Giulia
Era un venerdí sera d’inverno, avevo guidato per ore lungo un’autostrada deserta e alla fine ero arrivato al casello di Bari Nord. Ero reduce dai tre giorni del convegno annuale della Società italiana di psichiatria infantile, e ne avevo avuto veramente abbastanza.
Volevo sbrigarmi, arrivare a casa, fare una doccia e piazzarmi davanti alla televisione con una birra e un panino. E per quella sera, al diavolo tutto il resto.
Il casellante mi restituí la tessera e io feci per riaccendere il motore che non teneva il minimo e si era spento come al solito. Fu in quel momento che sentii bussare piano sullo sportello di destra. Ebbi un sussulto e mi girai, ma il finestrino era appannato.
Dovetti abbassarlo tutto per vedere la faccia della bambina. Ci guardammo per qualche secondo senza dire niente. Poi fu lei a parlare.
– Posso salire?
– Da dove vieni fuori, tu?
– Mi sono persa. Posso salire? – Una nota di impazienza nella voce.
Mi allungai per aprire lo sportello, lei entrò e si sedette.
– Grazie.
Indossava un incongruo abitino estivo con un grosso strappo, portava una piccola borsa di paglia celeste e non aveva piú di sette, otto anni. Ebbi la sensazione di averla già vista, da qualche parte.
– Dove sono i tuoi genitori?
– Sono a casa, adesso. Puoi darmi un passaggio?
Stavo per dire qualcosa ma poi pensai che ero lí, fermo in macchina a un casello autostradale, in compagnia di una bambina con i vestiti strappati. Di sera tardi. Pensai che sarebbe stato spiacevole spiegare la situazione a una pattuglia della polizia stradale cui fosse venuta voglia di fare un controllo. Cosí ripartii senza aggiungere niente, rinviando le domande.
La bambina si era sistemata sul bordo del sedile, con le mani incrociate in grembo, la borsetta fra le dita. Quando le dissi di sedere piú indietro e di mettere la cintura di sicurezza, si voltò lentamente – molto lentamente – verso di me, con un sorriso lieve, e remoto.
Rimase a guardarmi – la sentivo piú che vederla – per qualche secondo e poi, sempre lentamente, con quei movimenti accurati dei bambini che vogliono comportarsi da adulti, allacciò la cintura e si appoggiò allo schienale.
Sono uno psichiatra infantile e per mestiere, di solito, sono a mio agio con i bambini. Non quella sera.
– Come ti chiami?
– Giulia.
– Che ci facevi al casello a quest’ora, da sola?
– Mi ero persa.
– E adesso dove dovremmo andare?
Non rispose subito. Aprí la borsetta di paglia, ne tirò fuori un foglietto, una pagina di quaderno a quadretti, e lesse un indirizzo, di Bari. Non lontano da casa mia.
Che cosa singolare, pensai. Porta con sé l’indirizzo di casa.
Non poteva dirmi anche un numero di telefono? Cosí avrei chiamato per avvertire che stavamo arrivando. Non ce l’aveva, il numero di telefono. Va bene, andiamo – pensai – tanto in dieci minuti saremmo giunti a destinazione.
Nel percorso riuscii a scoprire poco. Non aveva ancora compiuto otto anni, era molto brava a disegnare, le piaceva inventarsi delle storie, e illustrarle.
Le piaceva il mare. Tantissimo, disse, e mi sembrò di cogliere una nota di rimpianto.
Le chiesi se avesse fratellini o sorelline.
– No. Mamma e papà sono rimasti soli.
Rispose cosí, e io pensai che era una strana risposta.
Arrivammo poco prima delle undici. Parcheggiai la macchina in doppia fila davanti al portone e feci per scendere. Volevo accompagnarla su a casa, parlare con i genitori e spiegare la situazione.
La bambina però si tolse rapidamente la cintura di sicurezza e mi disse che non dovevo scendere. Lo fece prendendomi un polso e trattenendomi seduto. Aprí lo sportello e poi, come per una decisione improvvisa, si voltò di nuovo verso di me e mi diede un bacio sulla guancia.
Fu in quel momento che sentii una fitta improvvisa di tristezza, una tristezza infinita e inspiegabile. Cosí violenta e inattesa che dovetti chiudere gli occhi, per qualche istante.
Quando li riaprii, la bambina non c’era piú. Mi chiesi come avesse fatto in quei pochissimi secondi a citofonare, farsi aprire, entrare e sparire dietro il portone. Senza nessun rumore.
Ebbi l’impulso di seguirla, ma mi resi conto che non sapevo nemmeno a chi citofonare e, ancora una volta, che ero in una situazione strana, difficile da spiegare se qualcuno mi avesse chiesto di farlo.
Allora misi in moto per andare a casa.
Ero molto stanco.
Il giorno dopo era l’antivigilia di Natale. Mi alzai con comodo, scesi a far colazione e a leggere il giornale nel caffè sotto casa.
Quella mattina un titolo di ultim’ora occupava quasi metà della prima pagina: Suicida dopo l’assoluzione il presunto assassino della piccola Giulia.
