La dignità della persona
Un principio né arido né astratto
La nostra Costituzione, approvata dall’Assemblea costituente alla fine del 1947 e promulgata dal capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, è entrata in vigore il 1° gennaio 1948, quando ancora la gran parte delle leggi vigenti era stata stilata dal fascismo e si rivolgeva a cittadini che erano cresciuti sotto la dittatura. Ha dovuto vincere tante resistenze culturali, abitudini radicate alla diseguaglianza. Soltanto dieci anni prima della sua emanazione, in Italia erano state varate le leggi razziali (1938), l’apoteosi della discriminazione, uno dei momenti meno edificanti della storia umana. La Repubblica italiana ha scelto invece di fondarsi sul riconoscimento della dignità personale di ogni uomo (non solo dei suoi cittadini). Da ciò conseguono tutti i diritti, per ciascuno di noi: alla libertà, all’istruzione, alla tutela della salute, per citarne qualcuno. Se è riconosciuta la dignità di tutti, lo è anche quella di chi ha commesso un reato: l’articolo 13 infatti non parla solo della libertà personale, che è inviolabile a patto di non venire usata per aggredire la libertà altrui; proibisce anche qualsiasi tipo di violenza fisica o psicologica nei confronti di persone la cui libertà sia limitata, tra le quali i detenuti.
Il principio della dignità della persona è quello sul quale i Costituenti hanno voluto imperniare tutta la nostra vita. È un principio né arido né astratto. Ci riguarda da vicino: parla di chi siamo e di che cosa possiamo (e abbiamo il compito di) fare. Parla di noi.
Questo principio non sta all’inizio, non è nell’articolo 1, ma si trova nell’articolo 3, di cui generalmente dimentichiamo proprio la parte essenziale, tanto che, se lo ricordiamo, tendiamo a definirlo «l’articolo dell’eguaglianza». Invece è «l’articolo della dignità». Uguali non siamo noi, ciascuno di noi è unico, diverso dagli altri, ma l’articolo 3 stabilisce che le nostre diversità non possono incidere sulle nostre possibilità. Sono queste a essere uguali, e cioè sono escluse le discriminazioni. Va letto integralmente:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.
Diversità, non omologazione. Affinché le possibilità delle persone siano uguali, infatti, c’è bisogno che le leggi tutelino in modo differente le loro specificità, per esempio: se non posso fare i gradini perché sono su una sedia a rotelle bisogna che ci sia lo scivolo per farmi entrare a scuola. La nostra Costituzione riconosce che ciascuno di noi ha caratteristiche peculiari – genere, etnia, religione, lingua, opinioni, condizioni personali e sociali – e stabilisce che esse non possono creare discriminazione.
Tutto ciò è conseguenza del riconoscimento universale della dignità: ovvero dell’importanza, del valore di ciascuno di noi. La Costituzione afferma il contrario di quel che accadeva prima. Nell’Italia monarchica e nell’Italia fascista, alcuni membri della società avevano valore, altri erano trattati come semplici mezzi. La Costituzione, invece, se rispettata, impedisce che qualcuno possa venire ridotto a strumento di altri, quindi rovescia il modo di stare insieme nella comunità.
Tutto l’impianto della Costituzione è diretto a realizzare questo punto di partenza. Il principio della pari dignità universale costituisce il legame tra tutti gli articoli, che ne discendono a cascata; è la chiave di lettura che serve per capire, anzitutto, i motivi che hanno spinto i Costituenti a lasciarci questo testo che non è un cumulo di norme complicato e inaccessibile, ma un documento vivo, le cui disposizioni definiscono ciò che ciascuno di noi può essere. Conoscendolo, seguendolo e applicandolo ci si trasforma da sudditi (o da prevaricatori) in cittadini.
In questa prospettiva cambia il senso degli articoli man mano che li leggiamo. L’articolo 1, nel definire l’Italia una Repubblica democratica e nel riconoscere che la sovranità appartiene al popolo (a tutti), è una conseguenza della constatazione della pari dignità di tutte le persone.
