CONIO E MONETA

Quando ho capito che a essere morta eri tu ho tirato il più bello, profondo, rassicurante, intenso, liberatorio dei sospiri di sollievo.

È stata una delle sensazioni più piene della mia vita.

Non lo dimenticherò mai.

È domenica mattina.

Ho deciso di dormire fino a tardi, ciondolare in casa, restare tra le coperte e mangiare a letto guardando vecchi film.

Oggi lo posso fare perché Cristina è andata al matrimonio di un lontano cugino, con i suoi genitori, in un paesino del Lazio vicino a Frosinone.

Voglio dormire fino a tardi, ma l’orologio biologico non va oltre le nove e mezza e alle dieci ho già fatto colazione e sono tornata a letto per vedere se riesco a recuperare quel discorso interrotto col sonno o restare qui a guardare Facebook e Instagram fino all’abbrutimento.

Poco dopo le dieci squilla il telefono: SIL.

“Amica! Che dici?” rispondo, col tono delle domeniche mattine di Roma quando il cielo è fermo e la luce è piatta.

“Amica.”

E poi fa una pausa lunghissima.

Mi siedo sul letto. Di scatto.

“È successa una cosa brutta.”

E poi fa un’altra pausa lunghissima.

Il cuore si blocca. Di colpo.

Inchiodato come un uccello.

Tutto si ferma. Tutto.

BumBumBumBum

Mi sento il respiro gonfio nelle tempie.

Come quando sei sott’acqua

e senti una bolla d’aria risalire piano piano piano piano verso il cervello.

In fretta:

Cristina è con i suoi genitori, l’ho sentita circa mezz’ora fa su WhatsApp.

Valeria è a Roma con il suo fidanzato, non la sento da venerdì.

Vittoria è a Milano con il suo fidanzato, non la sento da giovedì.

Mamma e babbo sono a casa, non li sento da ieri.

Nonna è a casa, non la sento dall’ultima volta che sono tornata in paese, quindici giorni fa.

Se fosse successo qualcosa a Cristina non mi chiamerebbe Silvia. Mi chiamerebbe Riccardo, o Eva.

Se fosse successo qualcosa alle gemelle mi chiamerebbe mia madre. No, mia madre no. Non ce la farebbe. Mio padre, forse. Ma non troverebbe le parole. Mi chiamerebbe zia Franca. Cercando di essere forte e poi piangendo a singhiozzi, enormi, cupi e gutturali.

Non mi chiamerebbe Silvia. No di certo. Quindi per favore fai che non sia una delle gemelle, Signore, ti prego, perché se muoiono loro muoio io. All’istante. Su questo letto. Col telefono in mano. Senza nemmeno piangere. Muoio e basta e va bene così.

Ma non sono le gemelle. Certo che no.

Se fosse successo qualcosa ai miei genitori non mi chiamerebbe Silvia. Mi chiamerebbe sempre zia Franca perché non è la sorella di mia madre né di mio padre ed è quella che arriva sempre per prima negli ospedali quando muore qualcuno. Chiamerebbe me perché sono la sorella maggiore e poi io dovrei chiamare le gemelle che stanno a Roma e a Milano coi fidanzati e si stanno svegliando come mi sto svegliando io.

Se fosse successo qualcosa a mia nonna non mi chiamerebbe Silvia, mi chiamerebbe mia madre con la voce rassegnata da figlia grande, troppo grande per essere orfana, troppo grande per soffrire davvero.

“È successa una cosa brutta,” dice Silvia.

E nel lasso di tempo che c’è tra l’annuncio e l’enunciato il cuore si predispone all’arrivo di infiniti lutti.

“È successa una cosa brutta. È morta Adele.”

Adele? Adele chi?

Ah, Adele.

È morta Adele. E dimmelo subito, cazzo.

Chissà che mi credevo.

Mi hai fatto prendere un colpo.

È morta Adele. Ok.

È morta Adele.

è m o r t a a d e l e.

Ah.

Adele.

È morta.

***

Il tuo telefono è rimasto acceso fino alla mattina del giorno dopo.

Ho fatto mille chiamate e scritto cento messaggi.

Il telefono squilla in una borsa con i suoi documenti dentro il gabbiotto delle guardie giurate all’ingresso dell’obitorio. Alessandro lo vede illuminarsi da fuori perché la borsa è mezza aperta e dentro ci sono un portafogli, due mazzi di chiavi e poi quel cellulare che squilla. Ci hanno rovistato dentro per trovare il suo nome, il suo indirizzo e qualcuno da chiamare per dare la notizia.

Hanno chiamato Camilla.

Hanno chiamato lei perché era l’ultimo numero chiamato. Avrebbero dovuto pranzare insieme quella domenica mattina. I carabinieri l’hanno chiamata alle prime luci dell’alba per dirle di avvertire i famigliari, ma non era rimasto più nessuno da avvertire. I genitori sono morti. Niente figli. Niente fratelli. Nessuno. Nemmeno io.

