più vicini alla finestra. << S'io la baciassi?>> pensò Emidio, per una suggestione improvvisa della carne guardando l'assopita. Ancora i canti umani si propagavano nella notte di giugno, con la solennità delle cadenze liturgiche; e sorgevano di lontananza in lontananza le risposte in diversi toni, senza compagnia di stromenti. Poiché il plenilunio doveva essere alto, il fioco lume interno non valeva a vincere l'albore che pioveva copioso su le persiane, e si versava fra gli intervalli del legno. Emidio si volse verso il letto mortuario. I suoi occhi, scorrendo la linea rigida e nera del cadavere, si fermarono involontariamente su la mano, su una mano gonfia e giallastra, un po' adunca, solcata di trame livide nel dorso; e prestamente si ritirassero.Piano piano,nell'inconsapevolezza del sonno, la testa di Rosa, quasi segnando su la parete un semicerchio, si chinò verso il cherico turbato. La reclinazione della bella testa muliebre fu in atto dolcissima; e, poiché il movimento alterò un poco il sonno, tra le palpebre a pena a pena sollevate apparve un lembo d'iride e scomparve nel bianco, quasi come una foglia di viola nel latte. Emidio rimase immobile, tenendo contro l'òmero il peso. Egli frenava il respiro per tema di destare la dormiente, e un'angoscia enorme l'opprimeva per il battito dei cuore e dei polsi e delle tempie, che pareva empire tutta la stanza. Ma, come il sonno di Rosa continuava, a poco a poco egli si sentì illanguidire e mancare in una mollezza invincibile, guardando quella gola feminea che le collane di Venere segnavano di voluttà, aspirando quell'alito caldo e l'odor dei capelli. Un nuovo soffio, carico di profumo notturno, piegò la terza fiammella e la spense. Allora senza più pensare, senza più temere, abbandonandosi tutto alla tentazione, il vegliante baciò la donna in bocca. Al contatto, ella si destò di soprassalto; aprì gli occhi stupefatti in faccia al cognato, divenne pallida pallida. Poi, lentamente si raccolse i capelli su la nuca; e stette là, con il busto eretto, tutta vigile, guardando dinanzi a sé nelle ombre varianti. - Chi ha spento i ceri? - Il vento. Non altro dissero. Ambedue rimanevano sul cassone da nozze, come prima, seduti a canto, sfiorandosi con i gomiti, in una incertezza penosa, evitando con una specie di artificio mentale che la loro coscienza giudicasse il fatto e lo condannasse. Spontaneamente ambedue rivolsero l'attenzione alle cose esteriori, in quest'operazione dello spirito mettendo un'intensità fittizia, concorrendovi pure con l'attitudine della persona. E a poco a poco una specie di ebrietà li conquistava. I canti, nella notte, seguitavano e s'indugiavano per l'aria lunghissimamente, e s'ammollivano lusinghevolmente di risposta in risposta. Le voci maschili e le voci feminili facevano un componimento amoroso. Talvolta una sola voce emergeva su le altre altissima, dando una nota unica, in torno a cui gli accordi concorrevano come onde in torno al medio filo d'una corrente fluviatile. Ora, ad intervalli, sul principio di ciascun canto, si udiva la vibrazione metallica di una chitarra accordata in diapente; e tra una ripresa e l'altra si udivano gli urti misurati delle trebbie in sul terreno. I due ascoltavano. Forse per una vicenda del vento, ora gli odori non erano più gli stessi. Venivano, forse dalla collina d'Orlando, i profumi possenti dell'agrumeto; forse dai giardini di Scalia i profumi delle rose, così densi che davano all'aria il sapore delle confetture nuziali; forse dal padule della Farnia le fragranze umide dei giaggioli, che respirate deliziavano come un sorso d'acqua. I due rimanevano ancóra taciturni, sul cassone, immobili, oppressi dalla voluttà della notte lunare. Dinanzi a loro l'ultima fiammella oscillava rapidamente, e curvandosi faceva lacrimare il cero consunto. Ad ogni tratto, pareva sul punto di spegnersi. I due non si movevano. Stavano là ansiosi, con gli occhi dilatati e fissi, a guardare la tremula fiammella moritura. D'improvviso il vento inebriante la spense. Allora, senza temere l'ombra, con un'avidità concorde, nel medesimo tempo, l'uomo e la donna si strinsero l'uno all'altra, si allacciarono, si cercarono con la bocca, perdutamente, ciecamente, senza parlare, soffocandosi di carezze.
- Fine -