Così lo è il ripudio della guerra (art. 11) o l’esclusione della pena di morte (art. 27): partono entrambi dal presupposto che ciascuno sia degno e che quindi a nessuno possa essere tolta la vita (non butti via chi è degno); e lo è l’articolo che garantisce la libertà di espressione (art. 21) perché, se tutti siamo degni, tutti abbiamo il diritto di comunicare agli altri quel che pensiamo.
La libertà è inviolabile
Ancora come conseguenza del riconoscimento della dignità, un’altra parola cardine della nostra Costituzione è «libertà», tanto che dopo i principi fondamentali la prima parte inizia con l’affermazione dell’inviolabilità della libertà personale. La quale è qualcosa di diverso dall’assenza di cornici, e cioè dall’arbitrio e dall’onnipotenza, da ciò che si credeva comunemente (o si imponeva) nella società anteriore al varo della Costituzione: chi non era degno non aveva diritti né opportunità e diventava strumento dell’arbitrio e della pretesa onnipotenza di pochi. Credendo che la libertà consista nel «faccio quel che voglio punto e basta» si finisce per ammazzarla.
Torniamo all’articolo 1: la Costituzione afferma che l’Italia è una Repubblica democratica, ciò significa che ciascuno di noi partecipa all’amministrazione della società. Ebbene, io credo che, per poterlo fare, si debba anzitutto essere capaci di scegliere, e cioè di gestire la propria libertà. Se si educano i cittadini a obbedire (la coercizione nelle carceri, ma anche l’imposizione – o il premio, altro strumento per ottenere obbedienza – a scuola o a casa), questi non diventeranno mai capaci di scegliere. La libertà è strettamente legata alla responsabilità, ed entrambe discendono dal riconoscimento della dignità. Ritorneremo sull’argomento, perché libertà è un concetto complesso e per capirlo occorre entrare nel concreto.
Il contesto storico
La nostra Costituzione vive su due piani temporali. Da un lato, è stata scritta per durare; ovvero per fornire dei principi «eterni» ai suoi cittadini di oggi e del futuro, cioè a noi. Dall’altro, tuttavia, è stata frutto di un preciso contesto storico.
La Costituzione è nata dopo una monarchia, una dittatura e una guerra. Lo scopo di chi l’ha scritta era evitare che ciò che era successo fino ad allora potesse accadere di nuovo. Nel 1946, anno in cui sono iniziati i lavori dell’Assemblea costituente, un uomo di poco più di trent’anni aveva già attraversato due guerre mondiali: questo significava, per molti italiani, aver patito indicibili sofferenze e distruzioni, magari la perdita della casa, sicuramente la perdita di qualche persona cara, fossero i genitori, i figli, i parenti; per non parlare delle menomazioni, come per esempio la perdita di un braccio, della vista o, in non pochi casi, dell’equilibrio mentale.
A rendere incredibilmente traumatico e tragico lo sguardo d’intorno era stata la rivelazione della Shoah nel 1945, la scoperta di Auschwitz a opera delle truppe sovietiche. Gran parte del mondo, prima di allora, sapeva che moltissime persone erano state deportate nei campi di concentramento e di lavoro; non tutti però, anche in Italia, riuscivano a comprendere che si trattasse di un sistema studiato, organizzato, efferato, come sarà poi rivelato dall’ingresso dei russi ad Auschwitz: un vero e proprio sistema di campi di sterminio imperniato su discriminazione e morte violenta e, quindi, sulla negazione della dignità umana.
Questi elementi non potevano non influire sullo spirito di chi si riuniva per rifondare uno Stato; si trattava di qualcosa che aveva toccato tutti da vicino, in quanto cittadini e in quanto uomini. Nemmeno i Costituenti ne erano stati immuni: alcuni di loro erano stati imprigionati nel corso del precedente ventennio, e portavano in Assemblea costituente la testimonianza diretta della sofferenza propria e dei loro compagni di sventura.