A qualche giorno dall’assoluzione per l’accusa di stupro e omicidio della piccola Giulia M., P.P., ricco antiquario barese, muore precipitando dalla terrazza del suo appartamento al quinto piano. Si pensa al suicidio poiché l’accurato sopralluogo dell’appartamento effettuato dai tecnici della polizia scientifica non ha consentito di individuare alcuna traccia di effrazione o di colluttazione. Gli inquirenti comunque dichiarano di non scartare, allo stato, nessuna ipotesi.
Seguiva una descrizione dei momenti drammatici della lettura della sentenza. «Maledetto assassino» aveva gridato il padre di Giulia mentre la mamma piangeva, disperatamente. Come aveva fatto durante tutto il processo.
I particolari erano all’interno, e con i particolari la foto della bambina.
Quella bambina.
Gli articoli riepilogavano cose che ricordavo, sul fatto di cronaca che risaliva a un anno prima. Li lessi lo stesso, in modo meccanico, quasi a prendere tempo per trovare un senso a quello che mi era capitato. Che mi stava capitando.
La famiglia della piccola Giulia M. era di Bari ma viveva a Bologna. Venivano a trascorrere le vacanze di Natale giú, a casa dei nonni. Viaggiavano in auto. Subito dopo il casello di Bari Nord il papà si era accorto di avere una gomma a terra e si era fermato per cambiarla. Erano scesi tutti e tre dalla macchina e, a un certo punto, madre e padre avevano perso di vista la bambina.
Era stata ritrovata due giorni dopo nella campagna, quaranta chilometri piú a sud.
Seguiva una descrizione del corpo, ma quella non la lessi.
Le indagini avevano portato all’incriminazione e all’arresto di P.P., ricco antiquario con precedenti per molestie.
Il processo, indiziario, era stato segnato da scontri durissimi fra il pubblico ministero, il difensore di parte civile e gli abilissimi, costosi avvocati del signor P.P. Costoro si erano ripetutamente scagliati contro i metodi delle indagini – inquisitori e inaccettabili, secondo loro – e avevano ammonito i giudici perché evitassero un tragico errore giudiziario.
La corte, dopo una camera di consiglio durata quasi due giorni, non aveva accolto la richiesta di ergastolo avanzata dalla pubblica accusa. Aveva invece pronunciato un’assoluzione destinata a far discutere.
Il pubblico ministero, visibilmente contrariato, non aveva voluto rilasciare dichiarazioni, limitandosi a preannunciare l’appello. Il difensore di parte civile aveva detto che si trattava di una decisione inqualificabile mentre gli avvocati del signor P.P. avevano parlato di sentenza coraggiosa e giusta.
Coraggiosa e giusta. Era scritto proprio cosí.
Rimasi a lungo seduto, portando la tazza alla bocca senza bere, accendendo diverse sigarette senza fumarle.
Cercando una spiegazione senza trovarla.
A un certo punto pensai che non potevo starmene lí con il cervello che mi andava in fumo e il barista che mi guardava perplesso. La mia faccia non doveva essere la solita, che lui conosceva bene. Decisamente no.
Cosí uscii. Non mi ci vollero piú di dieci minuti per arrivare a quell’indirizzo. Non so che cosa mi aspettassi di trovare. Certo è che quando diedi un’occhiata alle targhette del citofono scoprii quello che sapevo già. In quel palazzo aveva abitato il signor P.P., antiquario.
E stupratore, e assassino di bambini. Maledetto.
Se qualcuno poteva dirlo, quello ero io.
Tornavo lentamente verso casa senza sapere cosa fare.
Cosí pensai di andare a fare un giro in macchina, da qualche parte. Al mare magari, visto che era una bella giornata d’inverno, fredda e tersa.
Andai a prendere la macchina, mi sedetti, stavo per partire quando mi accorsi della macchia celeste che spuntava sotto il sedile del passeggero.
La borsetta di paglia.
La raccolsi con un gesto da automa e subito ebbi la stessa sensazione di tristezza dolorosa della sera prima. Una specie di nostalgia lancinante.
La nostalgia che riguarda le cose che non sono accadute, e che non potranno accadere mai piú.
Me la portai dietro mentre guidavo verso sud e fino a quando arrivai in un posto dove ci sono scogli alti, a picco sul mare.
L’acqua era limpidissima. Pura, mi venne di pensare.
Era il posto giusto, ma dovevo trovare il modo giusto. Dovevo trovare le parole.
Cosí, per un tempo che non so dire, rimasi seduto su uno scoglio a guardare l’acqua trasparente sotto di me, tenendo in mano la piccola borsa azzurra.
Fino a quando ricordai la volta che avevo visitato il cimitero di una cittadina del New England. Uno di quei cimiteri con semplici lapidi bianche in mezzo a un prato. Ero stato attirato dall’epitaffio di una bambina morta – uccisa, avevo pensato – a poco piú di sei anni. Diceva cosí.
Hai visto, nella tua breve vita, piú orrori
di quanti dovrebbero esistere nel mondo intero.
riposa adesso, bambina.
Lo recitai a voce bassa, ma una persona che fosse stata vicina a me avrebbe sentito. Sicuramente.
Riposa, dissi ancora una volta prima di lanciare la piccola borsa di paglia in quell’acqua limpida. E pura.
Poi salii in macchina e andai via.