Mi ha avvertito Silvia. Lei l’ha avvertita Alessandro. Alessandro l’ha avvertito sua madre, che è uscita presto per andare a comprare il giornale e tornando gli ha detto: “Mi sa che è morta la tua professoressa.”

“Quale professoressa?”

“La De Angelis.”

E il pensiero l’ha portato a me in uno scatto, come un elastico teso per anni che poi si spezza e torna indietro.

Alessandro però non chiama me. Chiama Silvia. Perché non è sicuro, il giornale non è chiaro, ci sono le iniziali ma il giornalaio dice che è proprio lei, gliel’ha detto un portantino che faceva il turno quella notte e rincasando si è fermato a salutare.

“Sono morte in due, e una è la tua professoressa.”

E mentre Silvia chiama me, Alessandro si infila i jeans e poi le scarpe ed esce. Arriva in ospedale, raggiunge l’obitorio, fuori ci sono i carabinieri, chiede informazioni, ma non è un parente e non possono dirgli niente.

Poi vede una borsa dietro un vetro, gettata semiaperta sopra un tavolo, e sul display del cellulare una chiamata silenziosa con una scritta: EMME.

EMME sono io.

“Perché mi hai registrato così sul telefono?” le avevo chiesto una volta.

“Perché così se qualcuno vede il cellulare pensa che a chiamarmi sia mia madre.”

E io mi ero così incazzata che me lo ricordo ancora.

Continuo a chiamare. E non me ne frega niente se poi chi prenderà in consegna il suo telefono troverà cento chiamate non risposte. E non me ne frega niente se leggerà i miei messaggi perché tanto sono EMME e se anche fossi Giulia oggi, come ieri, non me ne fregherebbe niente.

Ti prego rispondimi ti prego rispondimi.

Per favore non essere tu. Per favore.

Torna da me. Torna per me.

Rispondi a questo cazzo di telefono.

Per favore.

Guardo i messaggi salpare dal mio cellulare come tante piccole scialuppe in mare. Guardo comparire la prima spunta. Poi appare la seconda. E poi basta.

Le due spunte non diventano mai blu.

Nemmeno una.

Nemmeno per un attimo.

Ho continuato a mandarti messaggi fino al giorno dopo, fino a quando le spunte hanno smesso di essere due e ne è rimasta una.

La mia.

Ho continuato anche dopo che mi ha chiamato Alessandro, che alla fine ha convinto un carabiniere a farsi dire almeno la data di nascita della persona morta. L’ha convinto a entrare nel gabbiotto e prendere dalla borsa in cui vibra il cellulare un documento e leggere una data.

“È lei,” dice Alessandro. “Mi dispiace tanto. È nata il primo ottobre del 1951, vero?”

“Sì, è vero.”

“Me lo ricordavo. Mi dispiace tanto. Ho sperato fino all’ultimo che fosse un caso di omonimia.”

***

Il lutto mi è salito lento.

All’inizio era solo una persona che era stata importante una volta e non vedevo da tanto. Poi è stata una persona che avevo molto amato e poi era finita.

Poi è stata il mio conio e io la sua moneta.

Il lutto sale piano piano piano piano piano piano piano piano, ma sale. Sale inesorabile e io vorrei tenerlo basso, a livelli di guardia.

Vorrei tenerlo fino alle ginocchia, a indolenzirmi i passi, appesantirmi l’animo e farmi da zavorra, e invece sale.

Vorrei tenerlo al petto a comprimermi il cuore in una preghiera stretta stretta, come quella dei grandi che quando pregano serrano forte le dita e non come fanno i bambini in fila lungo i banchi, che tengono le dita dritte e stese come le guglie delle cattedrali e le spade dei profeti. Vorrei tenerlo al petto per riuscire a respirare per riuscire a non guardare per riuscire a non pensare. Invece sale.

E arriva in gola. E lì si fissa.

Cristina è preoccupata perché il caso vuole che proprio oggi lei sia incastrata in questo cazzo di matrimonio con mia madre in questo paese del cazzo in mezzo alla campagna del Lazio.

“Ma non preoccuparti, amore, adesso mi passa.”

E poi è meglio così. È meglio che tu non ci sia perché io devo piangere lei ed è giusto che tu non ci sia.

Restiamo sole io e lei per l’ultima volta in quell’infinita domenica di ottobre.

Restiamo sole.

Io aggrovigliata tra le lenzuola grigie del letto sfatto.

Tu disfatta sopra la perfezione di un letto piatto. Grigia.

Restiamo sole ed è bello.

Abbasso la testa e sprofondo nel lutto come dentro l’acqua di una piscina immobile.

Mi lascio sommergere. E mi sento benissimo.

Benissimo e malissimo.

Tutto insieme. Perché la risenti dentro, che ti batte, ti batte sulle costole per uscire come un canarino in gabbia. Poi i canarini diventano cento. Ce li hai nel petto e battono le ali per uscire e dentro tutto trema e ti sembra di crollare per il troppo rumore, clamore, tremore.