Enorme effetto ha avuto un altro evento accaduto nel 1945, che definire tragico è riduttivo: il 6 e il 9 agosto di quell’anno gli americani sganciarono due bombe atomiche rispettivamente su Hiroshima e Nagasaki, causando centinaia di migliaia di morti e terribili sofferenze che si protrassero per anni. Io sono nato una decina di mesi dopo, la bomba atomica l’ho trovata già qui, esisteva prima di me, un po’ come altri fenomeni drammatici e naturali che influiscono tragicamente sulla vita umana: terremoti, tsunami, epidemie, carestie. Al contrario, alle persone che avevano vissuto buona parte della propria vita in un mondo in cui la bomba atomica non solo non esisteva ma non era nemmeno pensabile, questo mezzo di distruzione di massa ha cambiato il futuro, mettendo in dubbio addirittura la sopravvivenza del genere umano.
Ciò ha senz’altro influito enormemente sul pensiero di chi ha scritto la Costituzione, che è anche stata il preludio della Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata undici mesi dopo, e successivamente della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
E proprio nel preambolo della Dichiarazione dei diritti umani si trova una conferma di quanto ha contato l’esperienza della guerra, della Shoah e della bomba atomica: «Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità […]».
La Costituzione è frutto di un processo di evoluzione storica. L’essere umano era progressivamente pervenuto, pur con tanti inciampi, all’abolizione, almeno formale, delle discriminazioni più evidenti. Nel corso del tempo si era arrivati, per esempio, all’abolizione della schiavitù, al suffragio universale. Alle spalle della Costituzione e della Dichiarazione dei diritti dell’uomo c’era dunque un percorso di emancipazione generalizzato, su cui si innestava l’esperienza personale di chi materialmente si accingeva a redigere questi testi, avendo patito su di sé la tragedia della dittatura e della guerra.
In quel momento era di un’evidenza palmare che le due guerre, la Shoah, la bomba atomica derivavano tutte direttamente dal fatto che la società, salvo irrilevanti eccezioni, era organizzata in modo gerarchico e verticale. Oggi la distanza temporale da quell’esperienza non ci consente di averne una memoria vissuta, tale da renderci immuni dal riviverla: sono passati solo pochi decenni, eppure non l’abbiamo mai provata (io ne ho viste solo alcune conseguenze materiali, pur essendo nato subito dopo la monarchia, la dittatura, le guerre, la bomba atomica); per questo, forse, fatichiamo a comprendere il nesso tra i principi di eguaglianza e dignità che la Costituzione ha introdotto, e la possibilità di realizzarsi secondo le proprie scelte.
Tante persone, tante idee diverse, una sola Costituzione
La Costituzione è stata scritta dall’Assemblea costituente, composta da 556 persone elette a suffragio universale il 2 giugno 1946. Erano persone diverse, con visioni del mondo diverse. Come hanno fatto a scrivere una sola Costituzione? Con una grande attività di mediazione, certo, che alla base aveva un forte riconoscimento reciproco della rispettiva dignità. Indubbiamente, all’atto finale della votazione, ci sarà stato qualcuno contrariato o deluso (i voti contrari sono stati 62 su 515 votanti) ma, nell’anno e mezzo di lavoro dell’Assemblea, si era ingenerato un meccanismo virtuoso che ha permesso di pervenire infine a un testo condiviso.
Di un’esperienza di mediazione analoga sono testimone. Ne parla un libro scritto a più mani (quella di Licia Di Blasi, Anna Sarfatti e la mia), che s’intitola Sono Stato io! La classe di Licia, una quinta elementare, ha deciso di scrivere le proprie regole, con un percorso molto interessante. In quarta Licia aveva parlato agli alunni a più riprese della Costituzione; in quinta ha proposto: «Volete farle voi, le regole della classe?». All’inizio i bambini erano piuttosto restii, poi si sono convinti ad accettare la proposta. Hanno cominciato, ma proprio non riuscivano a mettersi d’accordo, fino a che, progressivamente, si sono resi conto che per fare delle regole era necessario che ci fossero delle regole. Così hanno fatto le regole per fare le regole e, alla fine, hanno potuto fare le regole della classe.
Anche nell’Assemblea costituente (il cui compito era anche quello di fare le regole per fare le regole) ci si è dati delle regole per fare le regole, e queste regole prevedevano che, a un certo punto, fosse necessario decidere. L’Assemblea aveva un numero di deputati particolarmente elevato per garantire la massima rappresentanza a ogni idea presente nell’Italia appena uscita dalla dittatura e dalla guerra. Un numero così elevato, tuttavia, poteva rendere più complicati i lavori; si era allora costituita una commissione ristretta, la cosiddetta Commissione dei 75, che studiava i temi all’ordine del giorno approfondendoli ed elaborandoli prima di portarli all’Assemblea. A quel punto, l’Assemblea decideva se pronunciarsi favorevole o contraria e votava.
Per questo nella nostra Costituzione vengono riecheggiate, appunto come risultato della mediazione (che è cosa ben diversa dal compromesso, cioè da un accordo al ribasso, qualcosa di negativo), le anime variegate della nuova Italia: cattolica, socialista, comunista, liberale, azionista… E vengono valorizzati gli apporti specifici di individui straordinari che sedevano nell’Assemblea: per citarne qualcuno, Giorgio La Pira, Palmiro Togliatti, Teresa Mattei. A questa donna, poco più che ventenne, dobbiamo l’aggiunta di due parole fondamentali nell’articolo 3: quel «di fatto» che vi compare è opera sua.
Teresa Mattei era molto attenta alla vita quotidiana, concreta, in un contesto in cui non esisteva attenzione nei confronti delle donne. Perfino i comunisti, che avrebbero dovuto essere più progressisti, senza neanche celarlo tanto condividevano l’idea che il compito della donna fosse quello di rimanere a casa a fare l’angelo del focolare. Se dunque nel testo si scrive che si è uguali di fronte alla legge senza distinzione di sesso, Teresa Mattei vede la situazione di fatto; per questo si preoccupa di evidenziare, con quelle due paroline, che la Costituzione non riguarda solo le leggi ma anche i comportamenti. E anche questi, quando sono reiterati, diventano fonte del diritto. È scritto chiaramente nel Codice civile (Disposizioni sulla legge in generale, Delle fonti del diritto, art. 1): «Sono fonti del diritto le leggi, i regolamenti, gli usi», cioè le consuetudini, i comportamenti abituali. È fonte del diritto anche una regola che non sta scritta da nessuna parte: per esempio quella per cui, nell’Italia della prima metà del Novecento, potevano frequentare i bar soltanto gli uomini. Attenzione, non significa che all’epoca una legge consentisse espressamente solo agli uomini di frequentare i bar, né tanto meno che una legge proibisse apertamente alle donne di frequentare gli stessi locali. Nessuna legge glielo vietava ma, di fatto, loro non ci potevano andare, conseguenza la riprovazione generale.
Ecco, le due parole che Teresa Mattei ha voluto far aggiungere riguardavano proprio situazioni del genere; e sono l’apporto che è stato dato alla Costituzione italiana dalla sua identità individuale, dal suo essere una giovane donna, capace di mediare con chi esprimeva la cultura opposta, magari senza esserne del tutto consapevole.
Residui fascisti
A me, in effetti, piacerebbe che nel punto in cui Teresa Mattei ha voluto che fossero inserite le parole «di fatto», fosse stata aggiunta un’altra parola ancora: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando anche di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Quell’«anche» avrebbe evidenziato che la Costituzione è stata scritta in costanza di una legislazione tutta fascista (salvo le eccezioni introdotte dai decreti legge emanati dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943). L’«anche» avrebbe forse vincolato maggiormente il Parlamento a adeguarla alla nuova legge fondamentale.
Nella legislazione italiana sono rimasti anche dopo il varo della Costituzione residui della legislazione fascista. Per esempio, in campo penale il fascismo puniva il reato di adulterio femminile – solo quello femminile – e la norma restò in vigore fino al 20 dicembre 1968, quando la Corte costituzionale abolì questa discriminazione fra coniugi. Solo nel 1975 nel Codice civile, invece, è stato modificato l’articolo 144 che ora dice: «I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa». Per ben ventisette anni dall’entrata in vigore della Costituzione, l’articolo 144, sotto la rubrica (e cioè il titolo) «Autorità maritale», diceva che il marito era «il capo della famiglia», ragion per cui la moglie era «obbligata ad accompagnarlo dovunque» egli credesse «opportuno di fissare la sua residenza».