E poi si ferma. Immobile.

Deglutisci e senti il suono della saliva scenderti in gola come una goccia in una caverna vuota che fa eco.

Sei vuota. I canarini hanno smesso di battere le ali.

E adesso è silenzio.

***

“Mamma, domani torno a casa.”

“Perché?”

Silenzio.

“Adele è morta.”

Mi rendo conto in quel momento che non ho mai pronunciato il suo nome a voce alta con mia madre.

Silenzio. Non so precisamente cosa sta pensando. Questa volta non faccio lo sforzo di cercare di indovinarlo.

“Non hai letto sul giornale? Una delle due è lei.”

“Sì, ho letto, ma non avevo capito.”

Il giorno dopo nessuno mi fa domande.

Né mia madre né mio padre. Sono delicati, rispettosi, gentili.

“A che ora è il funerale?” mi chiede mia madre.

“Alle due, passo a prendere Silvia, poi andiamo. Alessandro ci raggiunge in chiesa.”

Mi si spezza la voce. Gli occhi si gonfiano. Mi metto le mani sulla faccia e senza volerlo piango.

Ho paura.

Ho paura che mia madre possa essere dura, e in questo momento non ce la farei.

Lei resta ferma. Immobile. Appoggiata alla credenza della cucina dice: “Ma che ci vai a fare, Giulia?” e sento che anche lei ingoia le lacrime. “Resta qui. È passato tanto tempo. Sono successe tante cose. È una storia chiusa, adesso hai una bella vita, una bella fidanzata. Torna a Roma, ti prego.”

“Non posso, mamma.”

“Io non posso vederti così.”

E per la prima volta, dopo tanti anni, in questa storia c’è posto per il mio dolore e non solo per il suo.

“Va bene,” dice poi, “ma non ripartire troppo tardi, non farmi stare in pensiero.”

Ho lasciato la chiesa prima della fine della cerimonia. Il Duomo è gremito. Il vescovo celebra la funzione. Me ne vado perché non ha senso stare lì. Non c’è niente di lei lì.

Niente della lei che era per me. Niente della lei che ho amato io.

Alessandro e Silvia mi accompagnano alla macchina e poi tornano in chiesa a sentire i messaggi di cordoglio di colleghi e amici. Anche Edoardo Castelli legge una lunga lettera commossa.

Il suo bambino di pezza.

Ma vaffanculo.

Torno a Roma in macchina da sola e in radio passano una canzone dei Thegiornalisti che parla di un tizio che si augura di morire ubriaco mentre corre con la sua auto di notte e si diverte a immaginare il pienone al suo funerale, dove amici e parenti, accorsi per rendergli omaggio, cantano in suo onore.

Ma vaffanculo.

***

Quando ho preso la patente mio padre mi portava a fare le guide sull’asse attrezzato. Uno stradone enorme a doppia corsia per senso di marcia, nella zona industriale.

Mi ci portava la domenica pomeriggio perché le fabbriche sono chiuse e i piazzali che fanno da parcheggio sono vuoti e anche per strada non c’è molta gente, non come nei giorni normali.

L’asse attrezzato è una strada facilissima e io mi annoio a fare qui le guide perché devo solo tenere il volante fermo e andare dritta, quindi non mi alleno a fare nulla, né le salite, né le curve, né le ripartenze.

Ma mio padre mi tiene lì, ad andare dritta, e ogni volta che accelero un po’ mi richiama e dice che il difficile non è andare forte ma andare piano. Perché a premere il piede sull’acceleratore sono bravi tutti, ma è rispettare i limiti di velocità la cosa difficile, mantenere la distanza di sicurezza e non distrarsi mai.

Perché la strada è puttana, diceva mio nonno, e non bisogna fidarsi. Come questo pezzo qui, lo vedi? dice mio padre. Quando passi questo cavalcavia c’è una curva che ti butta fuori, tutti la prendono troppo veloce e poi fanno gli incidenti. Lo sai quanta gente c’è morta qui?

No, non lo so, ma una di queste è Adele, che c’è morta una sera di inizio ottobre, alle undici e un quarto, mentre usciva dal cinema con la sua amica Ludovica Giannini.

Andavano veloce perché a quell’ora nel weekend nella zona industriale non passa praticamente nessuno. Tranne lui, che veniva dall’altra parte troppo veloce e ha preso male la brutta curva che ti butta fuori.

Ludovica e Adele sono morte subito.

Lui no. Lui è sceso dal SUV con le sue gambe e con troppo alcol in corpo.

La macchina di Adele si è fermata in una sorta di fosso sul ciglio della strada, contro un cespuglio di ginestre, canne secche ed erba alta. L’ho visto dalle foto sul giornale.

Nei mesi seguenti la vegetazione è ricresciuta, ma ancora oggi, quando ci passo davanti, lo vedo, il segno dove ti hanno sdraiata, e so che anche tra mille anni quella ginestra schiacciata per terra non ricrescerà più.

Come un quadro spostato segna per sempre una parete bianca.