Aggiungere quell’«anche» avrebbe forse dato una spinta a modificare il Codice penale, che è del 1930 (in pieno regime fascista) e la cui parte generale è rimasta quasi la stessa. La Costituzione è stata scritta dopo la guerra e dopo la caduta del regime fascista, ma l’Italia, culturalmente, continuava a patire il contesto dittatoriale in cui era stata tenuta per un intero ventennio.
In qualche sporadico caso la mediazione ha portato ad alcuni momenti – alcuni articoli della Costituzione, alcuni suoi aspetti – che in certa misura, secondo me, contraddicono l’affermazione generale della pari dignità. Si tratta di scollature dovute all’esigenza di conciliare posizioni spesso diametralmente opposte.
Una di queste sta nell’articolo 7 che, riconoscendo la Chiesa cattolica indipendente e sovrana rispetto allo Stato, non è in sintonia con l’articolo successivo, secondo il quale «tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge», e crea disparità fra i cattolici e coloro che appartengono ad altre religioni.
Un’altra si trova nell’articolo 22: «Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome». Se non si può essere privati della cittadinanza e del nome per motivi politici, vuol dire che per altri motivi si può (per la capacità giuridica il discorso è leggermente diverso).
Cittadini e stranieri
A mio parere c’è qualche incoerenza – forse inconsapevole – anche in ordine ai diritti di chi non è cittadino. Per la libertà personale, la riservatezza del domicilio e della corrispondenza, la libertà di parola, la giustizia, la tutela della salute, l’istruzione, la famiglia, la proprietà privata lo straniero è equiparato al cittadino. Però la tutela di alcuni diritti è formalmente riservata soltanto ai cittadini. Non che sia vietato che gli stranieri godano di quei medesimi diritti, ma nei loro confronti possono essere limitati.
Quindi, se per l’articolo 15 «la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili», senza differenze fra un cittadino italiano e uno straniero, per l’articolo 16 «ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale», con differenze evidenti.
In effetti non mi pare che si tratti di una decisiva contraddizione con il principio della pari dignità universale: la Costituzione infatti stabilisce (art. 10) che «lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge». Insomma, chi non si vede garantiti nel proprio paese i diritti fondamentali che sono garantiti qui, ha diritto di essere accolto (e di vedersi garantiti qui i diritti fondamentali negatigli nel suo paese).
Non capisco invece, e considero incongruente, la relazione che i Costituenti hanno introdotto (meglio, hanno evitato di stabilire) tra il diritto di voto (art. 48), riservato ai cittadini, e l’obbligo di pagare le tasse (art. 53), imposto a cittadini e stranieri. Si è visto che nel nostro sistema costituzionale i doveri non sono fini a sé stessi ma sono strumentali all’effettività dei diritti, esistono in funzione ai diritti (ai diritti di tutti). Del resto, i diritti vengono prima dei doveri nell’articolo 2; nel titolo della prima parte della Costituzione, e lì nella loro elencazione, l’uso della parola «diritto» è molto più frequente rispetto alla parola «dovere»: la prima appare una cinquantina di volte contro una decina della seconda. I doveri, insomma, sono al servizio dei diritti. Mi chiedo allora perché questo rapporto di funzionalità non esista tra il dovere di pagare le tasse in capo agli stranieri che stabilmente risiedono e lavorano in Italia e il diritto di voto; tra il fatto di contribuire a creare le risorse che consentono l’esistenza pratica del diritto all’istruzione, alla salute, alla libertà di espressione, e così via e il diritto di partecipare alla gestione di queste risorse contribuendo a scegliere chi, governando a livello centrale o locale, le amministra.
Diritto di voto
L’articolo 48 disciplina il diritto di voto. «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico. […] Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.» Oltre alla per me incomprensibile esclusione degli stranieri residenti, si prevede quindi che non possano votare i minori, i condannati e gli indegni «morali» (nei casi stabiliti dalla legge). Se vedo la coerenza della prima limitazione (per scegliere chi stabilisce le regole e in conseguenza chi amministra la collettività è necessario aver avuto il tempo per imparare a gestire la propria libertà) e, con qualche sforzo, della seconda con il principio della pari dignità, non la individuo per le ulteriori limitazioni, soprattutto se tengo conto del contenuto della XII disposizione transitoria.
La Costituzione vieta la riorganizzazione del Partito fascista, il quale resta fuori dalla possibilità di entrare in Parlamento. Tuttavia, sempre per la XII disposizione, «sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista». Ci si è cioè preoccupati di limitare per un massimo di cinque anni (quindi non oltre il 1953) il diritto di voto e l’eleggibilità dei gerarchi fascisti. Si è ritenuto necessario introdurre uno stacco tra il periodo precedente e quello successivo, perché si vedesse chiaramente che non era possibile cercare di ritornare al fascismo. Dopo di che, però, il divieto cadeva e la dignità delle persone rimaneva comunque salva (pur essendo state «capi responsabili del regime fascista»). Mi chiedo, se dal 1953 è stato riconosciuto il diritto di voto ai gerarchi (che magari avevano applicato le leggi razziali), perché vietarlo ai condannati per seppur gravi reati e ai moralmente indegni (espressione che già di per sé confligge con la dignità sociale dell’articolo 3)?
L’articolo 1: Repubblica, democrazia, lavoro
Sempre ricordando il principio di base, la pari dignità delle persone, si può ora provare a entrare nella Costituzione dall’articolo 1, con qualche elemento in più per comprenderlo e interpretarlo. La prima parte dice: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». È la presentazione del nostro paese. Se incontro l’Italia, mi presento e dico: «Buongiorno, sono Gherardo Colombo, sono un magistrato in pensione», lei mi risponde dicendo: «Buongiorno, sono l’Italia, e sono una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Cerchiamo di comprendere il significato di questa presentazione.
Dicendo che l’Italia è una Repubblica si utilizza un termine di origine latina, res publica, che alla lettera significa «cosa di tutti». La cosa di tutti è uno dei sensi concreti della democrazia. Perché sia vera e non soltanto formale, la democrazia deve assicurare che ciascuno possa esercitare i diritti quanto gli altri. Lo si può dire anche in un modo diverso: che la cosa di tutti (le possibilità analoghe) non divenga soltanto di qualcuno (ancora una volta, la discriminazione), per esempio della maggioranza che vince le elezioni e sottrae diritti alla minoranza. Il grado di tutela dei diritti delle minoranze è un elemento utile per valutare quanto una comunità è democratica. Uno Stato che non tutela le minoranze non è democratico in senso sostanziale.
Il termine «Repubblica» individua anche l’ordinamento dello Stato in contrapposizione a «monarchia». Oggi parrebbe una distinzione puramente formale: da un lato c’è una struttura il cui vertice è un re, la monarchia, dall’altro una struttura che ha come capo dello Stato il presidente della Repubblica. Le Repubbliche e le monarchie costituzionali (qualificate dall’essere democratiche) si distinguono quasi solo per questo aspetto, ma il significato della precisazione va immerso nella storia.
Sin dall’antica Grecia il termine «monarchia» indicava letteralmente il «comando di uno solo», ossia il fatto che all’interno di uno Stato la sovranità appartenesse a un’unica persona che aveva diritto a esercitarla, a governare su tutti gli altri che non avevano potere e che di conseguenza erano suoi sudditi. Un’altra forma di governo era l’oligarchia, che letteralmente significa «comando di pochi»: in questo caso, la sovranità apparteneva a un gruppo ristretto di persone, una minoranza di potenti che governavano a discapito di una maggioranza priva di diritti. Il termine «monarchia», dunque, nella sua accezione originaria, non si distingue soltanto da «Repubblica» ma anche da «democrazia», che è la terza forma, letteralmente «comando del popolo». La distinzione non riguarda solo la forma dello Stato ma anche la sostanza di quali e quante persone abbiano diritto di esercitare il governo. Il termine «democrazia» significa, quindi, il contrario di «monarchia»: non è governo di uno o di pochi ma è governo del popolo.
Però, chi è il popolo, chi lo compone? Nell’Atene del V secolo avanti Cristo il governo veniva esercitato dal «popolo» ma il «popolo» era composto dai cittadini, maschi, adulti e liberi: significa che erano esclusi gli stranieri, le donne e gli schiavi, oltre ai ragazzi. In tutto si trattava, dunque, di una parte molto esigua degli abitanti della città.
Facciamo un salto in avanti: quando venne introdotto lo Statuto albertino nel Regno di Sardegna, nel 1848, il popolo era costituito solo dagli uomini che rispettavano certi requisiti di età, alfabetizzazione e rendita. Si trattava all’incirca del 2 per cento della popolazione del Regno di Sardegna e, dal 1861, di tutto il Regno d’Italia. Grazie alla legge sul suffragio universale del 1912, il popolo risultò costituito da tutti i cittadini maschi sopra i ventun anni se alfabetizzati o con servizio militare adempiuto; oppure sopra i trent’anni se analfabeti o mai chiamati sotto le armi. Solo a partire dal 1946 in Italia furono incluse nel popolo, ossia ebbero diritto di esercitare la sovranità, anche le donne; ancora oggi, come abbiamo visto, sono esclusi gli stranieri residenti su suolo italiano.
Oggi definiremmo democratica l’Atene del V secolo? Definiremmo democratica la monarchia costituzionale del Regno di Sardegna? Ovviamente no. Tuttavia entrambe potevano essere chiamate democratiche rispetto al contesto dell’epoca, perché garantivano al «popolo» l’esercizio della sovranità (pur con i limiti che abbiamo visto) e perché lo facevano in controtendenza rispetto a un contesto meno democratico. In effetti, però, a qualificarle erano le dimensioni del popolo, che le avvicinavano assai di più a una specie di oligarchia allargata.
Le situazioni cambiano. E può succedere che l’appartenenza al popolo venga estesa ulteriormente nei decenni a venire.
Responsabilità e partecipazione
La democrazia sostanziale non può essere identificata con la semplice partecipazione del popolo all’esercizio della sovranità anche a scapito delle minoranze.
È quindi ben differente dalla monarchia (non costituzionale) e dall’oligarchia, che i diritti li distribuiscono in maniera discriminata.
Ovviamente, i diritti non si basano solo sul riconoscimento astratto della libertà e delle sue articolazioni: ci vuole anche la possibilità concreta di esercitarla. Per esempio, non basta che lo Stato riconosca il diritto di tutti all’istruzione, soltanto sulla carta; non avrebbe senso se poi non venissero costruite scuole o non si prevedesse la gratuità almeno della scuola dell’obbligo, escludendo chi non può permettersela.
In una democrazia, dunque, il popolo partecipa al governo, cioè all’amministrazione della società, agendo. Lo dice l’articolo 1 della Costituzione se, tra le tante interpretazioni, ci si vede anche questa: l’Italia è una Repubblica e una democrazia soltanto se i cittadini lavorano perché sia una Repubblica e una democrazia.
Se le persone restassero inerti, o indifferenti, la democrazia si trasformerebbe in oligarchia o in monarchia, senza bisogno di cambiare nemmeno una virgola nella legge, perché accadrebbe di fatto.
L’impegno dei cittadini perché si realizzi la democrazia, peraltro, non può risolversi esclusivamente nell’esercizio del diritto di voto. Credo sia evidente che non basterebbe che alle elezioni votasse un numero bassissimo di persone, per esempio il 10 per cento, mentre le altre non lo fanno. In questo caso a esercitare la sovranità sarebbe solo quel 10 per cento che ha scelto i rappresentanti (che amministreranno per tutti), e la democrazia si trasformerebbe in oligarchia. Ma ciò avverrebbe (e mi vien da dire che sostanzialmente avviene) anche se i cittadini, pur votando in massa alle elezioni, omettessero di esercitare le loro prerogative politiche (per esempio presentando proposte di legge, rivolgendo interpellanze alle Camere, proponendo e sottoscrivendo referendum) e di realizzare rapporti democratici nella loro vita quotidiana.
Perché si sia capaci di esercitare la propria libertà, e conseguentemente possa funzionare la democrazia, sono essenziali l’informazione e l’istruzione. La democrazia non può funzionare se le persone che insieme costituiscono il popolo non sono in grado di scegliere. Ma la capacità di scegliere non è innata, si acquisisce, appunto, attraverso l’informazione e l’istruzione. Anche per quel che riguarda il concetto stesso di democrazia.